ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

07 febbraio, 2020

Il Trovatore del lettone


Ovviamente da leggersi lèttone! Ieri il Trovatore museale ha avuto il suo battesimo in un Piermarini abbastanza affollato e pure... cattivello. Che fa rima con... Trovatello (!?!) Ma andiamo con ordine, cominciando con la compagnia di canto.

Il protagonista Francesco Meli è stato il vincitore (non trionfatore, chè nessuno ha trionfato) della serata. Lui ormai garantisce un livello sempre assai alto di prestazione, grazie alla sua professionalità e alla sua preparazione. Date le sue caratteristiche... somatiche (parlo della voce, ovviamente) oserei quasi dire un’apparente bestemmia, cioè che lui sia forse il più verdiano dei Manrichi, nel senso che non si adegua (non ne avrebbe le risorse naturali) ai tenori di tradizione, quelli di approccio eroico e dal do-di-petto facile, che non è detto fossero proprio l’ideale del compositore. Però, per coerenza, consiglierei a Meli di ignorare quanto quei tenori di tradizione hanno inventato, ad esempio eseguendo la Pira senza gli acuti apocrifi (tanto più se sono SI e non DO). Prova ne sia che il suo Ah sì, ben mio è stato accolto con grandissimo calore, mentre il successivo All’armi ha suscitato non poche perplessità.

Liudmyla Monastyrska ha dignitosamente impersonato Leonora, mostrando in particolare grandi doti di portamento e di nobiltà nel canto a fior di labbra (apprezzatissimo il suo D’amor sull’ali rosee) mentre gli acuti a piena voce mostrano purtroppo qualche stimbratura e i centri non sono propriamente al meglio. Tuttavia il pubblico, cui mi associo in pieno, l’ha gratificata di un buon successo.

Il terzo vertice del triangolo (Massimo Cavalletti come Luna) è il vertice di un triangolo con la base in alto (!) Cioè l’unico (fra gli addetti ai suoni) a ricevere robusti buh all’uscita finale. E in effetti lui troppo spesso più che cantare vocifera, e ciò non si può giustificare col fatto che il personaggio da interpretare sia il cattivo di turno, chè anzi il cattivo - nell’opera lirica - è tanto più apprezzato quanto meglio canta (vedi Iago, Alberich, Mefistofele e compagnia).

Fuori dal triangolo (amanti vs rompipalle) c’è il personaggio più robusto, anche musicalmente, dell’opera: la sbifida Azucena. Violeta Urmana la canta da una vita e anche solo per questo fa sempre un figurone. Certo, oggi anche per lei gli anni (quasi 60) cominciano a pesare, ma insomma... avercene.

Chi mi ha fatto ottima impressione è Gianluca Buratto, un Ferrando autorevole e sicuro (non fosse altro che per la responsabilità che si ritrova a dover rompere il ghiaccio). Ampia sufficienza per gli accademici Caterina Piva (Ines), Taras Pryziashniuk (Ruiz) e Giorgi Lomiseli (Zingaro) e per l’ex-accademico Hun Kim (messaggero).

Mario Casoni ha come sempre garantito una prestazione di buon livello del coro, che peraltro in un paio di frangenti mi è parso in... asincronia con Luisotti, chissà per colpa di chi.

Ed ecco appunto il Direttore. Ho colto alcuni chiari mugugni dal loggione, dopo il primo atto, che non erano immeritati, ma allora perchè poi perdonarlo alla fine? Visto che (mi pare) nei tre atti successivi non ha fatto ne’ peggio nè meglio. La sua è una direzione che definirei approssimativa, con qualche eccesso di fracasso gratuito, più di una gigionata sui tempi e con più di uno scollamento con il palcoscenico, anche se non arriverei a parlare di disastro. L’Orchestra ha evidentemente seguito (ed eseguito...) l’approssimazione del Kapellmeister. Di solito sono cose che succedono se si ha provato poco, chissà se nelle prossime recite le cose andranno meglio.
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Disfatta clamorosa invece per il team di Alvis Hermanis, letteralmente subissato di improperi all’uscita finale. Devo dire che non mi sono associato agli improperanti, per un paio di ragioni.

La prima è che al legista lettone va dato atto di non aver inventato le solite stupidaggini, tipo ambientare la vicenda fra cosche mafiose o bande di ragazzacci del Bronx, nè di proporre strindberghiane crisi della società borghese: la sua trovata di far raccontare la storia ad addetti di un museo in cui ambientarla sarà certo della serie famola strana, ma appunto fa pochi danni.

Fa colpo l’impiego, in scene e costumi, di 100 varietà di rosso, che forse vogliono tradurre cromaticamente il concetto che il Trovatore è un’opera di morti. Quanto ai dipinti della pinacoteca, mi è parso di cogliere che ad Aliaferia e al chiostro siano a soggetto religioso, mentre a Castellor sono a soggetto laico: non so se per il regista sia questo un modo per distinguere le due forme di società che si contrappongono nell’opera. Alla fine i quadri di Castellor vengono accatastati per esser dati alle fiamme (altra vampa) ad Aliaferia, ma poi anche quelli di Aliaferia spariscono (sempre per via di... tutti morti?)

La seconda ragione di non-dissenso è la recitazione dei personaggi e la gestione dei movimenti delle masse: sui quali aspetti della regìa non solo non mi sentirei proprio di infierire, ma al contrario spenderei qualche meritato apprezzamento.

Il definitiva, una proposta accettabile della quale casomai mi vien da sospettare l’efficacia del cosiddetto price/performance, che temo (visto che paga pantalone) sia purtroppo esorbitante.

02 febbraio, 2020

Il Trovatore al museo della Scala


Arriverà fra poco a Milano da Salzburg (per disinteressata intercessione di Alex Pereira) il Trovatore reinventato nel 2014 dal visionario Alvis Hermanis (di lui qui al Piermarini ricordo un cervellotico Soldaten del 2015, un passabile Foscari e una discreta Butterfly del 2016) che ci porterà a visitare un museo milanese, che evidentemente impersona con grande fedeltà la Spagna di fine 1300 - inizio 1400 (evabbè...)

In attesa... qualche cazzeggio, visto che sull’opera si è scritto di tutto e di più. Segnalo quindi un paio di curiosità, cominciando dal libretto. Come si sa, Salvadore Cammarano lo scrisse ispirandosi all’omonimo dramma in versi in cinque giornate di Antonio García Gutiérrez. Protagonisti sono due uomini (il Conte di Luna e Manrico) che fino alla fine non sanno di essere fratelli e sono innamorati della stessa donna (Leonora).

Ora, il ferreo capitolato tecnico del melodramma ottocentesco prescrive la presenza in scena di un triangolo di voci: soprano, tenore e baritono (altre tessiture ad-libitum se proprio si vuol esagerare). Il soprano e il tenore sono invariabilmente e reciprocamente e pure perdutamente innamorati. Il baritono è anche lui perdutamente innamorato (di solito del... soprano!) e fa quindi la figura del guastafeste e dello stalker.

Perchè il dramma stia in piedi è preferibile che il baritono sia persona di potere (altrimenti verrebbe facilmente snobbato) mentre il tenore è di solito un tipo di origini modeste ma di grandi qualità, in modo che il pubblico fin da subito parteggi per lui contro il baritono. Il soprano sarà tipicamente una dolce e integerrima signorina, pronta ad ogni sacrificio, anche della vita, per difendere il suo tenore e difendersi dal baritono.  

E così il libretto di Cammarano ci presenta il baritono nei panni del Conte di Luna, ricco, potente e... prepotente; e il tenore in quelli di Manrico (suo fratello a loro insaputa) un tipo squattrinato, sedicente figlio di una zingara, ma anche idealista, che sbarca il lunario mescolandosi a bande di rivoluzionari e dedicandosi ad attività canore. Il tenore mostra anche grande magnanimità, allorchè (consigliato da una specie di sesto-senso) risparmia la vita al baritono, ormai vinto in duello; mentre il suddetto baritono non esita in cambio a ferire il tenore, nella successiva battaglia. La sua protervia si manifesta poi nel modo con cui tratta il soprano: subito prima di cantarne le lodi in una grande aria (quella del... dardo, haha!) lui ha mostrato di considerarla una donna-oggetto, una cosa di sua proprietà (Leonora è mia!)

