affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico

08 luglio, 2025

L’Orchestra Sinfonica di Milano si dà… all’opera.

Di tanto in tanto laVerdi esce dal seminato del suo tradizionale repertorio per fare escursioni nel mondo della lirica (ricordiamo in anni passati Carmen, Cavalleria, Chénier, Suor Angelica…) e quest’anno tocca nientemeno che ad uno dei capolavori della trilogia verdiana: Trovatore! [Ma a fine ottobre, primi di novembre, l’Orchestra sarà protagonista dell’intera trilogia verdiana a Piacenza, con Lanzillotta.]

Sul podio una vecchia conoscenza dell’Orchestra, Vincenzo Milletarì (occhio, con l’accento sulla finale ì) mentre per l’occasione il Coro, che ha una parte a dir nulla fondamentale nell’opera, sarà quello carismatico, oltre che prestigioso, dell’'Opera di Parma, ma per l’occasione - e par-condicio - diretto dal Maestro di casa, Massimo Fiocchi Malaspina.

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Giusto per ingannare il tempo di fronte alle bizze meteorologiche di questi giorni, mi dedicherò a qualche semiseria considerazione sull’opera, che da sempre ha suscitato entusiasmi popolari (indotti dalla drogante musica del Peppjno) pari agli sberleffi riversati dalle vestali dell’arte sacra su un soggetto letterario che definire lunatico, strampalato, gratuito e ridicolo è ancora fargli un panegirico…

Come si sa, Salvadore Cammarano scrisse il libretto ispirandosi all’omonimo dramma in versi e in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez, mantenendone quasi integra, pur semplificandola, la struttura e i contenuti, con qualche eccezione legata prevalentemente a certe radicate consuetudini del melodramma.

Protagonisti sono due maschi (il Conte di Luna e Manrico) e una femmina (Leonora). Soggetto che quindi pare rispettare alla lettera il ferreo capitolato tecnico del melodramma ottocentesco, che prescrive la presenza in scena come minimo di un triangolo di voci: soprano, tenore e baritono (altre tessiture ad-libitum se proprio si vuol esagerare: qui un mezzosoprano guastafeste). Il soprano e il tenore sono invariabilmente e reciprocamente e pure perdutamente innamorati. Il baritono è anche lui perdutamente innamorato (di solito del... soprano!) e fa quindi la figura del guastafeste e dello stalker.

Perchè il dramma stia in piedi è preferibile poi che il baritono sia persona di potere ed anche di età più matura rispetto al tenore, così da attirarsi anche l’epiteto di laido libidinoso. Il tenore è di solito un giovane di origini modeste ma di grandi qualità, in modo che il pubblico fin da subito parteggi per lui contro il baritono. Il soprano sarà tipicamente una dolce e integerrima signorina, pronta ad ogni sacrificio, anche della vita, pur di difendere il suo tenore e di difendersi dagli assalti dell’arrapato baritono. 

E così il libretto di Cammarano ci presenta il baritono nei panni del Conte di Luna, ricco, potente e… prepotente (altrimenti verrebbe facilmente snobbato, mentre così può ostentatamente gridare e pretendere, anticipando Scarpia: Leonora è mia!); e il tenore in quelli di Manrico (suo fratello minore, ma a loro insaputa) un tipo squattrinato, sedicente figlio di una zingara, ma anche idealista, che sbarca il lunario mescolandosi a bande di rivoluzionari e dedicandosi ad attività canore (appunto, el trovador).

Le considerazioni fatte, insieme alla constatazione che (si scoprirà definitivamente alla fine) baritono e tenore sono fratelli, portano necessariamente a stabilire che il baritono sia poco o tanto più anziano del fratello tenore. Cammarano non ci rivela mai l’età precisa dei due fratelli (salvo un indizio relativo a Manrico) né la loro differenza di età. Ferrando racconta, proprio all’inizio dell’opera, le vicende dei due ed esclama: fida nutrice del SECONDO nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli. Dormendo ancora in culla, la sua età difficilmente potrà superare i 2 anni. Ignota quella del Conte.

