ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

07 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#10

L’Orchestra ospite per questa puntata del Festival era la Haydn di Bolzano&Trento, guidata dal suo Direttore Principale, Ottavio Dantone.

Ecco quindi, proseguendo il mahleriano pellegrinaggio in rigorosa sequenza, la Settima. Sicuramente la Sinfonia meno eseguita (e quindi meno conosciuta e amata dal pubblico) forse per colpa del sistema mediatico di divulgazione, che deve sempre trovare qualunque stereotipo – extramusicale, si badi bene! - atto a colpire l’immaginazione dell'ascoltatore.

Così, ad esempio: Mahler, il titano che trionfa nella Prima e poi viene sepolto e risorge nella Seconda, quindi viene bastonato (anzi… martellato) nella Sesta; o il Mahler sdolcinato e fischiettabile della Quarta; oppure quello ipertrofico e sesquipedale della Terza e dell’Ottava; o quello supposto decadente (Adagietto della Quinta) che viene impropriamente strumentalizzato da Visconti; o quello disperato che sente il suo cuore perder colpi e tirare gli ultimi (Lied von der Erde e Nona…)   

Insomma, per la Settima il marketing non trova un posto adeguato in tale agiografia, e così l’opera finisce direttamente – quanto immeritatamente - nel dimenticatoio… (E allora mi permetterò di proporne una mia velleitaria analisi, con citazione illustre...)      

___
Devo dire che l’esecuzione della Haydn mi ha convinto a metà: Dantone (che ha diretto a mani nude, come Angius la Sesta) ha mostrato di padroneggiare assai bene questa sbifida partitura (in fondo è un Mahler che si picca di rivaleggiare con… Bach, che il Direttore conosce come le sue tasche). L’orchestra invece ha avuto qualche défaillance, in specie negli ottoni: anche il Tenor-Horn ha sbucciato proprio l’entrata… un vero peccato, poiché in seguito si è riscattato alla grande. E poi l’amalgama tra le sezioni non sempre mi è parso ottimale. 

Ma, come accaduto per le altre Orchestre ospiti, anche la Haydn è stata accolta dal folto pubblico dell’Auditorium con vivaci manifestazioni di consenso. Il che, per Orchestra e Direttore, rappresenta comunque un buon viatico per le due riprese… a casa loro, di giovedi e venerdi.

05 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#9

Siamo ormai alla seconda metà del ciclo delle sinfonie, e per la Sesta in Auditorium è arrivata un’altra Orchestra ospite, quella dell’Arena di Verona, guidata da Marco Angius.

Sulle (tante) banalità cresciute attorno a questa Sinfonia - alimentate anche dallo stesso compositore ma soprattutto dalla moglie (forse per farsi perdonare i… tradimenti) - mi sono dilungato assai molti anni fa e quindi non faccio che rimandare a quel lungo e articolato commento, in appendice al quale ho allegato quello, assai più autorevole, di Ugo Duse.

Un tormentone interminabile è nato intorno alla collocazione dei due movimenti centrali della Sinfonia: lo Scherzo e l’Andante (e in più anche sul numero – 2 o 3 – di martellate nel Finale).  Basti dire che Gastón Fournier-Facio, curatore del recente Tutto Mahler, dedica non meno di 14 pagine a censire le principali esecuzioni (a partire proprio dalla prima di Essen, diretta dall’Autore, nel 1906) della Sinfonia, e poi tutte le edizioni ed anche i razionali che portano le diverse scuole di pensiero a privilegiare una o l’altra delle due possibili sequenze.

Anch’io, nel mio piccolo, ho qualcosa da proporre, e riporto un estratto di un mio vecchio commento al proposito, basato su tre possibili prospettive di ascolto:

1. Se si guarda all’equilibrio dell’opera in termini di durate temporali, sembrerebbe pacifico mettere lo scherzo in seconda posizione (come per la Nona beethoveniana, per dire…): abbiamo in questo caso i movimenti 1+2 (animati) che occupano 35 minuti e poi l’andante di 15 minuti che serve a prender fiato prima dell’altra mezz’ora del finale burrascoso. In questa soluzione la Sesta si avvicina quasi alla Quinta (che ha tre movimenti mossi, poi il calmo Adagietto, che vagamente anticipa l’Andante della sesta, prima del finale allegro)

2. Se si guarda alla forma classica - che secondo taluni, Adorno in testa - sarebbe alla base della concezione artistica della Sesta, allora l’Andante dovrebbe venire prima dello Scherzo (in fondo anche Beethoven fece uno strappo alla regola soltanto con la sua Nona, appunto; per il resto restò fedele alla tradizione, collocando sempre il movimento più lento in seconda posizione, in modo poi da animare progressivamente l’atmosfera, con il Minuetto - poi Scherzo – in vista dell’Allegro finale).

3. Poi c’è la vista da poema sinfonico, autorizzata sia dai riferimenti extramusicali e autobiografici, che dalle arditezze di certe indicazioni dinamiche e dall’uso di strumenti che nulla hanno a che fare con la sinfonia classica (celesta, campanacci da mucca, martello e altre percussioni). Secondo tale approccio verrebbe ancora da preferire lo scherzo in posizione avanzata, in quanto avremmo: il ritratto di Alma, poi le piccole Putzi e Gucki che giocano in riva al lago, quindi un accorato sguardo all’indietro verso i bei giorni passati, e infine le tre mazzate del destino che abbattono definitivamente l’artista e l’uomo.  
___
Marco Angius? Come ci sia arrivato lo saprà lui, ma ha deciso per la soluzione Scherzo-Andante. La cosa curiosa è che aveva sotto gli occhi una partitura (verosimilmente la seconda di Kahnt) che reca la sequenza Andante-Scherzo: prova ne sia che si è munito di segnalibri per fare gli spostamenti avanti-indietro durante l’esecuzione. (I colpi di martello erano solo due, ma questo è ormai universalmente accettato.)