Le considerazioni fatte, insieme alla constatazione che (si scoprirà definitivamente alla fine) baritono e tenore sono fratelli, portano necessariamente a stabilire che il baritono sia (poco o tanto) più anziano del fratello tenore. E infatti Ferrando racconta, proprio all’inizio dell’opera, le vicende dei due fratelli ed esclama: fida nutrice del SECONDO nato dormia presso la cuna. E il secondo nato è appunto quello poi scomparso e sospettato di essere stato sequestrato e quindi mandato arrosto dall’infernale Azucena per vendetta contro la messa al rogo della di lei madre, ad opera del padre dei due fratelli.

Quindi: tutto a posto... ? Ma allora, dove sta la curiosità cui ho fatto cenno più sopra? Nel fatto che, in Gutiérrez, l’età dei due fratelli è precisamente invertita: è Manrique (Juan) il maggiore, mentre il Conte (Nuño) è più giovane di due anni! Racconta infatti JimenoDon Nuño, el menor de entrambos. Per conferma, aggiunge poco dopo: Una noche penetró hasta la cámara propia del mayor, una gitana harapienta y quintañona.

Però nell’opera lirica sarà difficile che il baritono sia più giovane del tenore. Lì la tessitura vocale viene regolarmente assegnata in base all’anagrafe: tenore=giovane; baritono=maturo; basso=anziano. Insomma, il rispetto delle regole del gioco del melodramma imponeva persino di falsificare i certificati di nascita dei protagonisti!

E anche di addolcire un poco certe... ehm, spigolosità del linguaggio di Gutiérrez: nelle ultimissime battute del cui dramma Azucena grida al Conte esterrefatto: él es... tu hermano, imbécil!
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E ora il tormentone della cabaletta più nota e bistrattata di tutto Verdi: la pira! Il tenore la canta in DO o in SI? E ripete o no l’esposizione?

Verdi la struttura così (numero di battute): prima esposizione (38); tempo di mezzo (intervento di Leonora in DO minore, 11); pedestre riesposizione (38); coda con pertichini del coro (38); e chiusura strumentale (8).

La tonalità è DO (maggiore-minore) e la nota più alta toccata (5 volte nell’esposizione) è il LA acuto (!) L’ultima nota reiterata dal tenore è la dominante (un SOL acuto).

Beh, dove sta il problema? Qualunque tenore che si rispetti può farcela, o no? Ma poi è arrivata la tradizione esecutiva di tenori dal DO-di-petto facile che hanno inventato di sana pianta, sul teco almeno della ri-esposizione e sul finale all’armi!, il famigerato DO4 (che Verdi mai esplicitamente autorizzò, limitandosi al massimo a tollerare il secondo...)

Dopodichè a qualcuno fare due volte l’esposizione e due volte un DO4 è parso evidentemente troppo rischioso, e così si è cominciato col tagliare l’intervento di Leonora e la ri-esposizione, spostando il DO4 alla prima.

Ma non è finita qui: la tradizione ha fatalmente imposto le sue ferree regole e il pubblico ha cominciato a pretendere il DO4 da tutti i tenori. Ma allora quei tenori che il DO4 hanno difficoltà a staccarlo, o che forse lo potrebbero staccare, ma non si arrischiano a farlo? Chiunque penserebbe alla soluzione più logica (oltre che filo-logica!): tornare al Verdi d.o.c. che non va oltre il LA. Peccato che un tenore che facesse ciò verrebbe ormai considerato un minus-habens e irriso sulle pubbliche piazze. E così la moda dell’acuto a tutti i costi ha partorito un’ancor più grande ipocrisia: per turlupinare il pubblico-bue e fargli credere a millantati DO di petto, si abbassa tutta la cabaletta di un semitono, portandola al SI! Per curiosità, ecco dove si trova il bivio che porta o al DO o al SI:
Se il tenore, sul fi(-glio) invece di salire al LA naturale, si ferma al LAb (cosa musicalmente plausibile, chè non crea alcun problema all'orecchio dell’ascoltatore) è fatta: da lì in avanti tutto il resto è abbassato di un semitono, cabaletta compresa… poi tanto finisce l’atto e chi s’è visto s’è visto!

Chi si vuol divertire (si fa per dire...) può andare su youtube (munito di tastiera, materiale o informatica) e cercare di quella pira... e troverà una quantità industriale di riferimenti, scoprendo ad esempio che tenori (DelMonaco, Pavarotti, Domingo, per far solo alcuni nomi illustri...) da giovani eseguivano i DO e da... maturi abbassavano al SI. O che Bonisolli, Corelli e DiStefano si sparavano i DO a gogò, e così via. Interessante il doppio-Licitra:  a SantAmbrogio 2000 (Muti imperante!) esegue il Verdi originale; poco dopo, alla ROH (con Rizzi) si fa anche i due DO4.

Fra pochi giorni a Milano ci sarà Francesco Meli, cimentatosi da anni nella parte, che sempre (salvo prova contraria) ha cantato la cabaletta in SI: così fece a Salzburg nel 2014 e anche qui alla ROH (ripetendo peraltro l’esposizione). 

Staremo a vedere e - soprattutto - sentire!

01 febbraio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°14


Il fresco-di-nomina Direttore Musicale della Detroit Symphony Orchestra, Jader Bignamini, sale sul podio dell’Auditorium per dirigere (avendo a novembre scorso saltato il precedente) l’unico suo concerto della stagione 19-20.

Impaginazione di stampo classico, con un brano di apertura seguito da concerto solistico e da sinfonia. Ma l’apertura in questo caso non è un’ouverture o un pezzo brillante, bensì una composizione nuova di zecca e in prima esecuzione assoluta, opera commissionata da laVerdi ad Alessandro Melchiorre, intitolata Dal Buio. Ecco come l’Autore ne descrive sommariamente lo svilupparsi:

Il brano, dopo un esordio molto calmo - gli archi soli accompagnati dal suono suggestivo del superball, una particolare bacchetta usata dai percussionisti su tam tam e timpano grave - segue una crescita naturale caratterizzata dall’addizione delle diverse famiglie strumentali (agli archi dapprima si aggiungono i legni e infine gli ottoni) e procede per successive ondate sino a un climax dopo il quale il movimento di diverse melodie che si intrecciano perde energia e ritorna - con qualche variante - a una situazione affine a quella dell’esordio.

Sono poco più di 15 minuti di suoni che ci arrivano come in... sogno (all’inizio e alla fine si fa buio completo): un tappeto di note lunghissime (all’inizio un RE) che via via si anima e si arricchisce di contributi delle diverse sezioni orchestrali, percussioni comprese, mentre torna la luce in sala. Il brano compie un ampio arco per tornare lentamente, con il riabbassarsi delle luci, alla calma, mentre un violino solista (quello della seconda spalla Dellingshausen, collocato in alto, all’estremità sinistra della galleria) ci riaccompagna verso la quiete primordiale (lo stesso RE che aveva aperto il brano).

Brano che ha una sua efficace narrativa, e si fa apprezzare per la sobrietà del flusso sonoro, che induce riflessione e stuzzica la fantasia. Insomma, un’opera moderna che rifugge da certo stucchevole modernismo. Il pubblico ha apprezzato, con calorosi applausi ad Autore ed interpreti.
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Segue il rampante Luca Buratto (artista residente) che si cimenta con il Concerto in SOL di Maurice Ravel. Che lui dice di amare assai e lo si vede sente, da come lo affronta con approccio quasi ascetico (e non solo nel mirabile Adagio centrale). Le reminiscenze jazzistiche sono per lo più lasciate agli strumenti (clarinetto piccolo in testa) mentre Luca, che mi pare maturato anche dal punto di vista... comportamentale (meno dimenamenti) si concentra sulla cantabilità e affronta da par suo le impervie sfide tecniche poste da questa difficile partitura.

