ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

27 settembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°2

Il quasi-47enne lusitano Nuno Côrte-Real fa il suo esordio con laVerdi dirigendo un programma piuttosto variegato, i cui tre pezzi sono labilmente collegati dall’evocare terre lontane (magari non per noi, ma per... Ibsen, Gauguin e Dvořák): Africa, Tahiti e America. Le date del concerto sono state anticipate rispetto allo standard poichè l’Orchestra parte ora per una tournée proprio in Portogallo, dove Côrte-Real ne terrà a battesimo l’esordio.

Sulla genesi delle musiche composte da Edvard Grieg per il Peer Gynt mi sono già dilungato all’interno di questo commento ad un’esecuzione di Bignamini di tre anni giusti-giusti orsono, quindi non aggiungo altro. Dirò invece dell’esecuzione di ieri, che mi è parsa rivelare (ma lo confermerà il brano successivo) la natura romantica del Direttore, che ha proposto questa pagina con grande leggerezza, ma senza quelle sdolcinature che troppo spesso ne caratterizzano l’esecuzione. Il pubblico, tutt’altro che oceanico a dir il vero, ha mostrato di apprezzare, stabilendo subito un rapporto di simpatia con questo portoghese dall’atteggiamento schivo e quasi timido, che dirige con gesto poco appariscente ma preciso ed efficace.
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E queste qualità sono emerse poi nel secondo brano in programma, che è - nientemeno - una prima assoluta! Si tratta di una sua composizione intitolata Noa-Noa e battezzata dall’Autore come Sinfonia (in cinque movimenti). È in realtà la versione orchestrata e assai ampliata (Op.62) di una breve composizione di musica elettroacustica del 1995, Noa-Noa, homenagem a Gauguin (Op.3) con la quale Côrte-Real vinse nel 2000 il Concorso Musica Viva a Lisbona. Ecco come l’Autore in persona ci presenta questo lavoro:

La Sinfonia Noa-Noa (‘profumo’, ndr) è stata ispirata dal libro omonimo di Paul Gauguin, scritto dal pittore dopo il suo primo soggiorno a Tahiti. È interessante notare come questa composizione (suddivisa in cinque movimenti, ciascuno dei quali ha lo stesso titolo dei quadri dipinti da Gauguin nelle isole del Pacifico) si riveli selvaggia e dirompente - proprio come è stata l’esperienza del pittore parigino - rispetto agli stili e alle convenzioni esistenti; la durezza, l’aridità e le dissonanze tipiche della musica contemporanea sono in essa totalmente estranee.

Un’attenzione particolare va riservata all’ultimo movimento intitolato Matamoe, che in tahitiano significa ‘Morte’, ma che nella visione di Gauguin ha un significato diverso: quello della morte della società borghese che non lo ha capito e la risurrezione in un nuovo, puro e genuino paradiso terrestre, libero da interessi e criminalità.

E queste note pubblicate sul programma di sala sono state integrate da Côrte-Real subito prima dell’esecuzione, con un breve intervento dove il Direttore ha spiegato il suo rapporto con la musica (e qui è emerso il suo carattere romantico) con la quale il compositore cerca di simboleggiare la sua visione del mondo, precisamente come fece Gauguin con le sue tele tahitiane. All’ascoltatore è riservato il compito di... decifrare la visione del rapsodo! O semplicemente di abbandonarsi ai suoi suoni.

1 D’où venons-nous? Que sommes-nous? Où allons-nous?


Atmosfera sognante, esotica, un tappeto sonoro (à la Debussy...) da cui emergono via via richiami ora cupi, ora sereni; un cammino che parte dal REb iniziale e si chiude sul SI conclusivo: risposte alle tre fatidiche domande?

2 Contes Barbares


Paesaggio crudo, aspro e minaccioso, sordi richiami del trombone sui colpi secchi delle percussioni; atmosfera da tregenda.

3 Idylle à Tahiti


Romanza per archi: un breve, classico intermezzo languido (SOL e DO maggiore!)

4 Le cheval blanc


Le percussioni sembrano effettivamente ritmare uno scalpitìo... contrappuntando il corno inglese che canta una mesta melopea, chiusa da una cadenza DO-SI.

