ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

16 gennaio, 2020

Shakespeare gallico di ritorno alla Scala


Quando a giugno 2011 andò in scena questa produzione, Roméo-et-Juliette di Charles Gounod mancava dalla Scala da ben 77 anni. Adesso l’intervallo si è ridotto al 10%, a tardiva riparazione dell’offesa...

La messinscena, come detto, è la stessa del 2011, di Bartlett Sher, prodotta in origine per Salisburgo e poi portata al MET e alla Scala. Anche uno dei due protagonisti è quello di allora, Vittorio Grigolo, questa volta affiancato nel suicidio di coppia da Diana Damrau. Avendo scritto qualcosa sull’opera e sull’allestimento (versione, posizionamento dell’intervallo, tagli e regìa) in quella sia pur lontana occasione, vi rimando gli interessati.

La novità principale di questa ripresa è costituita, senza ombra di dubbio, dall’esordio sul podio scaligero (quello della buca, chè quello sul palco già fu calcato...) del rampante Lorenzo Viotti. Devo dire che, a primo ascolto e a prima vista, il non ancora trentenne rossocrociato (figlio d'arte, del padre Marcello, scomparso prematuramente nel 2005) mi ha fatto un’ottima impressione: gesto sicuro, autorevole e mai gigionesco, attacchi precisi e manina sinistra à-la-Abbado (già copiata da Mariotti...) per concertare al meglio chi sta sul palco. Attenzione alle sfumature e ai dettagli della partitura. Insomma, perfetto? Beh, sarebbe troppo pretendere... diciamo che di margini di miglioramento ne ha di sicuro, ad esempio imparare a trattenere la foga in passaggi dove è facile cadere nel bandismo e nel fracasso gratuito. In ogni caso, un esordio più che positivo, salutato da convinti consensi di un pubblico insolitamente (!) folto.

Detto dell’eccellente prestazione del coro di Casoni e di quella per me perfettibile dell’orchestra (ottoni ma non solo) vengo alle voci. Il Grigòlo (o Grìgolo o Grigolò, fate voi, haha) mi aveva lasciato un po’ perplesso nel 2011, quando però aveva 34 anni... oggi sono ancora perplesso, ma lui ne ha ormai 43. Conclusione: diventerà mai davvero grande? Per carità, mica fa schifo, sia chiaro, però, insomma, la presenza scenica è come la bella presenza che si richiede al commesso viaggiatore... ma poi non sempre è una condizione sufficiente per raggiungere l’eccellenza dei risultati. Il controllo dell’emissione mi pare sempre approssimativo e qualche ingolatura residua non fa che tenere bassa, non molto oltre la sufficienza (oh, parere mio eh!) la media.

La Diana Damrau è una Giulietta appropriata come timbro di voce, davvero sottile come si addice ad una giovanissima, peccato che i centri siano poco udibili (un esempio: nelle agilità della sua arietta del primo atto si distingueva una sillaba su due, o addirittura tre). Quindi anche a lei dò una sicura sufficienza, ma non mi spingo oltre.

Un qualche contrattempo deve aver impedito al titolare Nicolas Testé di proporsi come Frate Lorenzo: il sostituto Dan Paul Dumitrescu (presumibilmente arrivato all’ultimo momento) ha fatto del suo meglio e va quindi lodato per aver salvato la situazione. Frédéric Caton è stato un onesto Capulet, partito bene ma poi un poco appannatosi: voce quasi baritonale, che non si adatta perfettamente al personaggio. Anche l’altro basso, Jean-Vincent Blot (Duca) non ha sfigurato. Mattia Olivieri ha ben meritato come Mercuzio, avendo cantato con efficacia e bella voce baritonale la sua lunga filastrocca della Regina Mab.

Ottima impressione mi ha fatto Marina Viotti (un caso quasi unico, essere diretta alla Scala dal fratellino!) che ha sfoggiato una bellissima voce di mezzo interpretando, en-travesti, il ruolo di Stéphano. Corretto il Tybalt di Ruzil Gatin, voce rossiniana, penetrante e bene impostata. Cito ancora la Gertrude di Sara Mingardo, gli altri come da contratto sindacale.

Insomma, uno spettacolo godibile e di onesto livello musicale, accolto da consensi praticamente unanimi.

12 gennaio, 2020

Rarità in arrivo a Firenze: Risurrezione


Per quanto gli uomini, ammucchiati in uno stretto spazio a centinaia di migliaia, cercassero di isterilire quella terra sulla quale si stringevano; per quanto coprissero quella terra di pietre affinchè nulla più ci crescesse; per quanto estirpassero ogni stelo di erba che vi germogliava; per quanto appestassero l’aria col carbon fossile ed il petrolio; per quanto tagliassero le piante e cacciassero tutti gli animali e tutti gli uccelli; – pur tuttavia la primavera era la primavera, anche in città. Il sole riscaldava, l’erba spuntava, cresceva e verdeggiava dovunque non la strappavano, e non solo sulle zolle dei giardini pubblici, ma anche fra i ciottoli delle vie; e le betulle, i pioppi, i viscioli allargavano i loro rami e le loro foglie odorose, ed i tigli gonfiavano le loro gemme pronte a sbocciare; i corvi, i passeri ed i colombi preparavano allegramente i loro nidi, e le mosche ronzavano vicino ai muri delle case, riscaldati dal sole. Ed erano allegri gli uccelli, gl’insetti, e le piante, ed i bimbi. Ma gli uomini – gli uomini adulti – non cessavano dall’ingannare e dal tormentare sè stessi e gli altri. Gli uomini consideravano per savia ed importante non quella mattinata primaverile, non quella bellezza del mondo di Dio, data per il bene di tutti gli esseri, – quella bellezza che predisponeva alla pace, all’accordo, all’amore; ma invece solo sacro ed importante ciò che essi stessi avevano inventato per dominare gli uni sugli altri.

Greta? Francesco?

Queste parole di assoluta attualità sono l’apertura di Risurrezione di Leo Tolstoi, 1899. Da questa novella nel 1902 Henry Bataille trasse il testo di una pièce teatrale che fu vista da Franco Alfano. Il quale ne rimase tanto colpito da decidere di metterla in musica; ma le pretese eccessive del letterato francese indussero il compositore a ripiegare su una soluzione diversa: un libretto (affidato a Cesare Hanau, supportato dal drammaturgo Camillo Antona-Traversi) direttamente ispirato a Tolstoi e non a Bataille, il che spiega le non banali divergenze fra il testo del francese e quello dell’italiano.

