affinità bombarole

rinsaldato il patto atlantico
Visualizzazione post con etichetta bellini. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta bellini. Mostra tutti i post

28 giugno, 2025

Norma carbonara alla Scala.

Ieri sera alla Scala – dopo il reiterato messaggio NO-WAR proiettato a luci spente - è finalmente ricomparsa la belliniana sacerdotessa di Irminsul, che vi mancava da 48 anni, cioè da quel 1977 quando Gianandrea Gavazzeni ne diresse per l’ultima volta i suoni sulle scene avveniristiche (per allora… veramente un po’ alla Wieland Wagner) di Mauro Bolognini e con protagonista la somma Montserrat Caballè.

Oggi i protagonisti sono Fabio Luisi sul podio, Olivier Py alla regìa e Marina Rebeka negli scomodi quanto impegnativi panni della protagonista. 

E, a proposito, la Rebeka, ormai consolidata interprete del title-role (qui ascoltabile in una recente incisione, con Casta Diva in SOL… ma qui tornata al FA) mi è parsa appena-appena all’altezza delle aspettative: la salita agli acuti pare sempre problematica. I sonori buh incassati alla fine (ma anche dopo il Casta Diva) misti ad applausi sono forse immeritati, ma… l’eccellenza è un’altra cosa.

L’italo-albionico Freddie De Tommaso è un mediocre Pollione: la voce ci sarebbe anche, ma necessiterà di sudore per essere gestita come si deve. Per lui misto di approvazioni e brontolii di contestazione.

Vasilisa Berzhanskaya (Adalgisa) è la migliore del gruppo, giustamente osannata alla fine.

Michele Pertusi impersona Federico Confalonieri Oroveso e se la cava al meglio delle sue sempre notevoli possibilità.

Flavio è Paolo Antognetti, diciamo senza infamia. Merita un incoraggiamento l’accademica Laura Lolita Perešivana per la sua discreta prestazione come Clotilde.

Una sicurezza, come sempre, il Coro di Alberto Maletti.

Da Fabio Luisi forse ci si poteva aspettare di più: una direzione senza pecche, ma con pochi momenti davvero memorabili (uno: l’introduzione del second’atto, con la gran cavata dei celli). I buh non proprio isolati, rimediati all’uscita finale, forse erano eccessivi, ma non del tutto pretestuosi.

Insomma, sul fronte dei suoni ci si può appena accontentare, ecco.

___
Difficile invece accontentarsi della regìa di Py (scene-costumi di Pierre-André Weitz, luci di Bertrand Killy e coreografie di Ivo Bauchiero) che è di una banalità disarmante. Ci troviamo nella Milano del 1831, davanti alla Scala, ai tempi della prima dell’Opera. Già durante la Sinfonia assistiamo a moti rivoluzionari supportati da coreografie da avanspettacolo.

C’è la fucilazione di un rivoltoso da parte dei viennesi, seguita da un rito che si vede ogni giorno a Gaza: cadavere trascinato via in un lenzuolo bianco, poi ricoperto dal tricolore, compianto da compagne e compagni. Arriva, appunto, Federico Confalonieri, l’Oroveso capo dei carbonari ad aizzare i milanesi contro l’aguzzino occupante: Norma o Tell, tutto fa brodo, il Risorgimento è salvo.

La scena è posta sull’immancabile piattaforma girevole, che ci presenta la facciata della Scala e, sul retro… scale e scaloni che ospiteranno le vicende del dramma. Costumi dell’epoca, con i notabili carbonari vestiti da becchini e i militari occupanti in luminose divise immacolate.   

Simboli necrofili in abbondanza: teschi dorati, tre figuranti a creare l’atmosfera da tragedia greca, una toilette da teatro per Norma con la scritta MEDEA, chè non sfugga a nessuno il legame con l’abusato soggetto. Due candidi pupazzi-bambinelli fanno intuire l’insana attitudine di Norma-Medea nei loro confronti. E Norma, appunto, è una veggente, quindi scruta una sfera di cristallo scuro per… schiarirsi le idee.

Poi vedremo anche i bambinelli veri che sembrano il paparino in persona, con tanto di bianche uniformi e berretti in tinta (insomma, l’imperialismo austro-ungarico detta legge anche sui cromosomi…) giocare con i rispettivi pupazzetti mentre la mamma sta pensando a come farli secchi.

Alla fine del primo atto la Scala è quella ridotta a macerie dai bombardamenti americani viennesi (a futura memoria?)

L’epilogo non è un rogo (in effetti par di vedere una barricata incendiata): no, è una nuova fucilazione, operata dai patrioti milanesi per punire l’occupante e l’indegna traditrice della patria.

Allo spettacolo però – un vero peccato - è mancato lo spontaneo aggiungersi dell’intero pubblico al coro guerra! guerra!, come avveniva a quei tempi.

___
Ecco perché, all’uscita finale, Py e Weitz hanno innescato nel secondo loggione… le 5 giornate di Milano. Che dire? Con normativa misericordia potremmo implorare per loro: Deh, non volerli vittime…

24 giugno, 2025

Norma ritrova la strada per l’Irmins...cala.

Nell’ultimo dopoguerra (‘48-‘77) Norma fu messa in scena alla Scala per ben 7 stagioni (in media veniva proposta ogni 4 anni o poco più). Poi, per rivederla in cartellone al Piermarini, son dovuti trascorrere quasi 10 lustri!

Finalmente fra pochi giorni assisteremo al gran ritorno della trasgressiva Sacerdotessa, portata in scena dalla coppia Luisi-Py, con Marina Rebeka a vedersela con lo spettro incombente di tale María de Montserrat Viviana Concepción Caballé y Folch, che monopolizzò il ruolo nelle ultime tre - ormai remote - stagioni (’72-’75-’77) quando un biglietto di platea costava l’equivalente di 15€ scarsi…   

Per ingannare l’attesa mi dedicherò ad un po’ di cazzeggio su alcuni passaggi musicali che si prestano a una qualche curiosità.

Il primo riguarda Bellini e WagnerÈ sempre emozionante ascoltare il finale di Norma, con quel mirabile concertato che nasce dal Deh, non volerli vittime, dove Norma crescendo sempre e incalzandocanta Io più non chiedo, io son felicea proposito del quale Ruggero Leoncavallo lasciò una sua testimonianza diretta su quanto accadde nel dicembre del 1876 a Bologna, in occasione della prima visita di Wagner, uno che Norma la conosceva assai bene, avendo anche composto un’aria alternativa di Oroveso. Orbene, dopo il ricevimento in suo onore, Wagner… visto in un cantuccio un pianoforte verticale, si accostò e con tre dita sole sonò meravigliosamente il finale della Norma, commentando con accento di profonda tristezza: “Wagner questo non lo sa scrivere!

