ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

17 ottobre, 2020

Alla Scala l’ipertrofico ma umano Mahler di Mehta

Ancora Zubin Mehta sul podio scaligero per la seconda delle tre esecuzioni della mastodontica Terza di Mahler. La quale tenne a battesimo, nell’ormai lontano 1982, sotto la bacchetta del suo fondatore Claudio Abbado, la neonata Filarmonica della Scala, allora sponsorizzata da Mediaset (precisamente dal colto Confalonieri, non già dal musicista da strapazzo Berlusconi...) che irradiò in diretta il concerto su Canale5. Beh, erano tempi in cui la cultura ancora trovava un minimo di spazio e attenzione anche nel mondo del business, che oggi si dedica caso mai a guidare con TV e giornali la macchina della politica.

La quale, applicando le prosaiche regole del business, toglie risorse alla cultura, considerata centro di costo e non di profitto. E, sempre seguendo questo principio, consente ogni deroga alle regole di distanziamento in bar, ristoranti e luoghi pubblici consimili, riempie i mezzi di trasporto all’80% (in realtà anche al 120%...) mentre impone a teatri e sale cinematografiche - dove per definizione si sta seduti e composti a godersi lo spettacolo - assurde limitazioni di capienza (10-20% al massimo). Così è bastata la recente impennata di contagi (preoccupante, ma certo non imputabile ai teatri) per tarpare le ali alla nascente stagione scaligera, il cui annuncio, programmato per ieri mattina, è stato rinviato sine-die stante la minaccia di nuovi lock-down. Non solo, ma anche gli spettacoli già programmati dal 20 ottobre in avanti sono sub-judice e rischiano l’annullamento. Invece: fermare campionati e coppe? Dico, scherziamo?
___
Bene (anzi... malissimo) torniamo a Mahler-Mehta. Il venerabile Direttore indiano ha approcciato questa Terza con la stessa serenità da grande-vecchio che aveva mostrato con Strauss, ma anche con Verdi: non è il Mahler sesquipedale che troppo spesso ci viene propinato (anche sulla base di ragioni non proprio peregrine, come ho già ricordato tempo fa) ma un Mahler al quale è come fossero stati aggiunti 10 anni di età, rispetto a quella che aveva nel 1894-96 quando compose la sinfonia. Meno sanguigno, meno velleitario, ma forse più... umano, ecco.

Brave le coriste e le voci bianche di Casoni nel loro bimm-bamm; discreta la Daniela Sindram (per me meglio in Arnim-Brentano che in Nietzsche...); emozionante la tromba - pareva arrivare dall’aldilà - del postiglione Francesco Tamiati, tutti lungamente applauditi dopo questa autentica maratona.

Ma il trionfatore è stato ovviamente lui, il grande vecchio Zubin, che fatica a reggersi sulle gambe, ma che ha la testa a posto più di tanti giovani!

16 ottobre, 2020

laVerdi 20-21. Concerto n°4

Il Direttore Generale ed Artistico de laVerdi, nonchè fondatore dell’ensemble laBarocca, Ruben Jais, sale sul podio questa settimana guidando una compagine che comprende elementi di entrambe le formazioni orchestrali (solo archi, più un clavicembalo) per offrirci un concerto che affianca Vivaldi a Piazzolla, avente per oggetto le stagioni. Si tratta di un concerto originariamente previsto per lo scorso giugno e andato in fumo, insieme al resto della stagione 19-20, causa virus.

Il programma riproduce - con qualche geniale variante - quello presentato qui nell’ormai lontano 2013 con Bignamini sul podio.

Sul palco entrano quindi 36 strumentisti, così dislocati: nella parte sinistra (rispetto a pubblico e Direttore) 19 elementi (4+4+4+4+3) de laVerdi, solista Luca Santaniello e spalla Lycia Viganò (che normalmente è prima parte dei violini secondi) che suonano Piazzolla; nella parte destra 14 elementi (4+4+3+2+1) de laBarocca, solista Gianfranco Ricci (collega della Viganò nell’Orchestra principale) e spalla Diego Castelli, che suonano Vivaldi; al centro il clavicembalo (che suona con i barocchisti, ma mette lo zampino - chiusa della Primavera - anche con i moderni). La differenza fra moderni e barocchisti si evidenzia già al momento dell’accordatura dei rispettivi ensemble: LA a 442 per i primi, LA a 415 (un semitono sotto) per i secondi...

La sequenza esecutiva vede per tre-quarti (Primavera-Estate-Autunno) l’alternarsi regolare delle due compagini: prima i barocchisti e poi i moderni. Al termine di ciascun brano il pubblico può liberamente applaudire. Qui però Jais cambia l’ordine e fa eseguire l’Invierno Porteño ancora ai moderni, e poi inventa una mirabile transizione diretta all’Inverno vivaldiano, facendo trascolorare la chiusa sognante (e... vivaldiana) di Piazzolla nell’attacco rabbrividente (Agghiacciato tremar trà nevi algenti) del Prete rosso, che poi chiude il concerto con il consolante Quest'è 'l verno, mà tal, che gioja apporte.

Una proposta invero eccellente, e impreziosita dalla splendida prestazione di tutti, che il pubblico ha accolto con grandissimo calore. Dopo ripetute chiamate, Jais esce di scena e vi restano i due complessi che ci regalano, presentato da Santaniello, un bis con i fiocchi: il celebre Libertango di Piazzolla suonato insieme da tutti quanti (con Tobia Scarpolini che ha abbandonato il suo cello per fare da... percussionista e dare il ritmo)! Il che non è precisamente cosa di tutti i giorni, nè da tutti, dato che i due ensemble hanno accordature diverse. Così, per suonare il pezzo - che è in LA minore - in perfetta consonanza, i barocchisti han dovuto evidentemente trasportare la (loro) tonalità in SIb minore (5 bemolli in chiave!)

Successo strepitoso e applausi ritmati, a dare un po’ di luce e di ottimismo a questa serata piovigginosa, dopo una giornata funestata ahinoi da nuovi record covidiani.


09 ottobre, 2020

laVerdi 20-21. Concerto n°3

L’appuntamento di questa settimana è per un concerto idillico... A dirigerlo torna sul podio dell’Auditorium un giovane che vi aveva esordito nella scorsa stagione, meno di un anno fa: il Direttore Musicale della Toscanini di Parma, il bel (!) britannico Alpesh Chauhan.

Il pericolo nascosto nel programma del concerto è quello di... conciliare il sonno (!) Scherzo, naturalmente, ma mi riferisco alle dolci e cullanti ninna-nanna che mamme e nonne amorose canticchiano sussurrando ai bebè, e che hanno un effetto infallibile. Qui abbiamo tre brani che in tutto presentano si e no un paio di impennate, rimanendo per il resto su agogiche e dinamiche assolutamente riposanti. Due dei tre sono, di fatto o di nome, delle serenate; quello centrale è una... dichiarazione d’amore.