L’OF ospiterà fra pochi giorni quattro rappresentazioni di quest’opera che ebbe un discreto successo al suo apparire, per poi... sparire o quasi dai cartelloni dei Teatri. Quando Alfano la presentò a Torino Giacomo Puccini aveva da meno di un anno sfornato la Butterfly, e certo non immaginava che una ventina d’anni dopo proprio al giovane collega partenopeo sarebbe stata affidata la sua tormentata e incompiuta Turandot per portarla... all’altare.

Il lavoro di Tolstoi ha caratteristiche piuttosto particolari, anche se non certo insolite per un’opera letteraria di quel genere: è infatti un racconto pieno di flash-back che mal si adatta al teatro (di prosa o musicale, cambia poco) e che la stessa cinematografia ha le sue belle gatte da pelare per rendere in modo efficace. Tolstoi apre il suo racconto proprio in-medias-res, in questo caso nel bel mezzo cronologico della sua storia (il processo a Caterina) metà della quale apprenderemo via via, appunto, come ricordi e riferimenti al passato, e l’altra metà come descrizione di eventi successivi, fino alla catartica conclusione. La pièce di Bataille e il libretto di Alfano-Hanau seguono invece un percorso rettilineo, che parte dall’evento scatenante del dramma (il prolifico incontro nella notte di Pasqua fra Dimitri e Caterina) e da lì procede fino alla fine.

Va subito sottolineato come le due riduzioni teatrali (Bataille e Alfano-Hanau) si concentrino esclusivamente (e, direi, appropriatamente, essendo opere destinate al teatro) sulla vicenda umana dei due protagonisti (Dimitri e Caterina) che invece in Tolstoi rappresenta - si potrebbe dire - solo il pretesto per l’esposizione di un vero e proprio trattato scientifico-antropologico-politico-giuridico-religioso, con tanto di critica corrosiva della società del suo tempo! Nel racconto del russo - che ha risvolti autobiografici - troviamo lunghissime dissertazioni sulla problematica della proprietà privata, in particolare di quella delle terre; e le proposte concrete, con tanto di contrattualistica, che il Principe Dimitri fa ai contadini dei suoi poderi essendo intenzionato a cedere loro la terra. Non parliamo poi della tematica relativa all’amministrazione della giustizia e delle carceri, con tanto di analisi dettagliate di leggi, norme, consuetudini e soprattutto con l’elencazione di casi che testimoniano infinite storture e brutalità del sistema. Ancora: argomenti squisitamente politici e ideologici, che occupano la mente di Dimitri, la cui parabola passa da un ingenuo idealismo adolescenziale, al conformismo che subentra con la maggiore età e il contatto con l’ambiente della nobiltà e dell’esercito, comprese le attitudini da libertino verso le donne (testimoniate anche da una relazione con una nobile sposata) di cui la povera Caterina diventa vittima; e infine - dopo il drammatico e quasi casuale incontro in tribunale con la ragazza sedotta anni prima e ora imputata di omicidio - il subentrare, attraverso il senso di colpa, di una volontà di riparazione, non solo del male fatto alla ragazza, ma del male dell’intero universo... maturando con ciò idee che oggi definiremmo catto-comuniste, un misto di radicalismo e filantropia, di cui è lampante esempio l’incontro-scontro con il cognato, membro dell’establishment dell’amministrazione giudiziaria e portatore di idee conservatrici, se non proprio reazionarie. Il racconto di Tolstoi si chiude con Dimitri che rilegge il Vangelo dopo l’addio di Caterina, rifiutatasi di accettare la sua proposta di matrimonio riparatore, il che fa esplodere in lui una profonda fede religiosa, che ispirerà la sua vita futura (Risurrezione!)

La mappa che segue reca le indicazioni delle principali località di cui si parla nel romanzo:


Panovo è la residenza delle zie di Dimitri, presso le quali il giovane aveva passato, da laureando, un periodo di vacanza, iniziando una tenera amicizia con la piccola Caterina. A distanza di pochi anni - ufficiale dell’Esercito - ci torna per trascorrere la Pasqua prima di andare a Odessa, e di lì al fronte per la guerra contro i turchi. Nella notte di Pasquetta mette incinta Caterina. (Si noti che Tolstoi ci rivela il nome del villaggio solo al 62° capitolo del racconto, dopo averne parlato già in lungo e in largo!) Alla periferia sud-est di Mosca (Kusminskoie) c’è il possedimento della madre di Dimitri, che lui deciderà poi di cedere ai suoi contadini. A Mosca (lo si deduce dal contesto, non viene detto esplicitamente!) si svolge anche - dopo qualche anno da quella Pasqua con Caterina - il processo alla ragazza (nel frattempo finita in casa di tolleranza) nel quale Dimitri fa da giurato popolare. A Pietroburgo si svolge la sessione del Senato in cui si discute la richiesta di cassazione del processo a Caterina, richiesta promossa da Dimitri ma respinta, il che comporta per la donna l’esecuzione della pena: lavori forzati in Siberia. Nizni (allora capolinea della ferrovia) Perm, Ekaterinburg, Tjumen e Tomsk sono le città citate nel romanzo e incontrate sul percorso di Caterina e dei deportati in Siberia, che Dimitri ha seguito, intenzionato a convincere la donna a sposarlo: dopo Tomsk la marcia prosegue ancora, ma senza che venga esplicitamente citata la località (forse Krasnojarsk...o l’ancor più remota Irkutsk) dove avviene la definitiva separazione fra Dimitri e Caterina.    

Tolstoi non dà precise indicazioni sull’epoca degli avvenimenti, ma il periodo storico si può abbastanza plausibilmente individuare in quella decina d’anni che decorre dallo scoppio della seconda guerra Russia-Turchia (1877): un indizio di ciò è nella presenza della ferrovia che passa nei pressi di Panovo, che Dimitri usa per andare al fronte turco, che certo non poteva esistere al tempo della prima guerra (quella di Crimea, per intenderci, che è del 1853-56).

Ora, dovendo ridurre un tomo di 800 pagine (129 capitoli suddivisi in tre parti) ad un testo teatrale, o a libretto d’opera, è evidente che si dovessero fare delle scelte. Lo schema sottostante riporta sinteticamente la struttura dei due lavori teatrali di Bataille e Hanau(-Alfano):


Come si può notare, le due riduzioni hanno alcune parti importanti in comune, ma altre diverse, a conferma dell’indipendenza del libretto di Hanau dal testo di Bataille. Entrambi contengono inoltre parecchie divergenze rispetto all’originale di Tolstoi, quasi inevitabili in casi come questo: quando si prendono, da un enorme mosaico, soltanto alcune tessere per costruirne uno più ridotto, è fatale che le tessere scelte poi non combacino più perfettamente, il che costringe a qualche... acrobazia per far tornare i conti. Incominciamo da Hanau. Il quale, nel secondo atto, modifica radicalmente la vicenda del mancato incontro fra Caterina e Dimitri alla stazione di Panovo.