La prestazione dei veronesi è stata non meno che eccellente (strepitoso il corno di Andrea Leasi, letteralmente acclamato alla fine). Angius, che dirige a mani nude, ha mostrato un’assoluta padronanza di quest’opera complessa tecnicamente ma soprattutto esteticamente, e ne è venuto a capo alla grande.

L’Orchestra veronese ha dimostrato che non sa distinguersi solo all’aperto in Verdi e Puccini, ma che non ha nulla da invidiare alle migliori orchestre internazionali anche in questo repertorio.

Auditorium (colmo anche oggi) letteralmente in visibilio, con ripetute chiamate e battimani ritmati, a suggellare un’altra memorabile giornata di questo Festival.

04 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#8

Lungo la strada delle Sinfonie mahleriane siamo arrivati alla Quinta. Che è stata affidata (alla quarta replica in 4 giorni!) alle mani premurose di Robert Treviño a capo della OSN-RAI. Nelle cui file milita da qualche tempo la tromba di Alex Caruana, storica prima parte de laVerdi. (Giovedi scorso si era rivisto anche Max Crepaldi, primo flauto passato da pochi anni alla Scala. Dove alberga anche Eriko Tsuchihashi, che per anni fu la vice-Santaniello. Segno che la fucina di Largo Mahler sforna ottimi prodotti!)

Rispettando l’impaginazione del concerto dell’OSN, l’apertura è affidata a Charles Ives e alla sua breve The unanswered Question, che con Mahler ha qualche affinità… cronologica (è del 1908). Qui Ives intende presentarci – e lo scrive esplicitamente nella prefazione alla partitura – una specie di scenario universale, caratterizzato da tre diversi elementi:

1. l'immutabile ed eterna quiete cosmica (solitudine indisturbata la definisce) impersonata dagli archi (fuori scena) che suonano lentamente (il tempo è 4/4 Largo molto sempre) con valore di note che normalmente si assesta su semibreve e minima e solo in poche occasioni scende alla semiminima;

2. la perenne domanda sull'esistenza, come lo stesso Ives definisce il motto che la tromba (isolata) ripete per sette volte; e

3. la ricerca della risposta (la caccia alla risposta invisibile) affidata a quattro flauti (o strumentini) che ci provano per sei volte, con risultati sempre più scoraggianti, che li portano in uno stato di totale isteria.

Quale significato filosofico ci sia dietro è materia di molte possibili interpretazioni (una di queste è del Direttore Treviño, intervistato prima dell’esecuzione torinese) ma, trattandosi di musica, a qualcuno questo breve brano apparve come una visione profetica di ciò che, appunto in musica, sarebbe accaduto nei decenni successivi a quel 1908, e quindi contenere un messaggio profetico abbastanza chiaro riguardo alla futilità delle risposte che la musica del futuro avrebbe dato alla perenne domanda sull'esistenza. Nel 1973 il grande Lenny Bernstein apriva così il suo ciclo di lectures ad Harvard, intitolato precisamente al brano di Ives, e lo concludeva esponendo il suo credo nella tonalità e nelle serie armoniche!

Anche qui è stata proposta la stessa scenografia torinese: buio completo (salvo le lucine sui leggii), tromba solista (Roberto Rossi) fuori dalla sala e i flauti in balconata. L’effetto scenografico è sicuramente suggestivo, quello musicale (al netto della qualità degli esecutori) francamente discutibile. 
___

La Quinta mahleriana è normalmente etichettata come la prima di un ciclo di tre (insieme a Sesta e Settima) perchè segnerebbe il punto di dipartita di Mahler dal fanciullesco-folklorico mondo del Wunderhorn al quale apparterrebbero le tre precedenti, infarcite di Lieder (con e/o senza voce) provenienti dalla collana di vonArnim-Brentano, cui Mahler aveva dedicato grande attenzione nei suoi primi anni da compositore.

La Quinta segnerebbe quindi l’aprirsi di una nuova era nel mondo estetico mahleriano, come dimostrerebbero i riferimenti in essa contenuti a Lieder di Rückert, oltre che ad aspetti più strettamente legati alla forma (ad esempio l’impiego del contrappunto e quello del Rondò). E le due successive sinfonie confermerebbero questa tesi. Anche il prezioso libro Tutto Mahler, curato da Gastón Fournier-Facio in occasione del Festival, indirettamente avalla questa tesi, separando il Capitolo dedicato alla Quarta da quello che tratta della Quinta con un Intermezzo sui Lieder di Rückert.

Peccato che si tratti di una tesi ampiamente contraddetta (non certo da me, ma da personalità quali Ugo Duse, autore della prima e ancor oggi fondamentale monografia italiana su Mahler; e da H.L. de La Grange, che su Mahler ha scritto qualcosa come 3600 pagine!!!) proprio dai contenuti di questa Quinta, che accoglie spunti da Mahler messi per iscritto già ai tempi della composizione di quei precedenti lavori, addirittura dai tempi della Terza (!) come documenta un abbozzo della struttura della Quarta Sinfonia che Mahler chiamò Humoreske, sei movimenti, di cui solo il primo, il terzo e l’ultimo restarono poi nella Quarta; degli altri: Das irdische Leben fu espunto, Morgenglocken divenne il 5° movimento della Terza; e Die Welt ohne Schwere diverrà lo Scherzo della Quinta!

