XIV

da prevosto a leone
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10 maggio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.25 – Varga-Goerner

Dopo il lungo intervallo pasquale, riprende la stagione con questo concerto impregnato di Ungheria, ma con un intermezzo di italico romanticismo.  È ungherese il 73enne Direttore, Gilbert Varga, figlio d’arte, e ungheresi sono tre dei quattro compositori eseguiti.

Si parte con Threnos, breve brano di Sándor Veress, composto nel 1945 a pochi mesi dalla morte di Béla Bartók e a costui quindi dedicato.

La struttura del brano è tripartita: a due sezioni che presentano – nello stile del folklore popolare - altrettanti canti di lamentazione funeraria, con crescendo di dolorosa intensità seguiti da repentine e disperanti cadute di tensione, segue la parte conclusiva, che riprende temi delle due precedenti per muoversi su un lungo arco che sale e poi scende lentamente verso una rassegnata serenità.

A dispetto della sua brevità, il brano è una costruzione assai complessa, sia dal punto di vista melodico che armonico, come eloquentemente spiegato in questo dettagliato studio di Miklós Fekete dell’Università di Cluj-Napoca (scaricabile previa iscrizione al sito).

Altre caratteristiche peculiari del brano sono la sua poliritmicità e politonalità e la frequente alternanza di metro ad evocare le sconfortate lamentazioni in ricordo del defunto.

Varga dirige con gesto prevalentemente composto, con qualche cedimento ad enfasi e platealità. Ma sempre con squisito stile… austro-ungarico. Comunque, a giudicare dal tributo riservatogli dall’orchestra alla fine del concerto, si direbbe che sia piaciuto anche ai suonatori, oltre che al pubblico.

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È poi la volta di Nelson Goerner, 56enne pianista argentino, di sedersi alla tastiera per interpretare il celeberrimo Primo Concerto di Franz Liszt. (Qui alcune mie note in proposito).

Prestazione di alto livello (qualche leggera svirgolata è sempre da perdonarsi in brani come questo, che hanno passaggi invero impervi). Equilibrato impego del rubato, grandiosità delle perorazioni (gli strepitoso che costellano la partitura) e un costante ottimo amalgama con l’orchestra sono alcuni aspetti rimarchevoli della sua interpretazione. 

Accolta con entusiasmo dal pubblico discretamente folto dell’Auditorium, che Nelson ripaga con Rachmaninov (il quarto dei dieci Preludi dell’op.23, qui a 7’29”). 

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Un altro brano breve apre la seconda parte della serata, interrompendo momentaneamente il percorso tutto magiaro del concerto: è il Notturno n°1 di Giuseppe Martucci, versione orchestrata nel 1901 dal compositore dall’originale per pianoforte composto dieci anni prima.

Brano tipicamente tardoromantico, dalla struttura assai semplice (tonalità SOLb maggiore con divagazione alla sottodominante DOb) che richiama atmosfere oniriche, un po’ decadenti o nordiche, che si ritrovano in analoghi brani di Liadov, Sibelius, Grieg… ecco. 

L’orchestra davvero smagrita (per dire, 10 soli fiati: 4 legni e corni a 2) ne ha efficacemente messo in risalto le qualità delicatamente miniaturistiche.

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La serata si chiude proprio con Bartók, di cui ascoltiamo la Suite da Il mandarino meraviglioso (o miracoloso che dir si preferisca, traducendo il nativo csodálatos).

Suite che in realtà presenta buona parte della musica dell’originale Pantomima (poi trasformata in Balletto dopo l’ostracismo subito a seguito delle prime rappresentazioni del 1929) come chiarisco nella tabella in Appendice, che mostra come la Suite sia stata derivata per semplice sottrazione di tutto il movimentato (ma poi… trasfigurante) finale. Intelligente la decisione di proiettare sui due schermi che sovrastano il palco i testi (inglese e italiano) delle didascalie originali che in partitura segnalano i tratti salienti dell’azione che ispira la musica.