Tolstoi: Dimitri è di ritorno dal fronte, ma fa sapere alle zie di non aver tempo di fermarsi nemmeno un giorno; è probabile che voglia evitare di incontrarsi con Caterina, che ancora abita lì (la sua gravidanza è tuttora un segreto, scoperto il quale verrà brutalmente cacciata): lei quindi, avendo evidentemente avuto l’informazione del giorno e ora di passaggio da Panovo del treno su cui viaggia Dimitri, si propone di parlargli in quei tre minuti di sosta del treno alla stazione, in piena notte. Purtroppo non ci riesce, per banali contrattempi.

Ora, costruire su questo prosaico episodio un intero atto d’opera sarebbe davvero dura... ed ecco che allora Hanau si inventa tutto di sana pianta: che Dimitri si ferma dalle zie per qualche giorno e (per matematica conseguenza) che la gravidanza di Caterina è stata già scoperta, portando alla cacciata della giovane dalla casa (altrimenti i due si incontrerebbero proprio lì, dalle zie...) Quindi si vede costretto ad inventare che Caterina abbia saputo da qualcuno della presenza a Panovo di Dimitri e del giorno della sua partenza, e che si rechi quindi alla stazione per incontrare il padre della creatura che porta in pancia (domanda: perchè non va direttamente a cercare Dimitri?) Ma adesso bisogna anche inventare un motivo per il quale l’incontro va a vuoto: ed ecco quindi la creazione del personaggio (muto) di Nora, che accompagna Dimitri e la cui presenza trattiene Caterina dal farsi avanti con l’amato (!)

Transigiamo sull’inspiegabile scambio di ruoli nel ricordo della corsa nei prati (in Tolstoi è lui che cade in mezzo alle ortiche, non lei, come nell’opera!) e sulla collocazione di Hanau della prigione di Caterina a Pietroburgo, invece che a Mosca, come correttamente fa Bataille. Il quale, da parte sua, costruisce il suo secondo atto mescolando due distinti episodi del romanzo: il battibecco a sfondo ideologico fra Dimitri e il cognato, e la rottura del fidanzamento dello stesso Dimitri con Missy. Comune a Bataille e Hanau è l’invenzione - nell’ultimo atto - della Pasqua in Siberia (in Tolstoi il racconto si chiude ancora in pieno inverno e sul mistico colpo-di-fulmine di Dimitri).
     
L’opera di Alfano viene (non proprio unanimemente) definita come verista: ma è un verismo (almeno secondo me) che si riduce a qualche contenuto musicale particolarmente carico di colori ed eccessi drammatici. Nella sostanza, il verismo autentico è in Tolstoi! Insieme all’assoluta coerenza del testo. Basta osservare come ci viene presentata dallo scrittore russo la vicenda della seduzione pasquale: Dimitri si era già, per così dire, traviato nei tre anni precedenti, con l’ingresso in società e il suo approccio verso Caterina in quella fatale Pasqua-Pasquetta, dopo un iniziale quanto fugace slancio romantico, fu di pura libidine e carnalità, desiderio maschilista di possesso: per tutta la giornata di Pasqua lui non fece che pensare a come possederla e per tutta la notte successiva non fece altro che darle letteralmente la caccia, fino a raggiungere il suo libidinoso obiettivo (infatti ricompensato con una banconota da 100 rubli, consegnata quasi di forza alla povera ragazza, trattata quindi come una prostituta!)

Nell’opera tutto ciò risulta assai edulcorato (verismo? haha...) ed anzi troviamo il giovane ancora ingenuo e romantico di qualche anno prima (cita addirittura Carducci: ecco l’albero a cui stendevi invano la piccioletta man...) L’unione fra i due alla chiusura del primo atto, a parte qualche timida esitazione di lei prima di abbandonarsi, è proprio la classica scena d’amore da melodramma tradizionale (...è il dì che unisce i nostri cuori in un solo destin!) La verità (di Tolstoi) la verremo sorprendentemente a sapere solo nel terzo atto, quando sarà proprio Caterina a svelarcela, rinfacciando a Dimitri l’affronto dei 100 rubli!

La stessa chiusa dell’opera è quanto di più melodrammatico (ma anche banalotto) si possa immaginare: il duetto strappalacrime fra due che si giurano amore e contemporaneamente si lasciano... e l’invenzione (mutuata da Bataille) della Pasqua siberiana con quella reiterata invocazione Cristo è risuscitato! che sa tanto di sagra paesana (dove magari spadroneggia la più grande ipocrisia). Tolstoi al contrario ci mostra il distacco fra Dimitri e Caterina con grande realismo (i due si lasciano come buoni amici, senza alcuna enfasi); e poi chiude con un fulminante concetto: dopo la lettura del Vangelo, che Dimitri fa la notte successiva, preparandosi a tornare in Russia, nulla - per lui, almeno - sarà più come prima!
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Sul piano musicale siamo di fronte - sempre a parere mio personale - ad un velleitarismo degno di miglior causa. Per carità, si può apprezzare la buona volontà di questo 28enne che cerca di farsi largo seguendo la corrente italiana che in quel momento pareva prevalere, ma i risultati sono piuttosto modesti. E non a caso lo stesso compositore abbandonerà assai presto il filone verista per cercare altre strade originali (Sakuntala ne sarà un frutto apprezzabile). Tornando a Risurrezione, a parte pochi spunti (da contarsi col contagocce) non trovo in quelle quasi due ore di musica molto di coinvolgente, nulla che faccia vibrare genuinamente qualche corda interiore. È un quasi continuo recitativo accompagnato (o arioso al massimo) su motivi abbastanza anonimi, poco scolpiti e poco penetranti, che devono oltretutto supportare un testo di per sè piuttosto piatto e incolore. Qui una delle poche registrazioni dell’opera, dove di apprezzabile c’è soprattutto la straordinaria voce di Magda Olivero. 

Insomma: un’opera appena appena interessante, certo non bella. Possiamo sperare che il bravo Lanzillotta e la creativa Cucchi ce la rendano almeno interessante! Venerdi 17 alle 20 su Radio3 la prima.

11 gennaio, 2020

laVerdi-19-20 - Concerto n°12


É ancora il Direttore Musicale a calcare il podio dell’Auditorium proponendo per il primo concerto del 2020 un programma super-tradizionale. Nella prima parte occupato da Beethoven con un’Ouverture e un Concerto, nella seconda da Strauss con uno dei suoi più noti Tondichtungen.