Dove poi troviamo quelle iniziali terzine di trombetta che già avevano fatto una fugace comparsa nel primo movimento della Quarta, alla quale quindi rimandano scopertamente. La marcia funebre che apre l’opera è una riedizione della Totenfeier dalla quale sbocciò poi la Seconda Sinfonia. Come detto, lo Scherzo in RE maggiore fu pensato in origine come 5° movimento della Quarta sinfonia…

Quanto ai Lieder, è vero che vi si trovano richiami e citazioni di Rückert (Nun will die Sonn’ e Ich bin der Welt abhanden gekommen) ma è anche vero che la marcia funebre del primo movimento richiama quelle dei tamburini del Wunderhorn (di Revelge poi è una chiara citazione nel finale, al numero 29 negli strumentini). Inoltre, il quinto ed ultimo movimento riprende esplicitamente Lob des hohen Verstandes (l’acuta intelligenza di un... asino!) sempre dal Wunderhorn. 

E ancora, la forma: la struttura in 5 movimenti richiama la versione originale della Prima, poi la Seconda e, per difetto, la Terza. Ai quattro movimenti della tradizione Mahler era già arrivato con la versione definitiva della Prima e con la Quarta, prima di tornarci con la Sesta, poi (surrettiziamente) con l’Ottava, e infine con la Nona, mantenendo invece per Settima e Decima la struttura in 5 movimenti. E l’eterogeneità dei contenuti (bizzarra concatenazione tonale, irruzioni di motivi sguaiati, un corale nel secondo movimento, l’interminabile tiritera del corno obbligato nello Scherzo (parente di quella della cornetta da postiglione della Terza) non si discosta certo da quella delle sinfonie precedenti...    

È ben vero che Mahler stesso parlò più volte, a proposito di quest’opera, di un suo nuovo stile, che peraltro non si manifestò mai compiutamente, se già prima della pubblicazione Mahler mise drasticamente mano all’orchestrazione (percussioni, in particolare) sull’onda delle pesanti critiche di Alma! E se ancora dopo il Lied von der Erde e la Nona Mahler si vide costretto ad altri ritocchi.

Insomma, suddividere la produzione di Mahler in blocchi chiusi è proprio fare un torto al compositore, che invece per l’intera sua opera ha seguito contenuti e strutture formali dettate esclusivamente dall’ispirazione, e da un approccio estetico-filosofico che non è mai mutato, tanto da far pensare ad uno sviluppo continuo (evoluzione vs rivoluzione) quasi che i Lieder, le dieci Sinfonie (più il Lied von der Erde) costituiscano un unico, gigantesco e - a suo modo - coerente monumento sinfonico. 

Chiudo riproponendo alcune citazioni e aneddoti riguardanti questa Sinfonia.

Ecco cosa scriveva Arturo Toscanini (fine 1904, quindi molto prima dell’incontro-scontro con Mahler a NY) proprio a proposito della Quinta, al cognato-violinista Enrico Polo, che gli aveva spedito una copia della partitura: “Non puoi immaginare con quanta gioia e curiosità ho ricevuto il tuo plico inatteso e come lo abbia subito letto, anzi divorato! Malauguratamente, gioia e curiosità sono sparite e si son mutate in triste, assai triste ilarità. Credimi, caro Enrico, Mahler non è un artista serio. La sua musica non possiede né personalità, né genio; è una mistura di Italianità alla Petrella e Leoncavallo accoppiata alla magniloquenza musicale e strumentale di Ciajkovski, e con la ricerca di bizzarrìe straussiane (anche se lui si vanta di avere tendenze opposte) ma senza l’originalità né dell’uno né dell’altro. Ad ogni piè sospinto cade non già nel clichè ma nel triviale. Guarda qui (8 misure iniziali del tema della Trauermarsch): Petrella e Leoncavallo proverebbero solo sdegno di fronte a questo piccolo motivo di marcia che Mahler non si vergogna di introdurre nel primo movimento di una sinfonia. E potresti immaginare una boiata più tremenda di quest’altro passaggio (le 13 battute dei corni dal numero 7 della partitura)? L’idea di un’esecuzione a Torino è da scartarsi.” 

Beh, come accoglienza, non è davvero male! E il grande Arturo aveva un occhio, oltre che un orecchio, infallibile: ad esempio non doveva essergli sfuggita – nel Trio del primo movimento - la chiara reminiscenza dello straussiano Zarathustra

A proposito di Richard Strauss, ecco il suo giudizio, positivo, ma con qualche frecciatina. Scrive a Mahler, dopo la prima di Berlino: “La sua Quinta sinfonia mi ha donato nuovamente un’immensa gioia, che si è velata solo un poco durante il breve Adagietto. (…) I primi due tempi sono veramente grandiosi; il geniale Scherzo è risultato forse un po’ troppo lungo…

Un altro ricordo assai curioso ci arriva dai Briefe di Alma: “La Quinta era stata la prima opera alla cui nascita avevo assistito e a cui avevo pienamente partecipato! Ne avevo copiato tutta la partitura, anzi più ancora: Mahler aveva lasciato in bianco dei righi interi, perché sapeva che conoscevo le parti, e si fidava ciecamente di me. In primavera ne aveva fatto una prova di lettura con l’Orchestra Filarmonica, a cui avevo assistito nascosta in galleria. Io che avevo sentito tutte le melodie nel copiarle, ora non riuscivo a sentirle, perché Mahler fece suonare la batteria col tamburo piccolo tutto il tempo tanto selvaggiamente che, al di fuori del ritmo, non si percepiva quasi nulla. Corsi a casa in lacrime. Mi seguì. Non volli parlargli per parecchio tempo. Finalmente dissi singhiozzando: <<Hai scritto una sinfonia per batteria!>> Egli rise, prese la partitura e cancellò con una matita rossa tutta la parte del tamburo piccolo e la metà della batteria.

