ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

08 ottobre, 2022

laVerdi 22-23. 2

Ancora un programma ultra-tradizionale (nell’impaginazione) per il secondo appuntamento della stagione dell’Orchestra Sinfonica di Milano. Sul podio il 28enne londinese Joel Sandelson, uno dei tanti astri nascenti (ma proprio… in fasce) della direzione d‘orchestra, dopo esser venuto alla luce come cellista.

Ma è l’attualità ad irrompere in scena prima delle note: la Presidente Ambra Redaelli si aggiunge alla schiera di donne illustri nel testimoniare solidarietà per Mahsa, recidendosi pubblicamente una bella ciocca di capelli.

E a proposito di attualità, il brano di apertura, invece della classica Ouverture (o cose simili) è una Sinfonia-con-voce di Nicola Campogrande (testo di Piero Bodrato) che reca un titolo allusivo: Un mondo nuovo. Opera commissionata all’attuale Direttore del MITO dall’Orchestra milanese e da altre istituzioni musicali internazionali. Opera composta di getto nella scorsa estate sotto l’impressione e l’incubo della guerra che ancora (e sempre più minacciosamente, anche per noi) insanguina quel lembo orientale dell’Europa. Questa di Milano è la seconda assoluta, la prima essendo stata data a Roma lo scorso 30 settembre con l’Orchestra di Roma Tre e la stessa interprete vocale, la 43enne di Wùrzburg Theresa Kronthaler.

Strumentazione con i fiati – senza tromboni e tuba - rigorosamente a coppie, poi archi e nutrita batteria di percussioni. Quattro movimenti, come in ogni Sinfonia classica che si rispetti, con l’unica (mahleriana peraltro) eccezione del movimento finale lento e cantato:

Allegro, 4/4 (87 battute). Beh, non pretenderemo di trovarci la classica forma-sonata… però almeno vi compaiono due temi ben riconoscibili, il primo dei quali chiude il movimento.

Adagio espressivo, 4/4 (37 battute). Questo è il tradizionale movimento lento, con flauto e clarinetto che staccano pochi melismi sul tappeto degli archi.

Allegro spiritoso, 3/4 (85 battute, di cui 73 da ripetersi). Nell’800 si sarebbe chiamato Scherzo… in realtà pare più un comodo Ländler.

Adagio cantabile, 4/4 (Canto nel canto, il canto. 114 battute). Non saprei dire se Mahler (oltre alla forma) abbia anche ispirato il testo e la musica: tuttavia la presenza del canto ci ricorda la Cäcilia del Wunderhorn e la sua ottimistica chiusa.

Campogrande resta saldamente ancorato alla tonalità, solo un poco increspata, ecco, e ciò garantisce comprensibilità alla sua musica e calore all’accoglienza del pubblico.
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La parte centrale del programma è occupata da un monumento della civiltà musicale occidentale: il Quinto Concerto per pianoforte di Beethoven, universalmente noto come Imperatore. A proporcelo è il pianista volante Roberto Cominati, che ormai da anni è diventato un abitué dell’Auditorium.

Lui non si vergogna ad inforcare gli occhiali per sbirciare ogni tanto lo spartito che tiene dentro la cassa del pianoforte, l’importante è che ci delizi con la sua tecnica e la sua sensibilità (da incorniciare l’Adagio un poco mosso). Sandelson da parte sua aizza l’orchestra per calcare al massimo i contrasti del dialogo con il solista e così ne esce un’esecuzione davvero da ricordare!

Poi, come bis, Cominati ci propone un breve lamento, quanto mai appropriato per i tempi grami che ci aspettano…
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Per farci dimenticare, almeno per mezz'ora, tutti i mali del mondo, è la Prima Sinfonia di Brahms a chiudere solennemente la serata. Sandelson qui stupisce davvero, per rigore, maturità e chiarezza di interpretazione (non risparmia nemmeno il da-capo nel movimento iniziale): pochi dubbi che ne sentiremo sempre più parlare in futuro. I ragazzi da parte loro hanno dato il massimo, per illustrare al meglio questa serata davvero particolare. 
   

