Riprendo
il discorso partendo dal concetto, caro a Roberta Pedrotti, della coerenza in sè dello spettacolo proposto
dal regista, che sembrerebbe (almeno così mi pare di interpretare) condizione
sufficiente per promuovere un allestimento di opera lirica.
La mia personale convinzione - già anticipata
nella puntata precedente - è invece che la coerenza
in sè sia condizione necessaria,
ma appunto non sufficiente per dare la
sufficienza allo spettacolo. E che il proliferare di allestimenti coerenti
in sè ma incoerenti con l’oggetto sottostante stia ormai inducendo nello
spettatore un tipico
fenomeno di dissociazione, qui intesa
come separazione in compartimenti stagni (o in piani paralleli) fra la fruizione della componente suoni (testo+musica) e quella della componente immagini (appunto, la scena); ciascuna delle quali viene
fruita (e quindi giudicata) di per sè, e non all’interno di un insieme
organico, così come concepito dall’Autore (o Autori) nel quale le due
componenti si compenetrano necessariamente per creare un oggetto di forma
compiuta.
Pensiamo a ciò che accade ad uno
spettatore che assiste per la prima volta ad un’opera della quale non ha alcuna
(o ha solo superficiale) conoscenza; magari presentata in una lingua a lui
sconosciuta, quindi di non immediata decifrazione. Quali saranno le sue
reazioni? Egli naturalmente tenderà a dissociare i due piani: cioè apprezzerà
(se apprezzabili secondo i suoi gusti) i suoni che raggiungono le sue orecchie;
e separatamente apprezzerà (se apprezzabile secondo il suo gusto) ciò che raggiunge
i suoi occhi. Anche volendo, gli sarebbe oggettivamente difficile cogliere, e
men che meno giudicare, la coerenza fra i due piani.
Ecco, l’atteggiamento che in
quello spettatore ignorante è un
fenomeno riflesso, cioè non cosciente, conseguenza naturale della sua stessa
ignoranza, e quindi pienamente comprensibile e perfino giustificabile, nello
spettatore informato ed esperto rischia sempre più spesso di diventare
l’approccio cosciente alla fruizione dello spettacolo. Che viene giudicato
separatamente nelle sue due componenti, e non nella sua organica totalità. Così
si spiegano giudizi positivi (a volte trionfalistici) di allestimenti che hanno
soddisfatto (separatamente) l’orecchio e l’occhio dello spettatore, anche
quando invece mancano in tutto o in parte l’obiettivo della coerenza fra le due componenti dello
spettacolo.
Naturalmente questa incoerenza
non è mai casuale, ma è sempre determinata da una precisa e programmatica
scelta (il Konzept, come lo si
definisce in Germania, patria del Regietheater)
del responsabile dell’allestimento: il regista. Ruolo che ha assunto via via
sempre maggior importanza (e visibilità) proprio perchè, evolvendosi, ha
ampliato a dismisura il suo raggio d’azione: da puro portatore in scena (interprete)
di un oggetto dato, a decifratore (lo
scavo cui allude Pedrotti) di aspetti
nascosti nell’oggetto originale. Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici:
si va dalla constatazione della pochezza o della totale inattualità dei testi (i libretti)
delle opere da mettere in scena (questo si applica per lo più al melodramma
ottocentesco); alla pretesa di estrarre dal soggetto originale, per farli
assurgere a pilastri della proposta teatrale, aspetti più o meno importanti o
anche marginali che possano però far emergere chiari riferimenti all’attualità politica, sociale, filosofica,
religiosa, estetica (ne sono esempio le tante interpretazioni del Ring wagneriano); alla tecnica
consistente nel de-strutturare il
soggetto originale per poi impiegarne alcune componenti per ricostruirne un
altro con caratteristiche diverse se non addirittura contrastanti con quelle
dell’originale medesimo. All’uopo, nel tempo la figura del regista è stata
affiancata da quella del Dramaturg
(uso il termine crucco) responsabile di suggerire al regista potenziali aspetti
nascosti nel testo e meritevoli di essere valorizzati e messi in primo piano.