Beh, qualcosa di simile però lo scrisse, ad esempio in Tannhäuser, come osservò tale Eduard Hanslick, che individuò nel finale della Norma l’ispirazione wagneriana per la supplica di Elisabeth. Ma anche la Liebestod di Isolde deve certamente molto a quel finale:

___
Casta diva.

La più celebre di tutte le melodie belliniane (ed una delle più celebri in assoluto) ha fatto scrivere fiumi d’inchiostro, e mi limiterò a qualche curiosità volta a sottolineare la minuziosa attenzione posta da Bellini agli aspetti relativi all’espressività del canto. Ecco le prime quattro misure della cavatina (Andante sostenuto assai) che sono in 12/8, cioè in quattro tempi di 3 crome ciascuno:

Esse sono precedute da un’introduzione affidata al flauto solo, che ripete pari-pari la stessa melodia (e anche parte del seguito) prima di interrompersi per lasciare il campo alla voce.

Una prima piccolissima osservazione riguarda il tempo 2 della battuta 4: il DO qui è privo di acciaccatura, che invece Bellini scrive per il flauto nell’introduzione. Altre due acciaccature che compaiono poco dopo sono invece suonate dal flauto ed anche eseguite dalla voce. Evidentemente qui Bellini non voleva sporcare la purezza di quell’inargenti… 

Osserviamo ora le battute 1 e 3. In entrambe – sempre nel terzo tempo della battuta - la voce parte dal LA e deve salire per raggiungere, nel primo caso, il DO e, nel secondo, il RE.

Nella battuta 1 ciò si ottiene con la sequenza di croma puntata (LA) + due biscrome (SIb-LA) + due semicrome (SOL-LA): queste ultime quattro note generano una sottile increspatura nella melodia, che sia quasi un leggero singhiozzo della voce della peccatrice Norma che sta invocando la benedizione di una casta divinità? Si configurano come un gruppetto diritto imperfetto (SIb-LA veloce + SOL-LA lento) e così sarebbero da eseguire. Un’altra possibile soluzione (più semplice e… semplicistica per l’interprete) è ignorare la puntatura dopo l’iniziale LA e sostituire il resto del tempo 3 con un gruppetto diritto perfetto (tutte semicrome: SIb-LA-SOL-LA) col risultato di perdere quell’evidente increspatura della frase in favore di una sua maggior scorrevolezza.  

Nella battuta 3 invece abbiamo una sola sillaba di testo (che) cantata su una semiminima puntata (LA) che da sola riempirebbe il terzo tempo. Però Bellini aggiunge qui il segno di un gruppetto diritto (SIb-LA-SOL#-LA) per evitare il balzo diretto dal LA al RE sovrastante: come gestirlo (cioè dove rubare spazio per lui)? Qui la soluzione più scolastica consisterebbe nel sostituire il gruppetto alla terza croma (la puntatura) del LA, eseguendolo con la massima speditezza, cioè comprimendo quattro biscrome in quella sola croma, con ciò confermando il fremito che percorre il canto di Norma; oppure creando un artificioso ritardando… A volte l’interprete qui fa una scelta assai diversa (ci sono vari esempi in rete): dopo la semiminima del LA, invece delle quattro note del gruppetto, ne esegue solo le ultime due in semicroma (SOL#-LA) per salire più dolcemente al RE.

Beh, effettivamente un orecchio non attentissimo può non percepire troppa differenza fra queste diverse soluzioni, tuttavia ciascuna ha una sua peculiarità, che sta all’interprete privilegiare, anche in rapporto all’impostazione agogica del passaggio.

___
La fine della guerra.

Tra gli innumerevoli interventi che Bellini operò sulla partitura dell’opera prima di darla alle stampe ce n’è uno abbastanza importante, costituito da un taglio che il compositore decise proprio poco prima della pubblicazione, e riguarda la chiusura del famoso, truce passaggio Guerra! Guerra! Dopo che il coro ha cantato a squarciagola A mirar il trionfo dei figli | Ecco il Dio sovra un raggio di sol, e prima che Oroveso interroghi Norma in merito al rito sacrificale, Bellini sul manoscritto aveva arricchito il passaggio al sereno LA maggiore con la ripetizione dei due citati versi, musicalmente accompagnandoli dalle 32 battute del quarto, sognante tema dell’Ouverture (là in SOL maggiore):

Questa transizione non è tuttavia riportata nella vecchia partitura Ricordi (che in chiusura del coro prevede solo cinque battute con una scarica di timpani e due colossali accordi di LA maggiore) e quindi è stata ed è spesso e volentieri omessa, sia nelle esecuzioni dal vivo che in quelle in sala di registrazione, come da numerosi esempi verificabili su youtube, che hanno come protagonisti:

- Sodero (1944, con Milanov) qui a 1’00”;

- Gui (1952, con Callas) qui a 55”;
- Votto (1955, con Callas) qui a 2h03’23”;
- Gracis (1967, con Ross) qui a 2h05’32”;
- Cillario (1970, con Caballè) qui a 2h02’15”;
- Patanè (1974, con Caballè) qui a 6’18”;
- Halasz (1977, con Bumbry) qui a 55”;
- Levine (1980, con Scotto) qui a 55” ;
- Muti (1995, con Eaglen) qui a 52”;
- Haider (2006, con Gruberova) qui a 2h03’28”;
- Pidò (2008, con Dessì) qui a 2’35”;
- Dyadyura (2009, con Chenska) qui a 6’10”;
- Carminati (2011, con Theodossiu) qui a 2h01’46”;
- Carminati (2016, con Hernandez) qui a 2’08”;
- Gamba (2017, con Siri) qui a 55”;
- Palumbo (2020, con Pirozzi) qui a 2h20’25”;
- Frizza (2021, con Radvanovsky) qui a 55”;
- Morandi (2023, con Gresia) qui a 2’50”;
- Mariotti (2025, con Lombardi) qui a 2h00’50”.

Ciò comporta che quelle mirabili battute rimangano confinate alla sola Sinfonia, senza mai più riapparire nel seguito. E quindi molte sono le occasioni in cui i Direttori hanno voluto rispettare l’originale belliniano, e ciò ancor prima della pubblicazione di edizioni critiche che lo contemplano. Ecco ad esempio:

- Serafin (1954, con Callas) qui a 55” (con i due accordi originali);

- Molinari Pradelli (1974, con Caballè) qui a 2h03’34”;
- Masini (1976, con Caballè) qui a 2h09’50” (con i due accordi originali addolciti);
- Gavazzeni (1977, con Caballè) qui a 2h05’28”;
- Bonynge (1987, con Sutherland) qui a 57”;
- Mariotti (2013, con Devia) qui a 4’20”;
- Palumbo (2015, con Radvanovsky) qui a 53” (con i due accordi originali);
- Capuano (2016, con Bartoli) qui a 2h01’00”;
- Carminati (2021, con Rebeka) qui a 5’37”;
- Benini (2023, con Yoncheva) qui a 2h04’38”;
- Minasi (2023, con Jicia) qui a 1h58’43”;
- Passerini (2023, con Rebeka) qui a 2h50’08”.