___

O.T. Se ascoltiamo l’intervista di Susanna Franchi a Treviño dobbiamo rilevare un clamoroso lapsus dell’intervistatrice, che nella sua traduzione dall’inglese mette in bocca al Maestro una grande stupidaggine: tutta la Sinfonia sarebbe in tonalità Maggiore (!?) Quando è chiaro che il malcapitato Treviño si sta riferendo solo all’ultimo movimento! (Ed è la RAI ancora non impoverita da Meloni&C…)

Ormai dal Maestro mexico-texano ci possiamo solo aspettare grandi cose, e questo pomeriggio siamo stati del tutto accontentati! Del resto già l’ascolto dell’esecuzione torinese aveva mostrato la qualità del Direttore e della sua lettura dell’opera, oltre a quella, scontata, dell’Orchestra. Oggi addirittura mi pare di aver sentito ulteriori miglioramenti, e non saprei proprio trovare nemmeno il classico pelo nell’uovo.

Alla fine pubblico (oceanico) in autentico delirio, con ovazioni speciali per il corno di Ettore Bongiovanni e la tromba di Roberto Rossi.

03 novembre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#7

L’Orchestra Regionale della Toscana ha riunito le sue forze con quelle dei ragazzi fiesolani dell’Orchestra Giovanile Italiana per offrirci il settimo concerto del Festival (con lo stesso programma inaugurano la loro nuova stagione). Sul podio il 58enne Markus Stenz, con i Lieder affidati alla sudafricana-canadese Sophie Harmsen.

La prima parte del concerto è appunto occupata dai cinque Kindertotenlieder, più o meno coevi (e ad essa collegati da sottili legami) della Quarta Sinfonia che completa il programma. (Qui alcune mie personali note, redatte in occasione di un concerto dello scorso gennaio).

La Harmsen li ha interpretati con grande sentimento, peccato che la sua bella voce di mezzosoprano acuto manchi un poco di… volume e di proiezione; e Stenz da parte sua poco ha fatto per evitare di coprirla con l’orchestra. Comunque calorosa accoglienza per lei.
___  
Ecco quindi la Quarta, una sinfonia difficile da inquadrare, avendo un carattere piuttosto ambiguo, a volte parodistico, se non addirittura ipocrita. Ideata già ai tempi della Seconda, presenta un primo movimento dal sapore leggero (Haydn-iano fu subito etichettato) ma non privo di quelle che Adorno definì irruzioni improvvise (inclusa quella della trombetta che anticipa l’atmosfera cupa dell’incipit della Quintain un’atmosfera apparentemente calma. Poi uno Scherzo demoniaco, con il suono del dis-cordato violinetto di strada - che Mahler stesso, in una nota poi espunta, chiamava l’amico Hein,  cioè la morte, nientemeno! - affiancato da un Trio – in cui spiccano altre irruzioni, del clarinetto - che in realtà sembra anticipare le beatitudini di là da venire… cioè il Poco Adagio, tranquillo e contemplativo, che tuttavia presenta al suo interno quel breve inciso dall’Aida che tornerà nel secondo dei Kindertotenlieder (ascoltati in apertura) e dove per il resto si nota la chiara eredità dal finale della Sinfonia precedente. A proposito della quale, nelle prime intenzioni di Mahler doveva chiudere con un settimo movimento, indovinate quale?: proprio il Lied che invece Mahler dirottò sulla Quarta!

Certo, tutto poi finisce col plateale e scolastico MI maggiore - canonica tonalità di pace, tranquillità ed estasi – con canti e danze sotto la bacchetta autorevole di Sankt Cäcilia. Ma prima non erano mancati squarci assai poco paradisiaci: non per nulla, il tutto viene dal Wunderhorn, una raccolta di stornelli, poesiacce da strada, canti disperati di gente dall’esistenza subumana, inferni terreni (Das irdische Leben, ascoltato proprio una settimana fa con la Santa Cecilia) e paradisi posticci (Das himmlische Leben, appunto) dove si divertono, insieme, il pescatore volante San Pietro ed Erode, il macellaio. Il Sant’Uffizio evidentemente al tempo doveva avere cose più importanti di cui occuparsi, altrimenti Arnim&Brentano se la sarebbero vista brutta, a pubblicare cose come Der Himmel hängt voll Geigen...

Insomma, un pot-pourri di idee, sensazioni, umori – non per nulla Humoreske erano chiamati i sei brani preesistenti addirittura alla Terza che dovevano in origine costituire la Sinfonia, solo i due estremi rimasti poi al loro posto, gli altri impiegati nella Terza, appunto, e nella Quinta! – che può apparire disarticolato e privo di una chiara narrativa

Dopodichè si tratta pur sempre di… Mahler, magari nel bene e nel male, ecco. Stenz mi pare abbia tenuto ad accentuare fortemente i contrasti, il che non è una colpa, ma una conferma che la Sinfonia si presta, per le ragioni esposte, ad interpretazioni diverse, da quelle più intimistiche a quelle più espressioniste o persino sguaiate. L’orchestra ha mostrato grandi pregi e anche notevoli individualità.

La voce leggera della Harmsen non ha fatto rimpiangere quelle di soprano (quasi universalmente impiegate) o anche quelle di voci bianche (talvolta scelte in passato da Bernstein).

Alla fine un autentico trionfo ha accomunato tutti: applausi ritmati e ovazioni si sono sprecate per questa bella realtà del panorama musicale italiano.

