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17 agosto, 2025

ROF-2025 live. Zelmira.

Eccomi quindi a commentare la mia prima di questo ROF-46, Zelmira. Purtroppo con una nota assai poco positiva: l’Auditorium Scavolini era occupato sì e no al 50-60% della sua capienza nominale! Brutto segno davvero…

L’allestimento di Calixto Bieito con i collaboratori Barbora Horàkovà (scene) Ingo Krügler (costumi) e Michael Bauer (luci) è davvero insolito e presenta qualche vantaggio e molti lati negativi, proprio rispetto alla fruizione musicale: cantanti che, ovunque siano rivolti, danno le spalle a metà del pubblico, protagonisti e cori che girovagano per tutto l’Auditorium, salendo e scendendo le scale delle gradinate e i praticabili della pedana (buche riempite di terra o acqua…) Insomma, una kermesse più che uno spettacolo. Con notevoli dosi di Kitsch e vaghi riferimenti a problematiche LGBTQ+ (Antenore&Leucippo!) Diciamo, una roba proprio da luogo di Festival, inimmaginabile in un teatro tradizionale. Comunque le contestazioni alla prima non si sono ripetute, anche perché mancava la… materia prima contestabile.  

Giacomo Sagripanti a sua volta è alle prese – date le circostanze - con problemi non banali di accompagnamento delle voci, che si trovano sempre in punti diversi del catino del palazzetto: non di rado il suono dell’orchestra finisce per coprirle, almeno a quella parte pubblico cui il cantante volge le terga… A parte ciò, direi che sia stata una direzione all’altezza del valore della partitura.

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Dopo l’esordio del solido coro del Ventidio Basso (guidato da Pasquale Veleno) che annuncia la morte di Azor, arriva Gianluca Margheri (Leucippo, esecutore materiale dell’omicidio) e ipocritamente esterna il suo stupore. Lo segue Enea Scala (Antenore, il mandante dell’omicidio) ancor più ipocrita nella sua cavatina Odo le tue querele, dove non deve salire oltre il SI naturale, che promette vendetta contro… se stesso (aria Sorte, secondami) dove non deve salire oltre la dominante LA. Ma la voce non è delle più pulite, per vibrato e stabilità di intonazione, il che gli garantisce applausi di circostanza

Dopo che i due pipistrelli si sono reciprocamente complimentati del golpe perfettamente riuscito, e dell’incolpamento della morte del padre Polidoro della Regina, incontriamo appunto la povera Anastasia Bartoli (Zelmira) che subito deve difendersi dalle accuse di parricidio mossegli dalla nutrice Marina Viotti (Emma). Le due si rincorrono forsennatamente attorno alla pedana, contemporaneamente cantando le loro ragioni…

Eccoci quindi alla scena nella cripta, dove incontriamo Marko Mimica (Polidoro) che si presenta con la cavatina Ah! già trascorse il dì, mostrando voce profonda e ben impostata. Arrivate Zelmira ed Emma, ecco il terzetto (Soave conforto / Le braccia mi stendi / Da gioia e stupore / O grato Momento) che poi sfocia nel finale (Se trova in te scampo) lungamente applaudito.

Ecco ora arrivare, introdotto dal coro, Lawrence Brownlee (Ilo, marito di Zelmira) che esordisce con la cavatina (Terra amica) dove deve salire una prima volta al RE sovracuto, dominante del SOL di impianto (…era il dolce mio pensier…) Ecco poi la celebre, impervia cabaletta in DO maggiore (Cara, deh, attendimi) dove ci sono ben tre RE sovracuti (sopratonica del DO) sui versi nel tuo bel seno (due volte) e poi sul verso da te lontano (questo però Brownlee lo abbassa al SI…) Poi i DO sovracuti conclusivi. La voce passa bene a dispetto delle pose che il cantante, che pare un soldato disertore e distrutto e non un eroe di guerra, è costretto ad assumere. Lunghi applausi per lui alla fine del massacrante impegno.

Si presenta qui il bravo tenorino Paolo Nevi (Eacide) chissà perché dotato di bianche, angeliche ali, che fa buona mostra di sé, glorificando il capo Ilo (Godi, o signor).

Ora abbiamo il drammatico incontro fra l’entusiasta Ilo e la preoccupata Zelmira, caratterizzato dal duetto (Ah! se caro a te son io / Quanto costa al labbro mio) in SOL maggiore, dove il tenore ancora deve salire al RE e al DO sovracuto (…della mia felicità).  

La situazione precipita: Leucippo ha sparso la voce calunniosa contro Zelmira, che ora è in pericolo mortale: riprende così il duetto in MIb maggiore (Che mai pensar? che dir? / Come parlar? che dir?) chiuso fra gli applausi con l’intervento di Emma (Sorte spietata) e delle donzelle di Zelmira.

Segue la scena di Antenore e Leucippo che pianificano di far secchi anche Zelmira, Ilo e il loro figlioletto. Arriva Ilo, sempre più dimesso e disperato nell’aver conferma dalle calunnie dei due della colpevolezza e del tradimento della moglie, accuse cui rincara la dose Antenore (Mentre qual fiera ingorda) che dipinge Zelmira come una pericolosa strega. Qui Scala deve toccare, per un paio di volte, e con un certo sforzo, il SI naturale.

I Sacerdoti certificano il diritto al trono di Antenore, che esulta con una cabaletta (Ah! dopo tanti palpiti) in LA maggiore, dove ghermisce, sempre a fatica, il DO# sovracuto. Ma gli applausi del pubblico non mancano certo.

Zelmira affida ad Emma il figlioletto cui dà un mesto addio in FA minore (Perché mi guardi e piangi) accompagnata da arpa e corno inglese. Che poi fanno da sottofondo al delicato duetto fra le due (Ah! chi pietà non sente). Convinti applausi del pubblico a interpreti vocali e… strumentali!