Si parte quindi con Coriolano, una Ouverture che Beethoven compose per la tragedia di vonCollins. A proposito di tragedie, in questa vecchia pubblicità - che si conclude proprio con le note di apertura del Coriolano - compare a più riprese il teatro di una recente tragedia che ancora grida vendetta...

L’Ouverture poggia classicamente su due temi contrastanti, che evocano la vicenda di Coriolano: il primo, DO minore, introdotto da poderosi schianti dell’intera orchestra, è davvero drammatico, come l’intera esistenza del condottiero romano, conclusa - almeno stando a Cicerone - con tanto di suicidio; il secondo, MIb maggiore, di carattere elegiaco, femminile, contemplativo, vuol evocare la figura della madre che scongiura Coriolano di non attaccare la sua città.

É interessante notare come viene gestito il passaggio dal primo al secondo tema da interpreti diversi (si noti che Beethoven per quel punto - e per l’intero brano, per la verità - non indica alcun segno di agogica, niente variazioni di tempo (Allegro con brio) e nemmeno piccole pause, nulla. Così esegue quel passaggio Claudio Abbado (1’23”) che si limita ad un’impercettibile presa di respiro sulla forchetta del diminuendo (lo si osservi sulla pagina di partitura) che porta al SOL di attacco del secondo tema. Anche Riccardo Muti rispetta la lettera beethoveniana (1’21”). Così fa Bernstein (1’31”) cui si può caso mai rimproverare l’eccessiva sostenutezza generale del tempo.

Ecco invece il Furtwängler in piena guerra: a 1’23” rallenta vistosamente il tempo, poi lo riprende ma sempre sotto quello indicato dall’Autore: per qualcuno sarà pure un bell’effetto, per me... un effettaccio! Il suo epigono Thielemann vuol dimostrare di saper superare il maestro, così si permette quello che considero un autentico obbrobrio (2’06”): ferma addirittura il treno, poi lo fa ripartire come una lumaca! Io queste le chiamo pisciatine del cane che vuol segnare il territorio...

Flor? Beh, nulla di meno che perfetto! E non solo in questo passaggio, ma in tutta l’Ouverture, tenuta sempre in massima tensione, fino ai tre DO pizzicati degli archi (indovinate dove li ritroviamo?)   
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Ecco poi il 71enne (ma non li dimostra!) Christian Blackshaw sedersi alla tastiera per deliziarci con il più difficile e impegnativo (almeno secondo il parere mio, e non solo mio) dei cinque concerti beethoveniani: il Quarto. Che lui interpreta proprio in punta di... polpastrello, dandogli un’impronta settecentesca (non a caso lui è uno specialista di Mozart). Flor lo asseconda al meglio trattenendo l’orchestra, salvo gli scoppi del rondò finale.

Un’esecuzione coi fiocchi, accolta dal folto pubblico con grandissimo calore, che il canuto Christian ripaga con una trascendentale esecuzione della Sarabanda dalla Prima Partita in SIb per clavicembalo di Bach.
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Also sprach Zarathustra ha chiuso in bellezza la serata. Strauss, quando giurava di non aver preteso di fare della filosofia in musica, mentiva spudoratamente: intanto perchè, almeno da Beethoven in poi, quasi tutta la musica strumentale aveva tratto ispirazione da programmi interni (e a volte anche esterni...) di natura filosofica o religiosa, e poi perchè è proprio la musica composta da Strauss après une lecture de Nietzsche ad essere ricca di significati filosofici.

Basterà osservare le ultime 8 battute del poema, dove due tonalità (SI e DO) che hanno in precedenza sostenuto rispettivamente lo spirito dell’Uomo e l’evocazione della Natura si fronteggiano come in un estremo braccio-di-ferro: e quando pare che sia la prima – l'Uomo, lo Spirito - ad avere il sopravvento, ecco che la seconda, la Natura, si riprende l'ultima parola, per quanto appena appena esalata: in pizzicato, violoncelli e contrabbassi (con i tromboni a far da pedale armonico) ne ripercorrono, due volte, il tema originariamente esposto alle battute 5-6 dalle quattro trombe (l'ascensione DO-SOL-DO) e infine, dopo l'ultimo accordo di SI maggiore dei flauti, col violino solista sulla dominante FA# sovracuto, chiudono, sempre in pizzicato, con tre DO gravi (ma guarda un po’, praticamente copiati dalla chiusura del Coriolano!) Ha vinto quindi la Natura? Mah, Strauss sembra voler sfumare il concetto: poichè il nostro orecchio fatica assai a distinguere, nel grave e in tripla p, un DO da un SI...

Palco gremito come capita di rado (e Strauss avrebbe addirittura preteso di più...) e prestazione maiuscola di tutti, Santaniello in testa (per i suoi walzerini, haha...) che ha suscitato lunghe e meritate ovazioni.

31 dicembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°11


É ormai antica tradizione de laVerdi (certo, a Vienna sono più longevi, poi con tutto quell’oro...) salutare l’anno che se ne va (bruttino) e quello che arriva (mamma mia!) con qualcosa di serio ed ecumenico (quindi fuori dalla portata di un Salvini, per dire...): la Nona del genio di Bonn. Anche quest’anno sono quattro le esecuzioni: ieri la seconda, cui seguiranno quelle di oggi e domani. Sul podio il Musikdirektor Claus Peter Flor, ormai al quarto appuntamento a questa circostanza (più uno estivo) che una ventina d’anni fa segnò, per puro caso, il suo debutto in Auditorium.

Sala gremita come non mai, sgargiante macchia rossa sul palco, grazie alla tenuta delle ragazze dell’Orchestra, cui ha voluto aggiungersi la spalla Santaniello, presentatosi con papillon scarlatto. Il suo pari-grado Dellingshausen lo ha affiancato come concertino, mentre la prima sedia di violoncello è stata occupata da un gradito ospite.

Dopo l’addio di Erina Gambarini, che guidò il Coro per quasi tre lustri, è toccato quest’anno a Lionel Saw il difficile compito di preparare le voci per questo evento capitale: devo dire che il risultato è stato assolutamente degno delle passate esibizioni.

Di tutto rispetto anche le prestazioni dei quattro solisti: Valentina Farcas ha sfoggiato una bella voce da soprano lirico, districandosi benissimo nelle impervie scalate cui la chiama Beethoven; Thomas Cooley non le è stato da meno, soprattutto nel passaggio che lo vede protagonista. Convincenti anche Christina Daletska (la riascoltavo dopo un Richard-III alla Fenice del 2018) e Thomas Laske, voce chiara da basso-baritono, ma ben impostata e penetrante.