30 settembre, 2022

laVerdi 22-23. 1

Il primo concerto dell’Orchestra Sinfonica di Milano della stagione principale 22-23 vede il gradito ritorno sul podio di Stanislav Kochanovsky, che ormai da anni opera regolarmente in Italia e a Milano in particolare. Programma di impaginazione tradizionale, aperto e chiuso da due delle composizioni strumentali più celebri di Modest Musorgski che incastonano l’unico concerto solistico composto da un 38enne Jan Sibelius.

Ecco quindi Una notte sul Monte Calvo, di cui viene eseguita – credo sia la prima volta per laVerdi - la versione originale (quella non ancora inquinata – in senso buono! – da Rimski). Quindi da chiamarsi correttamente La Notte di San Giovanni sul Monte Calvo. Rimando qui ad una mia breve disamina delle diverse versioni di questo brano. 

Kochanovsky ce lo propone proprio in tutta la sua barbarie (i critici di Musorgski – Rimski compreso – la scambiarono per totale insipienza nell’orchestrare) solo saltuariamente interrotta da squarci di luce notturna. E l’Orchestra ne segue il gesto sobrio ma efficace, accolta dal pubblico (piacevolmente assai folto e con incoraggiante presenza giovanile) con calore e partecipazione.
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Il 37enne armeno Sergey Khachatryan arriva poi per cimentarsi con il Concerto per violino di Sibelius. Nel quale lo vediamo esibirsi, sempre con Kochanovsky, poco più di tre anni fa in Olanda.

Lui sembra mettere nelle corde del suo Guarneri del Gesù del 1740 la pietas e la dignità di tutto un popolo. Ne esce un Sibelius crepuscolare ma non decadente, sofferto (l’Adagio di molto davvero da trattenere il respiro) esuberante ma non sguaiato nell’Allegro, ma non tanto conclusivo. Kochanovsky lo supporta al meglio, mitigando i tutti orchestrali e per il resto lasciando al solista il massimo del rilievo.

Strepitoso successo, con lunghi applausi ritmati, ripagato da Sergey con un bis dedicato alla sua patria, che ancora oggi attende giustizia dalla storia.
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Ha chiuso la serata Quadri di un’esposizione, nella lussureggiante trascrizione orchestrale di Maurice Ravel, della quale rimando pure ad una mia passata e sommaria esegesi.

Una prestazione superlativa (i fiati soprattutto in grande spolvero, meritatamente fatti alzare più volte dal Direttore per gli applausi finali) che ha chiuso in bellezza questo ritorno alla normalità (speriamo non ci siano… ricadute) dopo la disgraziata parentesi del Covid. 

12 settembre, 2022

laVerdi ha aperto la stagione 22-23

Come ormai tradizione consolidata, laVerdi (oh, pardon, l’Orchestra Sinfonica di Milano) è stata ospitata dalla Scala (piacevolmente affollata) per inaugurare la nuova stagione principale.

Terminato il mandato di Claus Peter Flor a Direttore Musicale (con promozione a Direttore Emerito…) l’Orchestra è affidata ad una specie di quadrumvirato: un Direttore in Residenza (Andrey Boreyko); due Direttori Principali Ospiti (Alondra de la Parra e Jaume Santonja) e un Direttore dell’Orchestra da Camera (Kolja Blacher).

Ed è proprio Andrey Boreyko a salire sul podio per questo concerto inaugurale, aperto da una esecrabile (ahimè) esecuzione del Preludio dei Meistersinger. Dico, una pesantezza e una grevità così indisponenti da far apparire Klemperer o Celibidache dei velocisti (solo che loro tenevano tempi lenti sì, ma senza scadere nel volgare…) E non escluderei che, paradossalmente, questo approccio sia responsabile anche di alcune evidenti sfasature emerse qua e là… Insomma, una partenza tutta in salita. 
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Ecco poi il gradito ritorno dei fratelli Lucas&ArthurJussen, che proprio da questa stagione sono anch’essi in residenza presso l’Orchestra (con la quale torneranno ad esibirsi il prossimo marzo) per offrirci un pezzo di rara esecuzione: il Concerto in MI maggiore per due pianoforti di Mendelssohn.