Dove, nell’introduzione, si evoca il logorio della vita moderna (copyright Cynar…) e si odono le trombe delle auto, distinguendovisi chiaramente – anche se col lugubre piglio da Walküre e non da Rheingold - il wagneriano Hedà-Hedò, effettivamente usato come clacson nei primi anni del secolo scorso. Gli ottoni, oltre al clarinetto solista che deve impersonare gli adescamenti della ragazza, sono qui chiamati ad autentiche acrobazie (incluse le repentine applicazioni e rimozioni delle sordine) con glissandi e vibrati continui. Asfissiante la caccia del Mandarino alla ragazza, costellata da seconde minori (una reminiscenza dell’Alberich del Rheingold?) che chiude la Suite con gran trambusto e fracasso (l'integrale della Pantomima chiude invece con la morte del Mandarino, tempo lento e cadenza di archi bassi e tuba). 

Gran trionfo per Varga, che ha l’ha diretta a memoria, e per l’orchestra tutta che, aizzata con… il piede dalla spalla Dellingshausen, spinge il pubblico ad un applauso ritmato per il Direttore, che ringrazia tutti e in particolare le prime parti, chiamate a difficili interventi solistici. Insomma, una bella serata di musica. 

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Appendice. Il Mandarino di Bartók.

Pantomima (Balletto)
Suite
Tempo
Azione
Allegro
Introduzione strumentale - Sipario
 

 

Il 1° malvivente rovista le sue tasche in cerca di denaro… senza successo. Non trova nulla.
Il 2° malvivente cerca nel cassetto del tavolo. Non trova nulla.
Il 3° malvivente si alza dal letto, va verso la ragazza e le ordina di affacciarsi alla finestra e di adescare i passanti, che verranno poi derubati.
Meno mosso
La ragazza si oppone. I tre malviventi ribadiscono l’ordine.
Eliminato (14 battute)
Vivo; Moderato
La ragazza si arrende e va ciondolando alla finestra.
 
Rubato
Primo adescamento. Si fa vivo un uomo.
Più mosso
Sale le scale. I malviventi si nascondono.
Comodo; Più lento
Si fa avanti un vecchio e trasandato cavaliere, con movenze comiche.
Comodo; Lento
La ragazza: hai denaro? Il vecchio cavaliere: il denaro è irrilevante. Essenziale è l’amore! Si fa sempre più invadente.
Vivace
I tre malviventi balzano fuori dal nascondiglio, afferrano il vecchio cavaliere e lo scaraventano fuori. Si volgono arrabbiati alla ragazza e la obbligano a tornare nuovamente alla finestra.
Più mosso
Secondo adescamento. La ragazza scorge ancora qualcuno. (I malviventi si nascondono.)
Sostenuto; Più mosso; Ancora più mosso
Un timido giovane si affaccia alla porta. Fatica a mascherare l’imbarazzo. La ragazza lo accarezza per incoraggiarlo e intanto gli palpa le tasche (non ha un soldo).
Allegretto
Lo tira a sé e inizia una danza dapprima quasi timida.
Più mosso
La danza si fa più agitata e appassionata.
Vivace
Ma i malviventi saltano fuori, afferrano il giovane e lo sbattono fuori. Si volgono alla ragazza: Sii dunque ragionevole. Procuraci un uomo adatto.
Sostenuto; Agitato
Terzo adescamento. Si scorge con raccapriccio sulla strada una figura poco raccomandabile. Lo si ode salire le scale. I malviventi si nascondono.
Maestoso
Il Mandarino si fa avanti. Resta come immobile sulla porta, la ragazza fugge inorridita nella parte opposta della stanza.
Non troppo vivo
Spavento generale. I tre malviventi accennano di nascosto dal loro nascondiglio alla ragazza di iniziare ad avvicinarsi un poco al Mandarino per ammaliarlo. La ragazza vince il proprio ribrezzo e grida al Mandarino:
Eliminato (41 battute)
Meno mosso
Vieni più vicino! Perché te ne stai lì così immobile a fissarmi? Il Mandarino fa due passi. La ragazza: Più vicino! Siediti sulla sedia.
Tranquillo
Il Mandarino si siede.
Vivo; Meno vivo
La ragazza è indecisa. Torna ad inorridire. Alla fine vince la sua ritrosia e inizia timidamente una danza.
(A poco a poco la danza, accompagnata da una musica adeguata, audacemente…    
Lento
… culminerà alla fine in danza selvaggiamente erotica.) Durante la danza il Mandarino guarda fissamente la ragazza in modo che il divampare della sua passione diventa percettibile.
 