Flor ha guidato tutti con grande autorità, mettendo in risalto i contrasti tematici dei primi due tempi, ottenendo il massimo del lirismo (da strappar le lacrime) nell’Adagio e poi raggiungendo un mirabile effetto nel pianissimo (al limite dell’udibile) imposto a celli e bassi all’attacco del tema del finale. Che poi è esploso in tutta la sua straordinaria vitalità. Finale la cui coda è stata - come ormai di prammatica - ripetuta a mo’ di bis, dopo le prime chiamate, cui ne sono seguite altre, a suggello di una serata davvero emozionante.

22 dicembre, 2019

Natale con laBarocca e Bach


Ruben Jais, che concentra su di sè le cariche di General manager & Direttore artistico de laVerdi e di Fondatore & Direttore de laBarocca, ci ha emozionato ieri - insieme ai suoi complessi - con una mirabile esecuzione del Weihnachtsoratorium di Bach, che non si udiva in Auditorium dalla Befana del 2014.

L’opera è in realtà l’assemblaggio di ben sei Cantate, corrispondenti ad altrettante giornate, composte da Bach per la ricorrenza natalizia: furono infatti eseguite per la prima volta nelle due chiese di Lipsia - St.Nicolai e St.Thomae - fra Natale 1734 e l’Epifania 1735.

Come noto, Bach - sempre con un diavolo per capello con i suoi molteplici impegni di Cantor e con le sue ambizioni (mai soddisfatte) di diventare Compositore di Corte - non esitò ad impiegare per l’occasione sacra musiche già da lui composte in precedenza per ricorrenze profane. Curiosa al proposito la parodia (autoimprestito, si direbbe per... Rossini) riguardante proprio il coro che attacca l’Oratorio, preso di peso dalla cantata 214, titolata Dramma per musica, le cui note, composte precisamente un anno prima dell’Oratorio per celebrare trionfalisticamente il compleanno della Regina di Polonia nonchè Principessa Elettrice di Sassonia, si adattarono perfettamente al testo che chiama i fedeli a gioire per la nascita di Cristo:

BWV214

Oratorio

Thönet ihr Paucken! Erschallet Trompeten!
Klingende Saiten erfüllet die Luft!
Jauchzet, frohlocket! Auf preiset die Tage, 

Rühmet, was heute der Höchste getan!
Suonate tamburi! Squillate o trombe!
Corde vibranti, riempite l’aere!
Gioite, esultate! Glorificate i giorni,
esaltate quanto l’Altissimo ha oggi compiuto!


Certo, nel Dramma a cantare quei versi erano tali Bellona (S) Pallas (A) Jrene (T) e Fama (B)! Cioè quanto di più distante dall’atmosfera del Nuovo testamento... Tuttavia a chi rimane interdetto, per non dire scandalizzato, dall’accostamento sacro-profano si può far notare che un legame fra i due scenari esiste: ed è il nome della destinataria del Dramma: Maria-Giuseppa!  
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Come già fatto in anni passati, la maratona è stata divisa in due tranches: dalle ore 18 alle 19:30 le prime tre cantate; dalle 21 alle 22:30 le restanti tre. Fra i solisti merita un incondizionato elogio il tenore Benedikt Kristjansson (mezzo metro almeno di... coda di cavallo!) che ha sfoggiato una voce limpida e penetrante, assai appropriata al ruolo di Evangelista (ma anche perfetta nelle tre arie a lui riservate).

Ottimi anche gli altri tre: il soprano Céline Scheen, il controtenore (contralto) Damien Guillon e il basso Marco Saccardin. Splendido l’ensemble corale diretto da Jacopo Facchini, che ha poi chiuso in bellezza - con un nobile corale preso dalla tradizione tedesca - la lunghissima ma gratificante serata.

21 dicembre, 2019

Gardiner-Berlioz incantano la Scala


Ieri sera ecco quindi il primo dei due concerti scaligeri di questo Natale, con il compassato Sir John Eliot Gardiner a dirigere l’oratorio berlioziano L’enfance du Christ. Teatro con ampi spazi vuoti (ma peggio per gli assenti, soltanto in parte giustificati dal tempo infame...) nel quale sono risuonate le celestiali note di questo lavoro dalla gestazione assai inconsueta, ma che lascia davvero nell’ascoltatore un’emozione profonda, quella che evidentemente hanno provato gli spettatori di ieri, esplosi alla fine in interminabii applausi per tutti i protagonisti e protagoniste di una serata da incorniciare.

Le caratteristiche del brano, che effettivamente sembrano richiamare - attraverso il frequente impiego di scale modali - musica antica, sono evidentemente congeniali a Gardiner, che ha dato del lavoro una lettura davvero ispirata, perfettamente coadiuvato da Orchestra, Cori e Solisti.

E per l’Orchestra basterà segnalare lo stupefacente trio della terza parte, dove i flauti di Marco Zoni e Max Crepaldi (ex-alfiere de laVerdi) e l’arpa di Olga Mazzia hanno letteralmente incantato tutti, Gardiner compreso, che si è accomodato su uno sgabello a fianco del podio (in coabitazione con il Padre-di-famiglia Thomas Dollè) ad ascoltare, rivolto al pubblico, i quasi sette minuti di quella delizia!

Sempre perfetti i cori di Casoni, nelle parti più concitate (gli indovini, i buzzurri romani di Sais) come in quelle festose e idilliache (gli Ismaeliti); anche le voci bianche (Angeli) udite in lontananza dietro le quinte hanno ricevuto il meritato applauso alla fine, raggiungendo sul palco gli adulti. Straordinario poi il coro a cappella che accompagna la voce del narratore (O mon âme...) alla chiusura dell’opera, che ha proprio lasciato tutti senza fiato, con la triade di MI maggiore esalata sul conclusivo Amen che Gardiner ha tenuto per qualche secondo con le braccia alzate (si direbbe proprio... come in estasi!)

I solisti tutti all’altezza, a cominciare dal Narratore (+ Centurione) Allan Clayton, che ha mostrato bella voce di tenore lirico; poi la santa coppia Ann Hallenberg (Maria) e Lionel Lhote (Giuseppe); e l’autorevole Thomas Dolié (Padre + Polydorus). L’Erode di Nicolas Courjal mi è parso più accorato che terrorizzato nel suo monologo, poi si è scatenato nel successivo incontro con gli Indovini.

In definitiva, un gran bel Buon Natale, di quelli che fanno bene allo spirito (che ne ha davvero bisogno...) 

In contemporanea con il concerto scaligero, il Duomo ha ospitato un’anteprima (2 delle 6 cantate) dell’Oratorio di Natale eseguito da laBarocca di Ruben Jais. Che questa sera in Auditorium affronterà l’intera maratona del sommo Sebastiano. 