Staremo a sentire che scelta farà Luisi (che si dice innamorato di Bellini) ma giurerei – visti i precedenti scaligeri di Serafin, Molinari e Gavazzeni - che non ci vorrà risparmare questo ben-di-dio…


19 gennaio, 2022

Giulietta&Romeo ante-Shakespeare (?)

La Scala, dopo lo Shakespeare originale, ne mette in scena uno... di là da venire: I Capuleti e i Montecchi di Romani-Bellini infatti poco o nulla ha a che fare con il Bardo di Stratford, ispirandosi invece alla leggenda originale italiana che lo anticipa di un secolo buono. (Sulle origini del testo rinvio ad un mio commento scritto per una produzione bolognese del 2018). E infatti le prime parole che si leggono (a firma di Claudio Toscani) sul programma di sala del Teatro recitano: Dimenticare Shakespeare!

Invece, neanche a farlo apposta e precisamente a smentire la premessa, ecco che il regista Adrian Noble viene proprio dal mondo di Shakespeare (è stato direttore della prestigiosa Royal Shakespeare Company). E infatti già le foto sul sito del teatro lasciavano presagire il... peggio: Pertusi in clergyman! (Del resto anche molte fonti della nostra quotidiana intelligenza ignoranza distribuita presentano il personaggio come Frate Lorenzo...)

Il regista albionico cerca una difficile quadratura del cerchio, sostenendo (come titola il suo intervento sullo stesso programma di sala) che il soggetto sarebbe la stessa storia vista da angolazioni differenti (Shakespeare e Romani, ndr). Il che non giustifica però il presentarla mescolando le due angolazioni! Un esempio, proprio citato dal regista in chiusura del suo intervento, riguarda l’uccisione del fratello di Giulietta da parte di Romeo (che viene mostrata proprio all’inizio): che sarebbe null’altro che uno spiacevole incidente di gioco fra ragazzini, dove si fatica a trovare il vero responsabile. Eh no, caro Adrian, lo rivela lo stesso Romeo che il responsabile è proprio lui: solo che si trattò di una regolare uccisione avvenuta durante un conflitto armato fra due eserciti!

 

Ecco, evidentemente per deformazione professionale (e magari con un pizzico di spocchia british) il regista prova a convincerci di una cosa che è già chiara a tutti coloro che perlomeno conoscono la tragedia di Shakeapeare ed hanno letto non distrattamente il libretto di Romani: la prima supera il secondo di parecchi piedi! Peccato però che tutta l’opera musicata da Bellini si basi sul povero testo di Romani e non su quello ricco del Bardo. E che quindi trasferire parti del secondo sul primo è operazione simile a quella di mescolare lasagne al forno e vellutata al curry in un unico piatto da servire a tavola: ‘na schifezza.

 

Fin dalla scena mostrata alla fine della Sinfonia (quella dove si contrabbanda una scazzottata fra ragazzacci - Shakespeare - per un episodio di guerra in piena regola - Romani) è chiaro come il regista sia schiavo di Shakespeare, che appunto ambienta tutta la vicenda in una faida locale fra bande di bad-boys di buona famiglia, ignorando del tutto l’aspetto squisitamente e prevalentemente politico del testo di Romani, dove la storia di Verona è parte di un quadro assai più grande: le lotte fra Guelfi e Ghibellini come scontri fra le due Istituzioni dominanti nel mondo di allora: il Papato e il Sacro Romano Impero.

 

L’ambito locale e familiare - Shakespeare - viene sottolineato dal regista ad ogni piè sospinto: innanzitutto tramite la ripetuta presenza in scena del cadavere del figlio di Capellio (nel second’atto addirittura di due, uno morto e un secondo... morto che cammina). Ora, se nella prima scena dell’opera la cosa può anche starci, dal momento che Romeo ricorda quel fatto (giustificandolo però con lo scenario bellico in cui esso si verificò) poi diviene francamente stucchevole.

 

Andiamo avanti: l’ambientazione è negli anni ’30 del ‘900 e i costumi (armi automatiche incluse) dei ceffi che si aggirano in scena ricorda cosche mafiose dell’America di Al Capone e Joe Aiello: Guelfi e Ghibellini? Hahaha!

 

Torniamo a Lorenzo: Shakespeare - ed è una geniale intuizione - lo inventa frate, e come tale lo fa agire: super partes, dedito alla difesa di un sincero amore fra due giovani e alla ricerca della composizione del conflitto fra i rappresentanti veronesi dei due partiti politici che si fronteggiano. Come tale possiede anche le credenziali per celebrare matrimoni... segreti. Ora, nel testo di Romani Lorenzo è uno speziale, un medico al servizio della famiglia di Capellio, che prende le parti di Giulietta e cerca di facilitarne il legame amoroso con Romeo. Domanda: perchè mai il regista vuole anche qui chiamare in causa Shakespeare e mostrarci Lorenzo nei panni di un religioso, che in tutta l’opera non ha una sola occasione per esercitare la sua missione? (Salvo farsi il segno della croce di fronte al cadavere del fratello di Giulietta nella prima scena del second’atto!) A parte il fatto che un medico-di-famiglia è cosa del tutto plausibile, mentre assai meno lo è un prete-di-famiglia... a voler credere al regista si dovrebbe pensare che Lorenzo sia un agente ghibellino travestito da prete per meglio infiltrarsi come quinta colonna nel quartier generale dei Guelfi... roba da ridere!

 

Infine, quasi a discolparsi per le sue malefatte, il regista si inventa uno squarcio di attualità politica, ispirandosi al Patria oppressa del risorgimentale Verdi: così ci mostra - in miniatura - una scena simile a quella proposta da Livermore nel recente Macbeth: famiglie di poveri rifugiati bistrattate da militari violenti e spietati. E come colonna sonora, cosa sceglie? La mirabile introduzione (col clarinetto solista) alla seconda scena dell’atto secondo. Peccato però che quella musica celestiale evochi sì uno strazio, ma per nulla pubblico, bensì privatissimo: quello di Romeo che si sente abbandonato da tutti e da tutto!


Ecco, una regìa strampalata quanto pretenziosa, del tutto irrispettosa del soggetto da mettere in scena, che piacerà solo a chi fa di ogni erba un fascio e non distingue fra Romeo&Juliet e I Capuleti e i Montecchi. A giudicare dall’accoglienza indifferente ma non ostile del pubblico all’uscita del team registico, vien da pensare che siano in molti ad ignorare tale differenza.