Ora Antenore viene incoronato - Si fausto momento nei  cori, in un tronfio RE maggiore - Re di Lesbo, e non manca il suo discorso di insediamento (Sì, figli miei, di Lesbo) cui segue l’incoronazione (Qual fronte illustre) da parte di Shi Zong (Gran Sacerdote) abbigliato in… mutande (!?) per cantare i suoi tre versi, a cui tiene enfatico e retorico bordone (Regga lo scettro aurato) Leucippo.

Si arriva alla scena madre del tentativo di Leucippo di far secco Ilo, con l’intervento di Zelmira che gli strappa il coltello, ma che Leucippo prontamente fa passare agli occhi di Ilo come la moglie decisa ad ammazzarlo. Bieito risolve il tutto in modo incomprensibile, con Zelmira che imbraccia il coltello prima ancora di Leucippo. Poi Brownlee deve ancora esibirsi in un DO# sovracuto nel suo intervento Numi, qual nero… Poi il terzetto si conclude in un tutti-contro-tutti.

E siamo finalmente alla conclusione del lunghissimo primo atto. L’orchestra ribolle in forsennate note ribattute, poi tutto si calma e inizia il finale concertato (La sorpresa... lo stupore). Antenore (Alla strage ognor ti guida) pronuncia accusa e sentenza (per gli omicidi di Azor e Polidoro) contro Zelmira, trascinata via in catene, in un’atmosfera di giubilo e insieme di tragedia, ma tutto in RE maggiore. Scroscianti applausi per tutti.

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Il secondo atto si apre con il conciliabolo fra Enea Scala (Agenore) e Gianluca Margheri (Leucippo) che informa il suo mandante del contenuto di un messaggio di Zelmira inviato dal carcere al marito, dal quale si evince che Re Polidoro è tuttora in vita: i due decidono che liberare Zelmira e seguirne i passi servirà a chiarire l’arcano e a mettere le mani anche sul vecchio Re.

Dopo un delicato coretto di donzelle (Se alcuno scopreci) torna ora in scena Marina Viotti (aka Emma) per sciorinarci – con arpa e corno a supporto - l’aria Ciel pietoso, ciel clemente, che Rossini scrisse per la prima viennese a beneficio di tale Fanny Eckerlin, contralto in auge nella capitale austriaca. Emma consegna il figlioletto di Zelmira a fide ancelle perché lo proteggano dai propositi omicidi del duo mafioso Antenore-Leucippo. Poi, rassicurata dalle ancelle (Non temer…) chiude la scena, accompagnata dal coro, con la cabaletta Ah se è ver, di quel ch'io sento. Qui la Viotti si merita un lungo applauso per l’impeccabile resa di questo cammeo davvero prezioso.

Passiamo ora all’incontro fra Lawrence Brownlee (Ilo) e Marko Mimica (Re Polidoro): il primo, disperato credendo Zelmira fedifraga, e il secondo che lo convince del contrario. Ilo manifesta la sua esultanza alla notizia ingaggiando con il suocero il duetto in MI maggiore In estasi di gioia / Di tante pene e tante, dove Ilo tocca diversi SI e anche un DO# sovracuto. Meritati gli applausi per i due.

Ilo si lancia fuori per liberare Zelmira, che, nella scena con Emma, si domanda la ragione della sua liberazione. Antenore e Leucippo la scoprono e le strappano il segreto del luogo dove Polidoro è nascosto. Il Re vien quindi catturato e ne nasce un quintetto (Emma, Zelmira, Leucippo, Antenore, Polidoro) con lo sfogo di Antenore Nei lacci miei cadesti (con DO sovracuto) e l’implorazione di Zelmira (Me sola uccidi...) chiuso da Ah! m'illuse un sol momento. Ottima la resa di tutti, accolti dall’applauso del pubblico.

Arrivano i guerrieri invasori con le ceneri di Azor e Antenore/Leucippo subito incolpano Zelmira del misfatto (Ecco la perfida!) Polidoro la difende e così entrambi vengono riportati in carcere, ma certi che giustizia trionferà (De' nostri torti il vindice) cui si contrappone (Ma de’ celesti il fulmine) la coppia Antenore/Leucippo. Emma, Polidoro e donzelle chiosano con O desolata patria. Il grande concertato si chiude fra scroscianti applausi.hh

Ritorna Ilo, che viene avvertito da Emma dell’imprigionamento di moglie e suocero. Si arriva quindi alla scena del carcere, qui proposta nella versione originale (non in quella parigina del 1826, versione Giuditta Pasta…) Zelmira risveglia Polidoro e rimpiange il mancato intervento di Ilo, mentre Antenore e Leucippo si apprestano ormai a giustiziarli. Tutto sembra perduto quando si odono strepiti di guerra: sono i patrioti di Lesbo, guidati da Ilo, che sono insorti contro invasori e usurpatori. Antenore cerca ancora di uccidere Polidoro, ma è Zelmira (Non ti appressar!) ad impedirglielo, estraendo un pugnale. Ilo fa irruzione, spiegando come il popolo abbia sopraffatto le schiere nemiche. Ad Antenore e Leucippo non resta che imprecare contro il destino cinico e baro, mentre Anastasia Bartoli (Zelmira) si abbandona ora, intonando la sua grande aria Riedi al soglio, al giubilo per lo scampato pericolo. Siamo alla stretta finale, con il rondò Deh circondatemi, miei cari oggetti! con il quale Zelmira e tutti esultano per il lieto fine.

E il lieto fine si trasforma in un gran trionfo per tutti, singoli e masse, con ripetuta passerella intorno alla buca dell’orchestra. Trionfo supplementare per la Bartoli, al suo compleanno n°… (non si dice l’età delle signore, al massimo che è ancora negli …enta).

Peccato proprio per la scarsa affluenza: lo spettacolo tutto sommato meritava di più.


11 agosto, 2025

ROF-2025 alla radio (1-3).