19 dicembre, 2019

Gardiner augura Buon Natale alla Scala


Il Concerto natalizio scaligero del 2019 (domani la prima, sabato la replica) è dedicato a Berlioz (di cui si celebrano i 150 anni dalla morte) con un titolo assai appropriato alla circostanza: L’enfance du Christ, diretta da Sir John Eliot Gardiner.

É una composizione della maturità (pubblicata nel 1855) che si discosta assai dagli stilemi caratteristici del Berlioz magniloquente e (almeno apparentemente) contorto di tanti lavori precedenti (che gli avevano attirato le critiche dei tradizionalisti parigini) essendo pervasa da grande lirismo coniugato ad un’estrema parsimonia di mezzi. La gestazione di questo oratorio in forma di trilogia (Sogno di Erode - Fuga in Egitto - Arrivo a Sais) era stata assai complicata, e corredata persino da un simpatico scherzetto organizzato dal compositore ai danni dei suoi detrattori in occasione di un concerto della Philarmonique, da lui stesso diretto.

In una delle sue tante lettere, Berlioz racconta di come martedi 14 novembre 1850 alle ore 20, nella sala Sainte-Cécile, fra altre composizioni presentate nel primo concerto della seconda stagione della grande Société philharmonique de Paris, venisse eseguita la prima sezione della Fuga in Egitto (Introduzione strumentale e Coro di pastori) che lui aveva sbozzato tempo addietro, annotandola su un pezzo di carta, mentre si annoiava a morte ad una serata in società dove non si faceva altro che giocare a carte. Ma la locandina del concerto la indicò truffaldinamente come opera composta nel 1679 da un fantomatico (perchè totalmente sconosciuto) maestro di cappella, Pierre Ducré, da Berlioz fortunosamente ritrovata in un polveroso archivio della Sainte-Chapelle e da lui orchestrata.

Ebbene: il brano riscosse un grandissimo successo proprio fra i detrattori del compositore, convinti che mai e poi mai uno come Berlioz avrebbe saputo comporre musica così mirabile... Quando poi la verità venne a galla, la rivincita di Berlioz fu solo apparente: poichè i suoi detrattori argomentarono che lui, se davvero aveva saputo produrre una tal musica, allora aveva sbagliato tutto nel comporre le sue opere precedenti, tiè!
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Il soggetto (qui il testo integrale, dello stesso Berlioz, francese-italiano) tratta delle vicende di Gesù situabili, più o meno, in 3-4 giorni dopo l’Epifania, quanti ne servirono a Giuseppe&famigliola per fuggire precipitosamente da Betlemme e rifugiarsi in Egitto (precisamente a Sais, distante 400Km circa) dopo l’angelico avvertimento riguardo le non proprio amichevoli intenzioni di Re Erode:



Così come negli oratori e nelle passioni bachiane troviamo la figura dell’Evangelista, che racconta la vicenda alternandosi con arie, cori e corali, anche qui c’è la figura del Narratore che serve ad introdurre e/o concludere le tre parti dell’oratorio.  

É lui che apre la prima parte (Le songe d’Hérode, ultima ad essere composta) facendone un breve sommario: Gesù è nato ma ancora non ha potuto manifestarsi; in compenso Erode è già in allarme, temendo la perdita del trono e medita azioni spaventose. Due militari romani si incontrano durante una ronda, e ci danno conferma dello stato alterato del Re; il quale si esibisce in un monologo disperato, esternando i suoi incubi; gli indovini giudei si riuniscono per cercare risposte alle allucinazioni di Erode: c’è lì da qualche parte un neonato che detronizzerà il Re e l’unico rimedio per neutralizzarlo - ignorandosene l’identità - è di toglier di mezzo tutti i neonati di Betlemme, Gerusalemme e Nazaret! A Betlemme Maria e Giuseppe gioiscono della nascita di Gesù, ma un angelo arriva ad annunciare disgrazie e a consigliare la fuga verso l’Egitto, seduta stante.

La seconda parte (La fuite en Egypte) è stata - come detto - la prima ad essere composta ed anche separatamente rappresentata. Dopo un’introduzione strumentale di sapore arcaico, il coro dei Pastori omaggia e saluta Gesù e i genitori, in partenza frettolosa verso l’Egitto. Il Narratore racconta adesso di una sosta ristoratrice della famigliola in un’oasi verdeggiante e ricca d’acqua fresca. Gli angeli si stringono adoranti attorno a Gesù.

La terza ed ultima parte (L’arrivée à Sais) è aperta ancora dal Narratore, che ci ragguaglia sulle drammatiche difficoltà del lungo viaggio nel deserto e dell’approssimarsi di Giuseppe&famiglia alla loro destinazione: Sais, una città romanizzata ed abitata da gente superba e inospitale. Per ben due volte Giuseppe bussa alla porta di case di Sais per chiedere aiuto e ospitalità, e ne viene brutalmente respinto da occupanti romani intolleranti (forse emuli dei Faraoni che avevano vessato Mosè...); ma al terzo, disperato tentativo, fatto insieme alla sua Maria, ecco che il miracolo si compie: è una famiglia ismaelita quella che li accoglie come fratelli e li fa davvero sentire a casa propria, intonando per loro un mirabile trio (due flauti e arpa) che lascia senza fiato per l’emozione! Mentre i profughi, fisicamente spossati ma finalmente felici, vanno a prendere il meritato sonno, è ancora il Narratore (spalleggiato dal coro) ad inneggiare all’amore! 
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Un corposo studio su L’Enfance du Christ comparve nel 1898 dalla penna di Jacques-Gabriel Prod’homme, e vi si trova - oltre alla storia piuttosto bizzarra della composizione, alla sinossi del libretto e all’interessante resoconto delle reazioni della critica - anche un’approfondita e acuta analisi musicale, che mette in evidenza le peculiarità di quest’opera forse ancor oggi non valorizzata come meriterebbe, almeno quanto a pubbliche esecuzioni (le incisioni invece non mancano di certo).

Alla Scala si ricorda, nel dopoguerra, una sola esecuzione integrale, diretta da Peter Maag, avvenuta sotto Natale (12-13-17 dicembre) del 1980 nella Basilica di Santo Stefano e - una novità, per quei tempi - in forma scenica. Poi, il 20 dicembre 2012, Robin Ticciati propose la sola Fuga in Egitto, dopo la Fantastique.
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Il baronetto Gardiner, rinomato specialista di musica antica e barocca, ma anche di Berlioz (e già interprete di quest’opera) garantisce un Buon Natale di gran qualità. Radio3 trasmette il primo dei due appuntamenti, domani 20 ore 20.    