Agli applausi scroscianti di un pubblico assai folto lui replica con ben due encore: il Menuet (n°5) dal raveliano Tombeau de Couperin e il lungo ma strepitoso Allegro grazioso dalla Sonata K333 del Teofilo.
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A chiudere ecco la Fantastique di Hector Berlioz, che Bignamini ha appena diretto (domenica 26/1) a Detroit proprio per festeggiare la sua fresca nomina laggiù.

Che dire? Esecuzione travolgente, ma... non sempre ciò è sinonimo di accuratezza e rigore. Mi è parso di cogliere in Bignamini troppe libertà nell’agogica e nelle dinamiche (eccezion fatta per l’impeccabile Scène aux Champs) e una enfatizzazione eccessiva (per me) dei contrasti: insomma, la ricerca di facili effetti a buon mercato (non è che il nostro si stia per caso già adeguando al pubblico yankee, notoriamente propenso a farsi prendere da facili entusiasmi?)

In ogni caso pure il pubblico milanese si è entusiasmato e lo ha subissato di applausi, anche ritmati. Buon per lui e tanti auguri per la sua avventura americana!

27 gennaio, 2020

Tristano-2 a Bologna


La seconda recita del bolognese Tristan und Isolde ha visto in scena i due protagonisti del (cosiddetto) secondo cast, Bryan Register e Catherine Foster, che hanno rimpiazzato la coppia titolare (Vinke-Petersen) esibitasi lo scorso venerdi. Devo dire che (almeno ricordando l’ascolto radiofonico) i due secondi non mi son parsi inferiori agli alfieri.

Ovviamente è rimasto il barbaro taglio del gran duetto dell’atto secondo, che mi lascia sempre l’amaro in bocca nelle orecchie e nel cervello, ma tant’è, accontentiamoci di tutto ciò di positivo che comunque questa produzione ci ha propinato.

A cominciare dalla Direzione di Juraj Valčuha, che già mi aveva impressionato (almeno riguardo l’agogica) all’ascolto radiofonico (i tempi sono stati praticamente identici a quelli della prima) e che ieri ha fatto altrettanto anche sotto il profilo delle dinamiche (che dalla radio arrivano sempre inevitabilmente distorte). L’intero Preludio e l’attacco dell’atto terzo sono per me (e non solo per me) la cartina di tornasole che rivela l’eccellenza di un’interpretazione, e il Direttore slovacco ha superato la prova in modo impeccabile. Ma ovviamente il giudizio positivo va doverosamente esteso all’intero arco delle quasi quattro ore di musica, e necessariamente alla prestazione maiuscola dell’orchestra, che evidentemente deve essersi preparata in modo particolare per questo appuntamento.  

Bryan Register (già protagonista nell’edizione belga dello scorso anno) non sarà certo un Tristan che passerà alla storia, ma la sua prestazione è stata apprezzabile sotto il profilo della sensibilità intrepretativa. La voce non è (più?) stentorea ma ancora ben proiettata e la tenuta alla distanza è stata più che soddisfacente.

Catherine Foster ha un gran vocione, ma un po’ fuori controllo, come testimoniano gli acuti stentorei ma spesso poco puliti (un paio di calate e proprio il conclusivo Lust ghermito alla sperindio); centri non troppo solidi e scarsamente penetranti. Lei è stata un’Isolde arrabbiata (una maschera davvero luciferina) dalla presenza scenica invadente.

Discreta la Brangäne di Ekaterina Gubanova, che si è fatta apprezzare nei due interventi nel duettone (sfrondato...) del second’atto.

Il Kurwenal di Martin Gantner mi ha abbastanza convinto: voce solida e ben impostata, sempre passante e... perfettamente comprensibile. Ammirevole, per portamento e presenza, l’inossidabile Albert Dohmen, un Marke nobilissimo e commovente.

Degli altri due comprimari ho apprezzato Klodian Kaçani, come marinaio, bravo anche a rompere il ghiaccio al levar del sipario; come Pastore, normale amministrazione. Dignitoso Tommaso Caramia, che aveva le due parti più contenute della compagnia.

Efficace il coro maschile di Alberto Malazzi, che accompagna con i suoi interventi, culminanti nella trionfale chiusa del prim’atto, il viaggio da Irlanda a Cornovaglia.
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Tristan - si sa - è un’opera quasi impossibile da rappresentare in modo efficace, tale è la sua astrazione da qualunque clichè tradizionale. Lo scoprì per primo proprio... Wagner! Personalmente detesto le interpretazioni secolarizzate (mi viene in mente Guth) poichè ci presentano la materia prima grezza e prosaica invece del prodotto finito distillato da Wagner, un’entità astratta che vive nello spazio metafisico.

Ecco perchè ho apprezzato assai l’impostazione del regista Ralf Pleger e del suo scenografo Alexander Polzin, che hanno cercato (magari con alterni risultati) di guidarci alla scoperta di questo universo immateriale, spogliato da ogni drammaturgia, per lasciar posto esclusivamente alle oscure sensazioni (uso un termine mahleriano) che solo la musica (questa musica!) sa suscitare nel nostro animo.
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Pubblico folto (ma con diverse poltrone vuote) e comunque ben disposto e prodigo di applausi per l’intera compagnia di musicanti e allestitori. Insomma - torno ad usare la mia metafora sportiva - una partita di alto livello in serie-A2!

(E infine grazie a Bologna ed Emilia per aver ridimensionato un buzzurro che l’arte non sa nemmeno dove stia di casa...)

26 gennaio, 2020

La Violanta torinese


Ieri pomeriggio al Regio (ahinoi non proprio semivuoto, ma c’è mancato poco...) è andata in scena la terza delle cinque recite di Violanta, che il teatro torinese ha meritoriamente portato per la prima volta in Italia dopo un secolo abbondante dalla comparsa a Monaco di Baviera (martedi 28 marzo, 1916).

Dico e affermo trattarsi di un’opera che dovrebbe avere almeno (se non più...) la stessa considerazione (parlo di cartelloni e pubblico) di una Cavalleria o di una Fedora, per dire. E il merito va soprattutto alla musica di questo ragazzo diciassettenne che rivaleggia con i mostri sacri Strauss e Puccini, e sovrasta di quache spanna musicisti (nostrani e non) che pure trovano frequente ospitalità sulle nostre scene.

Musica che è stata assai bene illustrata dalla direzione dell’ispirato Pinchas Steinberg, che ha guidato un’Orchestra in ottima forma, capace di rendere al meglio le atmosfere ora liriche, ora drammatiche che la partitura ci propone. Di ottimo livello la prestazione del Coro di Andrea Secchi, chiamato ad un compito più arduo a livello di qualità che di quantità, ma assolto con grande profitto.

Le voci con luci ed ombre: Annemarie Kremer è una Violanta invidiabile sul piano scenico (chi non sarebbe soggiogato dal suo fascino di femme-fatale?) e a corrente alternata su quello strettamente vocale: acuti da autentico soprano drammatico, ma centri debolucci... Michael Kupfer-Radecky assai efficace come Simone: voce ben impostata e potente, atteggiamenti appropriati al personaggio di militare-tutto-d’un-pezzo cui casca addosso il mondo senza che lui se ne dia una ragione.

Il principe-illegittimo, nonchè dongiovanni, Alfonso è Norman Reinhardt, che per la verità dovrebbe avere caratteristiche vocali quasi da Heldentenor, e invece ha una voce da tenorino lirico, con scarsa proiezione: la sua è una prestazione non più che discreta. Come quella del pittore gaudente Giovanni Bracca, interpretato da Peter Sonn.