Allegretto; Adagio; Valse; Allegro
La ragazza abbassa il petto verso il Mandarino. Lui comincia a fremere in febbrile eccitazione.
Più allegro
Però la ragazza rabbrividisce al suo abbraccio… vuole staccarsi da lui…
Sempre vivace; Marcatissimo
…ciò che finalmente le riesce. Comincia ora una caccia sempre più selvaggia da parte del Mandarino alla ragazza che continua a fuggire.

Sempre vivace

Il Mandarino inciampa, ma si rialza di scatto e prosegue la sua caccia ancor più selvaggiamente. Raggiunge la ragazza. Lottano l’un contro l’altra.
14 battute in più solo per la Suite, che termina qui.
Sempre vivo
I malviventi saltano fuori, bloccano il Mandarino, lo trascinano lontano dalla ragazza. Gli strappano i gioielli e il denaro. Dopo che è stato depredato, si sente dire: Cosa ce ne facciamo adesso?

Maestoso
Dobbiamo ammazzarlo, soffocarlo nel letto sotto i cuscini! Viene trascinato verso il letto e quivi gettato…  
Pesante
…ricoperto di cuscini, coperte, e di qualunque altro oggetto pesante. Uno dei malviventi gli si siede persino sopra.
Più sostenuto
Si attende qualche istante. Poi il malvivente scende dal letto. Tutti e tre si allontanano un poco. Ora dovrebbe essere soffocato!
Adagio
Improvvisamente la testa del Mandarino emerge dai cuscini, lui guarda ardentemente la ragazza. Le quattro persone inorridiscono, restano lì sconvolti.
Più mosso; Allegro molto
I malviventi riflettono. Afferrano il Mandarino, lo trascinano fuori dai cuscini e lo tengono ben stretto. Si chiedono come poterlo uccidere.
Vivacissimo
Uno dei malviventi ha un’idea, cerca una vecchia spada arrugginita e la immerge per tre volte nel corpo del mandarino.
Ritenuto; Vivo; Meno mosso
Lasciano libero il Mandarino trafitto… lui barcolla, incespica, sembra quasi crollare, ...
Lento
…improvvisamente si rimette ritto e si getta sulla ragazza.
Agitato molto: Lento
I tre malviventi glielo impediscono e lo afferrano ancora saldamente. Il Mandarino immobilizzato guarda ardentemente verso la ragazza.
Agitato
I malviventi spaventati si domandano nuovamente come potersi liberare del Mandarino.
Più mosso
Impicchiamolo!
Grave
Trascinano il Mandarino recalcitrante al centro della stanza e lo impiccano al lampadario.
Più lento e rallentando
La lampada cade a terra.
Molto moderato
Il corpo penzolante del Mandarino comincia ad illuminarsi di verde e azzurro; i suoi occhi sono fissi sulla ragazza. I tre malviventi e la ragazza guardano il Mandarino pieni di terrore. Finalmente la ragazza ha un pensiero risolutivo. Fa segno ai tre malviventi: Tirate giù il Mandarino. I tre malviventi esaudiscono la sua richiesta.
Più mosso
Il Mandarino cade al suolo e si rovescia verso la ragazza.
Vivo; meno vivo
La ragazza non gli si oppone più, entrambi si abbracciano.
Lento
L’anelito del mandarino è ormai placato, le sue ferite incominciano a sanguinare, diventa sempre più debole e muore.
 