Composto da un ragazzino 14enne per il compleanno della sorella Fanny (poi rivisto dopo qualche anno) mostra – al primo ascolto - segni di un certo cerebralismo, o velleitarismo, tipico dei talenti precoci ma anche dei coraggiosi innovatori… Quindi non meraviglia se il concerto (assieme al suo fratello minore in LAb, di un anno posteriore) sia stato escluso dalla pubblicazione da parte dello stesso Autore e poi lasciato per decenni a riposare in uno scantinato della Biblioteca di Stato di Berlino, colà dimenticato da tutti. Solo nel secondo dopoguerra fu ripescato e rimesso in (sia pure… limitata) circolazione: e ciò è un bene, poiché un’opera così non meritava di certo un oblio perenne.

Il primo movimento (Allegro vivace, 4/4) si caratterizza per una lunga introduzione della sola orchestra che espone – ben distinguibili - i due temi principali, nelle tonalità di MI e SI maggiore, reiterando poi il primo. Ora i due pianoforti aprono la classica (ma qui assai eterodossa) struttura esposizione-sviluppo-ripresa presentandosi in sequenza e in solitario con grande enfasi (sulla tonica il primo e sulla dominante il secondo) e con virtuosistici svolazzi di biscrome. Da qui è tutto un continuo dialogo fra solisti (scatenati in veloci figurazioni) e orchestra, lungo le tre sezioni del movimento, tutte aperte dai due interventi solistici, ma dove i due temi esposti nell’introduzione orchestrale fanno più che altro fugaci comparse. Una stretta di 13 battute chiude enfaticamente il movimento.

Segue ora l’Adagio non troppo, 6/8 in DO. Maggiore e minore, tonalità fondanti delle tre sezioni (A-B-A) del movimento. Qui emerge il Mendelssohn intimistico, quello delle successive Romanze senza parole, per dire. Dopo un’introduzione affidata ancora alla sola orchestra, è il primo pianoforte a condurre praticamente da solo (l’orchestra lo supporta con il massimo rispetto) l’intera sezione A, caratterizzata da un tema sereno. Per poi cedere la scena al secondo che a sua volta monopolizza l’attenzione per l’intera sezione B, in modo minore, esponendo un tema di carattere più riflessivo. I due fratellini? si riuniscono finalmente per il ritorno al DO maggiore del primo tema.

Da ultimo ecco – una vera e propria orgia sonora - l’Allegro (MI, 4/4) dove si ribalta la sequenza di entrate: prima i due pianoforti, poi l’orchestra. La struttura è una specie di rondo, con il tema ricorrente esposto - dopo una breve introduzione affidata al primo - dal secondo pianoforte, e poi rimbeccato da due impertinenti incisi dei fiati. Segue un secondo tema, sempre in MI maggiore, esposto ancora dal secondo pianoforte, che sfocia in un tutti orchestrale a preparare la reiterazione enfatica del tema ricorrente. Sempre il secondo pianoforte propone un nuovo motivo, ancora in MI, che porta al ritorno (riproposto da entrambi i solisti) del tema ricorrente, ma ora nella dominante SI maggiore. Dopo una lunga transizione si torna a MI maggiore, con un muovo motivo esposto (è una costante, questa) dal secondo pianoforte, che ci conduce ad un intermezzo nella relativa DO# minore. Da qui si torna al motivo ricorrente, sempre nel secondo pianoforte, che ora avvia una lunga transizione verso una spumeggiante e altrettanto lunga coda che chiude in gloria il concerto.

I due fratelli tulip (il maggiore, 29enne Lucas al piano1 e il 26enne Arthur al piano2) hanno letteralmente dato spettacolo, trascinando il pubblico all’entusiasmo (come doveva accadere quasi due secoli fa ai fratellini Mendelssohn…) E allora hanno ricambiato le ovazioni riproponendo qui un bis già eseguito in Auditorium più di un anno fa, in occasione della loro prima visita sui navigli.
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Ha chiuso la serata Brahms con la Seconda Sinfonia, che già da tempo sul sito della Fondazione aveva rimpiazzato (per qualche insondabile ragione) la Quarta di Ciajkovski originariamente annunciata a maggio e tuttora presente al sopracitato link della stagione. 

