XIV

da prevosto a leone
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15 maggio, 2025

Chailly-Brook fanno trionfare Weill-Brecht alla Scala

Dopo il Dittico del 2021 in piena era Covid, la Scala rilancia la posta con un Trittico di opere di Kurt Weill (e Bertolt Brecht). Così a Die sieben Todsünden e Mahagonny Songspiel si aggiunge oggi anche The songs of Happy End.

Come allora, sul podio sempre il Direttore Musicale, con la regìa ancora affidata a Irina Brook. Quasi confermato anche il cast: per le prime due opere cambia solo Alma Sadè, che subentra a Kate Lindsey; per la terza, oltre alla Sadè, si aggiungono le voci di Werba, Petrinsky e Giunta, mentre si perde quella di Harris.

Irina Brook (che ha curato anche scene e costumi) dà la sua impronta allo spettacolo trovando alcuni fili rossi a collegare fra loro i tre spezzoni di questo ideale trittico (che non fu certo pensato come tale in origine). In particolare tutti e tre hanno in comune gli aspetti peccaminosi della nostra moderna civiltà, aspetti che si presentano con manifestazioni e sfumature diverse: in Todsünden riguardano le deviazioni dell’approccio pionieristico-calvinista di una tipica famiglia sudista-americana; in Mahagonny prendono l’aspetto della bieca rincorsa al benessere in spregio alla Natura e alla Morale; in Happy End abbiamo una critica spietata della società industriale e capitalistica (impersonata dai miti di Rockefeller e Ford) con riferimenti espliciti all’attualità delle problematiche ecologiche e ambientali che caratterizzano proprio i giorni nostri.

Il finale (voluto da Chailly aggiungendo a quelli di Brecht un testo di Roger Fernay musicato da Weill anni dopo gli altri) vuol riportarci un po’ di ingenua utopia…

Si parte quindi da Die sieben Todsünden (1933, praticamente l’ultima collaborazione Weill-Brecht) che fu battezzata come balletto con canto, quasi trattarsi di un nuovo genere musicale, basato figurativamente sulla danza e musicalmente sul canto, due arti portate in scena da interpreti diversi (danzatori e cantanti).

Completato da un Prologo e da un Epilogo, si struttura in sette sezioni, rispettivamente evocanti gli altrettanti peccati (vizi…) capitali, esplorati nel corso di un lungo (sette – ovviamente - anni) viaggio di andata-e-ritorno di due sorelle Anna (I e II, ma forse due facce di una stessa Anna) dalla natia Lousiana fino a toccare San Francisco, dopo aver attraversato gli States in lungo e in largo, proprio coast-to-coast:

Dal soggetto emerge una (neanche tanto) sottile critica alla società americana dei consumi e soprattutto dell’arrivismo, che affligge potenti e umili, di fatto obbligando ciascuno a commettere i sette peccati capitali pur di raggiungere i propri obiettivi esistenziali. 

Magari dovendo alla fine concludere che, tutto sommato, si stava quasi meglio… prima. Come dimostra il racconto di Anna I da SanFrancisco (ultima tappa del viaggio prima del ritorno a casa) dove ci narra di come Anna II sia ricaduta praticamente in tutti i peccati capitali!

Un aspetto critico a livello di messinscena è rappresentato dalla forma ibrida del lavoro, programmaticamente pensato come balletto-cantata (con soli e coretto) su temi politico-socio-etico-esistenziali.

Bene, Irina Brook risolve la questione semplicemente… ignorando la danza. La scarna scena (sarà condivisa anche da Mahagonny) mostra un piccolo banco da bar con un paio di tavolini e una piattaforma-soppalco per esibizioni da intrattenimento. Lì si muovono le due Anna e, di volta in volta, pochi avventori o i quattro altri componenti della famiglia delle ragazze. Una multicolore nuvola illumina la scena dall’alto, ma scopriremo che trattasi di… rifiuti di plastica. Uno schermo sullo sfondo proietta scene di vita della natia Louisiana.