25 gennaio, 2025

Orchestra Sinfonica di Milano - 24-25.13 - Tjeknavorian

È ancora il Direttore musicale a dirigere l’Orchestra Sinfonica di Milano in un concerto a struttura classica, che presenta tre composizioni che percorrono l’intero ‘800, spaziando da Paganini a Saint-Saëns e passando per Liszt, che fa da filo rosso a collegare gli altri due: poichè dedicò a Saint-Saëns il suo secondo Mephisto-Walzer, ricambiato con la dedica della Terza Sinfonia; fece del violino diabolico (à-la-Paganini) il protagonista del suo primo Mephisto-Walzer; e sul tema paganiniano della Campanella compose uno dei suoi Studi d’esecuzione trascendentale.

Ed è appunto di Franz Liszt il primo brano in programma: si tratta della versione originale per orchestra del primo Mephisto Walzer, in realtà nato come il secondo dei Due episodi dal Faust di Nikolaus Lenau (1859-61) titolato Der Tanz in der Dorfschenke (La danza nell'osteria del villaggio).

Il frontespizio della partitura riporta i versi del capitolo di Lenau. Ad una festa di nozze Mefistofele, per far conquistare una bella ragazzotta all’arrapato ma un po’ inibito Faust, si impadronisce del violino di un suonatore e improvvisa una musica tanto ubriacante e seducente da provocare in tutti la visione di una scena erotica (ehm, un mezzo stupro…) e, di conseguenza, un’autentica danza orgiastica, con tanto di urla virili e gemiti femminili. Così anche Faust può godersi la sua prosperosa brunetta, nei boschi, per l’intera notte…

Il brano presenta quindi, dopo l’introduzione che evoca l’accordatura del violino di Mefistofele, in sequenza e poi in contrappunto, le due componenti della scena: la travolgente e galeotta musica del diavolaccio e i romantici (?) approcci di Faust alla contadinella, fino al canto mattutino dell’usignolo. 

Messa così, si può assimilare questo brano ad uno dei tanti poemi sinfonici in cui Liszt era maestro: musica ispirata ad un testo letterario (o filosofico). Ma qui sorge la perenne domanda, cui ciascuno può dare la risposta che preferisce: per gustarla al meglio, dovremmo aver ben presenti i dettagli dei riferimenti extra-musicali? E quindi dovremmo conseguentemente aspettarci che questa musica faccia a noi che la ascoltiamo oggi lo stesso effetto che fece ai partecipanti alla festa evocata da Lenau-Liszt (?!) Oppure possiamo apprezzare questa musica di per se stessa, applicandovi i canoni puramente estetici, così cari ad Eduard Hanslick?

Personalmente tendo a propendere per questa seconda scelta, lasciando strettamente la prima all’ambito del teatro musicale, dove è il testo esplicito a consentire di valutare l’appropriatezza dei suoni di cui il compositore lo riveste.  

Nel caso in questione faccio fatica ad attribuire al brano la patente di capolavoro, ecco. Detto ciò, va ancora una volta dato atto a Orchestra e Direttore di aver fatto del loro meglio per valorizzare questa musica, cosa di cui il pubblico ha dato materialmente atto, con meritati applausi.

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Il secondo brano è quindi un Concerto solistico: si tratta del Secondo Concerto (in SI minore) di Niccolò Paganini, conosciuto come La campanella per il finale in cui compare appunto quel particolare strumento (solitamente imitato dallo xilofono, o da altri simili sonagli) ad accompagnare, con delicati rintocchi, i FA# sovracuti del solista, nei ritorni del tema del rondò.