Wagner, Brahms, e in mezzo Webern: i due capi-fazione della musica del tardo ‘800 e uno dei rivoluzionari del primo ‘900, ma ancora, per così dire, con i calzoni corti, e quindi rispettoso dei sacri padri e caso mai loro solerte seguace.

Ed è proprio un brano che reca Idillio nel titolo quello che apre la serata: il wagneriano Siegfried-Idyll, della cui genesi ho già riferito (per bocca di Teodoro Celli) in questo precedente scritto. É un regalo di compleanno composto per una compagine domestica, quindi tipicamente Covid-compliant (haha!) perchè fatta di 8 fiati e 5 archi in tutto. Qui gli archi sono 23, 3 in eccesso (una viola, un cello e un basso) rispetto ai 20 prescritti da Wagner al momento di far stampare la partitura.

Insomma, qui ascoltiamo questo patchwork (in senso buono) dal terz’atto dell’opera quasi come lo udì, nuovo di zecca, la Cosima col piccolo in braccio, quel Natale svizzero del 1870. E l’Orchestra smagrita non ha deluso le attese, suono leggero, etero e dinamiche che Chauhan ha mantenuto sempre contenute, anche nel passaggio più eroico, quello che evoca il Siegfried erede della potenza del mondo.

___
Adesso i fiati restano lì seduti a riposare, mentre i 23 archi ci propongono un inaspettato (perchè... diatonico!) Anton vonWebern, con il suo Langsamer Satz, composto originariamente (1905) per quartetto d’archi e poi arrangiato (1995) per ensemble - così lo si esegue qui - da Gerard Schwarz. Per curiosità, questo era uno dei brani eseguiti al Quirinale il 1° giugno di quest’anno - unico spettatore, il Presidente Mattarella - dagli strumentisti dell’Opera di Roma diretti da Daniele Gatti per accompagnare la fine del famigerato lockdown (e - coi numeri di questi giorni - tocchiamo tutto ciò che c’è da toccare per scongiurarne la recidiva!)  

Tornando a bomba, erano tempi in cui un tale Hanslick era appena stato seppellito, ergo la musica aveva finalmente il permesso di recapitare all’ascoltatore sensazioni, stati d’animo, immagini, gioie-dolori o anche incubi, insomma: musica a programma! Ora, questo pezzo, rimasto nel cassetto per 50 anni e pubblicato abbondantemente dopo la morte di Webern, non reca indicazioni programmatiche semplicemente perchè esse furono affidate ad un tweet (!) dell’Autore (allora poco più che ventenne) che informava del suo stato d’animo salito al settimo cielo (accanto alla mia amata, ...totalmente in armonia con l'universo) durante un trekking nella pace idilliaca di boschi e prati, insieme ad amici e in particolare alla cugina Wilhelmine, sua futura moglie, della quale era perdutamente infatuato.

Sul piano musicale, non si sbaglia sospettando che l’ispirazione per questo movimento di quartetto sia venuta a Webern dalla Verklärte Nacht del suo insegnante Schönberg, che gli aveva assegnato dei compiti-a-casa. Il brano è persino pre-atonale, come certifica anche la presenza di accidenti-in-chiave (3 bemolli, salvo una parentesi senza accidenti). Ecco, siamo ancora in pieno fervore tardo-romantico, pur con venature espressioniste, e la glacialità della dodecafonia dovrà aspettare parecchio... Non saprei dire se si tratti di pura coincidenza, o se Webern lo abbia fatto di proposito, ma l’attacco del brano (DO minore che vira rapidamente a MIb maggiore) mi ricorda Rossini (Mosè) e la frase Pietà de’ figli tuoi, del popol tuo pietà, che parte in SOL minore e sfocia in SIb maggiore. Ebbene, Webern è più diatonico di Rossini: la sua frase percorre inizialmente tutte e sette le note della scala di DOm-MIbM e solo più avanti introduce qualche alterazione cromatica; mentre Rossini ne introduce una (una quarta eccedente) già sulla quinta nota della melodia!

___
Ora è il momento di seguire una pregevole esecuzione della versione originale, proposta dall’indimenticabile Quartetto Italiano. La figura riporta i principali temi e motivi del brano:

Lo specchietto qui sotto reca invece i principali traguardi dell’esecuzione proposta, che possono orientare la comprensione della struttura del brano, che si presenta come una forma-sonata assai liberamente interpretata, con un’esposizione di tre temi e una successiva ripresa che si tinge anche di sviluppo, prima della coda conclusiva:

Qui invece è il trascrittore che dirige il suo lavoro per ensemble di archi.

Come si nota, il centro tonale del brano è costituito dalla coppia di relative DOm-MIbM, tonalità che, fin dalla seconda battuta, sembrano fondersi e trascolorare l’una nell’altra; ma poi troviamo frequenti modulazioni o brevissimi incisi anche verso tonalità lontane: una testimonianza dell’omaggio che il giovane Webern tributa alla tradizione tardo-romantica cercando al contempo di spingersi oltre, come dimostra anche la distorsione della forma-sonata, che Webern porta all’estremo con il contemporaneo Quartetto.

Un’esecuzione, quella dei 23 alfieri de laVerdi guidati da Dellingshausen, che mi sentirei di definire davvero eccellente, per la pulizia di suono e - grazie ai tempi staccati da Chauhan, mai troppo letargici - per il giusto grado di pathos che emana da ogni battuta di questa partitura giovanile. 

___
Ha chiuso la serenata la Serenata Op.16 di Brahms. È il secondo approccio a questo genere musicale che servì al burbero amburghese (con l’altra Serenata Op.11 e il primo Concerto per piano Op.15) a prendere le misure alla Sinfonia, cui approderà tre lustri dopo e ormai lungo-barbuto (!)

Particolare curioso: alla sezione degli archi mancano proprio i violini (!) che forse Brahms temeva schiarissero troppo il colore del brano, che lui evidentemente voleva morbido, ombroso e discreto. E in effetti, a differenza della prima, questa Serenata ha un tono dimesso, intimistico, che nemmeno lo Scherzo altera troppo, e dove solo il Finale si anima un poco, ma proprio poco.

Rientrati quindi a casa anzitempo i violinisti, le viole, che stavano prima al proscenio, si sono trasferite sulle sedie (opportunamente sanificate, come i leggii, non si sa mai!) dei secondi violini, cosicchè il proscenio è rimasto occupato da sole sedie vuote... Il che non ha per nulla guastato l'impasto sonoro fra i fiati - che fanno la parte del leone in questa partitura - e gli archi guidati dall'ottimo Gabriele Mugnai.  