Invece qui abbiamo una chiara (e forse non proprio indolore) deviazione del libretto rispetto al dramma ispiratore. E sta nel fatto che, in Gutiérrez, l’età dei due fratelli è abbastanza precisamente nota, ma soprattutto invertita (!) Infatti il Conte (Nuño) è il figlio minore, che ha meno di un anno, mentre Juan (scambiato con Manrico) ha due anni ed è l’oggetto del rapimento e del presunto assassinio! Ci racconta infatti JimenoDon Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Quanto all’età dei due al tempo dell’azione scenica, Gutiérrez non ne fa cenno specifico, ma abbiamo constatato che hanno meno di due anni di differenza e il Conte è più giovane. Invece Cammarano ci notifica, tramite l’interrogatorio di Azucena appena catturata, che gli oscuri fatti relativi a rapimento e morte di Juan erano accaduti tre lustri prima! Il che ragionevolmente significa che Manrico (certamente suo coetaneo, se con lui viene dalla madre scambiato) dovrebbe avere 17 anni, non di più (?!) Mentre il Conte è più anziano, ma… chi sa di quanto?

Se dobbiamo giudicare tutta la questione dal punto di vista della plausibilità, Gutiérrez supera Cammarano di gran lunga: l’età di Juan (o Manrico) giustifica che dormisse in una stanza con la tata, e quella di Nuño (il Conte) lascia pensare che il piccolo dormisse in quella della madre o dei genitori. Il che rendeva più facile l’introdursi della madre di Azucena presso il primo. Ma anche la stessa Azucena doveva aver più facile accesso (per prelevarlo e trafugarlo) a Juan, certo più libero del fratellino di muoversi nel palazzo di Aliaferia.

Infine, non è da trascurare l’effetto (su cui peraltro nemmeno Gutiérrez approfondisce) che il rapimento presunto del primogenito (Juan) poteva avere nella famiglia del Conte, in un mondo dove il maggiorascato dettava legge…  

Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma (dove la tessitura vocale viene regolarmente assegnata in base all’anagrafe: tenore=giovane; baritono=maturo; basso=anziano) imponeva persino di falsificare clamorosamente i certificati di nascita dei protagonisti!  

Veniamo adesso a qualche critica sulla plausibilità dell’intero plot. Qui il principale indagato è effettivamente Gutiérrez, che Cammarano non ha fatto altro che seguire.

Comincio dalla quarta scena della prima giornata di Gutiérrez (terza del primo atto di Cammarano): l’incontro-scontro fra i tre protagonisti, dai contorni davvero grotteschi-farseschi. Dunque, è notte inoltrata e il Conte decide di fare irruzione negli appartamenti di Leonora (all’interno del complesso di Aliaferia, dove vivono i notabili di corte del Re, Conte incluso) per convincerla a cederglisi. Si incammina quindi verso la residenza di Leonora quando sente il trovatore (acquattato in qualche boschetto sotto le finestre dell’amata) cantare la sua serenata. Leonora scende precipitosamente lo scalone del palazzo per incontrare Manrico. È buio pesto, e lei incontra sui suoi passi… indovina chi? Proprio il Conte, che sta venendo da lei. Al buio lo scambia per l’amato e lo trascina in un angolo recondito del giardino. Miracolosamente le nuvole si dileguano e il chiarore della luna piena (non vuota, chè sennò va tutto a puttane…) illumina l’elmo che Manrico indossa regolarmente (anche quando va a fare la spesa…) E così abbiamo il classico terzetto con cui Verdi va a nozze!!   

La suspense che grava sull’intera vicenda. Cominciamo dalla scena sui monti della Biscaglia, fra i rivoltosi che combattono il Conte e fra i quali troviamo Manrico e la madre Azucena. La quale racconta, in una specie di deliquio, la storia del rapimento e della fine del figlio del vecchio Conte. Rivelando però a Manrico un’atroce verità: dopo aver rapito Juan, era fuggita portandoselo appresso insieme al figlioletto suo, coetaneo del rapito; dopo aver gettato uno dei due bimbi sul rogo, aveva fatto la macabra scoperta di aver arso vivo proprio suo figlio!