E il finale è proprio il movimento più ortodosso, a livello di forma: un Rondo relativamente semplice: A-B-A-C-A, con ritornello e due strofe. L’iniziale Allegro maestoso è invece il più distante dalla forma classica, presentando almeno tre diverse sezioni con motivi che poi non vengono sviluppati in senso classico, per far posto ad esibizioni virtuosistiche del solista. Il centrale Adagio (con introduzione mutuata dal Concerto n°24 di Viotti) dopo una cupa introduzione sfocia in un lungo Lied, caratterizzato da una melodia ripetuta con sottili variazioni.

È un violinista concittadino del Tjek, il 56enne Benjamin Schmid, che ce lo ha porto con una prestazione sensazionale: grande maestria e tecnica superlativa, arrivata al picco nella cadenza del primo movimento, al termine della quale è scoppiato un autentico, lunghissimo uragano di applausi. Nulla dei trucchi paganiniani ci è stato risparmiato: armonici e sovracuti, pizzicati contemporanei all’arco… insomma una cosa davvero grande e indimenticabile, coronata poi da un virtuosistico bis.

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Ha chiuso la serata la Terza sinfonia di Camille Saint-Saëns, divenuta famosa per l’inconsueta (anzi, mai incontrata prima di allora) presenza dell’organo nell’organico (!) orchestrale di una sinfonia (oltre a quella del pianoforte a 4 mani).

A parte il velleitario (e rimasto isolato) tentativo di Berlioz, la Sinfonia era rimasta per gran parte dell’800 esclusivo appannaggio del mondo musicale tedesco: dopo l’inarrivabile Beethoven – erede di Mozart e Haydn - ci avevano provato Mendelssohn e Schumann; poi – dopo mille esitazioni – l’innovatore-conservatore Brahms (in bellicosa compagnia del conservatore-innovatore Bruckner); quindi il suo epigono (non tedesco, ma comunque austro-ungarico-boemo) Dvořák; e infine il russo Ciajkovski, che portava un poco di Parigi in questo territorio teutonico. 

Ecco, Saint-Saëns cercava – soprattutto dopo la batosta militare francese del ’70 - di riportare la Francia alla ribalta (musicale, almeno) proprio in quel campo dove i crucchi spadroneggiavano indisturbati da sempre.

Dopo due tentativi da lui stesso sepolti (e altrettanti nemmeno fatti nascere) arrivò questa Terza Sinfonia (1885) che in realtà, va detto, è rimasta come terza mosca bianca (dopo la Fantastica e quella, piccola e snobbata, di Bizet) nell’intera produzione sinfonica dei galletti d’oltralpe. [Olivier Messiaen, come epitaffio contro Hitler, pensò bene di prendersi una rivincita cumulativa sui tedeschi, con la sua Turangalila, una sesquipedale sinfonia in 10 (in lettere: dieci!) movimenti.]

Tornando a… bomba (!) si tratta di un’opera che personalmente definirei come molto fumo e poco arrosto, nel senso che ha fatto e fa parlare di sé per qualche (apparente) innovazione tecnica e formale: l’organo, ad esempio, appare più come un espediente per fare notizia, che non come strumento che porti un chiaro valore aggiunto alla composizione. 

Le due sole parti in cui formalmente si articola la Sinfonia, in realtà nascondono a malapena – data la loro interna sdoppiatura – la struttura in quattro, assolutamente classica, se pur con qualche bizzarria: la mancanza di ricapitolazione nell’Allegro moderato, con passaggio diretto al Poco adagio (unico squarcio di vera ispirazione, con l’esordio dell’organo) e la giustapposizione del finale (Maestoso, dove torna l’organo) all’Allegro moderato che è di fatto uno Scherzo-con-Trio.   

Ma è soprattutto il programma interno dell’opera che ricalca un clichè già visto e rivisto e che ancora si rivedrà in futuro (Strauss e Mahler, tanto per dire…) Quello della luce dopo le tenebre, del paradiso dopo l’inferno, da DO minore a maggiore, come nella Quinta beethoveniana: della morte-e-resurrezione, insomma. E la chiave di questo programma è nientemeno – novità assoluta (!?) - che il Dies irae!  