Successo caloroso - e meritatissimo! - per strumentisti e Maestro.

07 ottobre, 2020

Scala: un’Aida mai ascoltata prima

La seconda opera di questa stagione autunnale scaligera è un’Aida nuova di zecca. Beh, diciamo con qualcosa di nuovo, anzi... d’antico, ecco: l’inizio del terz’atto come originariamente composto da Verdi, scoperto un anno fa a Parma e che Chailly (il Direttore ormai passerà alla storia come il maniaco dei reperti archeologici...) non ha perso l’occasione di presentare in prima assoluta.

É un caso simile al famigerato Lacrymosa, composto per il Carlos e poi espunto e successivamente infilato nel Requiem: qui abbiamo la musica del coro dei Sacerdoti egizi, che Verdi considererà troppo cerebrale (à la Palestrina) per l’opera, e quindi più adatta al Te decet Hymnus dello stesso Requiem.

Lo scopritore Anselm Gerhard, descrivendo la sua scoperta, incorre però in un clamoroso autogol, sufficiente ad invalidare tutto il valore, non dell’oggetto della scoperta in sè, ma del suo reinserimento nell’opera, quando afferma testualmente:

Quel fastidioso ritardo [il rinvio di un anno della prima, ndr] ebbe addirittura un effetto vantaggioso. Costretto ad aspettare, Verdi nell’agosto 1871 decise di rielaborare l’inizio del terzo atto: aggiunse la celeberrima romanza strofica per Aida («O cieli azzurri... o dolci aure native»), per nulla prevista nella partitura originale. Allo stesso tempo, tagliò un monologo di Aida in stile recitativo e sostituì il coro dei sacerdoti («O tu che sei d’Osiride») con una nuova musica dai profumi esotici.

Quindi, a dar credito a Gerhard, ciò che ci è stato propinato sarebbe qualcosa di svantaggioso... (effetti del furore filologico?) Una cosa è certa: Verdi difficilmente prendeva abbagli, nè del resto si è mai pentito delle variazioni/aggiunte introdotte prima della prima. Nell’Introduzione cambiò l’atmosfera tonale, rimpiazzando il FA maggiore dello strumentale e del coro palestriniano (le note di quest’ultimo portate pari pari nel Requiem) con il SOL maggiore (MI minore) delle sedici battute caratterizzate dall’arpeggio dei violini sul motivo dei flauti seguite dal coro esotico. L’intervento di Ramfis-Amneris, che seguiva la tonalità del coro, venne a sua volta portato tutto in SOL. Ma la variazione più spettacolare fu l’introduzione della Romanza di Aida (O patria mia) prima dell’arrivo di Amonasro. E vi assicuro che passare repentinamente dal recitativo di Qui Radames verrà al Ciel! Mio padre! è una cosa davvero difficile da digerire!

Va bene che siamo in concerto e in... emergenza, ma insomma queste riproposte stanno davvero annoiando (nel senso dell’inglese annoying)! E andrebbero divulgate (come è lecito e persino doveroso) con altri mezzi che non in una recita comunque importante.
___
Qualche progresso si è fatto nell’impiego del palcoscenico: tutta la piattaforma copri-buca è stata utilizzata, per collocarci i cantanti (proprio a due metri dalla prima fila di platea) il podio e due file di archi; il coro era sul fondo e a i lati, leggermente rialzato. Se n’è giovata l’acustica (e fin troppo riguardo le voci, che normalmente stanno almeno 10 metri più indietro). Niente semi-scena, ma semplici andi-rivieni dei cantanti, tutti in abito da cerimonia e rispettosissimi del distanziamento.

Trionfatrice della serata l’Anitona Rachvelishvili, il cui vocione ha trasformato Amneris in una... belva. Nel grande concertato del second’atto lei ha coperto tutte le altre voci e pure il coro e l’orchestra!

Meli e Hernandez su standard accettabili: lei ha confermato le sue qualità, voce robusta e sempre ben impostata, acuti penetranti e buon fraseggio; lui mi è parso un po’... fuori forma, esordio impacciato con Celeste Aida, poi meglio fino alla fine, con sfoggio delle sue ormai proverbiali mezze voci e di acuti sempre ben controllati.

Chi mi ha impressionato parecchio (lo ascoltavo per la prima volta) è il mongolo Amartuvshin Enkhbat, che ha disegnato un Amonasro assai efficace, voce piuttosto brunita e penetrante come si addice, secondo me, al personaggio.

Su standard accettabili i due bassi: il Re di Roberto Tagliavini e il Gran Sacerdote di Jongmin Park, ex-accademico scaligero che ha sostituito all’ultimo il titolare Dario Russo. Bene anche i due comprimari Francesco Pittari e Chiara Isotton.

Il Coro di Casoni, purtroppo penalizzato dalla forzata disposizione... periferica ha comunque risposto da par suo mostrando la proverbiale compattezza di suono.

Chailly ha diretto con il suo solito piglio: la disposizione di orchestra e coro ha come minimo garantito che le voci (davanti, in primissimo piano) non venissero mai coperte (!)
___
Ecco, fra poco più di un mese potremo rivedere un’opera in scena: speriamo bene!

02 ottobre, 2020

laVerdi 20-21. Concerto n°2

Sempre Flor sul podio dell’Auditorium per questo terzo appuntamento (secondo in abbonamento) del primo trimestre dell’anno scolastico della stagione concertistica 20-21.

Concerto dedicato alla memoria di Alfonso Ajello,

prestigioso Notaio in Milano (ma di origini partenopee) e soprattutto socio fondatore e già vicepresidente della Fondazione, scomparso prematuramente lo scorso aprile.

___
Uno dei moschettieri dell’Orchestra, l’estroverso Fausto Ghiazza, torna ad interpretare da solista (è come minimo la quinta volta che lo fa, ormai da quasi 20 anni!) il celeberrimo Concerto per clarinetto di Mozartuno dei brani prediletti proprio dal compianto Ajello.

Ben coadiuvato da Flor e dai colleghi, Ghiazza ci sciorina un’esecuzione coi fiocchi, senza la minima sbavatura, un Mozart leggero e trasparente che trascina il pubblico all’entusiasmo. Lui ricambia con un bis senza dedica, ma scommetto - stante la scelta fatta - che abbia pensato al suo ammiratore che l‘applaudiva da lassù... 

___
Chiude la serata la poco eseguita Prima Sinfonia di Carl Maria vonWeber. É luogo comune ricordare la quasi contemporaneità di questo lavoro con l’Eroica beethoveniana, per metterne impietosamente in risalto la distanza siderale: tanto innovativa e dirompente è l’Op.55 del genio di Bonn, quanto ancora acerba e settecentesca (Mozart e Haydn vi si sentono chiaramente) è questa sinfonietta nella quale si intravede appena e con fatica ciò che Weber saprà invece esprimere (ma anni e anni più tardi, e soprattutto nel teatro) in fatto di rivoluzione romantica.  