E qui abbiamo una delle infinite inverosimiglianze del testo: Manrico, invece di trarre dal racconto della madre la logica e banale conclusione (lui era quindi il fratello del Conte) si chiede ingenuamente: e chi son io, chi dunque? Dopodichè accetta come nulla fosse l’immediata ritrattazione di Azucena, che lo invita a dimenticare il suo racconto!

Ma subito dopo è proprio lui a raccontare alla madre un altro arcano episodio, la conclusione invero incredibile del suo duello con il Conte, dopo l’incontro dei due con Leonora: ormai disarmato il rivale, Manrico alza la spada per finirlo e… che succede? Un gelido brivido gli scuote le membra… mentre un grido vien dal cielo che mi dice: “non ferir!”

Insomma, nel giro di pochi attimi Manrico ha una rivelazione della madre e un suo personale ricordo che non dovrebbero lasciargli dubbi, ma a quel punto… tutto il seguito del dramma andrebbe a donne di malaffare! E così ecco che l’ingenuo Manrico promette che alla prossima occasione manderà il Conte al creatore!

Un’altra gratuita trovata, che serve a creare più tardi un classico colpo-di-teatro, riguarda la presunta morte di Manrico durante una battaglia contro le forze del Conte. In Gutiérrez è solo una fake-news, mentre per Cammarano Manrico è rimasto ferito e dato per morto, poi riportato miracolosamente in vita da Azucena. In tutti i casi, la presunta morte di Manrico provoca contemporaneamente l’illusione del Conte di aver strada libera con Leonora, e in Leonora la decisione di ritirarsi in clausura. Il che determina a cascata la decisione contemporanea del Conte e del redivivo Manrico di irrompere nel monastero per portarsi via la bella. E da qui ancora la scena madre di un morto che ricompare sul più bello a ridare la vita a Leonora e a rovinare la festa al rivale!

Non maggior plausibilità ha l’atteggiamento di Azucena, evidentemente affetta da acuta schizofrenia: lei ha promesso alla madre di vendicarla; poi credendo di vendicarla manda arrosto suo figlio e cresce come suo il fratello del suo mortale nemico. Per usarlo strategicamente come arma per ottenere finalmente la vendetta sul Conte. Poi però cerca di distoglierlo da un nuovo possibile scontro (al Chiostro) con il Conte medesimo.

Dopo che Manrico ha salvato Leonora e respinto l’assalto del Conte, Azucena ancora se ne va irresponsabilmente girovagando da zingara nei pressi dell’accampamento del Conte, con il risultato di farsi catturare, rivelare la sua identità e il suo legame con Manrico, e così farsi condannare al rogo! E di provocare la reazione di Manrico, che viene in suo soccorso (la pira!) col risultato di essere a sua volta catturato e imprigionato con lei all’Aliaferia.   

Altro schizofrenico comportamento nella prigione: dapprima vaneggia di morte imminente, poi di un futuro ritorno alle montagne; quindi vorrebbe impedire l’esecuzione di Manrico (avvertendo il Conte che è suo fratello) e infine si accontenta di una ben misera vendetta, gridandogli (Gutiérrez): él es... tu hermano, imbécil!

Gratuita anche la circostanza relativa all’auto-avvelenamento di Leonora. Lei ha pianificato con scientifico dettaglio tutto lo svolgersi dei fatti: 1. promettere al Conte di concederglisi in cambio del salvacondotto per Manrico; 2. dare l’ultimo addio all’amato e sincerarsi che il Conte lo lasci libero; 3. morire sotto l’effetto del veleno immediatamente prima di… pagare l’infame pegno al suo stalker.

Ma un banale errore di valutazione sui tempi tecnici dell’effetto mortale del veleno sul suo organismo manda a meretrici anche il suo brillante piano. Ovviamente: per conservare a buon mercato tragicità strappalacrime al… finale di Gutiérrez-Cammarano.

Ecco: il fatto che un soggetto così contorto e incredibile abbia prodotto un capolavoro fra i più apprezzati al mondo è per l’appunto dovuto alla qualità superiore dell’ingrediente-chiave del teatro musicale: toh, prima la musica!  