Efficace e convincente Anna Maria Chiuri, una Barbara amorevole e dolcissima nella sua ninna-nanna a Violanta. Gli altri comprimari (vedi locandina) tutti all’altezza dei rispettivi compiti.
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Il venerabile PierLuigi Pizzi firma un’allestimento (regìa, scene e costumi, più le luci di Andrea Anfossi) davvero degno della sua fama: scena fissa, come pretende il libretto (la sala del palazzo di Simone sulla Giudecca) arredata solo con un paio di sofà e un tavolino, con un’enorme apertura circolare sul fondo, che dà sull’... infinito (la laguna dove transitano gondole e dalla quale arrivano le voci del carnevale). Costumi di inizio ‘900 (uniformi miitari di Simone e sottoposti) e di mascherine; un abito lungo, sberluscicante e attillatissimo-scollato di Violanta a valorizzarne il prorompente sex-appeal; Alfonso vestito (ma è in maschera anche lui!) da Papageno (metafora del galletto che si fa tutte le gallinelle?) Recitazione assai curata in ogni dettaglio.

Insomma, uno spettacolo di alto livello che il pubblico degli affezionati ha salutato con gran calore. Chi appena può non trovi scuse per mancare una delle ultime due recite!

(Ora però devo partire per Bologna dove, oltre a Salvini, incombe... Tristan!)

25 gennaio, 2020

Tristano (monco e deturpato) a Bologna


Ieri il Bibiena ha ospitato la prima recita di Tristan und Isolde. Perchè monco? Ma perchè - come è purtroppo costume deteriore - è stato amputato di una parte essenziale del duetto del second’atto. Già in altra occasione ho spiegato perchè - fosse anche splendida l’esecuzione - non potrei considerarla di serie-A. É un vero peccato che Bologna, una seconda patria per Wagner, non abbia voluto (potuto?) rispettare l’integrità di questa partitura, che ha nientemeno che condizionato tutta la musica composta dalla sua comparsa.

L’ascolto su Radio3 ha messo in luce (a mio avviso) le grandi qualità del Direttore, il redivivo a Bologna Juraj Valčuha, per il resto mi astengo da giudizi sempre aleatori dopo ascolti di tal fatta.


Due parole sulla durata dello spettacolo (iniziato quasi 20 minuti dopo le 18 anche, non solo, per un doveroso omaggio al gran vegliardo Marino Golinelli, benefattore del teatro, avendo generosamente offerto il restyling della platea). Il sito del Comunale porta la seguente indicazione (si presume derivata dai tempi della generale): 75+75+70 = 220 minuti di musica e 30+30 = 60 di intervallo; totale: 280 minuti. Ieri i tempi registrati sono stati, all’incirca: 80+70+80 = 230 e il totale lordo 300 (quindi sia musica che intervalli più lunghi del previsto).

Perchè deturpato? Perchè alla fine un troglodita è riuscito a rovinare precisamente l’ultima battuta del Liebestod, con uno schiamazzo che meriterebbe la galera, come si addice a chi deturpa un dipinto o una scultura in un museo!

(Commenti nel merito più avanti.)

23 gennaio, 2020

Il Maeschtre è tornato alla Scala


Ieri sera Riccardo Muti è tornato - dopo quasi tre anni - a calcare il podio scaligero. Portandosi ancora dietro... tutta la numerosa famiglia americana, con la quale sta girando mezza Europa e dopo aver già fatto soste a Napoli e Firenze, due città che - ma chissà poi perchè - pare gli siano molto care.

Come a Napoli e a Firenze (dove si è registrato il tutto-esaurito da settimane) anche il Piermarini era affollato, anche se non proprio come un barile di sardine... Dove Muti ha eseguito lo stesso programma presentato proprio lo scorso lunedi all’OF: programma davvero impegnativo, oltre che interessante dal punto di vista dei contenuti. Val la pena sottolineare il diverso grado di oggettiva difficoltà (per l’ascoltatore, quindi per il pubblico) dei due programmi italiani (Ouverture wagneriana a parte): quello di Napoli (il Prokofiev trascinante di Romeo&Giulietta e l’inflazionato Dvorak del Nuovo Mondo) è fatto di musica, per così dire, facile, che si può godere anche ad un ascolto passivo, tanto accattivanti sono temi e motivi che la innervano. Quello di Firenze-Milano (presentato anche nella prima delle tre fermate viennesi della tournée della CSO) propone due sinfonie poco conosciute al vasto pubblico, proprio perchè sono musica piuttosto ostica, cerebrale, di non immediata presa.

Credo difficile pensare che questa differenziazione di programmi (tra NA e FI-MI) sia stata frutto del caso o di scelte fatte tirando la monetina o condizionate da qualche esigenza tecnica, e non sia invece stata influenzata anche da ragioni... geopolitiche (ciascuno ne tragga poi le conclusioni che crede!)

Così anche ieri alla Scala, dopo l’Ouverture dell’Holländer, sono state eseguite due Sinfonie che ebbero curiosamente gestazioni simili (e assai complicate) negli anni ‘30 e ‘20 del ‘900: entrambe infatti furono composte impiegando materiale di opere teatrali che gli autori stavano completando o che avevano appena completato, ma che avevano difficoltà a mettere in scena. Mathis der Maler fu composta da Hindemith nel ‘33-34, mentre l’opera vide la luce solo nel ‘38, e non in Germania, causa... Hitler. La Terza di Prokofiev è del ‘28-29, mentre l’opera L’Angelo di fuoco (del ‘22, cui la Sinfonia è debitrice) addirittura non sarà mai rappresentata vivente l’Autore.

Due lavori che sono anche vagamente accomunati da una componente, per così dire, mistica, pur se in scenari quasi agli antipodi: sinceramente religioso, nel raccoglimento come nel trionfo, quello di Hindemith; nobile, ma con accenti talvolta quasi sacrileghi quello di Prokofiev!
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Sull’eccelsa qualità della CSO è inutile dilungarsi; che circa 10 anni orsono abbia fortemente voluto come guida Riccardo Muti testimonia invece dell’alta considerazione in cui il Maeschtre è tenuto in tutto il mondo. E il rifiuto dei professori ad alzarsi, alla terza uscita finale, la dice lunga della stima di cui Muti gode dentro la compagine orchestrale.  

Fulminante il biglietto da visita con cui l’Orchestra si è presentata: l’attacco dell’Olandese, con gli archi (violini e viole) in un tremolo letteralmente tagliente! Muti ci ha poi messo del suo, chiedendo a corno inglese ed oboe la massima espressività nella presentazione del tema della Redenzione (la ballata di Senta) e poi evitando facili sguaiatezze nei motivi dei marinai norvegesi. Poderoso il pieno orchestrale in chiusura dell’Ouverture, accolta da ovazioni.

Mathis è una  composizione che meriterebbe più attenzione da chi programma concerti: ricordo una benemerita esecuzione de laVerdi nel 2013 (con Xian) ma non ci sono in giro molti casi analoghi. L’esecuzione di Muti con la CSO ha confermato la qualità di questa musica, che il Maestro ha ulteriormente valorizzato, accentuandone proprio il carattere di religiosità composta e nobile, quella ispirata alle pale dipinte dal pittore cinquecentesco a Isenheim.     

Della Terza del compositore ukraino Muti ha scavato le profondità espressioniste, così legate al soggetto teatrale cui già Prokofiev aveva dato forma anni prima, pur non essendo ancora riuscito a farlo rappresentare. È una musica che si fatica a digerire se si prescinde dalla sua sorgente, che invece le conferisce quella narrativa (il conflitto aspro e insanabile tra religione e stregoneria) che ce la rende apprezzabile, spiegandocene le apparenti contraddizioni.          

Alla fine Muti ha offerto lo stesso bis di Firenze, il mirabile Andante cantabile in MI maggiore dall’Intermezzo del second’atto di Fedora, dopo aver reso omaggio a Milano e a due musicisti cui deve tutto: il suo maestro e pigmalione Antonino Votto e il grande Gianandrea Gavazzeni. Poi ha fatto ciao-ciao a due mani e si è portato via i suoi ragazzi, tutti subissati da strameritati applausi...