Boreyko qui ha riguadagnato buona parte della (mia) stima, con un’esecuzione rispettosa del carattere sereno di questa brahmsiana pastorale. Sugli scudi tutto il pacchetto dei fiati, con gli ottoni poi a chiudere l’Allegro con spirito in modo davvero spettacolare.

Ora appuntamento al 29 settembre all’Auditorium con il nuovo Governo per il primo concerto in abbonamento.  

08 settembre, 2022

Matrimoni alla Scala

Off-topic: tanto per semplificare la vita al pubblico pagante, il Teatro – a partire da questo settembre – si serve di due diversi provider per la vendita (online ma non solo) dei titoli di ingresso:

- Ticket1 per i biglietti (di opera, balletto e concerti);

- Vivaticket per tutti gli abbonamenti.

La piattaforma Vivaticket ritorna quindi (per ora in… concubinaggio) come fornitore del Teatro dopo esserne stata allontanata alcuni anni fa, quando fu sostituita (dopo travagliato passaggio con ripetute false partenze e rinvii) appunto da quella di Ticket1.

Ovviamente le due piattaforme non si parlano e quindi i dati anagrafici (password incluse) vanno aggiornati separatamente a cura dell’utente.

Si stenta a credere che tale Jeff Bezos non abbia ancora messo gli occhi su questo lucroso business, offrendo biglietti e abbonamenti corredati (sinergie sponsorie) da ricche parure per le ladies e preziosi orologi per i gentlemen accompagnatori.
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Dopo soli (!) 42 anni il Teatro ripropone l’opera più famosa di Domenico Cimarosa, Il matrimonio segreto. La prima recita è stata sottratta (senza diritto a sconti, hahaha) agli abbonati delle… prime dall’anticipo al 5 settembre della recita Under30 (programmata in origine come ultima, il 22/9): un po’ come si fa a SantAmbrogio, ecco…

La penultima (a questo punto) recita del dramma giocoso risaliva a venerdi 6 giugno 1980, con la regìa di Lamberto Puggelli e la bacchetta di Bruno Campanella. Dal ‘49 al ’63 la regìa era stata del grande Giorgio Strehler. A partire dal 1955, l’opera era stata ospitata dall’allora nuovissima (e ahinoi defunta nel 1983 e mai abbastanza rimpianta) Piccola Scala.

Il Teatro affida questa ripresa al Progetto Accademia, dando così modo a giovani cantanti e strumentisti di rompere il ghiaccio con il vasto pubblico. L’unico fuori-quota (per le due prime recite) è il veterano Pietro Spagnoli, nei panni del presuntuoso (e pure sordo) padrone di casa. Sul podio (e al continuo) va il collaudato Ottavio Dantone, mentre la regìa è affidata alla parigina - figlia d'arte - Irina Brook.

Pubblico non oceanico, ma abbastanza ben disposto ad apprezzare i futuri talenti sfornati dall’Accademia: tutti i numeri dell’opera (16, esclusi i finali) e la sinfonia hanno ricevuto applausi di consenso, che alla fine si sono ulteriormente irrobustiti.

Personalmente associo tutti i cantanti in un unico giudizio positivo e… incoraggiante, segnalando un mia predilezione per la Carolina di Aleksandrina Mihaylova e il Conte di Jorge Martinez.