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DO di petto o SI di frodo?

Non può mancare ora il tormentone della cabaletta più nota e bistrattata di tutto Verdi: la pira! Il tenore la canta in DO o in SI? E ripete o no l’esposizione?

Verdi la scrive in DO maggiore, 3/4, strutturata così: prima esposizione; tempo di mezzo (intervento di Leonora, in DO minore); riesposizione; coda con pertichini di Ruiz e coro; e chiusura strumentale. Qui lo schema (numero di battute a partire dall’Allegro):


battute
agogica
voci
verso
1-32
Allegro
Manrico
Di quella pira…
33-39
Più vivo
 
…e teco almen…
39-49
 
Leonora
Non reggo a colpi
50-81
Allegro
Manrico
Di quella pira…
82-88
Più vivo
 
…e teco almen…
88-124
Poco più mosso
Ruiz-Coro / Manrico
All’armi! All’armi! / Madre infelice
124-131
 
Cadenza orchestrale

La nota più alta toccata dal tenore (5 volte nell’esposizione) è il LA acuto (!) L’ultima nota reiterata dal tenore (all’armi!) è la dominante (un SOL acuto).

Beh, dove sta il problema? Qualunque tenore che si rispetti può farcela, o no? Ma poi è arrivata la tradizione esecutiva di tenori dal DO-di-petto facile che hanno inventato di sana pianta, sul teco almeno della ri-esposizione e sul finale all’armi!, il famigerato DO4 (che Verdi mai esplicitamente autorizzò, limitandosi al massimo a tollerare il secondo…)

Dopodichè a qualcuno fare due volte l’esposizione prima dei due DO4 è parso evidentemente troppo rischioso, e così si è cominciato col tagliare l’esposizione e l’intervento di Leonora, partendo quindi direttamente dalla ri-esposizione.

Ma non è finita qui: la tradizione ha fatalmente imposto le sue ferree regole e il pubblico ha cominciato a pretendere il DO4 da tutti i tenori. Ma allora quei tenori che il DO4 hanno difficoltà a staccarlo, o che forse lo potrebbero staccare, ma non si arrischiano a farlo? Chiunque penserebbe alla soluzione più logica (oltre che filo-logica!): tornare al Verdi d.o.c. che non va oltre il LA. Peccato che un tenore che facesse ciò verrebbe ormai considerato un minus-habens e irriso sulle pubbliche piazze. E così la moda dell’acuto a tutti i costi ha partorito un’ancor più grande ipocrisia: per turlupinare il pubblico-bue e fargli credere a millantati DO di petto, si abbassa tutta la cabaletta di un semitono, portandola al SI!

Per curiosità, ecco dove si trova in partitura il bivio che lascia le cose in DO o le degrada a SI:

Se il tenore, sul fi(-glio), invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema all’orecchio dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa… poi tanto finisce l’atto e chi s’è visto s’è visto!

Ecco qui un fulgido esempio di queste pratiche… adulteranti, protagonisti nel 1978 nientemeno che il Topone e il sommo sacerdote HvK!

A 1h38’47” ecco il famigerato fi(-glio) dove invece del LA originale si esegue il LAb; poi, a 1h39’02” ecco il tremendo accordo di settima diminuita trasposto da LAb a SOL; e quindi (1h39’08) ecco il RE (sopratonica del fatidico DO) trasposto a REb, sopratonica del truffaldino SI che prepara la cabaletta.

Ma l’esempio mostra impietosamente anche il secondo peccato mortale: esposizione e tempo di mezzo (Leonora) vengono allegramente cassati e il tutto parte dalla ri-esposizione! Tuttavia il pubblico, come si sente, va in delirio anche per i due SI e non chiede nemmeno i danni!

In memoriam… ascoltiamo invece una pira come dio Verdi comanda: ce la propose Salvatore Licitra (con Frittoli e il filologo-purista Muti) a Santambrogio 2000. [Poi anche lui si convertì ai DO e SI di petto…] 


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