20 gennaio, 2020

La Risurrezione di Firenze


Eccomi quindi a riferire della seconda recita (ieri pomeriggio in un’OF ben affollata - mentre pare che così non fosse alla prima di venerdi...) dell’alfaniana Risurrezione.

L’ascolto della prima su Radio3 mi aveva positivamente impressionato: non già per la qualità della musica, che è quella che è... ma per quella degli interpreti (voci e strumenti) che mi era sembrata di buon livello. E devo dire che l’ascolto dal vivo ha confermato sostanzialmente questa impressione.

Anne Sophie Duprels è stata la regina della serata: voce abbastanza solida e corposa di soprano lirico-drammatico, ha proposto una Katiusha convincente nelle tre diverse prospettive nelle quali il personaggio si materializza: l’ingenua, spaurita ma infine voluttuosa adolescente; la spoetizzata e involgarita condannata-prigioniera; e infine la donna che trova la via della redenzione, pur non rinnegando i suoi sinceri sentimenti legati al tempo dell’ingenuità. 

Degna di apprezzamento la performance del tenore Matthew Vickers, un Dimitri a momenti spavaldo, oppure sconvolto (la rivelazione del figlio perduto) o ancora sinceramente premuroso con Caterina e leale con Simonson. La voce, che Alfano impegna spesso e volentieri nell’ardua zona di passaggio, è squillante e abbastanza ben proiettata, gli acuti sono staccati senza problemi. I duetti con Caterina sono stati fra le perle della serata.

Il catto-comunista Simonson era Leon Kim, che ha affrontato a viso aperto una parte baritonale per nulla facile, per quanto limitata al solo ultimo atto, mostrando buona intonazione e sicurezza anche nelle impervie salite al FA e al SOL cui lo chiama la partitura.

Applauditissima Romina Tomasoni, che ha incarnato la Matrena Pavlovna e (nel second’atto alla stazione) la fedele e premurosa Anna.

Francesca Di Sauro (Sofia Ivanovna) e Ana Victoria Pitts (sdoppiatasi in Korableva e Vera) hanno completato il cast dei ruoi principali con pieno merito.

Benissimo il Coro di Lorenzo Fratini, di rilievo quantitativamente non debordante, ma fondamentale, con interventi a bocca chiusa e a cappella. In più, alcune voci femminili hanno ricoperto ruoli non marginali, in particolare nel terz’atto della prigione.

Francesco Lanzillotta ormai non è più una promessa, e la sua concertazione ne è testimonianza, per accuratezza e costante ricerca del miglior equilibrio dei suoni di voci e strumenti. Poi, nei diversi passaggi puramente strumentali, il Direttore fa tesoro della lunga esperienza alla guida di Orchestre Sinfoniche.
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L’allestimento è affidato a Rosetta Cucchi, che si avvale delle scene - essenziali, ma di sicuro impatto - di Tiziano Santi e degli appropriati costumi di Claudia Pernigotti. Le luci, ideate da D.M.Wood, sono curate da Ginevra Lombardo e nella loro essenzialità ben supportano l’ambientazione ora serena, più spesso cruda, dell’opera. 

Approntata per un appuntamento irlandese, questa messinscena si fa innanzitutto apprezzare per la fedeltà rigorosa (parlo della sostanza) al testo originale: la storia che ci viene raccontata è precisamente quella che esce dal libretto di Hanau. Dopodichè la regista ci deve mettere qualcosa di suo, come l’apparizione in scena di una bimbetta che rappresenta la Caterina nella sua infanzia spensierata; oppure ambientare il carcere in cui è rinchiusa la donna in un laboratorio di cucito, con una selva di macchine Singer, la cui presenza nella Russia del 1880-90 è dubbia; o ancora mostrarci nel quarto atto i binari di una Transiberiana che era con tutta probabilità ancora di là da venire... e altre cosucce francamente innocue, ecco. Assai efficace la resa dei personaggi e delle loro interazioni. Mirabile ed emozionante, senza scadere nel banale, la scena ultima, con l’apparizione di un luminoso paesaggio agreste nel quale si incontrano la Caterina risorta e la sua piccola controfigura.
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Che dire, in definitiva? Lo spettacolo è di ottimo livello e l’accoglienza del pubblico è stata oltremodo calorosa. Insomma, un'azzardata scommessa (chè tale era e rimane) ampiamente vinta!

18 gennaio, 2020

Rarità in arrivo a Torino: Violanta


Dopo la Risurrezione fiorentina (ieri sera la prima trasmessa da Radio3 mi ha lasciato una discreta impressione...) ecco profilarsi all’orizzonte sabaudo una nuova - e gradita, personalmente - rarità: la Violanta di Erich Wolfgang Korngold. Il bambino-prodigio di Brno - che poco dopo la WWI sfornerà, a 23 anni, il suo capolavoro (Die tote Stadt) - allo scoppiare della medesima guerra stupì il mondo musicale con questo atto unico a soggetto noir, che anticipa di poco lo scenario di Eine florentinische Tragödie del suo maestro Zemlinsky (andata in scena al Regio torinese poco meno di 5 anni fa). Due soggetti ambientati nell’Italia del 1400-1500, rispettivamente, e caratterizzati dal classico triangolo: moglie e marito - soprano-baritono, lui di nome Simone - la cui (più o meno) felice unione è minacciata dal tenore, un amante altolocato.

Così, in Zemlinsky (testo tratto da Oscar Wilde) Simone è un borghese fiorentino (commerciante) che torna a casa da un viaggio d’affari e vi trova la moglie Bianca in piacevole compagnia del Principe Guido Bardi. Come nulla fosse, Simone cerca di piazzare la sua mercanzia all’intruso, che sfacciatamente se la fa con la moglie; allora lo sfida quasi per scherzo a duello, ma poi lo ammazza per davvero. La tragedia qui si volge in... farsa, chè Simone e Bianca - eliminato l’amante - si scoprono innamorati come mai prima, in un improbabile e tutti (meno uno) vissero felici e contenti (!?)

Invece in Korngold (testo di Hans Müller, suo compaesano) Simone è un capitano della Repubblica veneziana, sposato con la bella e virtuosa Violanta, la cui sorella Nerina - novizia al Convento del Deserto - è stata sedotta da Alfonso, Principe napoletano e che per il disonore si è suicidata gettandosi in laguna. Violanta ha giurato vendetta e così, quando Alfonso arriva a Venezia per godersi il carnevale (in realtà siamo alla Festa del Redentore, fine luglio, che però nel 1400 era ancora di là da venire) e le belle donne... lei in incognito lo adesca e lo attira in casa sua, dopo aver convinto il marito a farlo secco. Solo che, una volta dinanzi ad Alfonso, Violanta cade a sua volta innamorata come un pera cotta, ed è addirittura il Principe, preso dal senso di colpa, a provocare l’intervento di Simone per subire da lui la giusta punizione. Invece è proprio Violanta a ricevere il mortale colpo di spada del marito e a morire, espiando così la sua colpa.

Beh, anche nella scelta del libretto l’allievo ha superato il maestro!
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Chi vuol fare i cosiddetti compiti-a-casa, per non arrivare totalmente sprovveduto all’appuntamento, incontra effettivamente qualche difficoltà a documentarsi. L’unica incisione disponibile sul mercato ufficiale - ma per fortuna rintracciabile nel mare-magnum di youtube - è quella, ormai storica perchè risalente al 1980, diretta in studio da Janowski e interpretata, nei tre ruoli principali, dal trio Marton-Jerusalem-Berry.

Alcune riproduzioni semi-piratesche ma comunque preziose (registrazioni da trasmissioni radio, streaming e simili o carpite direttamente in teatro con strumenti più o meno di fortuna) non mancano, basta ordinarle (CD) o scaricarle (MP3) a buon mercato, dai posti giusti, come questo. Così come si può scaricare (ad esempio dalla libreria-Petrucci) lo spartito canto-pianoforte (oltre alla partitura del solo Preludio).