Zelmira ha aperto ieri sera a Pesaro (Auditorium Scavolini) il 46° Rossini Opera FestivalCome ormai accade da tempo immemorabile, Radio3 ha trasmesso in diretta l’evento (e trasmetterà domani e dopo - ore 20 - anche le due altre prime serate del cartellone principale). Anche Oreste Bossini ha ormai assunto in pianta stabile la responsabilità (che per lunghi anni fu di Giovanni Vitali) della presentazione e dei commenti allo spettacolo.

Lasciando ovviamente il giudizio sull’allestimento di Bieito (per il quale rimando ad un successivo scritto, dopo visione in-corpore-vili) comincio con il segnalare che, contrariamente alle (mie…) previsioni, ma anche alla prassi seguita fin qui nelle due precedenti proposte (1995 e 2009) la versione presentata è quella che si può identificare come Vienna-1822, e non quella di Parigi-1826. Il che significa, in sostanza, che nel finale mancano l’aria di Zelmira (Da te spero, oh Ciel clemente) e la successiva scena mutuata da Ermione, cabaletta (Dei, vindici ognor voi siete) compresa. Ma ciò è evidentemente contemplato, come possibile scelta, dall’Edizione critica della Fondazione Rossini, ragion per cui il ROF può aver deciso di presentarla come primizia di questa edizione del Festival.

La direzione di Giacomo Sagripanti (Barbiere 2014, Ricciardo£Zoraide e PMS 2018, Moise 2021) alla testa dell’Orchestra del Comunale di Bologna mi è parsa assai curata e convincente, almeno nelle scelte agogiche, con tempi quasi mai troppo sostenuti (sulle dinamiche la diffusione tecnologica lascia spesso false impressioni). Bene anche il Coro del teatro Ventidio Basso guidato da Pasquale Veleno (esordiente al ROF).

Quanto alle voci, lodevole la prestazione della protagonista Zelmira, Anastasia Bartoli, che ha confermato le sue doti già messe in luce qui in Eduardo&Cristina 2023 e in Ermione 2024. Da ricordare il duetto con Emma (e con arpa e corno inglese…) e il finale Riedi al soglio, con belle colorature.

Esordiente in assoluto al ROF, Marina Viotti è la fedelissima di Zelmira, Emma, ben distintasi nel citato duetto con Zelmira, nel terzetto con la stessa e Polidoro, e soprattutto nell’aria viennese dell’inizio del second’atto (Ciel pietoso) e nella successiva cabaletta col coro (Ah se è ver).  

Veniamo ai due tenori. Il marito di Zelmira (Ilo) è Lawrence Brownlee (Cenerentola 2010) che nella sua aria di esordio (Terra amica) e successiva cabaletta (Cara, deh attendimi) che è anche la più impegnativa, ha superato discretamente i due primi RE sovracuti e poi (La bianca mano) ha abbassato il terzo ad un meno rischioso SI, chiudendo poi con i DO ghermiti a fatica. Più sicuro nel centro della tessitura.

L’usurpatore Antenore è interpretato da Enea Scala (Sigismondo 2010, Mosè 2011, Occasione 2013, Otello 2022, Eduardo 2023, Ermione 2024); nelle citate precedenti presenze al ROF non mi aveva mai completamente convinto, e devo dire che anche ieri non mi ha…. convinto del contrario, ecco. Vibrato piuttosto sgradevole, acuti spesso ingolati ed anche intonazione non pulitissima.

Al vecchio Re Polidoro presta la voce Marko Mimica (Gazza 2015, Donna 2016) che tende spesso a forzare eccessivamente l’emissione, ma in complesso se l’è cavata dignitosamente, dando il suo efficace contributo anche ai numeri d’insieme (terzetto e quintetto).

Il consigliere/stratega/sicario di Antenore, Leucippo è Gianluca Margheri (Pietra 2017, Bruschino 2021) che per me ha meritato di più del suo… datore di lavoro: voce solida, buona intonazione e portamento.

Gli esordienti nel cartellone principale sono Paolo Nevi (Eacide) e il Gran Sacerdote Shi Zong. In particolare, note positive per il primo.

Per ora è tutto, aspettiamo il dittico di questa sera per… estendere questi commenti.

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Il glorioso (e rimesso in ordine) Teatro Rossini ha ospitato ieri la prima del dittico Soirées musicales – La cambiale di matrimonio: un autentico coda-testa rossiniano, trattandosi di una delle composizioni post-operistiche e della prima (compiuta) composizione operistica del Gioachino.    

Le dodici canzoni che compongono la raccolta delle Soirées (anni 1830-35) costituiscono una primizia del ROF-2025, in quanto viene rappresentata la nuova versione - che sostituisce l’originale accompagnamento del solo pianoforte con quello di un ensemble strumentale cameristico - approntata da Fabio Maestri e presentata per la prima volta in uno dei concerti del cartellone collaterale del ROF-2019.   

Canzoni interpretate da quattro voci (soprano, mezzo, tenore e baritono) che fanno anche parte dei cast dell’Italiana in Algeri (Vittoriana De Amicis, Andrea Niño e Gurgen Baveyan) e di Zelmira, in cui compare Paolo Nevi.

La distribuzione delle voci ha una base paritetica fra soprano e tenore (6 canzoni a testa, di cui una in duetto) più due canzoni per il mezzosoprano (entrambe in coppia con il soprano) e una per il baritono, in coppia con il tenore.

L’orchestrazione di Maestri non è per nulla invasiva e – grazie a Christopher Franklin, esordiente nel cartellone principale, ma da tempo di casa al ROF - conserva quindi tutta la leggerezza e la discrezione che caratterizzano questi gustosi cammei che ci fanno scoprire quel Rossini miniaturista che continuerà su questa strada ancora per molto tempo, con i Peché de vieillesse.

Assai apprezzabile la prestazione dei quattro interpreti, che il pubblico ha accolto con molto favore.