Del quale si ode l’incipit (le prime note) già a battuta 12 dell’iniziale Allegro moderato, esposto dai primi violini, in DO minore:

Poi, dopo numerosi ritorni in sembianze sempre cangianti lungo l’arco della Sinfonia, si ripresenterà alla fine, in un DO maggiore persino grossolano, nell’organo:

[È stato peraltro osservato come questo tema del finale sia in realtà derivato dall’Ave Maria di Arcadelt (16° secolo) trascritta nell’800 da Pierre-Louis Dietsch e poi ri-arrangiata - ma guarda un po' - da Franz Liszt.]

Ancora: prima della pomposa, retorica ed enfatica conclusione dell’opera, ecco il tema riapparire negli archi in forma davvero eroica, nella relativa MIb maggiore:

Insomma, una grandeur francamente degna di miglior causa! Che però l’Orchestra, trascinata dal sempre più entusiasta (ed entusiasmante) Tjek, ci ha permesso comunque di apprezzare per poi ricambiare Direttore e strumentisti con lunghi e ripetuti applausi ritmati. Il Maestro ha infine doverosamente portato alla ribalta l’impeccabile Alberto Gaspardo, protagonista alla tastiera dell’organo elettronico. [A proposito di organi, anni fa la Fondazione aveva lanciato l’idea di farne costruire uno vero per l’Auditorium… ma la cosa si dev’esser persa nella nebbia.]


03 febbraio, 2023

laVerdi 22-23. 14

Tutto romantico il contenuto del 14° concerto della stagione principale dell’Orchestra Sinfonica di Milano, diretto (graditissimo ritorno, questo) da Oleg Caetani.

Si comincia con Chopin e il suo Primo Concerto per pianoforte e orchestra (in realtà il secondo in ordine cronologico di composizione) suonato – al posto del titolare Alexander Godjiev - da un altro dei giovanissimi (22 anni) fenomeni del concertismo di oggi, Elia Cecino (ecco come il ragazzino lo interpretava un anno fa al Teatro Malibran di Venezia con l’Orchestra della Fenice diretta da Frizza).

Il Concerto è francamente piuttosto... pretenzioso, ecco: basti pensare che il solista deve starsene lì a girarsi i pollici per ben più di 4 minuti (tanto dura l’introduzione orchestrale, che in realtà presenta nella loro completezza i temi che verranno poi suonati dal pianoforte!) prima di… entrare in partita. E poi quell’iniziale Allegro maestoso è davvero un movimento prolisso e ipertrofico (circa 20 minuti!)   

Certo, poi Chopin sapeva proporre temi e melodie accattivanti… che percorrono il Concerto da cima a fondo... E il fantastico Elia ce le ha proposte in maniera davvero trascendentale: non parlo solo e tanto della tecnica sopraffina (che già non è poco…) ma della sensibilità interpretativa, che testimonia grande attenzione e scavo della partitura, nella scelta delle dinamiche e dei proverbiali rubati.

Per lui un gran trionfo, ricambiato non con uno, ma con due encore: lo Chopin della Mazurka Op.24 (la stessa del bis del citato concerto alla Fenice) e questo Shostakovich.
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Ecco poi la poco eseguita Eine Symphonie zu Dantes Divina Commedia für Frauenchor und Orchester di Franz Liszt.

Nel foyer dell’Auditorium è esposta parte della collezione privata di edizioni storiche della Commedia, di proprietà del Presidente Emerito Gianni Cervetti. Vi sono esposti 7 esemplari, che spaziano su più di 4 secoli, dal 1491 al 1921. Ad ammirarli c’era anche il venerabile Quirino Principe, presente al concerto.