Più arduo è accedere al libretto dell’opera, quasi introvabile, salvo ascquistare la citata registrazione (Sony e/o CBS) di Janowski su CD (o vinile!) oggi reperibile - a quanto sembra - solo negli USA; oppure acquistare il testo prodotto dalla Columbia, a prezzo proibitivo. Anche qui, con un po’ di pazienza, si riesce a scovare in rete una precaria ma preziosa scannerizzazione del booklet dell’incisione CBS (con commento e traduzione in inglese e francese, ma è già grasso che cola...) messa benemeritamente a disposizione dalla Radio canadese, evidentemente in occasione di una diffusione via etere dell’opera. Oppure questa edizione casereccia del libretto (tedesco-francese).

E quindi, libretto e spartito alla mano vista possiamo esplorare - seguendo la citata registrazione di Janowski - questo lavoro assai interessante, se si pensa che fu un non ancora diciottenne a comporlo.

L’atto unico (sette scene) inizia con un Vorspiel (Preludio) strumentale, che ci presenta alcuni dei temi e motivi che caratterizzano ambiente e personaggi (almeno due dei tre protagonisti).


Val la pena soffermarvisi poichè è un vero concentrato di idee e riferimenti.

Così gli accordi iniziali, piuttosto indecifrabili e con retrogusto un po’ sinistro - una triade aumentata di SIb su pedale di MI, sulla quale si innesta un marcato DO# - ci introducono alla psiche abbastanza instabile della protagonista (più che vendicare la sorella, lei è alle prese con la sua propria dissociazione fra morale e libido, che esploderà alla fine). A 22” il pianoforte, il glockenspiel, oboi, arpa e viola scolpiscono un breve inciso che anticipa l’incipit del canto (quasi blasfemo) del Carnevale veneziano (lo sentiremo fra poco). A 58” ecco affacciarsi ancora sinistramente il tema di Violanta, che poi (1’16”) si dispiega in una melodia dal ritmo cullante (sembra preludere al Via-col-vento di Max Steiner, altro bambino-prodigio viennese che aveva anticipato di 15 anni Korngold nell’avventura cinematografica in USA). Guarda caso nella stessa tonalità di Violanta (DO maggiore) ecco a 2’00” il primo corno esporre il tema di Alfonso, dal piglio ascendente e appassionato, che subito dopo (2’20”) si ripete in MI maggiore, tonalità quanto mai idilliaca. Un continuo crescendo della tensione porta, con il ritorno a DO maggiore, al culmine del Preludio (3’42”) con la ricomparsa imperiosa del tema di Violanta, che poi sfuma gradatamente riportandoci (4’23”) all’atmosfera ambigua dell’inizio, nella quale ritroviamo (4’36”) l’inciso del Carnevale veneziano, poi (4’53”) reiterate, velocissime scale ascendenti delle due arpe e degli strumentini sembrano evocare i colpi di remo dei gondolieri (che apriranno la prima scena dell’opera). A 5’13” l’incipit del Carnevale accompagna il levarsi del sipario, che ci mostra una sala della casa di Simone, sulla Giudecca, affollata da soldati e domestiche.

Scena 1. Nella serata di fine luglio Venezia e la laguna sono illuminate da fuochi d’artificio e la Festa del Redentore è in pieno svolgimento. Dai canali (5’32”) arriva una cantilena di barcaioli, il cui motivo richiama l’incipit del Carnevale; una servetta (6’23”) descrive un gentiluomo col mantello da Doge, un’altra un damerino mascherato da boia, con mani insanguinate. Un soldato (6’43”) ammira danzatori del Teatro Felice (sic... a parte il nome simpaticamente storpiato, teatri nel ‘400?) Poi (7’00”) ecco udirsi in lontananza la Canzone del Carnevale (morti che risuscitano e danzano con gioia sfrenata). Ancora (7’30”) i barcaioli ripetono il loro ritornello, ma adesso rientriamo nella sala e troviamo (8’06”) Matteo, un giovane militare (un sottoposto di Simone, quindi) che si dà pena per il suo impossibile amore per la bella moglie del suo Capitano. Un commilitone lo prende in giro, scimiottandone l’atteggiamento, così Matteo si innervosisce ed anche una servetta rincara la dose, sbeffeggiandolo. Arriva adesso (8’49”) una certa Bice (dama di compagnia di Violanta) tutta eccitata perchè inseguita da frotte di ammiratori. Dopo un robusto ritorno (9’05”) dell’incipit del Carnevale, anche Barbara (anziana nutrice di Violanta) entra in scena chiedendo se qualcuno ha visto la padrona. Matteo (9’45”) immagina che lei sia alla festa in San Marco, Barbara lo ammonisce che Violanta è praticamente in lutto dopo il suicidio della sorella, e allora Matteo sospetta che lei sia fra le braccia di qualcuno per consolarsi. Barbara lo apostrofa come bugiardo, ricordandogli la purezza e castità della padrona. Un militare (11’23”) mette in guardia Matteo dalla furia del Capitano, e qui abbiamo la prima apparizione del tema di Simone, una violenta salita chiusa da un gesto perentorio, tipico di chi dà ordini irrevocabili... Bice (11’35”) propone al giovane in pena di accontentarsi di lei, che non è proprio male! Soldati e cameriere si mettono a cantare giubilanti, mentre dalla laguna torna a farsi udire la Canzone del Carnevale, che ora contagia tutto l’ambiente.

Scena 2. L’atmosfera cambia drasticamente (13’04”) poichè in casa (e in scena) è arrivato Simone, annunciato e poi spalleggiato dal suo tema imperioso. Ordina di cessare quei canti immorali e ai soldati di tornare ai loro posti di guardia: i suoi interventi sono sottolineati da un accompagnamento rude e marziale. Domanda a Barbara (13’57”) di Violanta, ricevendone risposta negativa. Matteo (14’39”) gli chiede di essere trasferito lontano da Venezia (beh, sempre meglio che il suicidio, per questo Narraboth-de-l’ostregheta...) e per tutta risposta viene minacciato di impiccagione all’albero della nave più vicina. Simone ora (15’07”) chiede della moglie anche a Bice, ma senza aver risposta: allora spedisce le donne a cercarla a casa della suocera...

Scena 3. Arriva proprio ora (15’51”) un nuovo personaggio, un eccentrico pittore, Giovanni Bracca, amante della bella vita, venuto a prendere Simone per portarlo alla Festa del Redentore, cantandone le lodi e intonando inni all’amore, sulla base musicale del tema del CarnevaleSimone (16’40”) si schermisce, mostrando di disprezzare i costumi della società che nasconde il peccato dietro l’arte e la musica. Giovanni lo tenta, annunciando (16’55”) che in giro per Venezia c’è Alfonso (e il suo tema serpeggia in orchestra!) lo sciupafemmine napoletano, arrivato su una nave trainata da quattro sacerdotesse dell’amore. Simone ne è sorpreso, e così rivela all’amico (17’36”) l’odio - qui compare proprio il tema dell’odio di Violanta, dal sapore acido e velenoso, una serie di terze minori ascendenti - che la moglie porta ad Alfonso, colpevole del suicidio della sorella buttatasi in mare (si noti a 17’57” il tema di Alfonso, storpiato in SOL minore).  Da allora (18’55”) lei non parla e non tollera rapporti con i maschi, marito incluso! E così Simone (19’44”) si convince a seguire Giovanni, per poter finalmente guardare in faccia quell’individuo. Giovanni riprende (20’33”) i suoi canti goderecci e si prepara ad uscire con l’amico. Ma proprio in quel momento, preannunciata dal suo tema nobile (20’55”) che si concatena al canto di Giovanni, ecco arrivare Violanta! Che dice (21’19”) di venire precisamente dalla festa, e chiede al marito di rimanere lì con lei. Giovanni (21’38”) quasi si dispera, per dover svolazzare da solo come un farfalla, ma Simone lo congeda con un gesto imperioso, e così il gaudente se ne va, ricominciando a canticchiare allegramente, con l’orchestra che chiude la scena con una classica cadenza da melodramma.