31 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#6

Il sesto concerto del festival era interamente dedicato (così come il quarto) al Mahler arrangiatore di partiture altrui, nella fattispecie la ri-orchestrazione delle quattro Sinfonie di Robert Schumann. Dopo la Terza interpretata dall’Orchestra Spira Mirabilis, ecco le prime due suonate da un’altra prestigiosa orchestra milanese, quella dei Pomeriggi Musicali, guidata dal giovane newyorkese James Feddeck, che dal 2020 ne occupa la posizione di Direttore Principale.

Uno dei capitoli del nuovo libro Tutto Mahleruscito proprio in occasione e in relazione al Festival, è dedicato dal curatore Gastón Fournier-Facio alla presentazione (da lui tradotta in italiano) che David Matthews predispose per l’uscita del CD delle quattro sinfonie schumanniane riorchestrate da Mahler e incise da Riccardo Chailly con la Gewandhaus di Lipsia.

Vi si legge che nella Prima Sinfonia (la Primavera) oltre a modifiche difficilmente percepibili da un ascoltatore meno che preparatissimo, c’è invece un macroscopico intervento di Mahler, proprio nelle prime 5 battute e riguarda le parti dei corni e delle trombe in SIb (la tonalità d’impianto) che suonano la fanfara di apertura. In realtà qui Mahler non fa che ripristinare l’idea originaria di Schumann, che poi, insoddisfatto della resa del passaggio, aveva attuato un suggerimento di Mendelssohn per porvi rimedio.

Nella versione pubblicata e normalmente eseguita (prima ma anche dopo l’intervento di Mahler) la prima parte della fanfara (suonata all’unisono) percorre una melodia che parte dalla mediante (REb) per poi risalirvi dalla tonica SIb, passando per la sopratonica DO. Quindi: REb/SIb-DO-REb. La seconda parte della fanfara inizia una terza sopra ed è armonizzata per quinte, ottave e terze, partendo dalla dominante FA, per poi ripetere il percorso della prima parte. Quindi: FA/SIb-DO-REb (in rosso gli interventi di Mahler):

Viceversa, la versione originale di Schumann percorreva la melodia esattamente una terza sotto, partendo dalla tonica: SIb/SOL-LA-SIb, poi REb/SIb-DO-REb. Ebbene, Schumann ascoltandola alle prove (dirette da Mendelssohn con gli strumenti senza valvole) si accorse che il SOL e il LA della prima parte uscivano malissimo. E così il Direttore suggerì all’Autore l’idea di innalzare di una terza quelle note.

Ascoltiamo le due versioni: dapprima quella pubblicata (Bernstein, 11”-22” e 23”-35”) e poi quella originale (Chailly, 2”-9” e 10”-18”). Non facciamo caso all’agogica, che è affare dei Direttori, ma la differenza è lampante! Da un punto di vista estetico (ma qui parlo per me) aveva ragione il primo Schumann, che prevedeva una perfetta simmetria fra le due sezioni (percorso tonica-tonica e poi mediante-mediante); simmetria che viene a mancare nella versione pubblicata (mediante-mediante e poi dominante-dominante-mediante) per riallinearsi in vista del passaggio a RE minore, dove Mahler potenzia assai le trombe (si confronti Bernstein, 37”-43” e Chailly, 20”-24”) per poi modificare anche il rullo di timpano (dominante LA al posto della mediante FA di Schumann).

Altri interventi di Mahler riguardano il potenziamento del suono (ad esempio i violini all’inizio del secondo movimento) o la sottrazione di suono (tipicamente degli ottoni) quando rischia di coprire altri strumenti (tipo i fagotti). Interventi sulle dinamiche sono infine percepibili nello Scherzo e poi nel Finale, con crescendi e diminuendi del tutto assenti in Schumann (ma questi sono interventi simili a quelli che molti Direttori fanno comunque nell’interpretare il testo scritto).

Quanto alla Seconda Sinfonia, abbiamo sempre piccoli o piccolissimi interventi di Mahler volti ora a mattere in evidenza, ora a dare meno peso a qualche strumento, per aumentare (secondo lui…) la chiarezza dell’esposizione dei temi. Un esempio lo troviamo precisamente all’inizio della Sinfonia: Schumann lo affida alle due trombe accompagnate dai due corni e da un trombone: in questa esecuzione di Herreweghe si vedono bene (fino a 35”) i due corni… Mahler cancella (qui Chailly, fino a 37”) i corni e il trombone, lasciando soltanto le due trombe in primo piano.

Poi abbiamo ancora interventi su agogica e dinamica, che Mahler tende sempre a… complicare, rispetto alle indicazioni abbastanza scarne e statiche di Schumann. Un intervento sull’armonia è invece presente (anche se può facilmente sfuggire) nelle ultime battute della Sinfonia (qui Herreweghe da 35’39”) da confrontare con Chailly, da 6’56”).           
___
Auditorium non certo esaurito, ma comunque abbastanza popolato e soprattutto da un pubblico che non ha lesinato prolungati applausi alla compagine milanese, che ha mostrato tutto il suo valore, nei singoli come nell’insieme.

James Feddeck (lo vedevo-sentivo per la prima volta…) mi ha fatto un’ottima impressione: a partire dalla misura e parsimonia della sua lettura, mai prendendosi gratuite libertà; gesto sobrio e senza inutili gigionerie, quindi molto efficace (mi ha ricordato il suo connazionale Trevino, che vedremo sabato prossimo, impegnato con la Quinta mahleriana); e infine grande empatia con gli orchestrali, a testimonianza di un rapporto ormai solido e di una comunità di intenti fra podio e Musikanten.

Bella serata davvero, anche dal punto di vista meteorologico, dopo i disastri della scorsa notte!