Dantone ha guidato da par suo (anche dalla tastiera, affiancata da quella di Eric Foster) i cantanti sul palco e – in buca - l’accademica Orchestra che si è distinta per il suono trasparente e di colore davvero settecentesco, con stilemi e contenuti che richiamano scopertamente Mozart (più che Gluck…) e anticipano il primo Rossini (che emetteva i primi vagiti precisamente 22 giorni dopo il trionfo viennese del Matrimonio…)
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Spettacolo di alto, se non altissimo, gradimento. La Brook (che inspiegabilmente non è uscita - nonostante Spagnoli si sbracciasse a chiamarla - a raccogliere quelli che sarebbero stati meritatissimi applausi) ha proposto un’ambientazione moderna (smartphone e tablet, per dire, con una moderata razione di Kitsch) grazie a scene spartane e costumi appariscenti di Patrick Kimmonth, ben illuminati da Marco Filibeck.  

Qualche… ehm, caduta di stile in un paio di scene osè (per educande) le può essere perdonata. Così come la dubbia efficacia della presentazione - durante l’esecuzione della Sinfonia - di antefatti (vedi il rapporto Paolino-Carolina) o… postfatti (Conte-Elisetta).  

Insomma, a conti fatti mi pare una proposta più che dignitosa per ripartire dopo le ferie: ci aspettano ora una Fedora (dopo 18 anni…) e uno Shakespeare rivisitato in chiave moderna. Poi sarà ancora SantAmbrogio, con Musorgski (CoPaSiR permettendo…)

21 agosto, 2022

ROF-43 live: Otello

In una Vitrifrigo-Arena con almeno il 20% di poltrone vuote (ahi ahi…) il cartellone principale del ROF-XLIII ha emesso ieri sera il suo ultimo vagito, con la quarta recita di Otello, nuova produzione curata dalla coppia Cucchi-Abel. Qui il video della precedente realizzazione del 2007. Qui invece l’audio della prima dell’11 scorso.

In una stringata paginetta sul programma di sala, Rosetta Cucchi individua lucidamente i due pilastri sociologici della tragedia di Shakespeare, pur maldestramente adattata dal gallico Jean-François Ducis per il mercato francese e a ruota dal nobile librettista partenopeo, il Marchese Francesco Berio di Salsa (in origine Salza) al servizio del giovane e rampante Gioachino.

E i due pilastri sono le personalità (gli stereotipi, potremmo dire) di Otello e Desdemona. Sì, perché la tragedia del bardo di Stratford-upon-Avon titola The Tragedy of Othello, the Moor of Venice ma è in realtà la storia di Othello and Desdemòna. Proprio Desdemòna, con l’accento sulla… mòna, come soleva sottolineare argutamente il venerabile professor Carlo Bo nelle sue lezioni di inglese all’Università Commerciale Luigi Bocconi (quando ancora vi si sfornavano laureati in lingue e letterature straniere… mica solo i futuri finanzieri alla Draghi o gli economisti da strapazzo alla Giorgetti!)

Dunque: Otello, o l’incarnazione del diverso, un essere umano che a noi del Nord del mondo risulta abbastanza ripugnante, non fosse altro per il colore della pelle (nera-nera o anche solo olivastra, non fa differenza). Poi, se vince sotto le insegne tricolori qualche battaglia, oppure addirittura un’Olimpiade, sempre un alieno rimane.

La Desdemòna di Shakespeare incarna invece lo stereotipo della donna ridotta ad oggetto di consumo, cui si nega qualsivoglia autonomia e autodeterminazione. Se poi è una delle nostre che se la fa con il diverso, apriti cielo e pollice… verso!

Dunque, la Cucchi mostra di aver colto in pieno i due aspetti del dramma che lo rendono di assoluta attualità anche ai giorni nostri, caratterizzati da proclami para-razzisti di chi vorrebbe buttare a mare chiunque si avvicini a Lampedusa e femminicidi dilaganti, in nome del diritto di possesso del maschio: i ritagli di giornale proiettati mentre Ives Abel dirige passabilmente bene la Sinfonia ce ne danno prova.