Vi vediamo all’inizio la famiglia al completo, che vive in una roulotte dotata di un generatore elettrico a… pedali; e poi scene di vita di papà, mamma e due fratelli che investono in gozzoviglie i dollari guadagnati a fatica dalle due Anna, lamentandosi poi di non averne a sufficienza per costruire l’agognata casetta… Insomma, i sette vizi che i quattro consigliano alle due girovaghe di evitare, sono proprio loro a praticarli. Alla fine, tornate all’ovile le due Anna, andrà in fiamme pure la roulotte, e buonanottealsecchio!

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Con Mahagonny Songspiel si retrocede (1927) alla prima solida collaborazione di Weill con Brecht, che avrà più tardi lo sbocco nell’opera teatrale ispirata al soggetto della città promessa, ma poi trasgressiva e infine perduta. Si tratta per ora di una collazione di cinque canzoni più un finale che segnano alcune delle tappe del percorso autodistruttivo della città immaginaria dal nome che richiama il mogano, legno tipico delle furnitures americane.

Tre delle cinque canzoni (1-3-5) portano come titolo il nome della città (Mahagonny I, II, III) e ne descrivono l’improbabile vita, inclusa un’incursione di Dio che ne rimane inorridito; intercalate dalle altre due (Alabama e Benares), testo in lingua inglese, che evocano nostalgia del passato e anelito verso un futuro luminoso che però si volatilizza prima ancora di manifestarsi. Il Finale deve tristemente constatare che Mahagonny, semplicemente… non esiste!

La scena, come detto, è praticamente quella dei Todsünden, ma arricchita di montagne di rifiuti in plastica (la simpatica nuvola di poco prima, semplicemente... atterrata) abbandonati ovunque, a testimoniare dei mali, materiali e morali che affliggono il nostro mondo; e ben si attaglia anche all’ambiente della città dove domina ogni specie di vizio, praticato in prevalenza da maschi e dove le due donne (Jessie e Bessie) portano i patetici richiami al mondo che si son lasciate alle spalle o a quello che vorrebbero raggiungere per sfuggire al degrado nel quale sono capitate. 

Emblematica la figura di Dio, arrivato lì con ermellino, bastone e… revolver per mandare tutti all’inferno! Degna conclusione per una società che non si merita di meglio: lo schermo ci ricorda i peccati capitali e un orso, che fugge al crollo dei ghiacci polari, il peccato più grande della nostra civiltà. Tuttavia ci consoliamo, chè quella città è pura immaginazione (!?) 

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Dopo l’intervallo, chiude il trittico The songs of Happy End. Tredici canzoni dal musical del 1929, che viene qui sfrondato della parte dialogica (i recitativi, si direbbe in termini operistici) ma alla fine arricchito da un pezzo di Weill del 1935, un tango-habanera su testo – in francese - di Roger Fernay, dal titolo Youkali, un’isola immaginaria/metafisica che fa da contraltare a Mahagonny: lì c’è solo piacere e beatitudine, e lì sogna di approdare l’anima dell’Uomo.

Irina Brook cambia radicalmente la scena, ora praticamente sgombra e quasi al buio. Sul fondo una fila di nove tavoli da toeletta con specchio per il trucco dei personaggi e per il resto solo sedie su cui costoro si accomodano di volta in volta, testimoni delle tredici (più una!) canzoni del musical. Non manca l’attore non-cantante che impersona qui un severo osservatore degli eventi, come aveva impersonato il Dio a Mahagonny. Per il resto, abbiamo le otto voci che interpretano le canzoni, più altre sei comparse.

La chiusura utopistica di Fernay-Weill si trasforma, nel pensiero della Brook, in una visione distopica: possiamo ancora fare qualcosa per evitare il peggio?

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La musica? Accomuno tutte le voci del cast, indistintamente, in un elogio senza riserve, pur proporzionato ai diversi livelli di impegno e di difficoltà delle diverse parti, ma davvero in questo caso mi sembrerebbe fuori luogo stilare classifiche e dare voti.

Un’osservazione mi permetto modestamente di avanzare alla direzione di Chailly.