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La cambiale di matrimonio viene riproposta nell’allestimento di fortuna del 2020, realizzato in piena emergenza Covid, con la platea allora interamente occupata dall’orchestra e i palchi pure razionati. Oggi si torna alla normalità, il che sono certo permetta di apprezzare meglio lo spettacolo di Laurence Dale. Qui la registrazione di Radio3.

Sotto la guida di Franklin l’agguerrita Filarmonica Gioachino Rossini ha brillantemente accompagnato la voce del decano del ROF Pietro Spagnoli (Bianca&Falliero 1989, Otello 1991, Messa 1992, Matilde 1996, Bruschino 1997, Adina 1999, Gazzetta 2001, Pietra 2002, Turco 2016, Barbiere 2018, Bruschino 2021) che non smette di stupire, questa volta nei panni del protagonista, commerciante in… figlie, Tobia Mill.

La merce in vendita figlia di Mill, Fannì, è la bravissima Paola Leoci (Adelaide 2023) che ha messo la giusta verve a servizio di questa ragazza ribelle alle regole patriarcali imposte dal padre-padrone.

Il suo spasimante Edoardo è Jack Swanson (Bruschino 2021, Barbiere e Reims 2024) che mi pare migliorare di stagione in stagione, mettendo a profitto la sua voce sottile e squillante.

Il bizzarro ma progressista acquirente di anime gemelle (Slook) è Mattia Olivieri, un debuttante al ROF che però ha esperienza da vendere e lo dimostra con una prestazione davvero autorevole.

I comprimari sono altri due debuttanti: il Norton di Ramiro Marturana e la Clarina di Inés Lorans (applaudita la sua arietta Anch’io son giovine) che hanno dato il loro contributo al successo della serata.

Oggi ci aspetta una nuova Italiana!

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Il terzo ed ultimo appuntamento di Radio3 per il Festival ci ha proposto la nuova produzione de L’italiana in Algeri, opera che compare per la sesta volta nel cartellone del ROF.

Produzione affidata a Rosetta Cucchi (di cui parlerò dopo visione diretta) e al polimorfo Dmitry Korchak (nato al ROF come cantante fin dallo Stabat Mater del 2006 e poi tornato a Pesaro almeno un’altra dozzina di volte) sul podio (ma canterà anche quest’anno nella finale Messa per Rossini). La sua consuetudine con Rossini viene messa a profitto in una direzione briosa e brillante, già evidente dall’esecuzione della famosa Sinfonia e poi nel sostegno alle voci, mai invasivo. Ottima la risposta dell'Orchestra del Comunale bolognese e bene anche il Coro del Ventidio Basso diretto da Pasquale Veleno.

Protagonista sotto ogni aspetto e annunciata trionfatrice della serata è stata la Isabella di Daniela Barcellona, decana del ROF che la lanciò nel mondo del teatro fin da Ricciardo&Zoraide 1996, e poi la vide presente qui in Tancredi 1999, Donna/Stabat 2001, Semiramide/Stabat 2003, PMS 2004, Bianca&Falliero 2005, Adelaide 2006, PMS 2007, Maometto 2008, Sigismondo 2010, Adelaide 2011, Tancredi 2012, PMS 2018, Eduardo&Cristina 2023. Il contralto friulano ha ormai tanta esperienza da poter metter riparo anche a qualche piccolo problema nella parte bassa della tessitura, ma per il resto la sua mi è parsa una prestazione di gran livello, culminata nel rondò Pensa alla patria.

Bene anche Giorgi Manoshvili (PMS 2023, Bianca&Falliero 2024) che ha messo la sua voce scura e ben impostata al servizio del tragicomico personaggio di Mustafà, fin dalla cavatina d’esordio. E poi nell’aria del primo atto (Già d’insolito ardore).

L’esordiente Misha Kiria devo dire che (mi) ha piacevolmente impressionato, per la bella voce chiara e tornita e l’espressività mostrata nel caratterizzare il tronfio Taddeo, anche lui gabbato da Isabella come il Bey.

Il Lindoro Josh Lovell ha esordito al ROF con una convincente prestazione, a partire dalla famosa cavatina d’esordio (Languir per una bella) mostrando voce e portamento adeguati al romantico e innocente personaggio dell’innamorato Lindoro.

Vittoriana De Amicis, già sentita lo scorso anno nel Reims concertato e due sere orsono nelle Soirées, è stata una più che valida Elvira, della quale ha saputo interpretare gli aspetti di giovane donna schiava delle convenzioni e delle fisime del marito-patriarca.

Altri due protagonisti nelle Soirées di lunedi, la brava Andrea Niño (Gazzetta 2022) come Zulma e Gurgen Baveyan nei panni del finto feroce Haly hanno degnamente completato il cast.

Bene, chiuso così il ciclo delle prime, ascoltate via etere, mi resta ora da confermare la buona impressione generale e poi giudicare gli allestimenti; cosa che farò a breve.  


18 agosto, 2021

ROF-42 live

Fra la domenca di ferragosto e il martedi successivo si è concentrato il mio personale pellegrinaggio a Pesaro per le tre opere del cartellone principale del ROF-42. Per la verità nella prenotazione avevo chiesto appuntamenti più diluiti nel tempo, ma il boxoffice del Festival deve aver avuto i suoi bei problemi per soddisfare tutte le richieste e così mi ha assegnato proprio le tre date alternative da me indicate... pazienza.

E a proposito di problemi con i posti, il Teatro Rossini deve averne creati parecchi, dato che all’epoca di apertura delle prenotazioni vi erano previsti anche quelli di platea, mentre alla fine si è dovuta riproporre la stessa configurazione del 2020, con la platea invasa dall’orchestra e inagibile al pubblico.
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Eccomi quindi ad iniziare questo commento proprio dal Bruschino, ospitato nella piccola bomboniera di Piazza Lazzarini. L’assetto particolare della sala e il pubblico forzatamente scarso (2 persone per palco) ha un po’ rattristato, ricordando troppo da vicino i tempi grami dell’estate scorsa (che speriamo non ritornino!) ma per fortuna lo spettacolo della premiata coppia Barbe & Doucet ha ampiamente riscattatato queste miserie...