Scena 4. Eccoci quindi (22’28”) al drammatico confronto Simone-Violanta. L’atmosfera è creata dagli accordi che caratterizzano la protagonista, la quale annuncia l’imminente arrivo di... chi? (domanda ansioso Simone). Lo sai benissimo, risponde lei (23’40”): gli ho dato la caccia come a una volpe, l’ho seguito nella piazza, circondato da mille luci e da mille sorrisi di donna. Il suo sguardo trasmetteva un sorriso indefinibile, di quelli che ti fanno ribollire il sangue nelle vene. (24’54”) Alfonso! Mi son fatta largo fra tutte quelle ragazze che gli ronzavano attorno come api all’alveare, e sono giunta davanti a lui, danzando e sospirando, fremendo e languendo, così ho adescato il seduttore, gli ho cantato ciò che oggi è sulla bocca di tutti i giovani. Violanta (25’27”) intona il primo verso della Canzone del Carnevale, al quale risponde da fuori la folla delle maschere. Simone (25’39”) non lo può sopportare, ma Violanta prosegue: l’ho condotto dietro l’Orologio, al buio; lui si è chinato su di me, con i suoi occhi fiammeggianti e le labbra frementi. Lì ho capito che Nerina oggi sorriderà nella sua tomba! Simone (26’35”) ancora non comprende. E lei incalza: fra dieci minuti sarà qui, lui pensa che io sia un’artista del Teatro Felice e mi devo preparare a riceverlo, aspetterò al buio l’avvicinarsi del desiderio di questo peccatore. Ancora Simone incredulo (27’34”). E lei risponde che migliaia di donne pure attendono questo momento! Ora fra i due c’è un drammatico scambio di battute smozzicate, finchè lei gli spiega (28’45”): tu lo ammazzerai! Simone è sconvolto e lei continua (29’11”): finchè i suoi occhi e la sua bocca saranno vivi, io non potrò guardare nè baciare alcun uomo; (29’32”) provo per lui un odio indescrivibile! Ma è figlio di Re (29’50”) obietta Simone. Sì, ma desidera la bocca delle popolane! Ma domani potrebbe essere il tuo Sovrano! E mi ha già fatta schiava oggi! Arriva senza sospettare nulla... Viene per sedurre tua moglie! E potrebbe anche riuscirci (30’19”): fra odio e amore il passo è breve! Simone ora si convince (30’39”): farò come tu vuoi, e i due hanno un moto di tripudio, con lei che pregusta il ritorno alle gioie del rapporto matrimoniale! Simone intende aspettare Alfonso proprio lì, invece lei (31’22”) ha altro in mente: prima vuol lasciarlo illudere, per meglio castigarlo. Simone comprende (31’37”) e propone il segnale per il suo intervento: la canzone proibita! Qui Violanta (32’10”) intonando il tema di Simone (!) immagina la scena: lo guarderò negli occhi, lo sedurrò fino a farlo inginocchiare davanti a me, disarmato, e allora canterò la Canzone del Carnevale, e tu arriverai per trafiggerlo! I due insieme (33’09”) accennano il motivo del Carnevale, poi Simone, accompagnato dal suo stentoreo tema, si congeda dalla moglie e si allontana, mentre l’orchestra lo segue con un breve postludio.    

Scena 5. É un momento di transizione, per lasciar decantare la tensione creatasi in precedenza, e che ancora attanaglia il petto di Violanta, e preparare adeguatamente la scena-madre successiva, l’incontro di lei con Alfonso. É lei (34’16”) che chiama Barbara per farsi portare dei candelabri. L’anziana nutrice entra recando le luci, L’atmosfera è ora ovattata e tranquilla: Violanta le chiede (34’50”) di scioglierle i capelli: non andrà a dormire subito, ma lo farà presto. La nutrice (35’50”) ammira il collo e il petto della giovane, poi le sembra di sentire una barca attraccare lì sotto, ma Violanta la smentisce e invece (36’55”) si fa ripetere una favola che Barbara le raccontava da bambina, con una morale filosofica (37’59”): stare in pace con se stessi è avere il cielo in terra! È una specie di ninna-nanna (in RE maggiore) quella che Barbara canta alla giovane donna, conclusa subito dopo (39’10”) in DO maggiore con l’augurio di una buona notte. Barbara si allontana e Violanta resta sola in attesa. Qui (39’55”) abbiamo un mirabile interludio orchestrale, una specie di agitato Notturno, che evoca contemporaneamente la calma notte veneziana, illuminata dalla luna piena che si specchia nei canali, e lo stato d’animo di Violanta, sconvolto dall’ansia per ciò che sta per accadere: lei è uscita sul balcone e respira profondamente, mentre uno sciacquio di remi annuncia l’arrivo di una barca. Rientra quindi all’interno e chiude i tendaggi, restando immobile. Da lontano (42’11”) si ode la voce di Alfonso, accompagnata da un liuto e da un coretto a bocca chiusa, che canta una serenata (una meravigliosa romanza da operetta nobile, in LA maggiore) inneggiante all’amore e alla bella vita. Violanta (43’35”) la contrappunta con la predizione della fine della pacchia, e di tutto quel mondo peccaminoso. Ora assistiamo (43’58”) ad un duetto a distanza (e all’insaputa dei duettanti!): Violanta che ribadisce le sue minacciose predizioni, Alfonso che inneggia all’amore e alle donne, che si augura coprano di baci anche la sua tomba! Adesso (44’43”) si ode lo struscio e il cigolio dell’attracco di una barca alle palafitte del palazzo: Alfonso ne scende ed entra, con portamento vivace e principesco, bell’aspetto e capelli mossi... e  arriva al cospetto di Violanta.