Niente da dire sull’approccio interpretativo, già più volte anticipato dal Maestro, che ha chiesto alla sua orchestra (progressivamente smagritasi lungo la serata e i cui ultimi rappresentanti sono stati meritoriamente portati sul palco per gli applausi finali) di suonare ciò che è freddamente scritto in partitura con una propria, personale sensibilità swing

Forse temendo che l’organico ridotto penalizzasse l’ascolto in sala, Chailly ha fatto alzare il pavimento della buca di un buon metro (come si fa solitamente quando suonano gli ensemble barocchi). Purtroppo l’effetto (e qui è proprio Chailly a doverne rispondere) è stato controproducente, chè spesso e volentieri il suono di ottoni e percussioni ha bellamente coperto le voci. Ecco, un unico neo in una prestazione di eccellenza.

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Pubblico non oceanico (peggio per gli assenti) che ha però decretato un autentico trionfo per tutti. Una proposta, questa, che insieme alle due precedenti (Gassmann-Calzabigi e Filidei-Eco) dà grande lustro a questa stagione (l’ultima…) di Dominique Meyer.

05 aprile, 2024

Una rondine fa primavera alla Scala

Felice davvero il ritorno al Piermarini - dopo 30 anni - de La rondine, accolta con gran calore da un pubblico abbastanza folto e partecipe: un meritato riconoscimento per quest’opera troppo a lungo snobbata e guardata con sufficienza, ma da qualche anno tornata alla ribalta di molti teatri, italiani e non.

Riccardo Chailly non ha voluto smentire la fama di venditore-di-primizie (riguardo i contenuti di questa produzione) potendo avvalersi in prima assoluta della nuova edizione critica (ancora fresca di stampa) di Ditlev Rindom (per Ricordi, tornato così a prevalere per questo titolo sullo storico rivale Sonzogno…) Si tratta di questioni (solo apparentemente?) di discussione fra addetti-ai-lavori, ma che in realtà testimoniano della serietà dell’approccio del responsabile musicale di questa proposta scaligera.

Giusto per citare un dettaglio che differenzia ciò che si è visto e sentito ieri da quanto si ascolta nelle diverse registrazioni disponibili, citerò la seconda strofa dell’aria di Doretta (Prunier, Atto I) che non si trova nell’edizione relativa alla prima di Montecarlo (1917): dunque, il poeta ha raccontato del rifiuto della piccola Doretta alle avances del RE (che le promette ricchezze ed onori!) e qui la storia termina, nelle tradizionali esecuzioni. Nella versione presentata ieri (antecedente alla prima monegasca) Prunier canta una seconda strofa, dove è un umile vicino di casa di Doretta a chiederla in sposa, promettendole un futuro di moglie e madre, ma ottenendo la stessa risposta negativa: così come la ricchezza, neanche la prospettiva del tranquillo focolare domestico basta a dare la felicità! Insieme alla successiva riesposizione di Magda (Doretta si innamora perdutamente dello studente che l’ha baciata) è proprio il distillato quasi nichilista del soggetto dell’opera: Magda non trova la felicità né nel lusso/ricchezza/status, né poi nella prosaica prospettiva della famiglia tradizionale, seguita all’ubriacatura presa al Bal Bullier!

Altre differenze di qualche rilievo riguardano il second’atto: una variante all’apertura e l’aggiunta di interventi di vari avventori dopo l’arrivo di Rambaldo. Nel terz’atto spicca l’assenza dell’invito di Prunier a Magda perchè torni a Parigi da Rambaldo, il che ribalta totalmente la situazione: laddove quell’invito lasciava Magda addolorata (quanto male mi fai a dir così), la sua assenza, dopo la presa d’atto di Prunier della felicità della donna, la porta a dire quanto bene mi fai a dir così! Infine cambia l’ultima esternazione di Ruggero: Guarda un tramonto ardente, dal sapore squisitamente romantico, al posto di Ma come puoi lasciarmi, carico di crudo risentimento.
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La dedizione del Direttore si è poi materializzata nella concertazione dell’opera, che ci ha restituito tutta la brillantezza, la leggerezza e il disincanto che pervadono questa controversa partitura: la vacuità dello scenario del primo atto, lo strabiliante sincretismo fra walzer e ritmi moderni che imperversa nel second’atto e la finale, cinica presa d’atto del totale fallimento delle velleità romantiche dei protagonisti.