L’Autore medesimo confessava che le bizzarrie formali da lui introdotte (soprattutto nel primo movimento) finivano per far somigliare la sinfonia ad una fantasia; e non è un caso che, dopo aver subito composto la seconda, Weber abbia definitivamente abbandonato il genere per dedicarsi al teatro e caso mai a quello strumento che gli era stato negato (dal suo... padrone) proprio per le due sinfonie: il clarinetto!

Flor ne ha comunque messo in risalto le qualità, sottolineando i diversi passaggi solistici (corno, flauto, cello, ma soprattutto l’oboe - ieri suonato da Emiliano Greci) e il risultato è tutto sommato da elogiare, cosa che il pubblico - pur distanziato - non ha mancato di fare. 


01 ottobre, 2020

Mehta illustra Strauss alla Scala

Ieri sera il venerabile Zubin Mehta ha offerto la seconda delle tre serate del concerto straussiano di questa stagione d’autunno della Scala. In programma due opere che sono quasi un testa-coda (anzi: un coda-testa, data la sequenza di presentazione) della produzione del compositore bavarese.

Non posso immaginare cosa abbia guidato Mehta nella scelta (e sequenza esecutiva) dei due titoli... a me piace vederci lo Strauss che - a 84 anni - si accomiata dal mondo, mano nella mano con Pauline (Im Abendrot); e poi, come in un flashback a 50 anni prima, lo Strauss 34enne che aveva prefigurato - con le ultime note di Ein Heldenleben - proprio la conclusione della sua avventura artistica. Sì, perchè il poema sinfonico si chiude con la visione del pensionamento dell’eroe vittorioso in compagnia della sua musa. Inoltre, così come nel Tondichtung si rinverdiscono le memorie delle precedenti imprese dell’eroe, nel Lied da vonEichendorff Strauss guarda ancor più indietro (60 anni) all’idealista morente che, nell’aldilà, raggiunge la pienezza del suo ideale.   
___
Ormai abbiamo fatto il callo alla (purtroppo infelice, ma le regole anti-Covid così vogliono) disposizione dell’orchestra, confinata nel fondo dell’orrida caverna del palcoscenico del Piermarini, e davvero non si vede l’ora che le cose tornino verso la normalità... ma temo ahinoi che ciò resti solo una pia illusione.

Tocca alla bella nordica Camilla Nylund (i suoi 52 anni li porta davvero bene!) di proporci in apertura le stupefacenti note dei Vier letzte Lieder, sui quali mi sono un pò dilungato quasi tre anni orsono.

Lei è una delle principali specialiste del repertorio (soprattutto operistico) wagneriano e straussiano e anche qui non ha smentito la sua fama. Voce ben impostata, acuti sempre fermi e morbidi, grande espressività. Un poco carente sulle note gravi (il REb del terzo Lied lo ha carpito a stento); a proposito di Beim Schlafengehen anche lei (come praticamente tutte) non ha nemmeno provato a percorrere in apnea l’interminabile legato sul tausendfach, prendendo fiato a metà percorso. Subito prima, mirabile l’assolo di violino di Laura Marzadori, la terza spalla dei Filarmonici (ma terza solo per l’anagrafe, chè qui e poi ancor più nel massacrante passaggio solistico del poema sinfonico ha dimostrato di non temere confronti con alcuno).  

Mehta ha avuto qualche problema con i fogli della partitura: all’attacco del secondo e del terzo Lied lo si è visto sfogliare avanti e indietro le pagine, quasi a cercare il bandolo della matassa, e anche la Camilla lo ha guardato con stupore misto a preoccupazione. Poi lui si è rifatto con il poema sinfonico, lasciando direttamente la partitura in camerino!
___
A seguire appunto l’autobiografico Ein Heldenleben, un vero e proprio romanzo dove Strauss sembra condensare non soltanto i (circa) 15 anni di carriera artistica che aveva alle spalle nel 1898, ma addirittura prefigurare il futuro, fino al... tramonto (!) Ecco una mia sommaria analisi dei sei capitoli del romanzo, pubblicata qui parecchi anni fa...

Mehta ha tenuto un approccio assai sostenuto, tempi sempre comodi e niente enfasi o gratuiti fracassi, nemmeno nella scena della battaglia (qui però c’è lo zampino della forzata disposizione dell’orchestra, dove soprattutto i fiati faticano a farsi sentire in sala). Devo supporre che il Maestro abbia interpretato l’opera dello Strauss giovane eroe spavaldo con lo spirito dello Strauss disincantato del 1948? Chissà...

Alla fine gli applausi sono fioccati copiosi per tutti, con speciale menzione per il corno di Danilo Stagni (protagonista con la Marzadori dei passaggi solistici, ma in precedenza anche della la chiusa di September, che è sempre cosa... sbudellante). Ripetute chiamate per Mehta, che esce facendosi sorreggere dalla bella e bionda Laura.

C’è ancora una replica... chi può non si perda l’occasione.

29 settembre, 2020

Falsi miti (?) - 2

Riprendo il discorso partendo dal concetto, caro a Roberta Pedrotti, della coerenza in sè dello spettacolo proposto dal regista, che sembrerebbe (almeno così mi pare di interpretare) condizione sufficiente per promuovere un allestimento di opera lirica.

La mia personale convinzione - già anticipata nella puntata precedente - è invece che la coerenza in sè sia condizione necessaria, ma appunto non sufficiente per dare la sufficienza allo spettacolo. E che il proliferare di allestimenti coerenti in sè ma incoerenti con l’oggetto sottostante stia ormai inducendo nello spettatore un tipico fenomeno di dissociazione, qui intesa come separazione in compartimenti stagni (o in piani paralleli) fra la fruizione della componente suoni (testo+musica) e quella della componente immagini (appunto, la scena); ciascuna delle quali viene fruita (e quindi giudicata) di per sè, e non all’interno di un insieme organico, così come concepito dall’Autore (o Autori) nel quale le due componenti si compenetrano necessariamente per creare un oggetto di forma compiuta.

Pensiamo a ciò che accade ad uno spettatore che assiste per la prima volta ad un’opera della quale non ha alcuna (o ha solo superficiale) conoscenza; magari presentata in una lingua a lui sconosciuta, quindi di non immediata decifrazione. Quali saranno le sue reazioni? Egli naturalmente tenderà a dissociare i due piani: cioè apprezzerà (se apprezzabili secondo i suoi gusti) i suoni che raggiungono le sue orecchie; e separatamente apprezzerà (se apprezzabile secondo il suo gusto) ciò che raggiunge i suoi occhi. Anche volendo, gli sarebbe oggettivamente difficile cogliere, e men che meno giudicare, la coerenza fra i due piani.