29 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#5

Dopo tre ospitate ad altrettante Orchestre italiane, è tornata sul palco - insieme al Direttore Emerito Claus Peter Flor - la padrona di casa in un Auditorium ancora pieno come un uovo a dimostrazione del successo che il Festival sta riscuotendo, in particolare fra i giovani, numerosi anche oggi in sala.

In programma c’era oggi la colossale, smisurata Terza Sinfonia, che ci porta, come scriveva il compositore nelle note esplicative (poi ritirate), dalla Terra al Cielo, o anche per-aspera-ad-astra, o ancora, volgarmente, dalle-stalle-alle-stelle! Un programma non diverso da quello individuabile in altre Sinfonie mahleriane, a partire dalla Seconda (dalla-morte-alla-resurrezione). Ma in senso lato presente anche nella Quinta Sinfonia: due movimenti iniziali apparentati dal carattere funebre seguiti da uno di natura giocosa e da un altro di tono lirico prima del finale in gloria. E pure la Settima pare ispirata a questo schema: due tempi estremi, il primo cupo, l’ultimo trionfalistico ed esilarante, inframmezzati da due serenate e da uno spettrale scherzo.

Ma in realtà in termini di struttura musicale dell’opera, parrebbe l’invenzione dell’acqua calda, poiché la Sinfonia stessa, come genere musicale, si andò strutturando così fin da Haydn, come minimo: quattro movimenti, di cui i due esterni più robusti (in Allegro, tipicamente) e i due interni più contemplativi (Andante) e leggeri (Minuetto o poi Scherzo).

La novità di Mahler (in buona parte mutuata dal suo idolatrato – e riorchestrato – Schumann) risiede principalmente nell’abbandonare il principio (Hanslick-iano, potremmo definirlo) di costruzione dell’edificio sinfonico con materiale musicale puro per impiegare invece una tecnica tipicamente teatrale (incluso quel teatro in miniatura che è il Lied…) Approccio non poi troppo diverso da quello di Ciajkovski, ma portato da Mahler alle estreme conseguenze.

Ecco allora che le Sinfonie di Mahler assurgono nientemeno che ad interpretazioni dell'intero mondo, dove troviamo esplicitata in suoni e secondo la visione dell'Autore ogni possibile problematica legata all'esistenza e ai suoi misteri. 
___ 

L’esecuzione odierna non ha mancato l’obiettivo, grazie alla rigorosità che Flor ha impiegato nella sua direzione, che nulla ha trascurato e nulla ha stravolto: dal poderoso attacco degli otto corni (in palcoscenico erano nove…) capitanati dalla coppia Ceccarelli-Amatulli; alle leziosità del Minuetto, con Santaniello protagonista; al mirabile assolo della cornetta-da-postiglione di Alessandro Rosi (dislocato come richiede Mahler fuori dal palco, ma uscito alla fine a raccogliere meritatissimi applausi) alla corposa e calda voce di Anke Vendung in Nietzsche e poi nel Wunderhorn insieme alle piccole di Maria Teresa Tramontin e alle ragazze di Massimo Fiocchi Malaspina; per finire con l’apoteosi del tema beethovenian-parsifaliano che ci ha accompagnato verso il trascendente.

Grandissima emozione, sfociata in lunghi, liberatori applausi e ovazioni per tutti.

L’amore dei tre Re alla Scala


Con più di tre anni di ritardo (causa Covid) sulla data originariamente prevista, è approdato alla Scala L’amore dei tre Re di Italo Montemezzi. Superstiti delle cancellate recite del giugno 2020 sono: il regista Àlex Ollé (Fura dels Baus) e due interpreti del dramma: Giorgio Berrugi e Giorgio Misseri.

 

Opera che ebbe un buon successo nel 1913 (proprio alla Scala con Serafin, e al MET per molti anni a partire da Toscanini) e che tornò alla Scala per altre tre produzioni nell’anteguerra (‘26, ’32 e ’37) e due nell’immediato dopoguerra (‘48 e ’53, come documenta l’Archivio storico). Poi alla Scala è caduta quasi nel dimenticatoio, se è vero che viene riproposta solo oggi, a distanza di 70 anni! In Italia e nel mondo viene ancora rappresentata, ma con il contagocce, e una qualche ragione di ciò ci dovrà pur essere: forse che Montemezzi non era… Strauss?! 

 

Il libretto, derivato per sottrazione dal testo del dramma in versi di Sem Benelli del 1910 è un velleitario miscuglio di classicismo, romanticismo e verismo, con una scrittura dannunziana: il finale ci ricorda Romeo&Juliet, Adriana Lecouvreur e pure il Trovatore (più la Cena dello stesso autore, che Giordano musicherà anni dopo…)

 

Quanto ai personaggi della vicenda medievale, siamo allo standard più rigoroso del melodramma ottocentesco: soprano e tenore che trescano alle spalle del baritono marito di lei; e basso padre-padrone del baritono che alla fine punisce tutti quanti (compreso, involontariamente, il fig!io).