5 Matamoe


Un insistente martellamento di tamburi lascia poco spazio al dispiegarsi di frasi musicali di senso compiuto, poi chiude bruscamente sulla cadenza RE-SI dell’orchestra. Evidentemente, la resurrezione deve ancora aspettare! 
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Accoglienza non meno che trionfale quella che il pubblico ha riservato a quest’opera, richiamando più e più volte sulla scena il musicista lusitano, che ha a sua volta ringraziato l’Orchestra, quasi schermendosi per un successo così pieno. Beh, abbiamo avuto un’altra piaceevole dimostrazione della preveggenza di Lenny Bernstein, che nel pieno della temperie serial-dodecafonica di 60 anni fa pronosticava un futuro per la musica... tonale!
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Chiude il concerto l’inflazionata Sinfonia dal nuovo mondo, che l’Orchestra nel corso dei 25 anni della sua storia aveva già messo in programma per ben 14 volte (l’ultima quasi 3 anni orsono). E Côrte-Real si affida a questa pluri-decennale esperienza per garantirsi il prevedibile successo. Cito un nome solo per glorificare tutti i ragazzi: il corno inglese di Paola Scotti.

26 settembre, 2018

Un Cherubini raro per l’Accademia scaligera


Penutima delle 10 recite di Alì Babà, ieri sera al Piermarini. Spettacolo che vede impegnate le voci e gli strumentisti dell’Accademia della Scala.    

Che non si tratti di un capolavoro è cosa che non si scopre oggi. Basti pensare che trascorsero non meno di 130 anni dalla prima (Parigi, 1833) in lingua francese a quando l’opera fu data in italiano, proprio alla Scala nel 1963! Dopodichè altri 55 anni sono passati prima di questo ritorno... e credo nessuno si dorrà se ne passeranno altri 100 prima del prossimo, ecco.

Certo, il libretto non è granchè, ma è pur vero che su libretti mediocri si è scritta musica indimenticabile. Al contrario, questa dell’anziano (e magari un po’... bollito) Cherubini è musica che davvero si fatica ad apprezzare e quindi a ricordare: per cui è probabile che non avessero poi tutti i torti due che di buona musica se ne intendevano, tale Mendelssohn e soprattutto tale Berlioz, il quale la bollò impietosamente come ciarpame! Sul programma di sala Marco Beghelli ricorda come nel secolo scorso ci fu qualche buontempone che pensò di fare un parallelo fra quello di Cherubini e un altro (celebre, questo) lavoro senile: Falstaff! Dico, stiamo scherzando, vero?

A scusante di Cherubini si può certo ricordare come il compositore fosse costretto a cambiare in corsa la natura stessa dell’opera; che da Singspiel (musica + parlati) per l’Opéra comique si dovette trasformare in Grand-opéra per l’Académie Royale, con la conseguenza dell’introduzione obbligatoria dei recitativi accompagnati (che sono francamente indigeribili, musicalmente parlando) e di un bel quarto d’ora di balletti (anche questa, musica invero insulsa e noiosa, secondo taluni nemmeno composta dall’Autore, ma da Fromental Halévy, il che più che una scusante sarebbe un’aggravante  a carico di Cherubini). Ma anche le parti che dovrebbero di più caratterizzare l’opera (romanze, arie, duetti, concertati) si muovono in una piatta mediocrità, dalla quale emergono non più di due o tre passaggi degni di nota.
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E la mediocrità d’ispirazione di questo tardo Cherubini è riscontrabile già nell’Ouverture, ricca com’è di ampollosità, ripetitività (l’agogica e il tempo non cambiano praticamente mai) e retorica, presentando temi francamente banali e trovate piuttosto bizzarre (come lo stucchevole ripetersi di un isolato colpo di timpano, accompagnato da triangolo, piatti e grancassa) a dispetto del ricorso tradizionale alla forma-sonata. Seguiamola nella citata edizione scaligera (Sanzogno sul podio).   

Esposizione - Allegro molto - 4/4 alla breve.

Primo tema, dal carattere baldanzoso, in FA maggiore, chiuso dal colpo di timpano (8”) - transizione
18” Riesposizione del tema nella relativa RE minore, chiusa dal colpo di timpano (26”) - transizione
37” Riesposizione del tema in FA minore, chiusa dal colpo di timpano (48”) - transizione

59” Secondo tema, di carattere cantabile, canonicamente nella dominante DO maggiore - transizione (1’23”)
1’29” Riproposizione del tema, ampliato e variato, chiusa dal colpo di timpano (2’16”) - transizione

Sviluppo - (c.s.)