Caetani, che fatica sempre di più a camminare ma sul podio è ancora un leone, ha introdotto l’opera ricordando una sua indiretta relazione con l’Autore: il suo trisnonno Michelangelo Caetani conobbe a Roma Liszt (che era là durante gli Anni di pellegrinaggio) ed ebbe, con il figlio Onorato, una lunga relazione di amicizia con il compositore!  

Liszt era praticamente allergico alla musica-pura, per lui i suoni dovevano essere necessariamente associati alle reazioni emotive dell’animo umano di fronte a qualsivoglia oggetto o fenomeno o concetto. Così gran parte della sua produzione (pianistica e orchestrale) è ispirata a oggetti, luoghi da lui visitati, opere letterarie, personaggi storici o mitologici e via discorrendo. Fanno forse eccezione i due Concerti per pianoforte, che non hanno né sottotitoli, né programmi esterni appiccicati.

Liszt era stato attratto da Dante fin dal 1848 e aveva composto, prima della Sinfonia, una Dante-sonata poi ripresa in altre opere con diversi titoli (es.: Anni di pellegrinaggio). Come la Sinfonia-Faust, anche la Dante altro non è se non un poema sinfonica con struttura che rimanda alla sinfonia. La Dante fu composta negli anni 1855-56 e l’Autore la dedicò a colui che pochi anni dopo diventerà suo genero, per tramite di Cosima. Con Wagner Liszt aveva già un sodalizio artistico, culminato nella coraggiosa decisione (1850) dell’allora Kapellmeister di Weimar di mettere in scena l’ultima opera dell’esule, colà rifugiatosi provvisoriamente – sulla strada per Zurigo - perchè inseguito da un mandato di cattura da Dresda come complice nella rivoluzione del 48-49: il Lohengrin.

Erano tempi in cui Wagner, lasciato Siegfried a riposarsi dalle fatiche della vittoria sul drago Fafner, si stava dedicando anima (e corpo !?) alla conquista della bella Mathilde, che gli dava ispirazione e carica adrenalinica per costruire quel po’-po’ di monumento chiamato Tristan. E proprio Wagner si permise di cercar di dissuadere Liszt dal musicare Dante (il Paradiso, soprattutto) impresa da lui giudicata tanto velleitaria quanto disperata.

Ma Liszt. che quanto ad autostima e velleitarismo non era secondo a nessuno, non si fermò di fronte a nulla e portò a termine l’ardua impresa, limitandosi modestamente e per rispetto divino a non musicare come Paradiso un ultimo movimento della sua Sinfonia a programma, ma appendendo al Purgatorio un Magnificat con coro femminile. Poi, non contento, preparò anche 22 battute di un secondo finale (Halleluja) da eseguirsi - ma non lo fa nessuno - ad-libitum 

Il movimento iniziale (Inferno) ha una struttura lontanamente parente della forma-sonata; ma presenta tratti che lo apparentano alla fantasia. La tonalità prevalente è RE minore, ma con innumerevoli divagazioni e modulazioni.

Si apre in tempo Lento con un tema introduttivo, reiterato tre volte, sulle cui ricorrenze Liszt ha scritto in calce i tre versi danteschi: Per me si va nella città dolente; per me si va nell’eterno dolore e per me si va tra la perduta gente! Poi compare uno stentoreo motivo che farà da motto ricorrente sulle cui note leggiamo invece: Lasciate ogni speranza voi ch’entrate!

[Lodevole al proposito l’idea di proiettare sui due schermi ai lati del palco quei versi, proprio in corrispondenza dell’esecuzione delle note sotto le quali Liszt li vergò sul suo manoscritto. Un modo intelligente per spiegare la relazione fra suoni e parole anche a chi non ha sottomano la partitura.]

Adesso stiamo scendendo giù nei gironi infernali, da dove arrivano sordi rumori e lamenti: sono i movimenti convulsi dei condannati, che prima arrivano da lontano e poi sono sempre più pesanti e vicini. Il vento infernale, con successive folate sempre più forti ci accompagna nella discesa finchè il motto, sempre più protervo, fra turbini di vento, ci ricorda che lì non c’è proprio scampo alcuno.