Orchestra e coro - di Malazzi - sempre splendidamente all’altezza del compito, e una compagnia di canto di buon livello hanno garantito il pieno successo all’impresa. Sul quale avanzo personalmente solo qualche ombra per la regìa, come chiarirò più sotto.

Mariangela Sicilia è stata una pregevole Magda: bella voce penetrante ed espressiva e acuti svettanti. Sulla presenza scenica sono certo che abbia rispettato il volere della regista (…)

Rosalia Cid è stata una Lisette simpaticamente efficace: al suo ruolo la concezione registica ha fatto solo favori, ecco.

Matteo Lippi ha sfoggiato una voce penetrante con qualche ombra nella parte bassa della tessitura: il suo Ruggero ne è comunque uscito in modo più che apprezzabile.

Giovanni Sala manca di qualche tacca al volume e alla proiezione della voce. Per farsi perdonare ha fatto di petto (invece del prescritto falsetto) il DO del terz’atto (…fuori del mondo). Anche a lui la regìa ha permesso di mettere in mostra qualità attoriali (da avanspettacolo?) interessanti.

Pietro Spagnoli ha onorevolmente interpretato il disincantato Rambaldo, che forse ha una parte meno impegnativa di tante altre dei comprimari, tutti lodevolmente all’altezza.
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L’allestimento di Irina Brook - che si avvale di scene e costumi di Patrick Kinmonth e luci di Marco Filibeck (un team ben collaudato nel Matrimonio segreto del 2022) cui si aggiunge la coreografia (second’atto) di Paul Pui Vo Lee – mi è parso eccessivamente sbilanciato sul Kitsch. Ma del resto la 62enne regista aveva confessato (sul programma di sala) di essere cresciuta fin da giovane a pane-e-musical, e questo forse l’ha portata a creare (come minimo nei primi due atti) un’ambientazione proprio da operetta (chissà come l’avrebbe presa Puccini…)

Fra la dimora di Magda e il Bal Bullier dovrebbe pur esserci qualche differenza (aristocrazia, pur frivola, vs sbracature goderecce): invece anche chez-Magda si scade in avanspettacolo, per quanto innocente e soprattutto è proprio la presentazione scenica della protagonista a lasciare perplessi. La vediamo subito in atteggiamenti che scimmiottano… Lisette (!?) Da Bullier poi si comporta come se stesse prendendosi gioco del povero Ruggero, da consumata femme-fatale invece che da timida ragazza per bene. Difficile così spiegarsi come di punto in bianco in lei nasca l’amore romantico…

La trovata della Brook (che ha almeno una quarantina di precedenti) consiste nel mostrare in scena la stessa regista (che lei fa impersonare dalla docente dell’Accademia Anna Olkhovayaa preparare lo spettacolo ancor prima che entri Chailly… e poi si trasforma – second’atto -  in controfigura della protagonista, poi – terz’atto – persino in immobile sirenetta che poi si anima e impersona per un attimo la madre di Ruggero… Sì, è vero che l’opera presenta tratti di teatro-nel teatro, ma mi pare che qui si sia un po’ esagerato con la meta-teatralità, ecco.
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In conclusione, al netto di queste (mie personalissime) riserve sulla messinscena, mi pare trattarsi di un’altra proposta di ottimo livello, che il pubblico alla fine ha mostrato di gradire assai. Punte di consenso per la Sicilia, Lippi e, ovviamente, Chailly. Nessun danno per la Brook… meglio così!

08 settembre, 2022

Matrimoni alla Scala

Off-topic: tanto per semplificare la vita al pubblico pagante, il Teatro – a partire da questo settembre – si serve di due diversi provider per la vendita (online ma non solo) dei titoli di ingresso:

- Ticket1 per i biglietti (di opera, balletto e concerti);

- Vivaticket per tutti gli abbonamenti.