2’39” Primo tema in LA minore (poi SOL-RE), chiuso dal colpo di timpano (2’57”) - transizione
3’13” Varianti del Primo tema nei legni

Ripresa - (c.s.)

3’29” Primo tema in FA maggiore (non ripetuto) chiuso dal colpo di timpano (3’42”) - transizione
3’53” Secondo tema, canonicamente trasposto in FA maggiore, con transizione alla riproposizione ampliata (4’24”) - cadenza (5’06”)

Coda - Presto.

5’15” Nuovo tema in FA maggiore
5’35” Sezione che richiama Rossini (Allegro vivace conclusivo dell’Ouverture del Tell).

Nessuno dei motivi dell’Ouverture ricompare nel corso dell’opera, ad eccezione di quello rossiniano, che si ascolta nel finale, subito prima del provvidenziale arrivano-i-nostri. In realtà, in questa produzione si ascolta quel Presto anche come Preludio all’Atto III (credo proprio per volontà/necessità della regista Cavani, più che del concertatore Carignani).
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Orbene, se fu un azzardo per la Scala presentare l’opera nel lontano 1963 (e per sole 3 recite) quando però sul palco c’erano voci come quelle di Ganzarolli, Stich-Randall, Kraus (!), Montarsolo, Santunione e De Palma, questa scelta di Pereira appare proprio come una provocazione verso il pubblico che paga il prezzo (o l’abbonamento) pieno per vedersi poi propinare una ciofeca usata come training per ben due cast di giovani dell’Accademia. Per nessuno dei quali (parlo per me, ovviamente, e riferendomi solo a quelli che ho sentito ieri) mi pare si tratti di un trampolino di lancio, a giudicare dalle loro prestazioni: tutti, per carità, sono da elogiare per l’impegno profuso, però, accipicchia, la cosa può essere un’arma a doppio taglio e pure ritorcersi contro di loro, se non sanno essere più che convincenti. E (almeno ieri sera) quasi nessuno (mi) ha convinto.

Meglio le cose vanno (ma ciò è quasi scontato) per gli strumentisti, che formano un complesso abbastanza affiatato e che Carignani ha guidato con accuratezza, anche se talvolta ha dimenticato le voci sul palco, coprendole con i suoni dell’orchestra.
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Liliana Cavani e il suo team registico hanno messo in piedi uno spettacolo gradevole, senza alcun cedimento al Regietheater, ma limitandosi a raccontare questa specie di fiaba a sfondo comico con leggerezza e gusto. Ma se lo zoccolo duro musicale (autore e interpreti) è in realtà... molle, allora non c’è eccipiente che possa fare il miracolo.

Insomma, come recita di fine anno scolastico non sarebbe male, ma come minimo dovrebbe essere offerta... a gratis, ecco.  

21 settembre, 2018

laVerdi 18-19 - Concerto n°1


Il Direttore Residente de laVerdi, Jader Bignamini, è chiamato ad inaugurare la stagione in abbonamento 2018-2019 con un programma di impaginazione quasi-tradizionale: Ouverture, Concerto solistico e (in luogo della classica Sinfonia) due Poemi sinfonici in qualche modo fra loro imparentati.

Dal punto di vista storico-geografico, andiamo dall’800 tedesco - primo romanticismo di Weber e pieno romanticismo di Schumann - al ‘900 italiano inoltrato - il tardo- (o decrepito-) romanticismo di Finzi e Respighi.

Ma a proposito di Finzi, proprio nel settembre di 80 anni fa il regime fascista emanava le famigerate leggi razziali, che rovinarono l’esistenza anche al compostore milanese, di famiglia ebrea. La ricorrenza viene celebrata in Auditorium con una mostra di documenti dell’epoca, patrocinata dalla Fondazione CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e inaugurata ieri pomeriggio, prima del concerto, dal Presidente de laVerdi, Gianni Cervetti. All’evento sono anche intervenuti il figlio di Finzi, Bruno (che con la famiglia si adopera per divulgare la conoscenza dell’opera del padre) e la Senatrice a vita Liliana Segre, che ha sottolineato la necessità di non dimenticare, un tema che costituisce il suo principale impegno all’interno del Parlamento.
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Si parte quindi con l’Ouverture dal Freischütz di Carl Maria von Weber, che torna a risuonare in Auditorium dopo più di 6 anni (allora sul podio la Xian): questa volta il pacchetto dei corni non mostra una sola sbavatura nell’attacco e poi tutta l’Orchestra risponde assai bene alle sollecitazioni del Direttore, meritandosi convinti applausi.
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Si passa poi al Concerto per violoncello di Schumann, interpretato dal persico-austriaco Kian Soltani. Un concerto ostico, difficile da suonare e (per noi ascoltatori) magari anche da digerire, ma questo 26enne che pare ancora un ragazzino lo ha sciorinato con perizia tecnica pari alla profondità di espressione. Perfetto l’affiatamento con Bignamini e massimo rispetto per la partitura, testimoniato dall’esecuzione dell’originale cadenza accompagnata.