___

Per nostra fortuna i suoni hanno ampiamente riscattato le immagini. 


Dato che il famigerato Covid ha tradito il Kapellmeister titolare Evelino Pidò (che avrei ascoltato volentieri dati i suoi precedenti, come questoè toccato alla quota-rosa Speranza Scappucci di sostituirlo, anticipando di qualche tempo il suo debutto al Piermarini. E al proposito dico che il suo esordio qui mi è parso del tutto positivo, come ha inequivocabilmente sentenziato la trionfale accoglienza del pubblico. Avevo di lei un buon ricordo dal ROF di quasi 6 anni fa, quando lei era ancora - appunto - poco più che una speranza. Che mi sento di dire sia evoluta (ormai è in vista dei... 49 a dispetto della presenza da ragazzina) in piacevole realtà.


Va detto che lei è arrivata a prove già inoltrate e non ha dovuto partire da zero, ma la sua è stata una prestazione davvero convincente: precisione nel gesto e negli attacchi, moderazione nei non pochi fracassi che il pur elegante Bellini non ci risparmia, attenzione a non coprire mai le voci, dettagli di espressione sempre ben curati: un rapporto evidentemente ben avviato con l’Orchestra, che ha risposto al meglio in tutte le sezioni e nelle parti solistiche che impreziosiscono la partitura.

 

Detto della proverbiale compattezza e precisione del Coro di Alberto Malazzi, vengo alle cinque voci protagoniste.

 

Su tutti Lisette Oropesa: il soprano cubanamericano ha ormai raggiunto una sicurezza e continuità di rendimento eccellenti e anche ieri ha sciorinato la sua voce calda e rotonda, negli acuti pieni e in quelli smorzati, oltre ad una grande espressività che ne ha fatto una Giulietta quasi perfetta.


Accanto a lei si è ben portata Marianne Crebassa che ha creato un Romeo duro e autoritario nei momenti di scontro con i Guelfi ma anche tenero e sentimentale negli approcci con Giulietta. Forse la voce, proprio femminile, non è quella che personalmente preferirei per il ruolo (certo non dico ci vorrebbe per forza una voce cavernosa, sia chiaro...) ma non posso che elogiarne la prestazione e la presenza scenica.

 

Jinxu Xiahou (che ha rimpiazzato René Barbera) è stato un Tebaldo più che dignitoso, in una parte non proibitiva (al massimo tocca, se non erro, il SI naturale) che però lui ha reso in maniera apprezzabile: è giovane e avrà modo di crescere ancora.

 

I due bassi Jongmin Park (Capellio) e Michele Pertusi (Lorenzo) hanno dato il loro valido contributo all’insieme. Va da sè che il navigatissimo Pertusi abbia mostrato più sicurezza e controllo della voce rispetto al più giovane Park, a volte troppo schiamazzante.

 

In definitiva, una proposta bifronte, che però (a mio modesto giudizio) ha mostrato il lato-A proprio dove più è importante (del suo lato-B farei sinceramente a meno...)

20 maggio, 2019

Il Bellini desueto all’OF


Firenze ha ospitato in settimana (ieri ultima delle tre recite in cartellone) il suo nuovo allestmento della quarta opera di Vincenzo Bellini, La straniera. La prima è stata trasmessa sia da Radio3 che da RAI5 e ciò ha consentito e consente di fare una sommaria conoscenza con questa produzione, affidata alla bacchetta di Fabio Luisi e alla regìa del neofita (nell’opera lirica) Mateo Zoni.

La versione presentata è la prima, del 1829 - come ricostruita nella più recente edizione critica, di Marco Uvietta - più sobria e stringata di quella del 1830 (cosidddetta versione Rubini poichè riveduta e corretta per il famoso tenore).

È questo un Bellini arrivato, dopo soli 4 anni, già quasi a metà strada della sua vita artistica (che si chiuderà con quella biologica nel 1835) e l’opera segna proprio il punto di svolta nel suo percorso evolutivo, proteso a distanziarsi dall’imperante Rossini e a porre le basi (in una con Donizetti) del melodramma romantico, che Verdi poi svilupperà da par suo. Credo che parlare di grande capolavoro sia francamente eccessivo, ancora vi si notano segni di immaturità, passaggi poco ispirati e cadute di tensione; ma i lati positivi abbondano, a partire dalla qualità delle melodie, che prefigura ciò che arriverà poi con Capuleti, Sonnambula, Norma e Puritani. Insomma, un titolo del quale si fatica a spiegare l’assenza dal repertorio dei principali teatri (qui a Firenze non si rappresentava dal 1830!)

Come spesso accade, il soggetto (dovuto al pur grande Felice Romani che lo mutuò a sua volta dall'abate Prévost) è di quelli che si fanno baffo della plausibilità (per non dire di peggio) e l’unico pregio del testo (qui Romani è peraltro da elogiare) è di fare adeguatamente da supporto per la musica di Bellini. In estrema sintesi: una specie di Donna del lago con finale tragico.

L’allestimento di Mateo Zoni porta l’ambientazione dal 1300 all’X300, un medioevo in un improbabile futuro: la scena di Tonino Zera e Renzo Bellanca è sostanzialmente vuota, con poche strutture verticali e uno stilizzato gazebo a far da capanna di Alaide; il tutto di sapore metallico e freddo, come il regista forse immagina l’inesistente lago di Montolino. I costumi di Stefano Ciammitti sono un pot-pourri di stili e di fogge, appariscenti e a volte ridicoli, come le maschere a grata  che velano il volto delle donne e l’abbigliamento della protagonista che, dovendo richiamare la vita un po’ selvaggia dell’ex-regina, è un riciclo di un costume di Papageno di un qualche vecchio Flauto magico (e meno male che la gabbietta dei volatili è andata persa...) Poco efficaci e di impiego scolastico anche le luci di Daniele Cipri.

Quanto a movimenti di singoli e masse, siamo alla più vetusta tradizione: coro che entra, se ne sta immobile sul fondo, poi esce alla chetichella; protagonisti che tendenzialmente parlano al pubblico e mai fra di loro... Del trattamento che questo medioevo riserva alla donna fa fede l’ottava scena del primo atto: Campo ai veltri cantano Osburgo e coro, visto che sta per iniziare una caccia al cervo; e in effetti due animali tenuti al guinzaglio attraversano il palco: ecco, sono due ragazze che camminano carponi!

Insomma, una cosa fra il velleitario e l’insulso, che ancora una volta fa concludere che una rappresentazione in forma di concerto avrebbe dato risultati migliori.
___
Sul fronte dei suoni le cose sono andate un filino (ma proprio un filino) meglio, grazie a Fabio Luisi: lui si dice innamorato di quest’opera e cerca di farne emergere i lati interessanti e innovativi; senza però riuscire a renderci digeribili quelli meno ispirati: insomma, una direzione onesta e dignitosa, ma non trascendentale.