Insomma, il rispetto del testo originale (sul quale, non andrebbe
mai dimenticato, è stata composta la musica)
è diventato quasi un optional, il che
può trovare consenziente qualche spettatore preparato, magari sempre in cerca
di nuovi... stimoli purchessia,
quando assiste per l’ennesima volta alla messinscena di un titolo
conosciuto a menadito; ma che rischia di diventare deleterio proprio per lo
spettatore naif o neofita, indotto a
fare una conoscenza distorta dell’opera cui ha assistito.
Oggi la stessa critica musicale (e
mi pare che la Pedrotti condivida) ha accettato come dato di fatto questa
situazione, tanto da proporre una categorizzazione degli allestimenti di opere:
fra quelli che raccontano la storia
originale e quelli che raccontano
un’altra storia. Attribuendo quindi piena legittimità anche ai secondi,
purchè siano per l’appunto coerenti in sè.
Naturalmente qui non parlo di storia come di pura trama, ma come di sostrato
concettuale dell’opera e - più in dettaglio - di natura di ambienti, personaggi
e azioni che ne costituiscono il corpo.
Comincio a far qualche esempio
per non cadere nel pedantesco. Oltre a Michieletto, propongo Graham Vick che, insieme al regista
veneto, è uno dei beniamini di Roberta Pedrotti, che lo cita più volte nel suo
saggio.
Di cosa tratta Un
ballo in maschera? Della prosaica storia di un personaggio importante
che si fa trascinare dalla sua esuberanza e finisce male. Il protagonista è
un’altissima autorità (il Re di Svezia,
nientemeno, all’origine... poi diventato un Governatore
di Sua Maestà Britannica, per ragioni
di censura) al quale l’infatuazione adultera per la moglie del suo fedelissimo
plenipotenziario e l’eccesso di trasporto verso il suo popolo giocano un brutto
scherzo, che lo porta a lasciarci le penne. Che l’ambientazione sia nella
Svezia del testo originale, o nel Massachusetts di un secolo addietro come nel
libretto verdiano, fa assai poca differenza, poichè i due macro-socio-e-psico scenari si assomigliano assai (un sovrano e
un’emanazione di un sovrano che vivono la stessa vicenda).
Damiano
Michieletto (2013) mette in scena l’opera alla
Scala. La ambienta nel Massachusetts, precisamente come da copione. Poi però,
nel lodevole intento di rendere il soggetto attuale,
cioè più immediatamente vicino alla nostra contemporaneità, sposta i tempi dell’azione al giorno d’oggi,
durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore dello Stato. Ahi
ahi, qui cominciano i guai, poichè la storia di un Governatore che si deve far
rieleggere al termine di una campagna elettorale - dove stratagemmi e colpi
bassi fra i candidati si sprecano - sta precisamente agli antipodi di quella
del testo originale, dove Riccardo ha un’investitura che gli viene dall’alto,
non da una maggioranza (anzi minoranza, in termini assoluti) della popolazione:
non sto a tediarvi oltre - salvo che proprio non lo vogliate
- sulle mille e sostanziali differenze (a livello sociale, psicologico,
comportamentale) fra i due scenari. In sostanza, qui si racconta - e assai
bene, per carità - un’altra storia,
coerente in sè. Domanda: la musica e
il testo ci fanno scopa lo stesso?
Questo esempio è catalogabile
sotto la casistica attualizzazione
del soggetto originale. In sostanza il regista intende far sì che l’opera parli a noi del terzo millennio, e non
ai nostri trisavoli di metà ‘800. Ora, si può concedere che i tempi
cambino, che l’approccio dello spettatore si evolva, che freni censori e
inibitori siano via via caduti, rendendo possibile oggi raccontare verità che
150 o più anni fa erano tabù e potevano essere trasmesse soltanto previo
camuffamento e senza fare espliciti riferimenti all’attualità (di quei tempi). Ma
credo francamente che questo atteggiamento (del regista moderno) faccia un
torto all’intelligenza di autori e pubblico, sia quello dell’epoca di creazione
delle opere che quello attuale.