Per sua natura un’opera buffa (o una farsa giocosa come in questo caso) si presta bene a riproposizioni e reinvenzioni senza che ne venga snaturata l’essenza originale: così i due registi-scenografi-costumisti hanno potuto impunemente trasfomare il castello di campagna di Gaudenzio in un barcone di quelli che si ha ancora l’occasione di vedere sull’Adriatico e che potrebbe plausibilmente rappresentare il pied-à-terre estivo del ricco possidente. Le luci di Guy Simard hanno poi contribuito a sottolineare le diverse atmosfere che caratterizzano la vicenda.

Parimenti apprezzabile il fronte dei suoni, dove il giovane e allampanato Michele Spotti ha guidato con il piglio di un veterano voci e strumenti, a partire dalla scintillante Sinfonia che ha permesso alla Filarmonica Gioachino Rossini di sfoggiare le sue qualità (qui la trovata rossiniana dei colpi di archetto vibrati sul leggio dai secondi violini ha però giocato un brutto scherzo alla strumentista di concertino, cui si è spenta la luce costringendola a suonare per parecchio tempo al buio... prima che per sua fortuna il contatto si ristabilisse). Un figurone ha fatto invece Ilaria de Maximy con il suo corno inglese, nel mirabile accompagnamento obbligato dell’aria di Sofia Ah donate il caro sposo ad un’alma che sospira.

E proprio la Sofia di Marina Monzò è stata la trionfatrice della serata: dal suo debutto del 2017 in un ruolo di contorno (Pietra del paragone) direi che sia cresciuta moltissimo, per controllo dell’emissione e duttilità di espressione, impersonando adeguatamente il ruolo di ragazza apparentemente ingenua (non è certo il predicozzo del tutore a... svezzarla)  ma invece ben decisa ad ottenere ciò che desidera.

I due buffi Giorgio Caoduro e Pietro Spagnoli hanno ben caratterizzato le diverse personalità dei due procuratori di nozze di interesse che alla fine vedono sfumare il loro disegno e devono accettare la dura (per loro!) realtà della vita, fatta di pupille emancipate e figli dissipatori.

Discreta la prestazione del Florville di Jack Swanson, un debuttante che non potrà che migliorare, avendo doti naturali di tutto rispetto. Gianluca Margheri è un Filiberto che - forse con l’intenzione di strafare - finisce per esibire qualche sguaiatezza di troppo. Onorevoli le prestazioni degl altri tre comprimari (la navigata Marianna di Chiara Tirotta, il tronfio Commissario di Enrico Iviglia e il povero figlio-di papà Manuel Amati).

Serata tutto sommato piacevole, accolta dal pubblico con calore inversamente proporzionale al... numero di mani disponibili.  
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Passiamo ora al piatto forte del Festival, quel Moïse et Pharaon che tornava al ROF dopo l’unica apparizione del 1997, edizione che aveva fatto epoca per l’allestimento del compianto Graham Vick, allora alla sua prima presenza a Pesaro, cui ne seguiranno altre, sempre accolte da contestazioni e scandali, ma anche da lodi sperticate...

In realtà quello del 1997 - almeno a giudicarlo con gli occhi di oggi - non era stato per nulla un allestimento scandaloso, almeno dal punto di vista della sostanziale coerenza con i contenuti originali del dramma: in questa (mediocre davvero) ripresa video si può constatare come Vick racconti abbastanza fedelmente la vicenda di natura biblico-storica con l’immancabile risvolto di rapporti umani di odio-amore. L’unico tratto di attualizzazione della storia lo si rileva solo al finale, quando la terra promessa si scopre essere la Palestina della prima metà del ‘900, che (Balfour intercedendo) diventò la casa nazionale degli ebrei (e infine lo Stato di Israele).

Ebbene, Pier Luigi Pizzi, che ha un approccio registico unanimemente ritenuto agli antipodi rispetto a quello di Vick, nella sostanza ne ripete pari-pari l’idea, presentandoci per tutta l’opera l’ambientazione egizia, ma con il finale precisamente collocato nella moderna Palestina.

(Fu con il Mosè in Egitto del 2011 che Vick fece davvero scandalo, impiegando la musica di Rossini come colonna sonora per narrare le efferatezze degli ebrei - Deir Yassin, per dire - nel loro processo di instaurazione dello Stato e trasformando Mosè in un estremista alla Jabotinski...)

Persino aspetti della scenografia recano somiglianze fra lo spettacolo di Vick e quello di Pizzi: ad esempio la passerella che avvolge l’orchestra: in Vick era assai più estesa e venne impiegata, olre che per farci transitare e sostare i cori e gli interpreti (proprio come fa Pizzi) anche - abbastanza cervelloticamente - per una processione di 5 minuti senza musica all’inizio del terz’atto, uno degli aspetti più criticabili di quella messinscena.

Pizzi riprende anche l’idea di Vick (mostrarci un giovane ebreo moderno proprio durante il Cantique finale) e la estende anche all’inizio dello spettacolo, dove il piccolo ebreo è presentato come simbolo del futuro.

Per il resto Pizzi resta fedele al suo clichè estetico, sia nelle scene (stilizzate e squadrate) che nei costumi (eleganti ma sobri) come anche nella gestione dei personaggi e nei movimenti delle masse. Assai efficaci le luci di Massimo Gasparon, soprattutto a sottolineare gli eventi miracolosi che si ripetono lungo l’arco della storia. E fa storia a sè (come sempre, quando viene eseguito) il lungo intermezzo di danze, dove è il coreografo di turno (qui Georghe Iancu) ad esibire - magari con pregi e difetti - la sua inventiva. Impeccabili i primi danzatori, Maria Celeste Losa e Gioacchino Starace.  

