Finalmente
si torna (almeno per una volta) in città! Il rinnovato, dopo mille peripezie
non proprio edificanti, Auditorium Scavolini (ex-Palafestival di buona
memoria…) ha ospitato il ritorno sulla scena di Bianca&Falliero, ieri alla sua
ultima recita (per la verità con molti posti vuoti…) che ha confermato in generale
la buona impressione lasciata dall’ascolto radiofonico della prima.
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Felice
Romani,
oltremodo legato alla tradizione classica, confezionò (ispirandosi a Blanche
et Montcassin di Antoine-Vincent Arnault, una tragedia dal finale a
dir poco macabro) una storia a lieto fine, con tratti di pièce-à-sauvetage
(lei che sfida l’autorità costituita per salvare lui dalla forca).
Un
soggetto che su una base pseudo-storica (conflitto Venezia-Spagna nel secolo
XVII) innesta in realtà la vicenda dei burrascosi rapporti di potere/denaro
(Contareno-Capellio) e sentimentali (Bianca, Capellio e Falliero).
L’opera
arrivò alla Scala (26 dicembre 1819) a soli due mesi di distanza da La donna
del lago (24 ottobre, SanCarlo) e con essa ha qualche vaga rassomiglianza
proprio sul versante degli affetti.
E
non solo per l’auto-imprestito musicale del finale, con Tanti affetti
(appunto!) che da Elena passa - non pari-pari come avverrà al Maometto
veneziano, ma con opportune varianti - a Bianca (Teco io resto) ma anche
per quanto riguarda la vicenda, diciamo, sentimentale, caratterizzata da un
triangolo che vede al centro la donna (Elena/Bianca) e due suoi spasimanti (Malcom/Giacomo
e Falliero/Capellio). In entrambi i casi la donna (sempre un soprano) resta fedele
fino alla fine al suo amato, un militare eroico ma piuttosto squattrinato
(Malcom/Falliero, contralti en-travesti) rifiutando di unirsi all’altro
spasimante, assai più facoltoso e potente (Giacomo/Capellio, tenore/basso).
Storici
e critici del teatro musicale non concordano nemmeno su come l’opera fu accolta,
e meno ancora sulle cause di tale ricezione. Di (quasi) certo c’è che la
critica paludata fece pollice-verso, trovando l’opera antiquata di concezione (libretto)
e raffazzonata con furbeschi auto-imprestiti (musica). La trentina di repliche
sembrerebbe invece avallare la tesi di una ricezione positiva del pubblico. Sta
di fatto che fu Rossini per primo a non essere pienamente soddisfatto
dell’esito di questa operazione, dalla quale evidentemente si aspettava assai
di più.
E
che si aspettasse di più lo si deduce, secondo il mio modesto parere, proprio
dai contenuti musicali dell’opera. Opera grandiosa sotto tutti gli aspetti; da
quello della lunghezza (dove credo sia seconda solo al Tell) a quello della
forma, che ad un ascolto non superficiale appare come caricata di (eccessiva?)
enfasi: tempi assai sostenuti, declamati ieratici e complesse e interminabili (per
quanto mirabili) cadenze corali o virtuosistiche. In poche parole, un’opera esagerata,
e troppo… classica, mentre il romanticismo ormai bussava alla porta (o già la
stava sfondando)!
Insomma,
è come se Rossini, anche per rispetto all’ambiente che gli aveva commissionato
l’opera, volesse ricompensare il pubblico milanese sciorinandogli il meglio
della sua arte, nel pieno rispetto della tradizione che veniva, come minimo, da
Gluck, Mozart e Cherubini.
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Roberto
Abbado (a
mani… nude) e la OSN-RAI hanno avuto il merito di tenere sempre sufficientemente
alta la tensione, che rischierebbe di allentarsi pericolosamente proprio a
causa dei lunghi momenti dal sapore fin troppo sostenuto e pomposo di cui è
infarcita quest’opera ipertrofica (caratteristiche che la regìa, al contrario
del Direttore, ha francamente un po’ troppo assecondato). Qualche eccesso di
decibel ha saltuariamente impedito alle voci di passare adeguatamente,
ma forse la cosa può anche dipendere dall’acustica dell’impianto, che non mi è
parsa proprio eccellente, ecco.
Come
per Ermione, Giovanni Farina ha guidato il Coro del Teatro Ventidio
Basso ad una prestazione di alto livello, confermando di aver raggiunto
gran dimestichezza con Rossini, ormai acquisita dopo anni di regolare presenza
al ROF.