Trionfo per lui, che ci regala il suo ormai abituale encore, una danza del fuoco persiana che ha composto lui stesso.
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Per la parte italiana del concerto anche la dislocazione dell’orchestra cambia: i violoncelli, prima relegati dietro le viole in omaggio alla tradizione crucca, tornano baldanzosamente al proscenio. La sei buccine (flicorni, per Respighi) si sistemano ai due lati della galleria dell’Auditorium (come fanno le trombe per il Tuba mirum verdiano, ecco...)

Nunquam di Aldo Finzi (sottotitolato Sinfonia Romana) è in realtà un breve poema sinfonico, che si rifà abbastanza scopertamente allo Strauss di fine ‘800 (il Don Juan in particolare). Pezzo che qualcuno potrebbe bollare di anacronismo (siamo nel 1937!) ma che mostra la grande perizia dell’ancora misconosciuto musicista nel trattamento dell’orchestra.

Per questa prima esecuzione da parte de laVerdi (che già 8 anni orsono ci aveva presentato un altro poema sinfonico di Finzi, L’Infinito) Bignamini deve aver curato ogni dettaglio e il risultato si è visto, anzi... sentito!
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Ha chiuso in bellezza il concerto I pini di Roma, che Bignamini diresse per la prima volta nel 2012 in occasione della tournée dell’Orchestra a Mosca e SanPietroburgo, e che avevamo ascoltato qui un paio d’anni fa da Ceccherini. Inutile dire dell’accoglienza trionfale riservata a Direttore e Orchestra dopo l’irrompere in Roma, dalla via Appia, dei legionari romani, scortati dal martellante accompagnamento delle buccine.

Ecco, un’apertura di stagione che promette bene!

20 settembre, 2018

MI-TO al capolinea



Il MI-TO 2018 ha chiuso ieri a Milano con un concerto al Dal Verme, che replicava quello torinese della sera precedente, all’Auditorium Toscanini. Sala non proprio ricolma; sul podio il sempre più convincente Stanislav Kochanovsky, alla guida della OSN-RAI.


Con lui il grande Enrico Dindo che - dopo la sempre interessante e colta introduzione di Gaia Varon - si è esibito in quel particolarissimo Concerto per violoncello (, fisarmonica, percussioni) e orchestra che va sotto il nome di Azul, composto nel 2006 da Osvaldo Noé Golijov, ebreo argentino di origini rumeno-ukraine (58 anni il prossimo 5 dicembre) trapiantato a Boston.
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Opera fascinosa e accattivante, ispirata da esperienze vissute dal compositore (letture di Neruda, lo spettacolo del pianeta visto dalla stazione orbitante, l’Intifada del 2000) ma che si fa apprezzare come musica pura, un festival di suoni che appagano l’orecchio e toccano il cuore.

La struttura è in quattro movimenti - di quasi pari durata, 6-8 minuti ciascuno - che si legano senza soluzione di continuità, e i cui sottotitoli richiamano vagamente le fonti di ispirazione del lavoro. Sorprendente la semplicità dei piani armonici: con poche eccezioni, tutto il concerto si muove nelle zone tonali fra il DO e il SOL! Senza per questo indurre mai sensazioni di monotonia.     

Originariamente dedicato a Yo-Yo Ma, che lo suonò alla prima assoluta del 2006 a Tanglewood e che ne ha interpretato anche la versione riveduta, incidendola nel 2016,  il concerto è stato poi eseguito da diversi interpreti in diverse parti del mondo. Qui una performance a Buenos Aires nel 2017, introdotta da interventi dell’Autore, della Direttora d’orchestra e dei due solisti:

I. Paz Sulfúrica (21’36”) ispirato dal Macchu Picchu di Pablo Neruda, precisamente da un passaggio dell’ultima quartina della prima delle 12 parti del poema:

Puse la frente entre las olas profundas,
descendí como gota entre la
paz sulfúrica,
y, como un ciego, regresé al jazmín
de la gastada primavera humana.