Quindi: tutto a posto? Mah, la corretta analisi che la regista fa del soggetto, nella sua sostanza, viene in buona parte contraddetta dalla forma impiegata per portarlo sulla scena. Sì, perchè un’opera teatrale, oltre che presentare contenuti più o meno pertinenti con la realtà in cui vive lo spettatore, si caratterizza anche (e soprattutto) sotto aspetti che riguardano strettamente l’Autore (o gli Autori) dell’opera medesima e la loro concezione (sotto il profilo letterario e musicale) artistica ed estetica. Non a caso, tanto per schematizzare al massimo, si parla, nel teatro musicale, di classicismo, di romanticismo e di verismo, approcci artistico-estetici assai diversi fra loro (soprattutto nei contenuti musicali!) e piuttosto chiaramente associabili a periodi storici e alle relative produzioni. 

Ora vengo al dunque: Rossini come lo definiamo? Non certo romantico (o al massimo proto-romantico) né tanto meno verista. Peccato che la Cucchi abbia invece inscenato l’Otello di Rossini come un’opera di teatro squisitamente verista! E siccome – per nostra fortuna – Abel e tutte le voci impegnate sul palcoscenico hanno suonato e cantato il Rossini autentico (classico, come lui stesso  ebbe ad autodefinìrsi su Otello) ecco che si è creata una frattura quasi insanabile fra ciò che si sente (testo&musica) e ciò che si vede! Insomma: l’errore della Cucchi è lo stesso, ma proprio identico, a quello – tanto per fare un esempio ancora caldo – commesso da Mario Martone con il suo Rigoletto scaligero: tradire cioè alla radice l’approccio estetico dell’Autore.

Il primo atto è ambientato in una grande sala da pranzo con attiguo foyer dove gli invitati, fra i quali lo stesso Otello (?!) vagano chiacchierando amabilmente in attesa di accomodarsi alla lunghissima tavola e fregandosene del merito dell’evento e del premiato. Poi si accomodano a tavola e lì restano a pasteggiare ignorando, nell’ordine: l’esternazione e la cavatina di Otello, l’incontro Elmiro-Rodrigo e il successivo duetto Rodrigo-Iago. Insomma, una scena lontana le mille miglia dalla solennità dell’evento e della musica che lo sottolinea.

Il second’atto è ambientato nel guardaroba attiguo al salone, dove si aggirano inservienti che hanno il solo scopo di distrarre l’attenzione dello spettatore dal drammatico confronto Rodrigo-Desdemona e dalla confessione di quest’ultima ad Emilia. Verismo misto a comicità nella scena del diverbio Otello-Rodrigo, con i due che si sfidano alla roulette russa con un revolver che fa regolarmente cilecca, mentre per nostra fortuna i DO e i RE sovracuti sparati dai due vanno perfettamente a segno! Poi Desdemona, invece di svenire, casca al suolo maltrattata con crudo verismo da Rodrigo (ma ovviamente anche Iago con le femmine che gli capitano a tiro non scherza, in fatto di sexual harassment…) La scena di Emilia che soccorre la padroncina è anch’essa funestata dalla gratuita e disturbante presenza di comparse. Poi nel finale le damigelle del coro appaiono tutte macchiate di sangue, per ricordarci che sono… carne da macello.

Nel terzo atto, invece dell’intimità della camera da letto di Desdemona, torna in primo piano la gran tavola da pranzo, attorno alla quale la povera donna si dispera, poi ascolta il gondoliere, canta meravigliosamente le sue canzoni e infine vi si addormenta sopra, raggiunta poi da Otello che la finirà (forse) per shakespeariano soffocamento, strangolata con la di lei sciarpona. Si riapre alle spalle la vista sul foyer, dove ad un’altra tavola stanno banchettando gioiosamente gli invitati, tutti felici e contenti per lo scioglimento del dramma e il prossimo lieto fine (quello del 1820 a Roma?!) Ma Otello – non si sa con quale strumento – li delude, chiudendo l’opera come si deve.