13 dicembre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°10


Doveva essere la prima volta (credo) di Diego Matheuz con laVerdi, ma qualche contrattempo di stagione ha rimandato l’incontro, così è diventata comunque la prima volta di Jaume Santonja, un percussionista spagnolo passato alla direzione d’orchestra. Che ci ha proposto una speciale edizione del balletto ciajkovskiano La bella addormentata.

Perchè speciale, lo vediamo fra poco, ma prima faccio un discorso più generale: salvo casi davvero rari (uno dei pochissimi è Romeo&Giulietta di Prokofiev) le musiche per balletto mal si prestano ad esecuzioni integrali senza il... balletto. E Ciajkovski non fa eccezione, nemmeno con questo, che è di certo il suo più ispirato. Troppi sono i passaggi che si giustificano esclusivamente con la visione della danza, dei danzatori e delle scenografie, mentre davvero lasciano il tempo che trovano se eseguiti come musica pura.

Per averne conferma basta ascoltare una registrazione integrale come questa con Previn. E persino Gergiev con lo squadrone del Marinsky in questa pur sontuosa produzione (sugli originali di Petipa) si permette qualche taglio: alcuni di poco conto, ma uno addirittura clamoroso, come quello che cassa buona parte del celeberrimo Panorama (1h28’56”).

Insomma, non per nulla dalle musiche per balletto si sono sempre ricavate delle Suite (di durata massima 30’) accorpando, anche in sequenza diversa da quella della trama, alcuni dei brani più interessanti. Così è per quella della Bella addormentata, di una concisione estrema ed efficacissima.
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In questo concerto si è pensato di addolcire la pillola, oltre che con una buona mezz’ora di tagli, anche mediante l’impiego di strumenti tecnologici particolari: così sopra l’Orchestra è stato posto uno schermo gigante (usato anche per le proiezioni di film accompagnate dal vivo) sul quale un’applicazione informatica predisposta dallo Studio Antimateria ha proiettato immagini prodotte al computer in tempo reale, catturando i suoni delle diverse sezioni dell’Orchestra.

In sostanza la musica è stata accompagnata di continuo da immagini che - pur prodotte dai suoni - nulla a che vedere hanno con il soggetto reale nè con una sua idealizzazione metafisica. In fin dei conti, ciò che appariva sullo schermo era una sequenza di quelli che sono - per un normale computer - i cosiddetti screen-saver, che si possono far comparire sullo schermo quando il computer resta inattivo.

Insomma, una cosa parecchio deludente, che assai opportunamente avrebbe potuto essere rimpiazzata dalla proiezione - sui due schermi più piccoli posti in alto, ai lati del palco - dei titoli dei brani del balletto e magari delle didascalie presenti sulla partitura.
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Jaume Santonja, forse portatovi dal suo ruolo originario di percussionista, ha tenuto sempre altissimo il volume dell’Orchestra, la quale si è peraltro distinta per grande compattezza e splendide sonorità. Luca Santaniello non solo l’ha guidata da par suo, ma si è anche distinto nei passaggi squisitamente virtuosistici che la partitura dedica al violino di spalla: Variation d’Aurore (N° 8c) e Entr’Acte (N° 18). Da incorniciare anche il N° 15, Pas d'action, dove Tobia Scarpolini ha esposto la mirabile melodia del violoncello che viene - sapientamente variata - dall'Andante cantabile della Quinta, quasi contemporanea al balletto.  

Che dire: una proposta che poteva essere meglio articolata.

11 dicembre, 2019

La Tosca in teatro: luci e ombre


Dico subito che i miei timori si sono materializzati: lo spettacolo è di alto livello, per carità, ma è fatto per il cinema (compresa la sorellina minore, la TV) e per i DVD. In teatro perde molto del suo fascino ed anzi finisce quasi per deludere. Perchè l’attenzione del pubblico viene catturata dall’opulenza della scenografia e distolta dalla componente principale dell’opera, la musica!

La ripresa TV (se fatta sapientemente, come accade abbastanza in questa occasione) riesce a coniugare le esigenze visive con quelle uditive, poichè raramente, e solo nei frangenti che lo richiedono, mostra - fissa - l’intera inquadratura dell’enorme palcoscenico. Per il resto segue da vicino, o da vicinissimo, in primo piano, e da prospettive insolite e precluse allo spettatore in sala, i protagonisti dell’azione, permettendo così a chi assiste di focalizzarsi sull’essenziale, immagine e suono. É precisamente il concetto-base del cinema, dove tutto deve congiurare a orientare l’attenzione dello spettatore sull’essenza del soggetto rappresentato.   

Caratteristica che è poi stata fatta proprio dalle riprese televisive, come quelle di un incontro di calcio, dove quasi mai viene mostrata l’inquadratura fissa dell’intero campo (quella che vede lo spettatore dagli spalti) bensì la (piccola) parte del terreno, quella dove si svolge l’azione, e magari con replay da mille diverse direzioni e angolazioni, per arricchire lo spettatore di informazioni e dettagli invisibili ad occhio nudo. E il bello è che le immagini televisive vengono oggi proiettate anche negli stadi, su schermi giganti, in modo da fornire allo spettatore dal vivo ciò che altrimenti sarebbe patrimonio solo di quello seduto in poltrona a casa sua.

Ma ora sorge la domanda: vogliamo trasformare anche i teatri in stadi, dotandoli di schermi dove proporre i close-up o i replay dell’azione (?!) Se la risposta è , bene, allora si provi a farlo, se ci si riesce... Se invece è no, allora bisogna prendere atto che l’impiego di strumenti nati con altri scopi non è compatibile con il teatro che si fa in teatro (non sullo schermo, maxi o mini).

Altro problema. Purtroppo il teatro-di-regìa non contempla alcuna staticità (siccome vuole appunto fare teatro prima che musica!) e quindi tende a movimentare di continuo la scena, anche dove ciò sarebbe da evitarsi, finendo così per disorientare lo spettatore, che fatalmente sposta l’attenzione dal contenuto essenziale (il principio attivo, direbbe il farmacologo) all’invadente eccipiente. Insomma, è l’esteriorità dello spettacolo (magari interessante e sontuoso in sè) a prendere purtroppo il sopravvento.