 

I tre Re sono in realtà altrettanti signorotti o cavalieri medievali, due dei quali (Avito e Manfredo) amano sul serio e perdutamente la bella Fiora (che riama il primo ma viene ovviamente sposata al secondo) mentre il terzo (Archibaldo, padre di Manfredo) più che amarla (ma forse un po’ di libidine per lei la conserva…) la sorveglia come un pitbull e, coltala in flagrante adulterio con… lui non sa chi (essendo cieco) la fa secca senza complimenti. Poi per individuare il traditore cosparge le labbra della morta di veleno e così il povero Avito, che viene a baciarne il cadavere, fa una brutta fine, sotto gli occhi del rivale Manfredo. Il quale peraltro, da persona sensibile, saputo dal rivale che Fiora amava costui e non lui, si immola a sua volta baciando la salma. Suo padre arriva e lo prende per il fedifrago caduto finalmente in trappola, per poi scoprire che invece si tratta del proprio figlio! Pace e Amen…

 

Le variazioni fra il testo del dramma e il libretto si possono così riassumere (qui una minuziosa comparazione fra i due testi): nell’Atto primo vengono cassati buona parte dei ricordi del vecchio Archibaldo, disceso come invasore dal barbaro Nord e stabilitosi nel Sud cristiano, nella cui civiltà è cresciuto il figlio sognatore, oltre che guerriero a sua volta, Manfredo; poi parte del suo colloquio con il servitore Flaminio, dove emergono le circostanze che hanno portato alla situazione attuale; ancora una buona parte dell’incontro fra i due amanti Fiora e Avito (dove si scimmiotta Tristan, come succederà anche nell’atto secondo…) con le accuse che Fiora porta all’amato-amante, suo promesso, per non aver impedito che lei fosse data in pegno ad Archibaldo e in moglie al figlio Manfredo; poi tagli allo scontro fra Archibaldo e Fiora, sospettata di tradimento, dove emerge una malsana attrazione-repulsione del vecchio per la giovane e bella nuora!; infine tagliato pesantemente anche l’incontro tra padre e figlio, dove il primo avverte il secondo dei sospetti sulla moglie fedifraga e il secondo non sa spiegare questa severità e questi sospetti (!?)

 

Nell’Atto secondo sono tagliati: l’intera parte iniziale, con gli avvertimenti di Flaminio, guardia del castello, ad Avito (che smania per rivedere Fiora) per suggerirgli prudenza; e poi il lungo incontro fra Archibaldo e Manfredo, dove nel figlio comincia ad emergere qualche dubbio su Fiora, alimentato dai sospetti del padre; ancora buona parte dell’incontro fra Manfredo e Fiora, dove il giovane esterna il suo disagio di fronte alla freddezza della moglie (!); tagliata anche parte del nuovo incontro fra Fiora e Avito (sempre Tristan…); infine parte di quello fra Archibaldo e il figlio, a omicidio compiuto, dove emerge l’abissale distanza fra la cruda e barbara natura del padre e la cristiana carità del figlio.

 

L’Atto conclusivo vede la totale sostituzione della scena iniziale, presso la camera ardente di Fiora, dove nel dramma compaiono dapprima una madre con la figlioletta e poi un militare e un fabbro: rimpiazzata da un coro e dalle invocazioni funebri del popolo. Tagliato infine parte dell’incontro padre-figlio, con la rabbia del primo per la natura cristiana del secondo (!)

 

Come si vede, differenze non da poco, che danno al libretto un taglio meno crudo rispetto al dramma originale, anche se va riconosciuto a Benelli di aver agito con plausibile buonsenso, per preservare per quanto possibile l’integrità del soggetto e nello stesso tempo stringerne i tempi, che nell’opera sono davvero serrati (tre atti per 100 minuti in tutto).   


Quanto alla musica, va inoltre riconosciuto a Montemezzi l’intento di coniugare verismo a wagnerismo (niente numeri chiusi, se si esclude l’iniziale esternazione di Archibaldo; misurato impiego di larve di Leitmotive) pur con risultati altalenanti. Le parti più interessanti sono quelle di natura sinfonica (introduzione degli atti e brevi transizioni fra le diverse sezioni dell’opera) dove il contemporaneo Strauss fa capolino qua e là (massimamente poi nelle ultime battute del dramma).

 

Per ciò che attiene alle voci, proprie del verismo sono le parti assai impervie di tenore e soprano, appena più abbordabili quelle di baritono e basso. Limitato in quantità e difficoltà l’impegno del coro.   


Insomma, un onesto né-carne-né-pesce, che forse non meritava né il successo in anteguerra, né il successivo dimenticatoio… Prendiamolo per quello che è e ringraziamo la Scala per avercelo riproposto dopo 14 lustri!

___
Intanto una domanda: l’intera opera dura 100 minuti: ora, perché mai fare un intervallo di 25 minuti prima del terz’atto di 23 minuti? Perfida risposta: lo impone l’appaltatore dei bar!!! Che – di questo passo – imporrà un intervallo anche per Rheingold, Salome, Elektra e… (Pare che siamo sulla buona strada che riconduce al lontano passato, quando a teatro si andava per mangiare, bere, spettegolare e… amoreggiare, con sporadiche pause di attenzione per ciò che accadeva in palcoscenico.)

Comincio dall’allestimento di Ollè per elogiarlo senza riserve: pieno rispetto di spirito e lettera del libretto, ambientazione cupa come si addice a questo nerissimo dramma. Scena (Alfons Flores) con una base praticamente fissa: foresta di catene che pendono dall’alto fino al suolo (sono la metafora della prigione in cui si svolge il dramma); nel primo atto un separè del palco ci mostra la camera da letto dove Fiora e Avito amoreggiano, che diventerà camera ardente nel terz’atto. Nel secondo atto dallo stesso pavimento emergono due scale e un ripiano che rappresentano la terrazza e la torre del castello: una delle scale, dalle quali si sale verso il ripiano, verrà spostata in alto nel terzo atto, a rappresentare la scala da cui si scende dal castello alla cripta sottostante, dov’è composta la salma di Fiora.

I costumi (Lluc Castells) sono piuttosto generici: una tunica chiara per Fiora e giacconi/cappotti scuri per gli altri. Le luci (Marco Filibeck) creano in realtà… il buio in cui è immerso psicologicamente l’intero dramma.