Ecco, l’atteggiamento che in quello spettatore ignorante è un fenomeno riflesso, cioè non cosciente, conseguenza naturale della sua stessa ignoranza, e quindi pienamente comprensibile e perfino giustificabile, nello spettatore informato ed esperto rischia sempre più spesso di diventare l’approccio cosciente alla fruizione dello spettacolo. Che viene giudicato separatamente nelle sue due componenti, e non nella sua organica totalità. Così si spiegano giudizi positivi (a volte trionfalistici) di allestimenti che hanno soddisfatto (separatamente) l’orecchio e l’occhio dello spettatore, anche quando invece mancano in tutto o in parte l’obiettivo della coerenza fra le due componenti dello spettacolo.

Naturalmente questa incoerenza non è mai casuale, ma è sempre determinata da una precisa e programmatica scelta (il Konzept, come lo si definisce in Germania, patria del Regietheater) del responsabile dell’allestimento: il regista. Ruolo che ha assunto via via sempre maggior importanza (e visibilità) proprio perchè, evolvendosi, ha ampliato a dismisura il suo raggio d’azione: da puro portatore in scena (interprete) di un oggetto dato, a decifratore (lo scavo cui allude Pedrotti) di aspetti nascosti nell’oggetto originale. Le ragioni di tale fenomeno sono molteplici: si va dalla constatazione della pochezza o della totale inattualità dei testi (i libretti) delle opere da mettere in scena (questo si applica per lo più al melodramma ottocentesco); alla pretesa di estrarre dal soggetto originale, per farli assurgere a pilastri della proposta teatrale, aspetti più o meno importanti o anche marginali che possano però far emergere chiari riferimenti all’attualità politica, sociale, filosofica, religiosa, estetica (ne sono esempio le tante interpretazioni del Ring wagneriano); alla tecnica consistente nel de-strutturare il soggetto originale per poi impiegarne alcune componenti per ricostruirne un altro con caratteristiche diverse se non addirittura contrastanti con quelle dell’originale medesimo. All’uopo, nel tempo la figura del regista è stata affiancata da quella del Dramaturg (uso il termine crucco) responsabile di suggerire al regista potenziali aspetti nascosti nel testo e meritevoli di essere valorizzati e messi in primo piano.

Insomma, il rispetto del testo originale (sul quale, non andrebbe mai dimenticato, è stata composta la musica) è diventato quasi un optional, il che può trovare consenziente qualche spettatore preparato, magari sempre in cerca di nuovi... stimoli purchessia, quando assiste per l’ennesima volta alla messinscena di un titolo conosciuto a menadito; ma che rischia di diventare deleterio proprio per lo spettatore naif o neofita, indotto a fare una conoscenza distorta dell’opera cui ha assistito.

Oggi la stessa critica musicale (e mi pare che la Pedrotti condivida) ha accettato come dato di fatto questa situazione, tanto da proporre una categorizzazione degli allestimenti di opere: fra quelli che raccontano la storia originale e quelli che raccontano un’altra storia. Attribuendo quindi piena legittimità anche ai secondi, purchè siano per l’appunto coerenti in sè.

Naturalmente qui non parlo di storia come di pura trama, ma come di sostrato concettuale dell’opera e - più in dettaglio - di natura di ambienti, personaggi e azioni che ne costituiscono il corpo.

Comincio a far qualche esempio per non cadere nel pedantesco. Oltre a Michieletto, propongo Graham Vick che, insieme al regista veneto, è uno dei beniamini di Roberta Pedrotti, che lo cita più volte nel suo saggio.

Di cosa tratta Un ballo in maschera? Della prosaica storia di un personaggio importante che si fa trascinare dalla sua esuberanza e finisce male. Il protagonista è un’altissima autorità (il Re di Svezia, nientemeno, all’origine... poi diventato un Governatore di Sua Maestà Britannica, per ragioni di censura) al quale l’infatuazione adultera per la moglie del suo fedelissimo plenipotenziario e l’eccesso di trasporto verso il suo popolo giocano un brutto scherzo, che lo porta a lasciarci le penne. Che l’ambientazione sia nella Svezia del testo originale, o nel Massachusetts di un secolo addietro come nel libretto verdiano, fa assai poca differenza, poichè i due macro-socio-e-psico scenari si assomigliano assai (un sovrano e un’emanazione di un sovrano che vivono la stessa vicenda).

Damiano Michieletto (2013) mette in scena l’opera alla Scala. La ambienta nel Massachusetts, precisamente come da copione. Poi però, nel lodevole intento di rendere il soggetto attuale, cioè più immediatamente vicino alla nostra contemporaneità, sposta i tempi dell’azione al giorno d’oggi, durante la campagna elettorale per l’elezione del Governatore dello Stato. Ahi ahi, qui cominciano i guai, poichè la storia di un Governatore che si deve far rieleggere al termine di una campagna elettorale - dove stratagemmi e colpi bassi fra i candidati si sprecano - sta precisamente agli antipodi di quella del testo originale, dove Riccardo ha un’investitura che gli viene dall’alto, non da una maggioranza (anzi minoranza, in termini assoluti) della popolazione: non sto a tediarvi oltre - salvo che proprio non lo vogliate - sulle mille e sostanziali differenze (a livello sociale, psicologico, comportamentale) fra i due scenari. In sostanza, qui si racconta - e assai bene, per carità - un’altra storia, coerente in sè. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?


Questo esempio è catalogabile sotto la casistica attualizzazione del soggetto originale. In sostanza il regista intende far sì che l’opera parli a noi del terzo millennio, e non ai nostri trisavoli di metà ‘800. Ora, si può concedere che i tempi cambino, che l’approccio dello spettatore si evolva, che freni censori e inibitori siano via via caduti, rendendo possibile oggi raccontare verità che 150 o più anni fa erano tabù e potevano essere trasmesse soltanto previo camuffamento e senza fare espliciti riferimenti all’attualità (di quei tempi). Ma credo francamente che questo atteggiamento (del regista moderno) faccia un torto all’intelligenza di autori e pubblico, sia quello dell’epoca di creazione delle opere che quello attuale.