Salome Jicia fu sparata sulla scena del ROF nell’agosto 2016 (quando era appena trentenne) nell’impervia parte di Elena (un’altra e ben più famosa Donna del lago, appunto) e poi tornò ancora a Pesaro come Dorliska e nello Stabat del 2017. Avendola sentita in tutte queste occasioni mi sento di affermare che in tre anni scarsi la georgiana di progressi ne ha fatti parecchi, migliorando la qualità degli acuti e la penetrazione della sua voce nelle note gravi (anche se qui mi pare di aver colto un paio di frasette furbescamente innalzate all’ottava superiore...) Ma in sostanza lei ha retto bene l’impegno e giustamente è stata la più applaudita alla fine.

Più che discreta la prestazone di un’altra giovane, la trentenne Laura Verrecchia, che ha impersonato la povera Isoletta mettendo in mostra una voce rotonda e ben proiettata, oltre che una buona caratterizzazone psicologica di questo personaggio assai sfigato.

Decisamente sotto il livello delle signore le prestazioni dei maschi: l’Arturo di Dario Schmunck è piuttosto incolore (chissà, forse gli riuscirebbe meglio la versione-Rubini!) e appena meglio risulta essere Serban Vasile in Valdeburgo. I due non entusiasmano comunque nei loro incontri-scontri, che dovrebbero essere fra i momenti più pregnanti dell’opera.

Le altre tre voci maschili (tutte provenienti dall’Accademia del Teatro) su un livello di onesta sufficienza: il Priore di Adriano Gramigni non spicca per autorevolezza (parlo della voce, cavernosa e ingolata, e non della svettante presenza scenica); Dave Monaco è un Osburgo piuttosto opaco (in tutti i sensi) e Shuxin Li è un Montolino anonimo, proprio come il Priore: imponenza scenica, ma canto da migliorare assai.

Più che buona la prestazione del coro di Lorenzo Fratini, che nell’opera riveste un ruolo di primo piano, spesso a supporto dialogante con i protagonisti.
___
Che dire, in conclusione? Che questa riapparizione dell’opera a Firenze dopo 189 anni forse meritava qualcosina di più? Ieri per la verità l’accoglienza è stata abbastanza calorosa, da parte di un pubblico assai folto e soprattutto (cosa che fa un gran piacere) imbottito di frotte di giovani e giovanissimi!

10 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala - Pezza d’appoggio


Ho lasciato passare qualche giorno, per non correre rischi di denuncia (hahaha!) da parte dei solerti cerberi del Teatro, ma adesso provo a integrare il mio precedente commento mettendo a disposizione dei 4-5 milioni di miei lettori (ai quali chiedo di mantenere il più assoluto segreto, altrimenti Pereira mi fa condannare al 41-ter) l’audio della prima del Pirata che ho commentato nel precedente post. In ogni caso, se hanno dato i domiciliari a Dell’Utri, posso sperarci anch’io!

(Della qualità della registrazione non sono per nulla responsabile, sia chiaro.)  

07 luglio, 2018

Il Pirata belliniano al suo ritorno in Scala


Ieri sera è andata in onda - con intermezzo giallo - la terza delle otto recite de Il Pirata, che tornava alla Scala dopo 60 anni di assenza. Teatro gruviera come capita spesso, con pubblico abbastanza caloroso, tanto che non si sono ripetute le vivaci contestazioni seguite alla prima (vittime sacrificali il cattivone di turno Alaimo, il concertatore Frizza e il regista Sagi) ascoltata per radio venerdi.

Fino a ieri la registrazione di quella recita era disponibile in rete, prima che il Teatro la facesse rimuovere d’autorità. Io nel frattempo mi ero preso la briga di analizzarla da vicino per cercare di comprendere le ragioni (o i pretesti) del fiasco iniziale e del (relativo) riscatto successivo. Ovviamente potendo giudicare l’agogica (tempi) e gli accenti, assai meno le dinamiche, che vengono fatalmente distorte - leggi: appiattite - dalla ripresa radio. Ho deciso (per non buttare l’investimento fatto... haha) di pubblicare comunque queste note a futura memoria - di fatto contengono anche una succinta esegesi del soggetto, oltre che riferimenti ai tagli apportati - anche se fatalmente vi manca il riscontro in-corpore-vili, ma tant’è. Lascio anche i riferimenti di minutaggio, a conferma della... serietà del lavoro.
___
Comincio dal mio conterraneo Frizza e dall’Ouverture, che è un serio banco di prova per il Direttore. La prima parte dell’Introduzione (Allegro con fuoco, RE maggiore, 3/4) è staccata con piglio apprezzabile. Personalmente gradirei una freschezza ancor maggiore, ma accontentiamoci: certe pur blasonate interpretazioni del ‘900 sono letteralmente esasperanti, trasformando il tempo in Andante maestoso, che caratterizza invece la seconda parte dell’Introduzione (38”, 4/4, RE minore - FA maggiore). Frizza la presenta correttamente, mette in risalto gli incisi dei violoncelli, poi gestisce in modo apprezzabile (1’44”) il passaggio in marcato che porta verso l’attacco (2’19”) del primo tema (Allegro agitato, 4/4, RE minore). Qui gestisce bene lo slentando (2’26”) e poi il ritorno in tempo che separa il soggetto dal controsoggetto, quindi carica leggermente il ritmo per il passaggio (2’44”) al RE maggiore, dove troviamo la transizione che porta (3’24”) al secondo tema, bipartito, nella relativa FA maggiore (qui Frizza fa tutto in staccato, di sua iniziativa). Efficace il passaggio alla seconda sezione (3’42”) con il moderato crescendo che la caratterizza (e che terrà banco alla fine del primo atto). Ecco poi la ripresa dei due temi, dapprima (4’59”) quello in RE minore, assai scorciato, e poi (5’23”) il secondo (ora canonicamente in RE maggiore) dove Frizza del tutto arbitrariamente scatena un presto, certo di facile effetto, ma francamente un po’ pacchiano. Tutto sommato però l’accoglienza è abbastanza positiva.

L’Introduzione con il coro e Goffredo non si presta a particolari critiche (forse la voce di Riccardo Fassi viene qua e là travolta da quella del coro...) e quindi passiamo (15’11”) all’esordio del tenore, di gran lunga la parte più importante, difficile e ostica, sotto il profilo espressivo, oltre e più che sotto quello strettamente vocale. Dopo il recitativo con Goffredo, ecco la cavatina di Gualtiero (Nel furor delle tempeste, 17’29”) in SOL minore e SIb maggiore: la voce di Piero Pretti non è per niente male (salirà anche al RE acuto con relativa scioltezza, nella cadenza finale) ma ciò che lascia a desiderare è l’espressività (Come un angelo celeste, 18’06”) che Bellini richiede in forti dosi, mentre il tenore continua a cantare con piglio inalterato. Stessa cosa anche alla ripresa. Sono magari sfumature, ma fanno la differenza, almeno ad un orecchio attento. Il pubblico comunque pare aver apprezzato, pur senza particolari entusiasmi.