Scena 6. É il momento della verità per Violanta: qui le sue certezze verranno messe seriamente alla prova e - alla fine - lei stessa si scoprirà totalmente diversa da ciò che credeva di essere. Per certi versi ricorda l’Isolde che - fulminata dal solo sguardo di Tristan - lascia cadere la spada con la quale era pronta ad ucciderlo. Così Violanta, partita per (far) uccidere Alfonso, ne verrà invece stregata, mostrando e rendendosi conto di essere, dopo tutto, solo una donna, normale e vulnerabile a quell’arcano mistero che si chiama... amore. Dunque, Alfonso (45’15”) si presenta facendole sperticati (e sinceri?) attestati di ammirazione: più che una regina, che si aspettava di incontrare, lui ha trovato addirittura il Paradiso! E per sottolinearlo, Korngold chiama in aiuto Wagner e quello sbudellante motivo dei Meistersinger (Sachs: Lenzes gebot, die süße Not) qui impiegato per sorreggere il Wie schön seid Ihr, wie herrlich schön di Alfonso. Alla sprezzante risposta di Violanta (chissà a quante altre devi aver riservato lo stesso trattamento...) Alfonso si dice offeso e rincara la dose di complimenti, inginocchiandosi ai suoi piedi. Poi (47’40”) le chiede di cantargli ancora quella canzone (il Carnevale) con la quale lo aveva stregato poche ore prima, ma Violanta gli risponde che non è ancora il momento, prima lo invita a togliersi mantello e cinturone e a sfilarsi la spada. Alfonso decide allora di cantare lui stesso la canzone proibita e (48’40”) si appresta a farlo, ma viene subito zittito bruscamente da Violanta (che evidentemente pensa ancora di mortificarlo per bene, prima di lanciare essa stessa il segnale convenuto con il marito). Alfonso non capisce, e allora Violanta (49’28”) gli spiega che quella è l’ultima canzone che lui ascolterà: non uscirà vivo di lì! Allo stupore di Alfonso, lei finalmente (49’56”) si rivela per la moglie di Simone Trovai, che arriverà lì per ammazzarlo quando ascolterà le note del Carnevale; e per la sorella di quella povera Nerina che, sedotta e abbandonata da lui, si gettò in laguna, suscitando i suoi sghignazzi! Alfonso (50’29”) è tentato di andarsene via, ma lei lo informa che tutte le uscite sono bloccate e lo sfida a chimare tutte le donnine cui ha strappato il cuore perchè vengano ora a difenderlo. Alfonso, a questo punto (51’06”) e con grande passione (sembrerebbe proprio sincero... visto che impiega il suo nobilissimo tema) si imbarca (51’33”) in una lunga autodifesa, accusandosi di tutte le sue malefatte, ma incolpando (52’34”) di ciò il destino-cinico-e-baro, che lo lasciò orfano della madre (proprio come quella di Tristan, morta partorendo lui) e lo portò a vivere sì in una Reggia, ma da sbandato e spinto quindi (53’30”) a vagare invano in cerca di felicità e di un amore sincero. Ora lui (54’35”) non chiede compassione, nè pietà: si accontenta di non essere trattato da vile, e poi... morirà. Quindi (55’20”) le chiede di cantare! Violanta (55’50”) corre verso una porta come per chiamare aiuto, ma emette solo un rantolo e poi abbassa il capo: la musica che sostiene questi suoi movimenti ci ricorda quella udita nel Preludio. Per Alfonso (57’02”) è il segno che Violanta sta per cedere e così le si avvicina e le chiede con una frase appassionata (57’37”) se lei per caso non lo ami! Lei si schermisce, arrossisce di vergogna, ma lui ormai è certo (58’01”): lei voleva la sua morte per difendere la propria pretesa castità, non per vendicare la sorella! E insiste (58’28”): tu non mi hai mai odiato! E ancora (59’03”): temevi solo per la tua purezza, e per questo io dovevo morire! Violanta (59’21”) deve ammettere di essersi innamorata di lui al primo sguardo (Isolde?...) e impreca contro la Madre Maria, che permette agli umani simili bassezze! Alfonso (59’52”) la invita a credere nell’innocente giovinezza, lei ribatte di aver cercato di resistere alla passione, ma invano. Così l’unica via d’uscita era la sua morte, che poteva liberarla dal peccato, e mantenerla casta e pura. Alfonso è sempre più eccitato dalla conquista e chiede (1h00’50”) a Violanta di non pensare ad altro che a godere di quest’attimo fuggente. Lei (1h01’22”) ammette di non avere mai avuto un vero amore: sempre oppressa dai doveri familiari, non ha mai potuto vivere per se stessa. E allora Alfonso (1h02’32”, pare Siegfried con Brünnhilde!) le chiede di farlo adesso: quanto a lui, il solo poterla abbracciare sarà la più grande conquista della sua vita! E qui (1h04’32”) sboccia il duetto in SI maggiore che suggella l’unione di questi due cuori, in un delirante desiderio di amore-e-morte. Spalleggiato dal tema di Alfonso, un lunghissimo bacio (1h06’55”) sottolinea la loro passione, proprio mentre Simone (1h07’35”) si fa vivo, chiamando ripetutamente la moglie. Che ormai sente avvicinarsi il redde-rationem, mentre Alfonso (1h08’16”) le chiede di confessare tutto al marito, invitandola a cantare la canzone! E così Violanta fa (1h08’38”) estasiata, fra le sue braccia, e contrappuntata da voci che arrivano da fuori.

Scena 7. Annunciato dal suo tracotante tema (1h09’24”) ecco Simone precipitarsi nella sala. Dove trova la moglie e il di lei amante in atteggiamento inequivoco. Violanta lo implora di non ucciere Alfonso: lei ne è innamorata, fin dal primo momento. Simone resta sgomento: tutto il mondo gli sta cascando addosso. E Alfonso (1h10’04”) rincara la dose: Violanta non è mai stata tua, lei ha sempre sognato me (!) Simone, fuor di sè, estrae la spada e si avventa sul rivale per trafiggerlo. Ma Violanta lo anticipa (1h10’27”) frapponendosi fra Alfonso e la punta della spada, che le trapassa il cuore! Mentre Alfonso chiede aiuto e Simone la depone a terra, Violanta lo ringrazia per averla restituita... a lui! Perchè adesso lei è stata salvata dal suo peccato. E benedice la Canzone del Carnevale, mentre Giovanni Bracca (1h11’54”) con altre maschere, irrompe nella sala, inneggiando alla festa. Ma subito lui e tutti quanti restano letteralmente paralizzati dalla scena che si presenta ai loro occhi. Mentre ancora arrivano voci del Carnevale (1h12’26”) Violanta spira (1h12’48”) felice per essere stata liberata da peccato e vergogna. Il sipario cala sulla scena rosseggiante invasa da una pioggia di fiori, mentre l’Orchestra chiude su spezzoni del Carnevale e poi, pesantemente, sulle prime due note (SOL-DO) del tema di Alfonso
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Adesso che ne sappiamo di più, soprattutto dalla musica, possiamo fare qualche considerazione sul soggetto e sui personaggi che lo animano, in particolare sui due protagonisti principali. Partiamo da Violanta. 

Che ci appare come una donna forte (oltre che bella e... arrivata): le sue doti hanno conquistato anche un soldatino del marito, ma soprattutto lei si è ritagliata il ruolo di giustiziera divina contro colui che aveva adescato con il suo fascino la sua ingenua sorellina, per poi scaricarla e portarla così al suicidio. E siccome il ruolo prevede che lei diventi a sua volta un’irresistibile adescatrice, c’è chi ha definito la sua come una figura di femme-fatale. Per citare quache esempio: Carmen, o Salome, o magari Lola: tutte femmine (plebee o nobili) che in qualche modo infrangono consuetudini, pregiudizi e ipocrisie della società per far valere le loro prerogative e vivere - anche pericolosamente -  la loro libertà. 

Ma è davvero questa la vera Violanta? O invece non è proprio tal-quale la sorella? Non appena lei viene a contatto con quella che dovrebbe essere la sua vittima, lei ne rimane subito soggiogata; poi prova comunque a portare a termine il compito che si è assunta, ma da giustiziera si ritrova anche lei vittima della libidine che avrebbe voluto punire. E il suo gesto estremo è perfettamente speculare a quello della sorella: morire per non subire umiliazioni e vergogna. E la musica che Korngold le affibbia conferma proprio l’instabilità e la fragilità del carattere di questa donna, schiava (lo ammette lei stessa) delle convenzioni e delle ipocrisie della società. 

E Alfonso? Un Dongiovanni impenitente? O davvero una vittima, come racconta a Violanta, di tragici casi del destino (perdita della madre)? Qualche indizio ce lo dà il libretto: alla morte per suicidio di una sua conquista vittima (Nerina) lui pare si sia fatto una risata! E confessa di aver sciupato torme di donne inebriate dalle sue qualità amatorie. Attenzione a questo dettaglio (presente in didascalia): dopo che Violanta gli si è rivelata e gli ha preannunciato la morte imminente, Alfonso, come reazione immediata, cerca di fuggire! E soltanto dopo che Violanta gli ha tolto ogni speranza di salvezza lui si inventa (?) quella storia strappalacrime di una condizione miserevole, che lo ha indotto a condurre quella vita scostumata e priva di valori. In altre parole: non avendo ottenuto immediatamente la vittoria sulla donna impiegando il suo irresistibile fascino naturale, lui ricorre allo stratagemma del vittimismo, per suscitare la pietà e, come diretta conseguenza, data la psiche non proprio in equilibrio della donna, addirittura l’amore di Violanta! 

Korngold? Beh, la sua musica pare non lasciare dubbi: lui sta con Alfonso! Qualche anno dopo peraltro (diventato... maggiorenne!) ribalterà i ruoli, ridicolizzando il povero Paul e riscattando l’intero genere femminile con lo strepitoso personaggio di Marietta. 
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A Torino lo spettacolo è affidato alla solida bacchetta di Pinchas Steinberg e alla regìa del venerabile PierLuigi Pizzi. Martedi prossimo la prima. Radio3 trasmetterà invece l’ultima recita, martedi 28/1, ore 20. Da quella data lo streaming-video sarà disponibile per un mese su Operavision.