Ammesso infatti che l’intento di Verdi fosse quello di mandare al pubblico messaggi, per così dire, di natura socio-politica o di costume, e che fosse costretto, dalle usanze e dalle censure di allora, a farlo ricorrendo a soggetti ambientati in altri tempi (al passato, tipicamente) e non immersi nell’attualità, potremmo spiegare il successo dell’opera solo in due modi: a) essa era così immediatamente e superficialmente coinvolgente tanto da essere apprezzata anche senza essere capita dal vasto pubblico; ma allora non si vede perchè ciò non possa funzionare anche oggi (della serie: prima la musica...); b) il camuffamento funzionava perfettamente, essendo il pubblico abbastanza intelligente da individuare il messaggio dietro l’inattualità della presentazione; il che ci farebbe concludere che i nostri trisavoli fossero assai più scafati di noi, se noi abbiamo bisogno del regista attualizzatore per decifrare il messaggio che si cela dietro l’inattualità del soggetto!

___
Vengo ora al Mosè in Egitto. Opera su soggetto biblico: alle vicende narrate nel Vecchio Testamento il librettista Tottola aggiunse solo la trama amorosa Osiride-Elcia (speculare alla futura Ismaele-Fenena di Verdi) per necessità squisitamente melodrammatiche (altrimenti tenore e soprano dovevano fare davvero quaresima) ma anche drammaturgiche (giustificare le richieste di Osiride al padre per trattenere gli ebrei). Andrebbe sempre ricordato che l’opera fu espressamente composta per la Stagione di Quaresima nella Napoli del 1818: quindi programmaticamente a sfondo religioso e a scopo di meditazione e raccoglimento; politica? ideologia? nulla di tutto ciò, ed è precisamente la musica a stabilirlo.

Graham Vick (2011) mette in scena l’opera al ROF. La ambienta nel Medioriente del ‘900, mostrandoci gli ebrei compiere azioni terroristiche in serie (le piaghe che Dio manda sull’Egitto) per conquistare la libertà. È quindi la storia - fedele come un documentario giornalistico - della nascita dello Stato d’Israele, con gli attentati al King David, la strage a Deir Yassin, e con Mosè (sembra BinLaden, ma è in realtà Jabotinsky) che canta Dal tuo stellato soglio imbracciando un Kalashnikov; e giù giù fino ai giorni nostri. Proposta assolutamente coerente in sè, e realizzata con la proverbiale maestria del regista albionico. Domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

Qui siamo in presenza di una diversa, e assai più ardita (io aggiungo: subdola) forma di attualizzazione: si prende spunto dal soggetto originale (la vicenda biblica del popolo ebraico che cerca di sfuggire alla cattività egiziana - con continui riferimenti a fatti miracolosi) per presentare, impiegando testo e musica di Rossini, vicende delle quali noi siamo stati testimoni, avvenute più di un secolo dopo la creazione dell’opera e caratterizzate da fatti tutt’altro che miracolosi. Il risultato è che la colonna sonora (Rossini si deve rassegnare) sia del tutto inadeguata a supportare lo spettacolo...

___
La donna del lago. Romanzo storico, Walter Scott, una donna che si serba fedele al suo innamorato di modeste origini, resistendo faticosamente alla tentazione di accettare le profferte di un altro sincero innamorato, uno sconosciuto che alla fine si scopre essere nientemeno che... il Re. Il lieto fine, arrivato dopo innumerevoli peripezie, certo non deve far pensare ad un racconto di Harmony, ma è ciò che il testo racconta.

Damiano Michieletto (2016) la mette in scena, ancora al ROF. E inventa letteralmente un’altra storia, immaginando ciò che avviene dopo il lieto-fine. Rivisitando quindi l’intera vicenda con il senno di poi, rappresentato dalla presenza quasi costante in scena dei due personaggi uniti in matrimonio nel lieto-fine dell’opera, ma con sulle spalle 20 anni in più e le esperienze del matrimonio. E siccome è matematico che anche le unioni più stabili incontrino nel tempo crisi e ripensamenti, ecco che tutta la vicenda oggetto del testo originale viene inquinata dalle ombre che arrivano dal futuro (!) Anche qui: lo spettacolo è ben curato, a parte qualche... imitazione; e soprattutto è coerente in sè. Ma torna, impietosa, la domanda: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

___
Ecco ora Semiramide. Pochi dubbi che il cuore dell’opera sia, toh, Semiramide! In caso contrario Rossi (e Rossini, convinto da lui) avrebbe titolato: Arsace, ovvero la vendetta di Ninia... o qualcosa di simile. La sbifida regina di Babilonia (su di lei e sui suoi liberi costumi sono scorsi fiumi d’inchiostro) è il personaggio chiave dell’opera e ideale per chi voglia occuparsi - anche nel teatro musicale - di casi clinici da affidare alle cure di Freud o di... Basaglia. Rossini ovviamente ci mette le sue note a corredo, il che rende immortale un testo (Rossi non ce ne voglia) che avrebbe avuto di suo morte prematura.

Graham Vick vi si cimenta al ROF del 2019. Chi è il protagonista, secondo lui? Mica certo Semiramide (buoni tutti...) No no, è appunto Arsace, quello della vendetta di Ninia, che Vick mette al centro del suo Konzept, lui e la sua vendetta. Vendetta che prende quindi il posto della sacrosanta giustizia divina, della quale nel testo di Rossi si fa tramite il talebano Oroe. Spettacolo ovviamente coinvolgente, dato il mestiere del regista. A costo di essere molesto, chiedo: la musica e il testo ci fanno scopa lo stesso?

___  
Non c’è bisogno, credo, di precisare che gli esempi di cui sopra sono, appunto, esempi, che ho tratto da un insieme ben più ampio di produzioni dei due registi citati. E non mi sogno certo di generalizzare all’insieme ciò che si applica ad una parte (piccola o grande che sia) delle loro produzioni, come di quelle di ogni altro regista in circolazione. Di Michieletto mi limito a citare, come prove a discarico, la sua Scala di seta (ROF) e le sue Nozze di Figaro (Fenice). Di Vick il recente Die tote Stadt (Scala), la Bolena a Firenze e l’ormai storico Moïse al ROF.

Dovessimo esaminare tutte le produzioni di Carsen, Guth, Herheim, DeAna, Loy, Bondi, Bieito, McVicar, Martone e così via troveremmo cose buone e meno buone. É su quelle meno buone (anche se magari tutte coerenti in sè) che mi sento di eccepire, per le ragioni addotte. E infine ribadisco la mia impressione: che la crescente enfasi posta sulla messinscena induca sempre più lo spettatore (ma anche il critico) a giudicare separatamente ciò che arriva all’occhio da ciò che arriva all’orecchio, dando troppo spesso peso prevalente alla prima componente e mettendo in secondo piano la coerenza con la seconda.

Ciascuno a questo punto può giudicare se il fenomeno sia da guardare di buon occhio, come un progresso della civiltà, o invece da considerarsi regressivo (della serie O tempora, o mores...) 