Il successivo coro (con interventi minori di Gualtiero e Itulbo) include anche (22’43”, Per te di vane lagrime, in SIb maggiore)  una  nuova esternazione del tenore, che Pretti risolve dignitosamente, accolto da moderati applausi.

Arriviamo quindi (26’36”) all’esordio del soprano (recitativo e cavatina). Dopo la breve introduzione orchestrale in MIb maggiore, che Frizza affronta a ritmo svelto, Sonya Yoncheva si presenta (27’35”) con il recitativo Sorgete, e in me quella pietade, MIb maggiore, ove il soprano bulgaro mette subito in bella mostra la sua voce potente e ben tornita. Che esplode poi nella cavatina (29’39”, Lo sognai ferito esangue, SOL minore) e ancora (31’44”, Quando a un tratto il mio consorte, SI maggiore) si inerpica in difficli vocalizzi nel ricordo dell’incubo che la colse vedendo l’amante straziato dal marito! Segue un nuovo passaggio in MIb (Muta, oppressa, sbigottita) con i pertichini di Itulbo, Adele e coro. Dopo l’arrivo di Gualtiero (33’52”) del qule Itulbo ancora cerca di nascondere a Imogene l’identità, riprende (35’13”) in SOL maggiore la cavatina (35’32”, Sventurata anch’io deliro) con ripetizione abbellita (37’48”) e cadenza finale (40’00”) con il coro. Mah, si potrà sempre eccepire sulla relativa piattezza dell’esposizione della Yoncheva, ma francamente gli applausi sono davvero convinti (e per me meritati).   

Segue il coro libagioso dei pirati, francamente piuttosto dozzinale (Bellini non deve averci dedicato più di un quarto d’ora...) che Frizza e Casoni (più Pittari) mi pare abbiano sfangato con onore, nell’indifferenza generale.

Dopo il breve incontro fra Imogene e Adele, aperto (45’00”) da 8 mirabili battute strumentali in SIb (non si saprebbe se farle risalire a Bach o anticipare Mendelssohn...) dove Adele ha preannunciato alla sua Signora la visita di Gualtiero (modulando a SOL minore) si arriva alla corposissima scena dell’incontro fra i due amanti (46’45”). Il recitativo accompagnato dei due sfocia (50’54”) in una pregevole frase in LAb maggiore di Imogene (Se un giorno fia che ti tragga) che la Yoncheva espone con bel portamento. Frase musicale che subito dopo è ripresa un tono sopra (SIb) da Gualtiero (51’45”, Voce suonava un giorno): qui Pretti ha una partenza difficoltosa sull’intonazione, poi però si riprende discretamente. Si modula ancora in alto di un tono intero (DO maggiore, 52’16”) e Imogene (Tu sciagurato) invita Gualtiero a fuggire dalla casa di Ernesto, nome che la Yoncheva scandisce efficacemente (con forza) su una discesa di quattro veloci gruppi di semicrome. La tonalità è virata a SOL maggiore per la risposta di Gualtiero (Lo so, 52’47”) sostenuta dai violini su un inciso anapestico, che si ripeterà ancora nel seguito del duetto, la cui tonalità modula ancora (53’44”) a FA maggiore dove Imogene (Il genitor dolente) va a chiudere la sezione con una pregevole scala discendente (dal LA acuto al DO sotto il rigo). Ora inizia (55’11”, DO minore) una nuova sezione del duetto con Gualtiero (Pietosa al padre) che accusa di crudeltà Imogene, la quale (56’47”, Ah tu, d’un padre antico) si difende ricordando lo stato di necessità (scegliere lui o il padre) che l’aveva imprigionata, difesa che però non convince Gualtiero. Il quale modulando a DO maggiore (57’58”, Vivea vivea per te soltanto) conduce insieme a Imogene alla conclusione di questa sezione del duetto, accolta ancora da moderati applausi. Segue il drammatico arrivo del figlioletto di Imogene, che Gualtiero vorrebbe sopprimere, convinto poi dalla donna a desistere dall’insano proposito. Inizia qui (1h00’26”) ancora in DO maggiore, la parte conclusiva del duetto, con Gualtiero (Bagnato dalle lacrime) che reitera le sue accuse ad Imogene, che invece (Non è la tua bell’anima, 1h01’01”) gli riconosce l’antica nobiltà d’animo. Anche qui la Yoncheva sembra assai a suo agio, un po’ meno Pretti, che comunque - prendendo fiato a scapito di qualche battuta - stacca con lei un apprezzabile DO acuto, trascinando il pubblico ad applausi abbastanza convinti.  

Segue il recitativo fra Imogene e Adele, mentre si ode sopraggiungere il corteo che riporta a casa Ernesto, dopo la vittoria sui pirati di Gualtiero. Il coro in FA maggiore che segue, aperto da un’introduzione strumentale piuttosto leziosa (1h05’04”) ha un portamento nobile, ma anche (1h07’40”) passaggi da marcetta accompagnata dalla banda del paese. Frizza e Casoni lo accorciano opportunamente di 25 battute di ripetizione.

Finalmente (1h08’56) fa la sua entrata in scena anche il terzo protagonista del triangolo amoroso, il Duca Ernesto, cui Nicola Alaimo subito cerca di dare l’importanza che merita (Sì, vincemmo). La sua aria in FA - con tanto di ripetizione - accompagnata dal coro, anticipa future conquiste belliniane per baritoni e bassi. Alaimo mostra fiero cipiglio e non demerita nemmeno sui virtuosismi cui Bellini lo chiama. Certo la voce è troppo chiara per fare la parte del cattivone, si adatta meglio ai Dulcamara o anche ai Falstaff, oltre che ai tanti buffi di rossiniana memoria, tuttavia il pubblico ha per lui solo applausi. 

Segue l’incontro di Ernesto con Imogene (1h15’11”) un recitativo di cui vengono tagliate - inspiegabilmente - 9 battute: il Duca si meraviglia dello stato depresso della moglie, alla quale domanda conto dell’aiuto portato ai naufraghi, che arrivano al suo cospetto (1h16’55”). La scena - prevalentemente in DO maggiore - è occupata dall’interrogatorio di Ernesto a Itulbo, che si è presentato come il capo dei pirati, per proteggere Gualtiero. Ci troviamo poi un’esternazione - in SOL maggiore - di Ernesto (1h18’06”) che decide di tener prigionieri i naufraghi; e poi una (ancora in DO) di Imogene (1h18’49”) che chiede invece al consorte di consentire loro di tornare alle loro terre, permesso subito accordato. 