E scampo non ci fu e non ci sarà per qualcuno che ora incontriamo, in un’atmosfera fattasi improvvisamente più rarefatta (arpa e pianoforte). Il clarinetto prima e poi il corno inglese ci svelano l’identità dei personaggi che ci stanno di fronte: la partitura reca i versi Nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria. Sì, sono precisamente Paolo e Francesca.

Ecco quindi che un accorato tema in Andante amoroso si dispiega nobilmente, con successive volute e passando alle diverse sezioni dell’orchestra, fino a spegnersi su una lunga coda chiusa, indovinate? dal motto che nega ogni speranza! E infatti, dopo una marziale, sommessa introduzione di timpani, fagotti e corno, in partitura leggiamo un’indicazione perentoria di Liszt: ciò che segue deve suonare come un blasfemo e irridente sghignazzo! Ed è infatti un crescendo tumultuoso quello che ora ascoltiamo, riportandoci… all’inferno di quel luogo.

Ci avviamo ora all’uscita, accolti sulla soglia - c’era da aspettarselo - dal protervo sigillo del motto!  

Usciti dagli inferi, eccoci ai piedi del monte Purgatorio. Liszt interpreta il secondo cantico dantesco come un lento ma sicuro viaggio verso la totale redenzione dai peccati dell’Uomo, un lungo e faticoso, ma nobile, preludio all’accesso al trascendente.

Si suddivide in tre parti: 1. l’uscita dall’Inferno e il ritrovarsi nella Natura; 2. Il percorso lungo le diverse cornici del Purgatorio; 3. La visione del Paradiso (Magnificat). Le due sezioni esterne presentano musica serena ed estatica, mentre quella centrale è caratterizzata dall’evocazione delle difficoltà e dei sacrifici che i confinati in Purgatorio devono affrontare per meritarsi il Paradiso.

La prima sezione del movimento evoca il respirare nuovamente a pieni polmoni, ammirando l’eterno spettacolo della Natura. È un motivo che si innalza sereno e sognante, esposto dagli strumentini due volte, dapprima in RE e poi in MIb maggiore.      

Ma ora ci si deve incamminare lungo l’ardua scalata del Purgatorio, se vogliamo arrivare al… Paradiso. Ecco quindi che tutta la lunga sezione centrale del movimento è caratterizzata da motivi che evocano: fatica, dolore, privazioni, al fine di espiare i peccati e guadagnare il premio più alto. Non a caso ritroviamo, camuffati ma riconoscibili, anche motivi che vengono dall’Inferno, poiché rappresentano peccati che – se pur non irrimediabili – devono essere dolorosamente riconosciuti per poter ambire al perdono divino. Sono atmosfere che ritroveremo più avanti anche nel Parsifal, che per certi aspetti è debitore di questa musica.

Un solenne passaggio dal chiaro sapore Berlioz-iano ci preannuncia l’arrivo sulla sommità del monte, nel Paradiso terrestre, dove il maestoso e beatificante Magnificat (in SI maggiore) ci fa intravedere… l’Indescrivibile.

E, per il Magnificat, Caetani ha deciso di impiegare (appropriatamente, direi) in aggiunta al Coro femminile (I Giovani di Milano), anche il Coro di voci bianche, diretti entrambi da Maria Teresa Tramontin. [Anziché starsene fuori scena, come prescritto da Liszt, il Coro ha cantato dalla balconata dell’Auditorium, ottenendo un mirabile effetto di suoni che arrivano dal… Paradiso.]

Un’esecuzione davvero con i fiocchi, accolta trionfalmente, che certo ha contribuito a far conoscere al pubblico quest’opera un po’ reietta, ma che merita – pur non potendosi definire un capolavoro – di trovare il suo posto nei repertori delle grandi orchestre.