Il violoncello suona ininterrottamente, alternando melodie sognanti a motivi via via più mossi, culminanti in un crescendo quasi affannoso dell’intera orchestra, chiuso dall’intervento delle percussioni.

II. Silencio (29’30”) L’Autore ha definito la sua opera come un viaggio interstellare, in assenza di gravità: ecco, la musica di questo movimento sembra proprio evocare i suoni dello spazio vuoto, prima di trasformarsi in una pesante marcia di tutti gli strumenti, che porta senza soluzione di continuità al...

III. Transit (35’50”) che si configura come una vera e propria, lunghissima cadenza del violoncello (su un ostinato della fisarmonica) assai articolata, dove atmosfere dell’Europa orientale e klezmer tengono banco, ma ammiccando anche a Bach... Anche qui si raggiunge un climax, grazie al concertino di percussioni (con annessi urletti!) dal quale si diparte una cupa, poi sempre più eterea transizione verso...

IV. Yrushalem (43’35”) introdotta da un assolo del corno, che riprende ciclicamente il motivo udito all’inizio dell’opera, imitato dal violoncello. L’atmosfera si fa poi sempre più rovente (ricordi di Palestina?) e infine ecco due cadenze che il compositore indica esplicitamente con i termini di Pulsar e Stelle cadenti, prima del ritorno al sienzio degli spazi siderali (in questa occasione il pubblico bairense ha però rovinato la conclusione con applausi decisamente anticipati).
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Davvero trascinante l’esecuzione di ieri, che ha catturato l’attenzione del pubblico senza mai lasciare un attimo di respiro, il che ha guadagnato agli interpreti un autentico trionfo, che ha replicato quello torinese della sera precedente.
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Kochanovsky ha poi guidato la OSN-RAI nella Quarta di Brahms. Approccio assai sostenuto, anche se mai pesante, nel primo tempo, con qualche tocco personale (piccole pause di respiro prima delle grandi arcate in legato). Poi massima trasparenza nell’Andante e quindi briglie sciolte per i due Allegri. Senza sbavature la prestazione dell’Orchestra, come sempre compatta in ogni sezione.

Come a Torino, commiato a dir poco travolgente con la quinta ungherese.  

12 settembre, 2018

laVerdi apre la stagione 18-19 alla Scala


Quest’anno l’ormai tradizionale appuntamento (di apertura di stagione) de laVerdi con il Piermarini si accompagna ad una fausta ricorrenza (che cadrà il prossimo 13 novembre): il primo quarto di secolo di vita dell’Orchestra! Della qual cosa non si renderà mai abbastanza merito alla straordinaria coppia Delman-Corbani, che fermamente e quasi sconsideratamente fecero nascere la loro creatura in quell’ormai lontano 1993.

 
Vladimir Delman, ahinoi, ci lasciò meno di un anno dopo, ma il seme da lui gettato si è mirabilmente sviluppato, grazie alla tenacia e all’ostinazione di Giuseppe Corbani (rimasto al timone della gestione della Fondazione fino al 2016) e al supporto di tanti artisti (direttori e solisti) che si sono avvicendati sul podio a guidare ed accompagnare le formazioni strumentali e poi anche corali de laVerdi.

Domenica sarà il Direttore musicale Claus Peter Flor a dirigere l’Imperatore (alla tastiera il grande Enrico Pace) e il mahleriano Titano.

Giovedi 20 primo concerto in abbonamento in Auditorium, con un altro ormai celebre prodotto dell’Orchestra: Jader Bignamini.

24 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Petite Messe Solennelle


L’onore di chiudere il ROF-39 è quest’anno toccato alla grandiosa (!) Petite Messe Solennelle. Piazza del Popolo (ci ripasso dopo aver circumnavigato, laggiù in riva al mare, il fontanone - acqua dolce - con la sfera sventrata di Gio’ Pomodoro) alle 20 è già gremita di pubblico in attesa (per nulla religiosa, hahaha) della diffusione su maxi-schermo del concerto conclusivo del Festival, il cui inizio è stato spostato quest’anno dalle 20:30 alle 21. La piccola bomboniera del Teatro Rossini ribolle invece di preziose toilette e rumoreggia negli idiomi più svariati, compreso (ma è quasi un’eccezione) quello italico. Nal palco del sovrintendente prende posto anche un JDF con anulare e mignolo della mano sinistra strettamente imprigionati in una fasciatura rigida: forse un postumo dell’ultimo duello con Ircano (?!)  