___

(2. fine)

27 settembre, 2020

Falsi miti (?) - 1

Roberta Pedrotti è tornata sullo spinoso argomento delle regìe del teatro musicale, prendendo lo spunto dal dibattito (in particolare quello ospitato da Corrado Augias su Repubblica) seguito alla discussa rappresentazione romana estiva del Rigoletto inscenato da Damiano Michieletto.

In un lunghissimo post (quasi un saggio) la mia illustre conterranea (lei viene da Lumezzane, io dalla vicina Tavernole) ribadisce il suo convinto sostegno alle regìe moderne (uso questo improprio aggettivo) in disaccordo con ciò che lei definisce falsi miti, che vengono presi in considerazione per essere poi regolarmente (e legittimamente, s’intende) smontati. Andiamo con ordine, capitolo per capitolo.

I registi nuovi divi?

Qui Pedrotti introduce l’argomento con considerazioni francamente lapalissiane: il teatro musicale è teatro e quindi necessita - da che mondo è mondo - di regista, scenografo, costumista, addetto alle luci e coreografo. Musica e testo letterario sono un tutt’uno dell’opera, che quindi abbisogna dei diversi addetti-ai-lavori per vivere compiutamente: ai registi va concessa quindi la stessa dignità ed importanza che si riserva da sempre ai Musikanten; e se si accetta il fenomeno del divismo per questi ultimi, non si vede perchè stigmatizzarlo per i primi.

La Pedrotti liquida poi come inconsistente e stucchevole il porsi l’eterna domanda: prima la musica o le parole?

Faccio umilmente osservare che è normalissimo (proprio in questo periodo ne siamo testimoni) eseguire opere in forma di concerto (musica senza teatro) mentre mi è ignoto che si siano mai messi in scena testi di libretti d’opera senza l’accompagnamento della musica composta su di essi. Così come non è raro che al musicista venga richiesto di comporre musiche di scena per accompagnare rappresentazioni di testi di prosa. E vorrà pur dir qualcosa...

Arbitrio e libertà

Qui Pedrotti cita un passaggio della lettera di Flores D’Arcais ad Augias, dove ci si chiede se non si debbano porre limiti al regista (per evitarne gli arbitrii) esattamente come non si accetta che il Direttore cambi le note scritte o la strumentazione sulla partitura. La Pedrotti argomenta che la definizione stessa di arbitrio sia affetta da presunzione di colpa e (direi giustamente, in linea di principio) si domanda dove sia e chi stabilisca il confine fra arbitrio e libertà. Poi aggiunge: “che un'interpretazione sia o meno da considerarsi tale [un arbitrio] non lo potremo discutere prima che [l’arbitrio] sia stato perpetrato”. Quanto agli interventi sulla musica, ricorda altrettanto correttamente che tagli, aggiustamenti, trasposizioni e interventi più o meno estesi sulle partiture se ne son sempre fatti e sono entrati in quella che si chiama tradizione (e/o prassi) interpretativa, oggi presa in considerazione persino da chi predispone le cosiddette edizioni critiche delle opere.

Vorrei qui cominciare a porre una questione di quantità e di qualità (di interventi fatti sulla lettera e sullo spirito dell’originale) anticipando un concetto caro a Marx: certe modificazioni quantitative - quando assumono dimensioni ragguardevoli - possono ingenerarne di qualitative... Interpretare in modo personale un’indicazione agogica o dinamica in partitura è cosa del tutto naturale (è addirittura un dovere, più che un diritto dell’interprete) ma trasformare un Largo in un Presto o un ppp in un fff significa snaturare del tutto l’oggetto della creazione artistica, e questo mi pare francamente un arbitrio, così come scambiare le parti fra la sezione degli archi e quella dei fiati dell’orchestra. Mentre interpretare un Allegretto come un Andante con moto, un f come un mf o limitare il vibrato degli archi mi parrebbe degno di massima comprensione.

Quanto al fatto che eventuali arbitrii non siano vietabili a priori, ma soltanto sanzionabili dopo che sono stati perpetrati e giudicati tali è un concetto del tutto condivisibile: è sempre a posteriori che si giudica qualunque atto umano, e la Legge non dice mai “é severamente vietato rubare”, bensì “chi ruba va in galera” (e dopo tre gradi di giudizio...) Nel nostro caso ciò che manca (o non viene di fatto applicato alle problematiche che stiamo discutendo) è un quadro normativo che stabilisca dove si configura l’eventuale reato (l’arbitrio) e quali siano le pene cui va incontro chi sgarra. Oggi si è molto più sensibili a garantire (giustamente) copyright e diritti consimili che non a difendere le opere da eventuali offese alla loro dignità-integrità. Anche perchè è oggettivamente abbastanza facile, per la giustizia, distinguere dagli originali un Rolex o una Lacoste o un VanGogh contraffatti, arduo invece stabilire se una messinscena del Trovatore si configuri come reato.

Della filologia

La Pedrotti resta sullo stesso terreno esaminando l’intervento del Prof. Enrico Malato, che scrive ad Augias, chiamando in causa la filologia: che diritto ha, l'interprete moderno di alterare, stravolgere un documento artistico storico?” Lei qui ha buon gioco a contestare la chiamata in causa dei filologi (che non fanno giurisprudenza!) e a replicare ancora una volta che, essendo l’interprete un anello necessario della catena di produzione dell’oggetto artistico che arriva al pubblico, è inevitabile che si debba assumere qualche responsabilità. Aggiunge poi testualmente: “Credo, invece, sia più rispettoso studiare a fondo un testo e assumersi anche il rischio di un'interpretazione ardita, se fondata e meditata, che puntare tutto sulla decorazione e l'usato sicuro senza andare oltre la convenzione.”

Non posso che ribadire il concetto che l’interprete ha il dovere, non solo il diritto, di lavorare sul testo scritto (parole e note) per rendercelo fruibile nel modo più efficace. In perdurante assenza di norme chiare in proposito, per contrastare possibili abusi si può solo auspicare che la Giustizia venga chiamata in causa da denunce (sporte da privati cittadini o da associazioni) che portino a sentenze che comincino a fare giurisprudenza, come si dice, creando un corpus giuridico di riferimento per tutta la materia. In caso contrario non resta che il diritto di critica, che ciascuno può esercitare in vari modi (dal disertare gli spettacoli incriminati, fino al boicottaggio non violento) e che può portare, nel tempo e se assume dimensioni di massa (ecco l’effetto quantità) a prosciugare le fonti a cui si abbeverano oggi i presunti vandali dell’arte.