Ha inizio ora il quintetto (con coro) che porterà alla conclusione dell’Atto. Vi sono impegnati - in LA minore, con modulazioni a maggiore - dapprima (1h19’36”) Gualtiero (che si rivolge a Imogene, chiedendole un’ultima udienza, pena qualche strage che lui metterà in atto) ed Ernesto (che mette i suoi sgherri sull’avviso, avendo sospetti sui naufraghi e su nuovi possibili sbarchi nemici). Quindi interviene Imogene (che risponde a Gualtiero, implorandolo di desistere dai suoi propositi). Ecco poi entrare anche Adele, Itulbo e il coro, che contrappuntano le esternazioni dei tre protagonisti. Alla chiusa in LA maggiore (1h23’38”) ancora applausi non fragorosi (e con qualche sommesso ululato in sottofondo...)  

Attacca poi (1h23’53”) la stretta finale del quintetto, introdotta da un recitativo in FA dove Gualtiero tenta di aggredire Ernesto, ma ne viene impedito da Itulbo e Goffredo, mentre Imogene quasi sviene ed Ernesto ordina venga accompagnata nelle sue stanze. Imogene (1h25’00”, Ah, partiamo, in SIb minore) attacca la stretta, incalzata subito da Adele, Gualtiero, Ernesto, Itulbo, Goffredo e coro, che modulando a SIb maggiore innescano (Infelice, quali accenti, 1h25’35”) il crescendo già udito nell’Ouverture. Dopo un drammatico rallentando, Imogene (1h26’16”) riattacca la stretta (SIb minore) e quindi riecco (1h26’46”) il crescendo in SIb maggiore, che qui viene tagliato di 22 battute (di ripetizione, incluso il vocalizzo del soprano). Alla chiusa ancora applausi abbastanza convinti. 

La registrazione porta direttamente al secondo atto (1h28’24”) e manca quindi la testimonianza del trattamento riservato dal pubblico a Frizza al rientro: personalmente non ricordo di aver udito per radio alcuna contestazione al Direttore.

L’atto inizia con un Coro introduttivo in DO maggiore, tempo 6/8, protagoniste le damigelle di Imogene, con Adele in primo piano, preoccupate per lo stato di prostrazione in cui versa la Signora. La sezione femminile del coro di Casoni lo interpreta con apprezzabile leggerezza e Marina de Liso ha modo di mettere in mostra le sue buone qualità. Adele invita ora (1h32’12”) Imogene a recarsi all’appuntamento con Gualtiero: lei dapprima recalcitra, poi si decide, ma in quel momento arriva Ernesto. Segue un recitativo (1h33’49”) in cui Ernesto accusa la moglie di sfuggirlo, e alle rimostranze di lei, la accusa apertamente per il suo amore per Gualtiero. Imogene lo accusa di crudeltà, ricordandogli di avergli dato un figlio, ma Ernesto (1h36’03”) attacca in LA maggiore il duetto (Tu m’apristi in cor ferita) tacciandola di empietà e iniquità. Imogene gli ribatte (1h37’40”) che il suo amore per Gualtiero era ben noto a tutti, quando lui la strappò al padre e pretese di averla in moglie senza essere amato. Ernesto (1h39’21”) ora ha avuto la sua confessione e rincara la dose (L’ami? Parla... l’ami?) Imogene si difende (1h39’46”) degradando la tonalità di un semitono, a LAb, riconoscendo di amare Gualtiero, ma di un amore senza più speranza, quello che si prova per un defunto. Ora si è passati in FA maggiore e in tempo Larghetto (1h41’27”) i due cantano i rispettivi moti dell’animo, dapprima per terze, poi (1h42’26”) disgiunti, poi ancora insieme. C’è un piccolo taglio di 7 battute (una ripetizione) prima dei due vocalizzi (lei e poi lui) che chiudono questa sezione del duetto. Ernesto - siamo passati a DO maggiore - riceve una missiva (1h44’52”) che lo informa della presenza di Gualtiero nel palazzo e va su tutte le furie, chiedendo invano alla moglie di rivelargli dove l’amante si nasconda. Inizia quindi, tornando a LA maggiore (1h46’00”) la parte conclusiva del duetto, con i due coniugi che manifestano gli opposti stati d’animo: lei teme una carneficina, quella che lui sta ostentatamente programmando. Qui ci sono due tagli (18+16 battute) che levano parecchie castagne dal fuoco ai due cantanti, risparmiandogli il fiato per esibirsi in un un LA acuto finale, non scritto in partitura e, per quanto riguarda il baritono, tanto velleitario quanto estraneo al personaggio. Il pubblico applaude moderatamente (ma Alaimo forse avrebbe meritato qualche dissenso, diciamolo pure).  

Siamo ora tornati da Gualtiero. Gualtiero ingaggia un recitativo - che si muove fra le tonalità  di LA minore, DO e MIb maggiore - con Itulbo (1h47’59”) durante il quale manifesta il proposito di incontrare a tutti i costi Imogene, vanamente sconsigliatone dal compagno. E proprio in quel momento compare la donna (1h49’33”) intenzionata a convincere Gualtiero a fuggire. Invano, chè lui conferma i propositi di prenderla con sè o morire. Inizia qui (1h51’28”) il duetto (che poi diverrà terzetto con il sopraggiungere di Ernesto). Gualtiero, in DO maggiore, invita Imogene a fuggire con lui (Vieni, cerchiam pe’ mari) chiuso da una salita (non scritta, ma efficace) al DO acuto. La risposta di Imogene (1h59’33”, Taci, rimorsi amari) arriva sulla stessa linea melodica, ma dopo una modulazione a LA maggiore: la donna prefigura i rimorsi che coglierebbero lei e l’amante per il resto della loro esistenza. I due (1h55’36”) ancora si scambiano opposti propositi, ma sta sopraggiungendo Ernesto (1h56’36”) che già pregusta il piacere di catturare Gualtiero. Qui inizia (1h56’55”) il terzetto vero e proprio, in tonalità di RE, poi di LA maggiore: Gualtiero si prepara al peggio (Cedo al destin orribile) e a sfidare la morte; Imogene ancora lo supplica di desistere; Ernesto (ancora non visto dai due) già prefigura una punizione esemplare per i fedifraghi. Qui mi pare che Frizza trattenga eccessivamente i tempi, i tre sono impegnati anche in alcuni virtuosismi che culminano, per tenore e baritono, in due non facili cadenze, sulla prima delle quali Pretti raggiunge (2h00’35”) con qualche affanno il RE acuto (questo scritto in partitura) mentre Alaimo (2h00’50”) cala vistosamente (MIb al posto di MI naturale) sul culmine della sua. Anche qui c’è un applauso non certo entusiasta. Attacca ora (2h01’38”) la parte conclusiva del terzetto. Gualtiero ancora indugia, ma Ernesto si palesa e fra i due si ingaggia una reciproca sfida mortale. Siamo ora alla stretta finale (2h02’51”) in DO maggiore, tutta su un ritmo puntato che ben evoca l’agitazione dei tre. La conclusione è, diciamo così... semplificata.