Come
già alla prima, è stata Jessica Pratt a raccogliere i maggiori
consensi. Perfettamente calata nel personaggio di Bianca - solo apparentemente
remissivo, ma capace poi di ribellarsi all’asfissiante autorità paterna, come
una moderna femminista – la giunonica australiana ne ha messo in risalto tutte
le qualità musicali, sia tecniche (colorature e vertiginosi virtuosismi) che
interpretative (sogni, apprensioni, slanci amorosi, momenti di disperazione e
temerarie iniziative).
Va
da sé che il pubblico si sia esaltato ai suoi acrobatici sovracuti (i DO# e
persino un MI naturale, nei passaggi in LA maggiore) e i DO, RE e MIb, l’ultimo
dei quali ha chiuso in modo spettacolare (ma forse di un… secondo più breve
rispetto alla prima) il finale rondò.
Aya
Wakizono
ha nesso in mostra la sua bella voce, calda e sempre ben impostata, ma assai
sbilanciata nel timbro e nell’estensione, non proprio da contralto. Così, a
fianco della Pratt (e non solo per via del suo fisico mingherlino) pareva la
sorellina minore (DO acuti a profusione) e non l’eroe guerriero e autorevole.
Ma a parte questo, la sua è stata una prestazione di livello più che
apprezzabile, che ha toccato il culmine nella massacrante scena dal carcere
(cavatina e successiva aria) lungamente applaudita.
Ai
due protagonisti maschili Rossini riservò un trattamento apparentemente
bizzarro: al maturo padre-padrone di Bianca (Contareno) la voce di
(bari-)tenore, e al più giovane, innamorato della figlia (Capellio) quella di
basso(-baritono)! Ecco, le due voci ascoltate qui sono sbilanciate verso l’alto
(la prima) e verso il basso (la seconda) e ciò mi pare non abbia giovato a
nessuno dei due personaggi. Ai cui interpreti peraltro va riconosciuto di aver
professionalmente dato il meglio di sé.
Dmitry
Korchak,
da veterano ormai del ROF, ha messo voce e mestiere al servizio del personaggio
del rude Contareno. Che con lui appare per la verità un po’ meno rude… per via
della voce di tenore lirico del cantante-direttore russo (nel 2025 tornerà sul
podio per l’Italiana). Come per la Wakizono, anche per lui ampi e meritati
consensi.
Giorgi
Manoshvili
impersona Capellio, uomo di solidi principii e di grande nobiltà d’animo:
sinceramente innamorato di Bianca, ma pronto a difenderne i diritti al costo di
perderla. Ma soprattutto, uomo ancora abbastanza… giovane! Ebbene, la resa
musicale del personaggio lascia qualche dubbio proprio per l’eccessiva gravità
(leggi: cavernosità) del suono che esce dalle labbra del basso georgiano,
paradossalmente più appropriato per il ruolo di un maturo cattivone (!) Ma
anche a lui il pubblico non ha lesinato consensi.
Più
che onorevoli le prestazioni dei comprimari: la fedele Costanza di Carmen
Buendìa, il severo e autorevole Doge di Nicolò Donini, il premuroso cancelliere
Pisani di Dangelo Dìaz e il messo/usciere di Claudio Zazzaro.
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Lo
spettacolo di Jean-Louis Grinda si colloca, come ambientazione (scene,
costumi e oggetti di Rudy Sabounghi, illuminati
anonimamente da Laurent Castaingt) nell’alveo di una generica modernità:
all’inizio, dove incombe l’invasione spagnola, un maxischermo TV invia immagini
di scene di guerra o del tipo Roma-città-aperta (ma ambientato in Spagna…)
alternate a proiezioni di carte geografiche militari e di annunciatrici TG che
ragguagliano sulle operazioni belliche. Per il resto vediamo gente abbigliata
come oggi, o come 50 anni fa, o con cineprese anche più antiche…
La
gestione, come si dice, delle masse è proprio da saggio-di-fine-anno:
movimenti ridotti all’osso, spesso quadri da tableau-vivant, così da
permettere ai coristi di pensare a cantare (assai bene, come detto) invece che
a simulare gli atteggiamenti più disparati. Gli interpreti paiono essere liberi
a loro volta di mettersi nei panni dei personaggi un po’ come pare a loro,
ecco.
Domanda:
ma chi è mai la vecchia babbiona che compare nella scena d’esordio di Bianca e
poi ritorna nella scena finale? Ah, saperlo, si accettano scommesse: è sua
madre, prostrata dalla convivenza con il marito-padrone Contareno? Oppure è la
stessa Bianca, come sarà ridotta (a proposito di improbabili lieti-fini)
dopo vent’anni di convivenza con Falliero?
A
parte questa trovata che ci ha tolto il sonno, Grinda se ne esce senza infamia
e senza lodi, benevolmente ignorato dal pubblico.
Che
invece ha gratificato la compagnia di canto e suono con lunghi e meritatissimi
applausi