Ammesso infatti che l’intento di Verdi fosse quello di mandare al
pubblico messaggi, per così dire, di natura socio-politica o di costume, e che
fosse costretto, dalle usanze e dalle censure di allora, a farlo ricorrendo a
soggetti ambientati in altri tempi (al passato, tipicamente) e non immersi nell’attualità,
potremmo spiegare il successo dell’opera solo in due modi: a) essa era così immediatamente
e superficialmente coinvolgente tanto da essere apprezzata anche senza essere capita
dal vasto pubblico; ma allora non si vede perchè ciò non possa funzionare anche
oggi (della serie: prima la musica...);
b)
il camuffamento funzionava perfettamente, essendo il pubblico abbastanza
intelligente da individuare il messaggio dietro l’inattualità della
presentazione; il che ci farebbe concludere che i nostri trisavoli fossero assai
più scafati di noi, se noi abbiamo
bisogno del regista attualizzatore
per decifrare il messaggio che si cela dietro l’inattualità del soggetto!
___
Vengo ora al Mosè in Egitto. Opera su
soggetto biblico: alle vicende narrate nel Vecchio Testamento il librettista Tottola aggiunse solo la trama amorosa Osiride-Elcia (speculare alla futura Ismaele-Fenena di Verdi) per necessità
squisitamente melodrammatiche (altrimenti tenore e soprano dovevano fare
davvero quaresima) ma anche drammaturgiche (giustificare le richieste di
Osiride al padre per trattenere gli ebrei). Andrebbe sempre ricordato che
l’opera fu espressamente composta per la Stagione
di Quaresima nella Napoli del 1818: quindi programmaticamente a sfondo
religioso e a scopo di meditazione e raccoglimento; politica? ideologia? nulla
di tutto ciò, ed è precisamente la musica
a stabilirlo.
Graham
Vick (2011) mette in scena l’opera al ROF.
La ambienta nel Medioriente del ‘900, mostrandoci gli ebrei compiere azioni
terroristiche in serie (le piaghe che Dio manda sull’Egitto) per conquistare la
libertà. È quindi la storia - fedele come un documentario giornalistico - della
nascita dello Stato d’Israele, con
gli attentati al King David, la
strage a Deir Yassin, e con Mosè
(sembra BinLaden, ma è in realtà Jabotinsky)
che canta Dal tuo stellato soglio
imbracciando un Kalashnikov; e giù giù fino ai giorni nostri. Proposta
assolutamente coerente in sè, e
realizzata con la proverbiale maestria del regista albionico. Domanda: la musica e il testo ci
fanno scopa lo stesso?
Qui siamo in presenza di una diversa, e assai più
ardita (io aggiungo: subdola) forma di attualizzazione:
si prende spunto dal soggetto originale (la vicenda biblica del popolo ebraico che
cerca di sfuggire alla cattività egiziana - con continui riferimenti a fatti miracolosi) per presentare, impiegando
testo e musica di Rossini, vicende delle quali noi siamo stati testimoni, avvenute
più di un secolo dopo la creazione
dell’opera e caratterizzate da fatti tutt’altro che miracolosi. Il risultato è
che la colonna sonora (Rossini si deve rassegnare) sia del tutto inadeguata a
supportare lo spettacolo...
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La donna del lago.
Romanzo storico, Walter Scott, una
donna che si serba fedele al suo innamorato di modeste origini, resistendo faticosamente
alla tentazione di accettare le profferte di un altro sincero innamorato, uno
sconosciuto che alla fine si scopre essere nientemeno che... il Re. Il lieto
fine, arrivato dopo innumerevoli peripezie, certo non deve far pensare ad un
racconto di Harmony, ma è ciò che il
testo racconta.