La Messa è tornata al ROF dopo l’ultima comparsa nel 2014, allorquando fu diretta dal compianto Alberto Zedda, che con l’occasione presentò anche la sua orchestrazione del Preludio Religioso, che Rossini ha affidato al solo organo. Commentando quell’evento, mi ero permesso di avanzare seri dubbi sull’opportumità di presentare tale orchestrazione: non certo dal punto di vista della fattura, davvero eccellente, ma innanzitutto da quello del rispetto della volontà dell’Autore (visto che qui siamo nella fabbrica delle edizioni critiche...) ma anche da quello della concezione estetica. Per non parlare poi delle stesse argomentazioni addotte dal Maestro per la sua iniziativa, che reputavo e continuo a reputare del tutto inconsistenti e pretestuose. In qualche modo accettabile (secondo me) era stata la proposta di allora, un evento eccezionale nell’ambito di un festival, ma la ritenevo da escludersi come prassi da seguire. 

Orbene, la locandina dell’odierna esecuzione si è premurata di annunciare che il Preludio Religioso sarebbe stato eseguito anche questa volta proprio nella versione orchestrata da Zedda (il che esclude anche l’impiego dell’organo tout-court). Ecco quindi un bell’esempio di perseveranza nell’errore: errore che si può scusare una volta, come omaggio al grande paladino rossiniano, ma che rischia di diventare una colpa (diabolicum, come dice il vecchio adagio...) se reiterato.
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Esecuzione pregevole da parte dell’OSN-RAI, che Giacomo Sagripanti ritovava dopo il Ricciardo&Zoraide, e del Coro del Teatro della Fortuna (Mirca Rosciani) che replicava qui la Petite Messe dopo averla cantata a Roma poco tempo fa: picchi di merito per le colossali fughe di Gloria e Credo.

Alti e bassi per le quattro voci soliste. Sulle quali è spiccata ancora una volta quella di Daniela Barcellona, 22 anni di ROF e alla terza Messa (dopo 2004 e 2007): l’imponente contralto triestino si è presentata sfoggiando un décolleté alla... Jane Mansfield (!) forse come contrappasso a tutti i petti appiattiti cui l’hanno costretta negli anni i suoi personaggi en-travesti. Ma la voce è sempre solidissima e l’espressione (vedasi l’accorato Agnus Dei conclusivo) è davvero impeccabile.

Carmela Remigio, che tornava qui dopo 20 anni e 21 dal suo esordio al ROF proprio nella Messa, ha un po’ stentato all’inizio (non proprio da incorniciare i suoi acuti nel Qui Tollis e nel Crucifixus). Si è però riscattata ampiamente con un O salutaris hostia davvero convincente per purezza di canto ed espressività.

Celso Albelo non ha (alle mie orecchie, perlomeno) particolarmente brillato: il suo Domine Deus ha un po’ mancato di slancio e di profondità.

Senza infamia e senza lode l’esordiente al ROF Nicolas Courjal, forse ancora freddo nell’iniziale Et in terra, ma che ha fatto meglio nell’impegnativo Quoniam tu solus sanctus.
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Alla fine gran trionfo per tutti, con ripetute chiamate per i quattro solisti e i due direttori. Fuori, Piazza del Popolo è ormai... spopolata, e sul grande schermo campeggia già l’arrivederci al ROF-XL (il cui piatto forte sarà una nuova Semiramide della premiata coppia Mariotti-Vick).

20 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Il barbiere di Siviglia



Ritorno all’Adriatic Arena per questo nuovo Barbiere. Nuovo nell’allestimento (del venerabile Pier Luigi Pizzi) e semi-nuovo nell’edizione, che è quella approntata nel 2010 dal compianto Alberto Zedda e da lui già presentata al ROF in forma di concerto nel 2011 e poi in forma quasi-scenica nel 2014.

Pizzi non si smentisce e - da scenografo di nascita - appronta un’ambientazione super-stilizzata (balconi, terrazzini e interno dove le curve sono ridotte al minimo) e con colori di scene e costumi dove prevalgono il bianco accecante e il nero più pesto. Poche macchie di violaceo o rossiccio per qualche soprabito e di ceruleo per Rosina. Le luci di Massimo Gasparon mettono perfettamente in risalto la solarità dell’ambiente, rotta solo dall’avvicinarsi del temporale.