Assai curata la gestione dei personaggi, singoli e in gruppo. Una curiosità, un dettaglio ma significativo: prima di mostrarci l’atto con cui Archibaldo cosparge di veleno la bocca della defunta Fiora, Ollè fa chinare il vecchio sul cadavere per poi baciarne proprio la bocca. Un’invenzione gratuita? Al contrario, ci conferma i sospetti (annacquati nel libretto rispetto al testo originale) sulla possibile libidine del suocero per la nuora!  
___

Purtroppo, note non altrettanto liete sul fronte musicale. A partire dalla direzione di Steinberg, che ha forse calcato troppo la mano in chiave verista, con qualche fracasso di troppo che a volte ha coperto le voci.

A proposito delle quali cito subito la positiva prestazione di Chiara Isotton, che ha scatenato il suo vocione, proprio verista, persino con eccessiva foga: quando riuscirà a tenerlo a briglia potrà raggiungere qualsiasi traguardo, poiché il timbro della voce è di grande purezza, il volume sfida ogni vastità ambientale e nel portamento sa cavarsela assai bene.

Per il resto niente di trascendentale: ad Evgeny Stavinsky (Archibaldo) bisogna concedere l’attenuante della chiamata quasi all’ultimo minuto, così gli darò una sufficienza politica: voce piuttosto cavernosa e timbro non proprio purissimo, caratteristiche non troppo edificanti, come già avevo avuto modo di constatare da qualche anno… quindi i miglioramenti tardano…

Roman Burdenko è stato un Manfredo dignitoso, ma non più: la voce non è di quelle che ti colpiscono per colore, timbro e potenza. Il LAb del finale (ammesso ci fosse) è stato coperto alla grande da Steinberg!      

Fra il sufficiente e il discreto l’Avito di Giorgio Berrugi, voce abbastanza potente (ha già fatto Siegmund!) ma dal timbro non proprio pulitissimo. Meglio di lui Giorgio Misseri, sia pure in un ruolo (Flaminio) di assai minore importanza.  

Gli altri comprimari come da… contratto sindacale. Onesta la prestazione del Coro di Malazzi, davvero un impegno minuscolo, il suo.   

Pubblico non oceanico, che ha tributato applausi a tutti, ma per un tempo… limitato (nessuna uscita finale a sipario chiuso, per dire).

Ecco, adesso per altri 70 anni con Montemezzi siamo a posto! 

28 ottobre, 2023

Orchestra Sinfonica di Milano – Mahler-Festival#4

Altra Orchestra ospite per il quarto appuntamento del Festival Mahler: la Spira Mirabilis, la cosiddetta orchestra-senza-direttore (e senza confini, aggiungerei) che per l’occasione si è cimentata nella Terza Sinfonia di Schumann, la Renana, nella versione orchestrata da Gustav Mahler (il che spiega il suo inserimento nel Festival). Nei due giorni scorsi l’Orchestra l’ha già eseguita (come rodaggio…) nella sua terra di nascita modenese, precisamente a Formigine e San Possidonio.

Uno dei capitoli del il nuovo libro Tutto Mahler, uscito proprio in occasione e in relazione al Festival, è dedicato dal curatore Gastón Fournier-Facio alla presentazione (da lui tradotta in italiano) che David Matthews predispose per l’uscita del CD delle quattro sinfonie schumanniane riorchestrate da Mahler e incise da Riccardo Chailly con la Gewandhaus di Lipsia. Vi leggiamo che i principali interventi del compositore boemo riguardano le parti di trombe e timpani (soprattutto tagli nei due movimenti esterni) e poi interventi su molti passaggi, volti a sottrarre o aggiungere strumenti per ottenere nuove o più trasparenti sonorità.

In generale gli interventi di Mahler rischiano di sfuggire ad un ascoltatore non preparatissimo, e solo un minuzioso ascolto comparato fra lo Schumann originale e quello… mahlerei può mettere in chiara evidenza le differenze. Va infine aggiunto che molti esperti tendono oggi a rivalutare proprio il barbaro originale di Schumann (un po’ come è accaduto a Musorgski, liberato dalle incrostazioni di Rimski…) 

Ma queste disquisizioni su Schumann-Mahler in fondo contano poco di fronte all’incredibile realtà della Spira Mirabilis, che è la più netta smentita alla tesi proposta da Fellini nel suo Prova d’orchestra! Certo, capita spesso (e per fortuna!) che un’intelligenza singola arrivi più in alto o più in là di un’intelligenza cooperativa: i Mahler, Walter, Furtwängler, Karajan, Bernstein, Abbado, etc. ne sono prova lampante, ma… è altrettanto vero che la cooperazione fra individui di pari diritti e autonomia può ben tener testa ad una tradizionale organizzazione verticale ed aziendalista.

Ne abbiamo proprio avuto conferma qui: ascoltando una compagine che sa creare grandi esecuzioni con il contributo non solo materiale ma anche intellettuale di tutti.

Dove tutti significa anche ciascuno, e così anche le consuetudini riservate al Direttore o al Solista di concerto qui si estendono a tutta la compagine che, finita la Sinfonia, esce tutta insieme di scena e poi tutta insieme rientra (e non una sola volta!) per ringraziare degli applausi del pubblico.

Personalmente rimpiango solo di non essermi potuto trattenere (Scala incombente!) più a lungo per assistere al consueto congedo dei musicisti dal pubblico, invitato a commentare, chiedere, scambiare impressioni sull’opera eseguita e sulla vita dell’Orchestra.

Resta comunque la sensazione di aver vissuto un’esperienza (almeno per me) unica nel suo genere.