Sul fronte musicale, ottime notizie, innanzitutto da Giacomo Sagripanti, che ha guidato con sicurezza ed equilibrio la splendida Orchestra Sinfonica Nazionale RAI, ormai divenuta un asset insostituibile per le principali produzioni del ROF. (Vi ho riconosciuto con piacere, alla seconda tromba, quell’Alex Caruana che per anni fu prima parte de laVerdi.)

Il Coro del Teatro Ventidio Basso (istruito da Giovanni Farina) sta parimenti guadagnandosi - in pochi anni - i galloni di titolare del ROF, con prestazioni di assoluto valore, ricche di espressioni, sfumature e colori che caratterizzano la partitura rossiniana.

Vasilisa Berzhanskaya è stata di gran lunga la trionfatrice della serata, offrendoci una Sinaïde di gran spessore: voce solidissima e acuti potenti (meno penetrante l’ottava bassa); da stadio l’interminabile accoglienza che il pubblico ha riservato alla sua grande aria in chiusura dell’atto secondo.

Buona la prestazione di Eleonora Buratto, capace di modellare le diverse e inconciliabili sfaccettature della personalità di Anaï, perennemente combattuta fra amore e fede religiosa: la grande aria dell’atto quarto (la rinuncia all’amore in favore della fede) ne è stata chiara testimonianza.   

I capi dei due popoli, Roberto Tagliavini ed Erwin Schrott, sono stati resi (nella vocalità, ma anche nell’interpretazione) in modo assolutamente adeguato alle caratteristiche dei personaggi: austero, severo e intransigente Moïse, quanto tronfio, volubile e un po' vanesio Pharaon: una coppia davvero perfettamente assortita.

Luci e ombre sull Aménophis di Andrew Owens, bella voce chiara e squillante (RE sovracuto incluso) ma un poco in impaccio nel rendere al meglio la personalità schizoide (speculare a quella di Anaï) sempre in bilico fra desiderio - carnale per lo più - e ferocia vendicativa del principe ereditario.     

Più che apprezzabile la prova dell’Eliézer di Alexey Tatarintsev, che ha saputo mettere le sue ottime doti naturali al servizio del personaggio, che mescola la severità del fratello con tratti di pietas e di apprensione.     

Efficaci Nicolò Donini (Osiride e Voce dal cielo) e Matteo Roma (Aufide) mentre una particolare citazione va all’inossidabile Monica Bacelli, una Marie quale meglio non si potrebbe immaginare.

Inutile aggiungere che il successo è stato davvero trionfale.
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Infine Elisabetta Regina d’Inghilterra. Opera seria, come viene catalogata. Livermore in questi casi non ha mezze misure (tradotto: mantenere un minimo di equilibrio e di fedeltà al testo). Lui o fa ri-ambientazioni in chiave pesantemente politica (cito solo i suoi Vespri torinesi...) oppure la butta in (avan)spettacolo. Ecco: qui ha scelto la seconda strada (immagino che la politica la tenga in serbo per il prossimo Macbeth di SantAmbrogio).

Per la verità c’è anche la ri-ambientazione, ma non è una cosa seria, chè prendere Leicester per Townsend che svolazza su uno Spitfire e i cugini scozzesi per i nazifascisti fa appunto sorridere. (Un po’ come il suo Tamerlano scaligero ambientato nella Rivoluzione d’ottobre, dove Stalin e Lenin si contendono una figlia dello Zar.) Ma il regista ragiona così (in occasione della prima ai microfoni di Radio3): visto che il libretto è pura invenzione e di autenticaamente storico ha ben poco, allora anch’io mi sento autorizzato ad inventarmi ciò che mi pare e piace! E così di apprezzabile resta appunto solo la spettacolarità di scene (Gio Forma) costumi (Gianluca Falaschi) luci (Nicolas Bovey) ed effetti video (D-Wok). Oltre ad un continuo e francamente stucchevole (perchè insensato) e ripetitivo movimento di persone e soprattutto di cose (che magari scendono dall’alto, trovata da inflazione galoppante).

Certo, bisogna riconoscere che l’opera è assai difficile, ostica e di non immediata digeribilità: sappiamo che Rossini era (positivamente) ossessionato dal fare colpo sull’esigente platea napoletana, dove era atteso con sospetto pari alla curiosità; e così scelse alcuni brani (a partire dalla sinfonia) di sue opere già collaudate e li immerse in un mare di recitativi accompagnati. I quali però, se non adeguatamente sostenuti dall’orchestra, rischiano di diventare più noiosi di quelli secchi, che per lo meno possono essere esposti in gran fretta.

E qui vengo perciò a Evelino Pidò, la cui direzione mi è parsa carente proprio nel sostegno ai recitativi, mentre assai meglio ha supportato arie, concertati e cori, grazie alla gran forma della OSN-RAI.

Non perfettamente assortito il cast vocale, dove si potrebbe persino parlare di... scambi di persona: Elisabetta-Matilde e Leicester-Norfolc! Karine Deshaves mi è parsa piuttosto timorosa nell’affrontare il ruolo della famigerata Virgin Queen e quando ci ha provato ha emesso acuti non sempre puliti; Salome Jicia invece cantava come fosse... la Regina, sovraccaricando troppo la mite e arrendevole Matilde.

Sergey Romanovsky non ha centrato completamente il personaggio eroico di Leicester, anche se ha fatto assai meglio dell’ormai logoro Barry Banks, voce chioccia e oggi del tutto inadatta per un cattivone alla Iago.

Onorevoli le prestazioni dei due comprimari: Marta Pluda, en-travesti come Enrico; e Valentino Buzza, Guglielmo. Sempre all’altezza il Coro di Giovanni Farina.

In definitiva, che dire? Che - nel mio caso - non posso parlare di questa chiusura di trittico come di dulcis-in fundo!