Quanto alla recitazione, Pizzi cerca (e direi, trova) un accettabile compromesso fra gli eccessi goliardico-sbracati di certe interpretazioni che, da commedia con venature di buffo, riducono il Barbiere a puro avanspettacolo sgangherato. Non mancano certo le gag - una su tutte, il botto dello spumante stappato da Basilio con cronometrica precisione proprio sul memorabile colpo-di-cannone - ma siamo sempre all’interno dei confini dell’eleganza e dello stile. Così il Figaro che - mentre canta la sua celebre cavatina - si spoglia seminudo per lavarsi nella fontana sotto il balcone di Rosina; o il Conte che si presenta (come Don Alonso) nelle forme di un nanerottolo (camminando sulle ginocchia); o la vecchia Berta sempre assatanata come una ninfomane... non fanno mai scadere lo spettacolo in farsa.

Anche Pizzi sfrutta (già che c’è) la passerella (questa sì da avanspettacolo!) che ormai pare una dotazione fissa del palazzone pesarese: così vi transitano e stazionano spesso e volentieri i vari personaggi, fino alla sfilata in grande stile della chiusura del primo atto.

Passerella che circonda la pseudo-buca orchestrale, dove ha tenuto banco Yves Abel, che ha affrontato la partitura con molta leggerezza (alla radio non mi aveva entusiasmato) il che devo ammettere ha però il suo buon effetto, armonizzandosi assai bene con l’approccio della regìa. L’OSN-RAI (rinforzata per la chitarra dall’apporto del pesarese - milanesizzato - Eugenio Della Chiara) ha risposto alla grande, già dall’applauditissima Sinfonia.

Sempre efficace e compatto il coro del Ventidio Basso (Giovanni Farina) nei passaggi di insieme, come in quelli a gruppetti.

Le voci. Come curiosità c’è da registrare che quattro dei sette interpreti (Mironov, Wakizono, Luciano e Corrò) figuravano un anno fa nel cast de La pietra del paragone. Faccio poi o una premessa: lo scatolone ricavato nella pancia dell’enorme Adriatic Arena ha un’acustica davvero pessima (non v’è chi non reclami e attenda con impazienza il ritorno al glorioso Palafestival) però, accipicchia, le voci delle vecchie glorie Pertusi e Zilio vi passavano attraverso in modo spettacoloso... le altre, ahiloro, assai meno. Ancora accettabili quelle di Luciano e Spagnoli, ma quelle dei due protagonisti (Mironov e Wakizono) davvero faticavano a raggiungere indenni il fondo della sala (e va dato atto ad Abel di non aver mai coperto). Il che vorrà pur dir qualcosa (ricordo di aver mosso ai due lo stesso appunto critico, a proposito di decibel, un anno fa, in occasione della Pietra...)

A parte questo rilievo, dirò che tutti (aggiungo qui anche il bravissimo Corrò) si sono assestati su un livello più che discreto. Il pubblico da parte sua ha dato un voto che rasenta la lode, a giudicare dagli applausi (a scena aperta e poi alle uscite finali) riservati a tutti, musicanti e allestitori.   

19 agosto, 2018

ROF-XXXIX live - Adina



Ieri al Teatro Rossini (con qualche vuoto di troppo, probabilmente dovuto al bizzarro orario di inizio, le 16:00, quando anche i melomani più incalliti sono ancora in spiaggia o in barca) è andata in onda la terza recita di Adina.

Prima dell’inizio si ode l’annuncio che la protagonista Lisette Oropesa canterà regolarmente, anche se afflitta da una non meglio precisata indisposizione (di certo non una scottatura...) Invece un doveroso minuto di raccoglimento per ciò di cui il Paese è ancora sotto choc è stato rispettato solo perchè uno spettatore ne ha urlato la richiesta a Diego Matheuz, che stava ormai dando l’attacco del preludio. E meno male che il Direttore venezuelano ha meritoriamente raccolto l’invito.
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Adina è opera notoriamente controversa, quanto alle origini e alle circostanze della sua composizione. Fabrizio Della Seta, che alla fine del secolo scorso ne curò l’edizione critica, ne ha ricostruito i contenuti musicali in un saggio pubblicato sul programma di sala. Da esso ho ricavato questo schema che sintetizza la struttura del lavoro, con l’indicazione della fonte di ciascuna sua parte, inclusi gli auto-imprestiti (dal Sigismondo). Come si nota, oltre al compositore, le musiche sono di mano di un non meglio identificato Collaboratore (così lo apostrofa Della Seta) e di copisti/collaboratori capaci di predisporre i recitativi secchi o di riprendere e adattare musiche auto-imprestate. Ma alcune parti sono di mano del compianto Philip Gossett e dello stesso Della Seta.