Esempi relativi a questa Tosca: la presenza ingiustificata e quasi continua di personaggi alieni (ma a volte anche pertinenti!) al soggetto. Qui basta ricordare le suorine che nella chiesa vanno e vengono, spostando trespoli porta-candele, da destra a sinistra e da sinistra a destra; o la folla che occupa l’ufficio di Scarpia, comprese le domestiche-religiose che gli apparecchiano e sparecchiano la tavola; il continuo spostamento di parti della scenografia (colonne o affreschi che salgono-scendono, oggetti d’arredamento o intere parti di edifici che si spostano da sole o perchè spinte da figuranti, il torrione con l’alona del santangelone che gira incessabilmente su se stesso, come una giostrina per bambini, tableau-vivant che si animano impercettibilmente - ma solo per gli spettatori che entrano in Scala dal foyer al piano terra, quelli che entrano da Largo Ghiringhelli vedono solo... i piedi, o nemmeno quelli). Ma anche dettagli pertinenti al soggetto, ma che dovrebbero restare invisibili all’occhio, proprio come lo sono ai personaggi in scena: la sala della tortura di Cavaradossi, di un realismo davvero controproducente!

Insomma, pare che l’obiettivo della messinscena sia quello di mostrare le meraviglie dei potenti mezzi di cui la Scala si è dotata dal 2005, in modo da stupire lo spettatore (come accadeva nel barocco del ‘700 con l’impiego di strabilianti macchine ed effetti speciali... ma lì erano parte integrante dell’opera!) e pazienza se l’intimo contenuto del soggetto rischia di passare in secondo piano. Insomma: la forma prevale sulla sostanza (leggi: la musica). Non si è sempre criticato il grande Zeffirelli per l’ipertrofia, la sovrabbondanza e l’eccesso di effetti scenografici? Ecco, questa Tosca sembra inscenata da uno Zeffirelli_2.0!

La fedeltà alla partitura (le indicazioni didascaliche) tanto sbandierata da Livermore/Chailly è un concetto assai elastico: ne è lampante prova il finale dell’atto secondo, dove l’intera sequenza dell’allestimento - da parte di Tosca - della camera ardente per Scarpia (è Kitsch solo se fatta in modo trasandato, altrimenti è proprio parte integrante del quadro della personalità della protagonista) viene tranquillamente rimossa, per lasciar spazio a Freud. Ironia della sorte, la responsabilità è di Chailly, che ha ripristinato la posizione del verso E avanti a lui tremava tutta Roma, che comporterebbe che quell’esternazione venisse fatta da Tosca con due candele in mano, una cosa da avanspettacolo. Ma anche il finale dell’atto terzo, con la ridicola passeggiata nello spazio della controfigura di Tosca, è opera di Chailly, che ha voluto esser da meglio di Puccini, ripristinando il pleonastico finale (al posto di Livermore, avrei fatto abbassare il sipario nero e lasciato Chailly da solo a menare il torrone sinfonico di questa chiusura pacchiana). 

Che dire poi di Tosca che entra in chiesa a mani vuote e poi ruba i fiori di qualcun altro per omaggiare la Madonna (Bel rispetto - per Puccini - direbbe Scarpia)? O delle tre coltellate a Scarpia, più strangolamento (per sicurezza) dove Livermore ha rivaleggiato con l’orrendo Bondy? E della lugubre ambientazione del terz’atto, con plumbeo cielo da temporale, che fa totalmente perdere allo spettatore il lancinante contrasto fra l’idilliaco risveglio della natura e la catastrofe che si materializzerà di lì a poco?     

Insomma, una sovrabbondanza di orpelli e trovate genialoidi che sembran fatte apposta per catturare a buon mercato l’approvazione del pubblico. Di sicuro quella di Livermore è però una regìa che ci racconta precisamente la storia di Tosca, e non quella di Lulu, ed è già una gran consolazione, con i tempi che corrono...
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Molto meglio che alla prima (personalmente seguita in TV) sono andate le cose sul fronte dei suoni: evidentemente una prova (!) in più è servita. E non solo per evitare false partenze (seconda uscita di Angelotti) o improvvise amnesie (Netrebko, atto secondo). Mi pare che Chailly abbia rimediato all’approccio eccessivamente sostenuto mostrato a SantAmbrogio (anche qui, le prove servono...) e abbia dato maggior fluidità alla sua direzione. L’orchestra si era già comportata bene e ha fatto, se possibile, ancor meglio (memorabile il dispiegarsi della melodia - richiama Ciajkovski e anticipa Mahler - che accompagna lo scampanìo del risveglio della città). Inappuntabili i cori di Casoni e De Gaspari (che ha fornito anche il personaggio del Pastorello, il bravissimo Gianluigi Sartori).

Anna Netrebko, a parte aver rimediato i due erroracci (l’attacco del Vissi d’arte e il secondo Chi m’assicura?) ha sciorinato le sue grandi doti naturali, la splendida qualità della sua voce e la capacità di esprimere sentimenti, atteggiamenti e pulsioni d’animo di questo complesso personaggio che è Tosca. Il lato attoriale non è il suo forte, si sa, ma io (con buona pace di chi mette il teatro prima della musica) confermo di preferire una cariatide che canta come si deve ad una Eleonora Duse che gracchia e pigola.

Francesco Meli non è forse il Cavaradossi ideale (altrimenti Pereira non avrebbe avuto esitazioni ad annunciarlo in programma già lo scorso 27 maggio) ma si fa perdonare con la sua voce pulita e accattivante, in aggiunta alle mezze-voci (preferisco i suoi falsettini alle ingolature di tale Kaufmann). Lui è anche un ottimo attore, il che ovviamente non guasta.

Luca Salsi mi pare il migliore del terzetto per autorevolezza. E intendo autorevolezza vocale, timbro brunito, potenza in tutta l’estensione, sfumature efficaci (l’Ebbene? sussurrato a Tosca si è perfettamente sentito dal loggione). Se invece devo giudicare il suo approccio alla personalità del Barone, allora mi vien da dire che sia più lo Scarpia di Sardou che quello di Puccini... Cioè: un individuo depravato sì (Sardou) ma non una vera bestia quale lo scolpisce Puccini.

Efficacissimo il Sagrestano di Alfonso Antoniozzi, una macchietta che è stata interpretata con la giusta misura, senza mai scadere in volgare avanspettacolo. Altrettando dicasi di Carlo Bosi, la cui voce petulante ha reso al meglio il personaggio dello sbirro di Scarpia. Anche Carlo Cigni mi è parso più efficace e rinfrancato rispetto alla prima: deve rompere il ghiaccio e questa non è mai una cosa facile, ma ieri il suo Angelotti ne è uscito assai bene. Ernesto Panariello (lui è come il prezzemolo, alla Scala) ha svolto con la consueta professionalità il suo compitino di carceriere. Guido Mastrototaro è stato un dignitoso Sciarrone.

Per tutti ovazioni ed applausi (forse non si è battuto il record di durata del 7/12, ma ci si è avvicinati) con punte per Netrebko e Salsi.