Damiano
Michieletto (2016) la mette in scena, ancora al
ROF. E inventa letteralmente un’altra storia, immaginando ciò che avviene dopo il lieto-fine. Rivisitando quindi l’intera
vicenda con il senno di poi,
rappresentato dalla presenza quasi costante in scena dei due personaggi uniti
in matrimonio nel lieto-fine dell’opera, ma con sulle spalle 20 anni in più e le esperienze del matrimonio. E siccome è matematico che anche le
unioni più stabili incontrino nel tempo crisi e ripensamenti, ecco che tutta la
vicenda oggetto del testo originale viene inquinata
dalle ombre che arrivano dal futuro
(!) Anche qui: lo spettacolo è ben curato, a parte qualche... imitazione; e
soprattutto è coerente in sè. Ma
torna, impietosa, la domanda: la musica
e il testo ci
fanno scopa lo stesso?
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Ecco ora Semiramide. Pochi dubbi
che il cuore dell’opera sia, toh, Semiramide! In caso contrario Rossi (e
Rossini, convinto da lui) avrebbe titolato: Arsace,
ovvero la vendetta di Ninia... o qualcosa di simile. La sbifida regina di
Babilonia (su di lei e sui suoi liberi
costumi sono scorsi fiumi d’inchiostro) è il personaggio chiave dell’opera
e ideale per chi voglia occuparsi - anche nel teatro musicale - di casi clinici
da affidare alle cure di Freud o di... Basaglia. Rossini ovviamente ci mette le
sue note a corredo, il che rende immortale un testo (Rossi non ce ne voglia)
che avrebbe avuto di suo morte prematura.
Graham
Vick vi si cimenta al ROF del 2019. Chi è il
protagonista, secondo lui? Mica certo Semiramide (buoni tutti...) No no, è
appunto Arsace, quello della vendetta di
Ninia, che Vick mette al centro del suo Konzept,
lui e la sua vendetta. Vendetta che
prende quindi il posto della sacrosanta giustizia
divina, della quale nel testo di Rossi si fa tramite il talebano Oroe.
Spettacolo ovviamente coinvolgente, dato il mestiere del regista. A costo di
essere molesto, chiedo: la musica e
il testo ci
fanno scopa lo stesso?
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Non c’è bisogno, credo, di
precisare che gli esempi di cui sopra sono, appunto, esempi, che ho tratto da
un insieme ben più ampio di produzioni dei due registi citati. E non mi sogno
certo di generalizzare all’insieme ciò che si applica ad una parte (piccola o
grande che sia) delle loro produzioni, come di quelle di ogni altro regista in
circolazione. Di Michieletto mi limito a citare, come prove a discarico, la sua
Scala di seta (ROF) e le sue Nozze di Figaro (Fenice). Di Vick il
recente Die tote Stadt (Scala), la Bolena a Firenze e l’ormai storico Moïse al ROF.
Dovessimo esaminare tutte le
produzioni di Carsen, Guth, Herheim, DeAna, Loy, Bondi, Bieito, McVicar, Martone e così via
troveremmo cose buone e meno buone. É su quelle meno buone (anche se magari
tutte coerenti in sè) che mi sento di
eccepire, per le ragioni addotte. E infine ribadisco la mia impressione: che la
crescente enfasi posta sulla messinscena induca sempre più lo spettatore (ma
anche il critico) a giudicare separatamente ciò che arriva all’occhio da ciò
che arriva all’orecchio, dando troppo spesso peso prevalente alla prima componente e mettendo
in secondo piano la coerenza con la seconda.
Ciascuno a questo punto può giudicare se il fenomeno
sia da guardare di buon occhio, come un progresso della civiltà, o invece da considerarsi regressivo (della serie
O tempora, o mores...)
___
(2. fine)