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Ma il fundo ancor non l’ho toccato, poichè mi incombe venerdi 20 uno Stabat Mater (in forma scenica) che non mancherò di commentare.

10 agosto, 2021

ROF via radio

Moïse et Pharaon ha aperto ieri sera il ROF-42, tornato alla piena normalità di programmazione, anche se ancora dimezzato nei... posti a teatro. La mia impressione dalla ripresa di Radio3 è decisamente positiva. Voci (coro incluso) tutte all’altezza e Orchestra RAI in grande spolvero - a nozze poi nell'interminabile intermezzo sinfonico della Festa di Iside - diretta da un ottimo Sagripanti.

Pare che il pubblico abbia anche gradito la messinscena del ragazzo novantenne Pizzi, che si dice abbia ambientato la vicenda in Egitto e - alla fine - nella terra promessa. Quindi precisamente come si legge sul libretto... E anche un’altra novantenne, la senatrice Segre, pare che abbia apprezzato, non risprmiandosi - al microfono di Bossini - una frecciatina (moderata, perchè non si parla male dei morti!) al dedicatario di questo ROF, quel Graham Vick che in anni recenti deve averla parecchio irritata con le sue interpretazioni, ehm... originali.

Quindi spero proprio che l’impressione venga confermata fra qualche giorno dall’ascolto-visione live, di cui riferirò.

24 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Petite Messe Solennelle


L’onore di chiudere il ROF-39 è quest’anno toccato alla grandiosa (!) Petite Messe Solennelle. Piazza del Popolo (ci ripasso dopo aver circumnavigato, laggiù in riva al mare, il fontanone - acqua dolce - con la sfera sventrata di Gio’ Pomodoro) alle 20 è già gremita di pubblico in attesa (per nulla religiosa, hahaha) della diffusione su maxi-schermo del concerto conclusivo del Festival, il cui inizio è stato spostato quest’anno dalle 20:30 alle 21. La piccola bomboniera del Teatro Rossini ribolle invece di preziose toilette e rumoreggia negli idiomi più svariati, compreso (ma è quasi un’eccezione) quello italico. Nal palco del sovrintendente prende posto anche un JDF con anulare e mignolo della mano sinistra strettamente imprigionati in una fasciatura rigida: forse un postumo dell’ultimo duello con Ircano (?!)  

La Messa è tornata al ROF dopo l’ultima comparsa nel 2014, allorquando fu diretta dal compianto Alberto Zedda, che con l’occasione presentò anche la sua orchestrazione del Preludio Religioso, che Rossini ha affidato al solo organo. Commentando quell’evento, mi ero permesso di avanzare seri dubbi sull’opportumità di presentare tale orchestrazione: non certo dal punto di vista della fattura, davvero eccellente, ma innanzitutto da quello del rispetto della volontà dell’Autore (visto che qui siamo nella fabbrica delle edizioni critiche...) ma anche da quello della concezione estetica. Per non parlare poi delle stesse argomentazioni addotte dal Maestro per la sua iniziativa, che reputavo e continuo a reputare del tutto inconsistenti e pretestuose. In qualche modo accettabile (secondo me) era stata la proposta di allora, un evento eccezionale nell’ambito di un festival, ma la ritenevo da escludersi come prassi da seguire. 

Orbene, la locandina dell’odierna esecuzione si è premurata di annunciare che il Preludio Religioso sarebbe stato eseguito anche questa volta proprio nella versione orchestrata da Zedda (il che esclude anche l’impiego dell’organo tout-court). Ecco quindi un bell’esempio di perseveranza nell’errore: errore che si può scusare una volta, come omaggio al grande paladino rossiniano, ma che rischia di diventare una colpa (diabolicum, come dice il vecchio adagio...) se reiterato.
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Esecuzione pregevole da parte dell’OSN-RAI, che Giacomo Sagripanti ritovava dopo il Ricciardo&Zoraide, e del Coro del Teatro della Fortuna (Mirca Rosciani) che replicava qui la Petite Messe dopo averla cantata a Roma poco tempo fa: picchi di merito per le colossali fughe di Gloria e Credo.

Alti e bassi per le quattro voci soliste. Sulle quali è spiccata ancora una volta quella di Daniela Barcellona, 22 anni di ROF e alla terza Messa (dopo 2004 e 2007): l’imponente contralto triestino si è presentata sfoggiando un décolleté alla... Jane Mansfield (!) forse come contrappasso a tutti i petti appiattiti cui l’hanno costretta negli anni i suoi personaggi en-travesti. Ma la voce è sempre solidissima e l’espressione (vedasi l’accorato Agnus Dei conclusivo) è davvero impeccabile.

Carmela Remigio, che tornava qui dopo 20 anni e 21 dal suo esordio al ROF proprio nella Messa, ha un po’ stentato all’inizio (non proprio da incorniciare i suoi acuti nel Qui Tollis e nel Crucifixus). Si è però riscattata ampiamente con un O salutaris hostia davvero convincente per purezza di canto ed espressività.

Celso Albelo non ha (alle mie orecchie, perlomeno) particolarmente brillato: il suo Domine Deus ha un po’ mancato di slancio e di profondità.

Senza infamia e senza lode l’esordiente al ROF Nicolas Courjal, forse ancora freddo nell’iniziale Et in terra, ma che ha fatto meglio nell’impegnativo Quoniam tu solus sanctus.
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Alla fine gran trionfo per tutti, con ripetute chiamate per i quattro solisti e i due direttori. Fuori, Piazza del Popolo è ormai... spopolata, e sul grande schermo campeggia già l’arrivederci al ROF-XL (il cui piatto forte sarà una nuova Semiramide della premiata coppia Mariotti-Vick).

18 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Ricciardo e Zoraide



Ieri l’Adriatic Arena gremita del tradizionale pubblico cosmopolita ha ospitato la terza rappresentazione del titolo principale di questa edizione del ROF: Ricciardo&Zoraide. La performance musicale ha confermato (con punte più o meno marcate) quanto alto sia il valore di questa partitura ancor oggi immeritatamente trascurata.