La piattaforma Vivaticket ritorna quindi (per ora in… concubinaggio) come fornitore del Teatro dopo esserne stata allontanata alcuni anni fa, quando fu sostituita (dopo travagliato passaggio con ripetute false partenze e rinvii) appunto da quella di Ticket1.

Ovviamente le due piattaforme non si parlano e quindi i dati anagrafici (password incluse) vanno aggiornati separatamente a cura dell’utente.

Si stenta a credere che tale Jeff Bezos non abbia ancora messo gli occhi su questo lucroso business, offrendo biglietti e abbonamenti corredati (sinergie sponsorie) da ricche parure per le ladies e preziosi orologi per i gentlemen accompagnatori.
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Dopo soli (!) 42 anni il Teatro ripropone l’opera più famosa di Domenico Cimarosa, Il matrimonio segreto. La prima recita è stata sottratta (senza diritto a sconti, hahaha) agli abbonati delle… prime dall’anticipo al 5 settembre della recita Under30 (programmata in origine come ultima, il 22/9): un po’ come si fa a SantAmbrogio, ecco…

La penultima (a questo punto) recita del dramma giocoso risaliva a venerdi 6 giugno 1980, con la regìa di Lamberto Puggelli e la bacchetta di Bruno Campanella. Dal ‘49 al ’63 la regìa era stata del grande Giorgio Strehler. A partire dal 1955, l’opera era stata ospitata dall’allora nuovissima (e ahinoi defunta nel 1983 e mai abbastanza rimpianta) Piccola Scala.

Il Teatro affida questa ripresa al Progetto Accademia, dando così modo a giovani cantanti e strumentisti di rompere il ghiaccio con il vasto pubblico. L’unico fuori-quota (per le due prime recite) è il veterano Pietro Spagnoli, nei panni del presuntuoso (e pure sordo) padrone di casa. Sul podio (e al continuo) va il collaudato Ottavio Dantone, mentre la regìa è affidata alla parigina - figlia d'arte - Irina Brook.

Pubblico non oceanico, ma abbastanza ben disposto ad apprezzare i futuri talenti sfornati dall’Accademia: tutti i numeri dell’opera (16, esclusi i finali) e la sinfonia hanno ricevuto applausi di consenso, che alla fine si sono ulteriormente irrobustiti.

Personalmente associo tutti i cantanti in un unico giudizio positivo e… incoraggiante, segnalando un mia predilezione per la Carolina di Aleksandrina Mihaylova e il Conte di Jorge Martinez.

Dantone ha guidato da par suo (anche dalla tastiera, affiancata da quella di Eric Foster) i cantanti sul palco e – in buca - l’accademica Orchestra che si è distinta per il suono trasparente e di colore davvero settecentesco, con stilemi e contenuti che richiamano scopertamente Mozart (più che Gluck…) e anticipano il primo Rossini (che emetteva i primi vagiti precisamente 22 giorni dopo il trionfo viennese del Matrimonio…)
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Spettacolo di alto, se non altissimo, gradimento. La Brook (che inspiegabilmente non è uscita - nonostante Spagnoli si sbracciasse a chiamarla - a raccogliere quelli che sarebbero stati meritatissimi applausi) ha proposto un’ambientazione moderna (smartphone e tablet, per dire, con una moderata razione di Kitsch) grazie a scene spartane e costumi appariscenti di Patrick Kimmonth, ben illuminati da Marco Filibeck.  

Qualche… ehm, caduta di stile in un paio di scene osè (per educande) le può essere perdonata. Così come la dubbia efficacia della presentazione - durante l’esecuzione della Sinfonia - di antefatti (vedi il rapporto Paolino-Carolina) o… postfatti (Conte-Elisetta).  

Insomma, a conti fatti mi pare una proposta più che dignitosa per ripartire dopo le ferie: ci aspettano ora una Fedora (dopo 18 anni…) e uno Shakespeare rivisitato in chiave moderna. Poi sarà ancora SantAmbrogio, con Musorgski (CoPaSiR permettendo…)