Ora abbiamo il recitativo di Imogene e Adele 2h04’47”): questa cerca di calmare la Signora, che invece vorrebbe precipitarsi per separare i due litiganti, marito e amante. Ci si muove da DO a RE minore, LA minore per tornare a DO maggiore. Le ultime 12 battute strumentali vengono tagliate, per passare direttamente (2h06’01”) alla scena successiva, che ci presenta già il risultato del duello fra i due contendenti: Ernesto ha evidentemente avuto la peggio, visto che i suoi guerrieri gli stanno facendo il funerale... Dopo l’introduzione strumentale, che va dal SOL a DO maggiore, ecco il coro (2h07’16”) cantare l’elogio funebre del Duca. Per un po’ Frizza tiene il tempo maestoso, effettivamente adatto ad un mortorio (pur se in DO maggiore...); poi però a un certo punto accelera vistosamente, e il coro si chiude con passo garibaldino.

Arriva ora Gualtiero (2h09’56”) accolto da improperi dei sudditi di Ernesto; ma lui getta la spada e si offre alla vendetta dei nemici; i quali tuttavia gli vogliono assicurare un giusto processo (!) Lui li sprona a far presto, altrimenti potrebbe pentirsi... E canta, rivolto ad Adele, la sua aria con coro in DO maggiore (Tu vedrai la sventurata, 2h12’00”). Pretti non se la cava poi troppo male, cerca anche di dare un po’ di espressione al canto, sale al DO acuto, e così alla fine, fra gli applausi, spunta anche un bravo! Segue un breve recitativo (2h15’32”) che prepara la sezione finale, sempre in DO, dell’aria di Gualtiero (Ma non fia sempre odiata, 2h16’48”). Anche qui Pretti mostra buona saldezza di voce, si permette anche di chiudere con un DO acuto non scritto, e gli applausi si ripetono.

Soppresso il breve recitativo di Adele e damigelle, che compiangono Gualtiero, ecco arrivare la scena finale (davvero la scena-madre) dell’opera (2h21’18”) aperta da un richiamo di corni in FA maggiore, cui segue un breve preludio caratterizzato da arcane sonorità e chiuso da un cupo accordo dell’orchestra. L’arpa attacca (2h22’35”) la mesta introduzione del corno inglese (in FA minore) all’ingresso in scena di una vaneggiante Imogene (2h25’04”) che canta un breve e straniato recitativo, compianta dalla fida Adele. Poi (2h26’57”, Ascolta) si imbarca nella narrazione di un sogno, un incubo, una visione tragica, il corpo trafitto di un uomo, non Gualtiero, ma Ernesto, che, sulla ripresa della melodia, reclama il figlio... E lei il figlio l’ha salvato e lo trascina verso il padre. Il figlio in carne ed ossa le viene portato e lei (Deh, tu innocente) lo abbraccia e lo bacia, chiedendogli di implorare al padre il perdono per lei.

Attacca ora (2h30’04”) l’aria più famosa dell’opera (Col sorriso d’innocenza): dopo l’introduzione del flauto, ecco Imogene (2h31’00”) rivolgersi al figlio perchè interceda per lei con il genitore. Il suono del gong (2h33’46”) avverte che la sentenza contro Gualtiero è stata emessa. Lo conferma subito (2h34’20”) il coro dei guerrieri e Imogene (2h35’23”, Oh sole, ti vela) vorrebbe scacciare la visione dell’amante decapitato. La Yoncheva regge discretamente lo sforzo, anche se stranamente evita (2h36’16”, D’orrore morrò) il DO acuto, fermandosi al SIb. Dopo il pertichino del coro, si ripete la strofa e la frase Oh sole (2h36’51”) e lo stesso abbassamento da DO a SIb (2h37’49”) già registrato prima. DO che viene passabilmente cantato sulla chiusa, accolta da applausi abbastanza intensi.

Ora, nella registrazione incriminata non ci sono le accoglienze finali, che hanno visto sonore contestazioni ad Alaimo, poi a Frizza e infine al regista Sagi. Per quel che posso giudicare dalla ripresa audio (sempre poco fedele, per definizione) queste contestazioni al baritono e al Direttore mi sono parse quanto meno eccessive, per non dire premeditate, ecco: possibile che durante tutta la serata non si sia udita una sola voce di dissenso, ma esclusivamente (sia pur moderati) applausi e poi soltanto alla fine esplodano contestazioni così vivaci?
___
Chiuso l’esame (ormai virtuale, ahimè) della prima, vengo a ieri sera, raccontando subito del citato giallo prima dell’inizio del second’atto: l’intervallo si è protratto per almeno 20 minuti supplementari, il che ha dato la stura alle più svariate congetture (malore di qualche interprete, o magari uno sciopero selvaggio di sezioni dell’orchestra...) finchè Pereira (maleducatamente accolto da improperi dal loggione, subito rintuzzati dal soprintendente) ha annunciato l’indisposizione di Pretti (un calo di pressione, ufficialmente). Ma aggiungendo che il tenore avrebbe comunque proseguito la recita.

In effetti Pretti lo ha fatto, ma cantando quasi sempre da seduto (su sedie, poltrone, persino alla base del sarcofago di Ernesto) a conferma delle sue precarie condizioni. Sulla sua prestazione di ieri nel second’atto sarà doveroso astenersi da giudizi di merito, ma va comunque dato atto al tenore di aver fatto il possibile per garantire un livello dignitoso alla sua performance (sono mancati gli acuti, per comprensibili ragioni).

Per il resto devo dire che ieri l’accoglienza ai singoli numeri e quella finale sono state assai calorose per tutti (per Frizza anche al rientro dopo la pausa) con ovazioni - per Yoncheva e il Coro in testa - che si sono aggiunte agli applausi, sia alle uscite di gruppo che a quelle singole. Per me nel complesso - pur tenendo conto della menomazione di Pretti - si è trattato di una performance musicale più che accettabile, fatte le riserve che ho espresso via via lungo l’esame della prima. In sostanza, una riproposta che personalmente ritengo meriti ampia sufficienza.
___
La messinscena è francamente - a mio modesto parere - ingiudicabile, nel senso che pare del tutto estranea al soggetto in questione. È già una fortuna che gli sia semplicemente estranea e non pervicacemente offensiva, ecco. La pagina di Note di regìa pubblicata sul programma di sala (contiene un sunto della posizione di Sagi) è un condensato di banalità e insensatezze: precisamente ciò che si vede in scena.