Da elogiare la prestazione di orchestra (la OSN-RAI che Giacomo Sagripanti ha condotto con grande autorevolezza, gesto misurato ma sempre preciso ed efficace, e grande attenzione ai dettagli nell gestione delle dinamiche e delle agogiche) e di coro (il Ventidio Basso di Giovanni Farina, compatto e brillante negi momenti di maggior enfasi, in cui si esibisce in primo piano, come in quelli di religioso raccoglimento, cantando di lontano, dietro la scena).

Juan Diego Flórez era ovviamente - dati i suoi precedenti al ROF, che gli ha dato fama imperitura - il più atteso e devo dire che non ha deluso i suoi ammiratori con una prestazione davvero all’altezza della sua fama. Potrei sbagliare, ma rispetto alla prima (ascoltata per radio) mi è parso ancora più sicuro ed efficace nello sciorinare tutto il suo repertorio di virtuosismi, spiccando impeccabili acuti e sovracuti, ma anche sapendo cesellare da par suo i risvolti più introspettivi del personaggio di Ricciardo.

Pretty Yende ha (a mio modesto parere) confermato pregi e difetti già emersi alla prima: buona impostazione generale, ma alternanza di alti e bassi, sopratutto negli acuti e nelle colorature: i primi spesso ghermiti con una certa approssimazione, le seconde che non paiono essere proprio la sua miglior dote. In ogni caso, una prestazione che merita ampia sufficienza (il pubblico è andato direttamente all’ottimo!)

Sergey Romanovsky, ritornato a Pesaro a un anno dall’esordio, ha cercato di dare nerbo al personaggio di Agorante, riuscendovi a metà: l’approccio interpretativo è più che corretto, ma la voce (e qui conta madre-natura) non è propriamente quella di un baritenore quale il ruolo pretenderebbe, il che costringe il tenore russo a innaturali forzature. In ogni caso anche per lui successo caloroso.

Xavier Anduaga (ospite in anni recenti dell’Accademia rossiniana ed esordiente al ROF un anno fa) ha mostrato interessanti doti naturali di tenore contraltino che ne fanno interprete approprito del personaggio del crociato Ernesto, il che gli ha garantito un’accoglienza fin troppo... trionfale.

La (comprensibilmente) gelosa Zomira ha trovato in Victoria Yarovaya un’interprete all’altezza, per impostazione, portamento e qualità della voce. Rispetto alle prestazioni non memorabili degli anni scorsi il contralto russo mi pare decisamente cresciuto. Peccato però che alla sua voce manchi qualche decibel per passare dal discreto al buono, ecco.

Il veterano del ROF (vi esordì nell’ormai lontano ’97) Nicola Ulivieri ha messo tutta la sua esperienza nel creare in maniera eccellente il personaggio di Ircano, che irrompe sulla scena solo a metà del second’atto ma poi vi ha una presenza tutt’altro che marginale. La sua voce potente e ben impostata ha svettato anche nei concertati che chiudono l’opera.

I tre accademici (Sofia MchedlishviliMartiniana Antonie e Ruzil Gatin) hanno più che onorevolmente completato il cast.

Come detto, gran successo per tutti, con tambureggiamenti del tavolato e ripetute ovazioni. Personalmente non sono facile agli entusiasmi, ma mi fa piacere constatare quelli che animano il pubblico come accaduto ieri.
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Sull’allestimento si potrebbe tranquillamente sorvolare, data la sua totale inconsistenza rispetto al soggetto; il quale è già inconsistente di suo, figuriamoci! Dovendo rappresentare l’opera in forma scenica (molto più senso avrebbe darla in forma concertante, o semi-scenica) tutto diventa possibile, soprattutto se il regista non si chiama... Ronconi (!)

Ecco che allora (scene di Gerard Gauci) l’esterno della reggia di Agorante assume l’aspetto di una gigantesca tenda Tuareg (ma anche quello del tendone di un gran circo barnum...) mentre al suo interno si erge miracolosamente una struttura a due piani di architettura mista occidentale (volte a semicerchio) e pseudo-orientale (volte ad ogiva tendente al... triangolo). Il fiume Nubio che costeggia Duncala è esondato al punto da trasformarsi nel... lago Nasser (la reggia sarà stata spostata in alto pietra-a-pietra come si fece con i templi di Abu-Simbel, immagino).

I costumi dei protagonisti sono ispirati (da Michael Gianfrancesco) a geniale sincretismo, chè si va dal corpetto-su-petto-nudo di Agorante all’abbiglimento zigano di Ricciardo (quando da paladino... paludato si traveste da baluba) alla purpurea veste cardinalizia di Ernesto (certo siamo alle crociate ordinate dal Papa, ohibò) alle gonne rococò delle signore, che però hanno le parrucche sostituite da prosaiche cucuzze...) Ircano ha proprio l’aspetto di un cavaliere medievale (ma qui anche il libretto non scherza...)

I personaggi si muovono come  nelle recite scolastiche (cioè stanno spesso impalati) oppure sfruttano furbescamente la passerella da avanspettacolo (ormai divenuta una costante degli allestimenti all’Adriatic Arena) anche per avvicinarsi al pubblico scavalcando la rumorosa orchestra così da farsi meglio udire. I cori si dispongono al lati della scena, oppure si allineano rigorosamente in mezzo al palco.

Essendo i registi (Marshall Pynkoski e consorte Jeannette Lajeunesse Zingg) di professione coreografi, ecco che infarciscono le scene di danzatori e balletti, trasformando l’opera in grand-opéra. Si salva da tutto questo pot-pourri Michelle Ramsay, che mostra di saper bene come maneggiare le luci.

Insomma, una... farsa, ecco, sul cui carattere dissacrante si può disquisire, nel senso di stabilire se sia proditorio o involontario.