Rispetto, cornice e quadro

Torna il riferimento a Flores d’Arcais e al Rigoletto michielettiano: il giornalista-scrittore afferma testualmente che “Rigoletto è quintessenziale che sia un “buffone”, costretto a far ridere anche quando colmo d’angoscia o dolore. Nel giostraio/servo tuttofare [quello di Michieletto, ndr] questa polarità è impossibile”. Quindi par chiaro che Flores se la prenda, più che con quella ambientale, con la trasposizione delle caratteristiche esistenziali e psicologiche del personaggio: solo la professione (forzata) di buffone giustifica la schizofrenica polarità della psiche di Rigoletto, essendo egli pagato per far ridere gli altri (Cortigiani, vil razza dannata...) pur vivendo sotto l’incubo di incombenti catastrofi a casa propria. Nella psiche di un giostraio questa polarità diventa piuttosto gratuita (un giostraio è tutto fuorchè un buffone di corte, fino a prova contraria).

Ma Pedrotti svia furbescamente, sia pur fugacemente, il discorso sull’ambientazione spazio-temporale, e qui ovviamente va a nozze, poichè le è facile sostenere che la Mantova del 1500 fu solo un trucco escogitato per aggirare la censura. Poi torna sul personaggio per esprimere concetti assodati: a Verdi interessava lo scavo psicologico di Rigoletto, un po' meno la sua gobba e nulla del tutto l’abbigliamento e il cappello a sonagli. E porta ad esempio positivo la regìa di Pizzech (Parma e poi Bologna) che toglie a Rigoletto la gobba, ma gli conserva in pieno lo status di mente dissociata fra sporco-lavoro e affetti privati.

Ancora Pedrotti si rifugia in un terreno comodo, quello della presentazione esteriore (scene e costumi) dove le è facile argomentare contro le sedicenti pretese filologiche di chi reclama elmi, corazze, trine e merletti, fondali dipinti e foglioline di cartavelina... E irridere chi pensasse di tornare alla fruizione del teatro di qualche secolo fa.

Infine, cita ancora Flores d’Arcais per confutare il parallelo fatto dallo scrittore fra regista e traduttore, sostenendo (giustamente) che il traduttore si limita a rendere fruibile il testo a chi non conosce la lingua originale.

In realtà Flores esprimeva un concetto ben diverso, anzi un timore: che succederebbe se il traduttore, invece di limitarsi a tradurre, si inventasse, o manipolasse sostanzialmente, la storia? E questo è precisamente il punto cruciale dell’intera diatriba: che succede se il regista, svolgendo la sua attività necessaria a renderci fruibile l’opera, ne manipola il contenuto?    

Quel minuetto a Palazzo Te

È Nicola Piovani ad essere qui preso di mira, a fronte di un suo intervento ancora presso Augias, nel quale avanzava un’oggettiva e aperta provocazione: se si ambienta Rigoletto ai giorni nostri, è ridicolo far cantare Duca e Lady Ceprano sulle note di un Perigordino, più appropriati alla circostanza sarebbero una Lambada o un brano rock, con tanto di chitarre elettriche e batteria...

Pedrotti si dichiara stupefatta della banalità della provocazione, e subito reagisce con ferma determinazione: obiettivo di Verdi era di evocare in modo efficace una situazione drammaturgica ben precisa, lo stacco fra il volgare festino e l’approccio sdolcinato e suadente del Duca, che la Lady deve rifiutare controvoglia. E il Perigordino serve perfettamente alla bisogna, anche se è una danza che era del tutto sconosciuta ai tempi dei Gonzaga, essendo venuta di moda due secoli dopo, quindi un chiaro falso storico.

Giusto, ma si potrebbe obiettare che è diverso retrodatare una moda (una danza, nella fattispecie) e invece attualizzarla: la prima operazione è inconsapevolmente accettata, poichè noi tendiamo ad appiattire il passato (secolo XVI o XVIII fa lo stesso, è sempre roba antica, almeno nel terreno che stiamo esaminando) mentre la seconda viene istintivamente rigettata perchè percepita come bizzarra, assurda, illogica, demenziale (proprio perchè fuori-tempo) quindi incompatibile con la supposta seriosità del teatro (musicale e non). Faccio anch’io una provocazione: immaginiamo che Verdi - censura e querele permettendo - ambientasse l’opera (col Perigordino, indicato precisamente nel libretto) invece che presso i Gonzaga del 1500, a Palazzo Litta nel 1850... Come avrebbe reagito il pubblico milanese? Con applausi convinti o con feroci sghignazzate?

Conclude Pedrotti: “Creare sulla scena una struttura logica, non importa quanto irrealistica, ma in sé coerente.” Beh, la coerenza in sè è una condizione necessaria. Ma rischia di non essere sufficiente se vien meno la coerenza con l’oggetto originale, realistico o irrealistico che sia.

Apparenza, sostanza, professionalità

Qui Pedrotti reclama serenità di giudizio e abbandono di posizioni pregiudiziali: si valuti di volta in volta il risultato, senza bocciature (ma io aggiungo anche: senza promozioni) aprioristiche. Perfetto.

Segue un invito ad apprezzare la professionalità dei registi e a non denigrarli a priori come soggetti frustrati che cercano realizzazione di sè usando mezzucci e malafede. Invito da accogliere senza se e senza ma. Personalmente sono convinto, avendoli visti alla prova dei fatti, che i nomi che la Pedrotti cita, ed altri ancora (salvo pochi opportunisti e ciarlatani) siano personaggi di assoluto valore (vengono per lo più dalla prosa) che conoscono ogni aspetto del teatro e sanno perfettamente come costruire spettacoli coerenti in sè. Come ripeto, spesso non basta.

Giovani e futuro 

Pedrotti chiude il suo saggio ribadendo la sua incrollabile fiducia nel teatro musicale, legata alla presenza e all’attività di operatori (si parla in primo luogo proprio dei responsabili dell’allestimento) che siano in grado di dargli continuamente nuova linfa vitale. L’innovazione come processo continuo e inestinguibile (“naturale condizione dell'arte, che si evolve, si rinnova, riflette su se stessa”) e non come specchietto per le allodole utile solo per attirare a teatro qualche giovane in più.

Parole sante, ma - posso sbagliare - mi pare di cogliere una certa freddezza, non dico indifferenza, verso la produzione di nuove opere (invocata dallo stesso Michieletto) a favore della continua riproposta del patrimonio consolidato (fino al secolo scorso?) “La traviata o La bohème hanno una forza eterna di capolavori in grado di parlare a tempi diversi attraverso interpreti diversi, in abiti diversi, di rimanere se stesse mostrando ogni volta nuove sfumature, nuovi volti, nuove chiavi di lettura, a essere eterne e inesauribili, se vogliamo leggerle nel profondo”. Già: rimanere se stesse...

Conclude Pedrotti invitando ad abbandonare:categorie manichee iscritte sulle tavole della presunta e pretesa corretta rappresentazione dell'opera lirica”. Qui non posso che concordare.

___

Qualche mia considerazione aggiuntiva... alla prossima puntata.

(1. continua)