numero
Rossini
Collaboratore
copista / collab.
1. Introduzione
X


    recitativo


X
2. Cavatina (Adina)
(deriv. Gazza Ladra)
orchestrazione

3. Coro


(Sigismondo - Viva Aldimira)
    recitativo


Gossett - Dalla Seta (Coro 3b)
4. Duetto

X

    recitativo


X
5. Aria (Califo)

X

6. Sc.-Aria (Selimo)


(Sigismondo - Cavat. Ladislao)
    recitativo


X
7. Quartetto
X


    recitativo


X
8. Aria (Alì)


(Sigismondo - Rondò Anagilda)
    recitativo


X
9. Aria (Adina) - Fin.
X



Insomma, un bel pot-pourri che si spiega con la fretta di Rossini (che era occupato in ben più importanti impegni a Napoli) oltre che con le difficoltà relative al luogo della prima rappresentazione (Lisbona); difficoltà che spiegano probabilmente anche il ritardo di ben 8 anni fra composizione e andata in scena!
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La recita di ieri (mi) ha confermato le positive impressioni ricevute dalla prima ascoltata in radio. Lisette Oropesa ha sfoggiato la sua voce cristallina, oltre che una bella presenza scenica. Levy Sekgapane ha una vocina sottile-sottile, ma adatta a questo ruolo di ragazzo timido e ingenuo. Efficace Vito Priante nella parte del ruvido Califo, capace peraltro anche di slanci affettuosi. Di buona fattura le prestazioni dei due comprimari: Matteo Macchioni che impersona la... macchietta di Alì e Davide Giangregorio, un simpatico Mustafà. Eccellente il Coro della Fortuna (Mirca Rosciani) ben disimpegnatosi anche sul fronte dellla presenza scenica.

Diego Matheuz  ha diretto con sobrietà la Sinfonica Rossini, senza sbracature e con attenzione all’equilibrio fra buca e voci.
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La farsa fu originariamente definita come un’opera in un atto unico, di contenuto serio o comico. La trama si fonda tipicamente su equivoci, qui-pro-quo, malintesi, fischi-per-fiaschi, roma-per-toma e simili bizzarrie, che possono dar luogo indifferentemente ad esiti esilaranti o tragici. Con l’andar del tempo per farsa si è sempre più intesa una pièce di carattere umoristico e improbabile, e il termine farsesco è divenuto sinonimo di ridanciano, sboccato e cialtronesco.

E proprio in questa accezione Rosetta Cucchi ha interpretato il soggetto di Adina, a dispetto del suo sottofondo potenzialmente tragico. Così l’ambientazione è in un’allegra festa di matrimonio (fra Califo e Adina) e poco traspare del dramma della protagonista e del suo innamorato Selimo. Salvo il loro arresto al momento della tentata fuga, arresto peraltro eseguito da guardie abbigliate come nelle più classiche vignette di cartoon satirici. 

La scena di Tiziano Santi è assolutamente statica: una gigantesca torta nuziale a tre piani, sui quali si muovono protagonisti e figuranti (o coristi) e all’interno della quale si intravedono ambienti domestici. I costumi di Claudia Pernigotti nulla hanno a che vedere con il testo del Bevilacqua, riproducendo una fauna umana popolata da tamarri o capi-cosca (Califo) e moderni eunuchi (Alì, che calza scarpe da donna, peraltro con tacco basso per evitare... cadute) con la quale devono convivere i poveri Selimo e Adina (anche loro tutt’altro che sobri nei rispettiivi abbigliamenti). Anonimo invece il giardiniere Mustafà, con qualche vegetale in testa. Daniele Naldi firma l’impiego delle luci, piuttosto elementare: sempre chiaro abbagliante, salvo che nel siparietto notturno.

Tutto sommato uno spettacolo accattivante e scorrevole, che il pubblico ha mostrato di gradire assai, con calorosi applausi e numerose chiamate per tutti.