Il pubblico di ieri sera ha accolto la Rosetta solo con applausi, depurati da mugugni e dissensi che si erano chiaramente uditi alla prima. Evidentemente viene confermato il moderno andazzo di giudicare prestazione musicale e presentazione scenica come due compartimenti stagni del tutto indipendenti, dimenticando di valutare – sul piano estetico - la coerenza tra le due componenti essenziali del teatro musicale.
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Detto dell’allestimento, non mi resta che accomunare in un giudizio di assoluta positività l’intera compagnia di canto (solisti e il coro di Farina) e i Musikanten della OSN-RAI, diretti con salda autorevolezza dal veterano Abel. Punte di eccellenza per i due protagonisti, Eleonora Buratto (una Desdemona vocalmente perfetta) ed Enea Scala (più tenore che bari-tenore, ma ci sta). Ma sugli scudi anche Dmitry Korchak (che farebbe bene a ri-dedicarsi solo al canto, lasciando le velleità di Kapellmeister ad un lontano futuro…) e Antonino Siragusa. Evgeny Stavinsky mi ha lasciato ancora qualche perplessità, per alcune forzature vociferanti, mentre più che discretamente ha fatto Adriana Di Paola come Emilia. Julian Henao Gonzales ed Antonio Garès hanno completato dignitosamente il cast.
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Il ROF-XLIII chiude i battenti questa sera con il Gala per i 40 anni pesaresi di Pier Luigi Pizzi. Dato che io ho un filino di idiosincrasia per questo tipo di spettacoli, non sarò alla famigerata Vitrifrigo Arena, ma nel cuore della città, a seguirlo in mezzo alla ggente di Piazza del Popolo, dove come sempre verrà irradiato su schermo gigante a cura del Comune.

Poi, arrivederci – Meloni permettendo, hahaha! - al 2023, quando finalmente il Festival toglierà anche l’ultimo zero dal suo glorioso tabellino: Eduardo&Cristina

17 agosto, 2022

ROF-43 live: Le Comte Ory

Terza recita, ieri sera alla Vitrifrigo Arena, de Le Comte Ory, nella nuova produzione targata DeAna-Matheuz. Qui l'audio della precedente realizzazione del 2009. Qui invece l’audio della prima del 9 scorso.

Vitrifrigo Arena non propriamente esaurita, ma abbastanza densamente popolata da un pubblico ben… caricato.

Che cosa sia, in termini di genere, quest’opera è cosa a prima vista inafferrabile, tanto che musicologi e critici si sono spesso divisi su come battezzarla. Due eccellenti saggi (a firma di Emanuele Senici e Mark Everist) comparsi sul programma di sala del ROF ci aiutano a districarci in questa specie di labirinto.

Intanto: l’Ory, pur essendo stato espressamente commissionato e messo in scena dall’Académie Royale (aka l’Opéra) manca dei principali requisiti imprescindibilmente prescritti dal capitolato tecnico del Teatro in fatto di GrandOpéra: è in soli 2 atti (anziché 4 o 5); non prevede alcun balletto; ed infine ha un soggetto lontano le mille miglia da quello (a sfondo storico-epico) tipico di questo genere e più vicino caso mai (per struttura e contenuti) all’Italiana o al Barbiere o al Turco...

E allora come si spiega l’arcano? Col fatto che a Parigi stava prendendo piede, accanto al GrandOpéra, anche il PetitOpéra! Magari ottenuto per spacchettamento (via i balletti) di opere esistenti o, come nel caso dell’Ory, per riproposizione di musiche composte per altre opere (qui Il Viaggio a Reims) per supportare nuovi soggetti, facendone quindi la parodia. Opere quindi relativamente brevi che venivano poi rappresentate in abbinamento a balletti totalmente indipendenti nel contenuto: tutte le recite dell’Ory del 1828 (la prima e 9 repliche) furono immancabilmente appaiate a (6 diversi!) balletti.

Quanto al concetto di parodia, esso era inteso nel duplice significato di rivisitazione del contenuto musicale e di sdrammatizzazione o dissacrazione del soggetto. E l’Ory altro non è che una grandiosa parodia: travestimenti (Ory per primo, poi tutti i suoi compari); scambi di persona e qui-pro-quo (il terzetto finale) che sono elementi tipici della farsa; banalizzazione e ridicolizzazione di situazioni drammatiche (l’esplorazione dei sotterranei del castello da parte di Raimbaud, che ha contorni spaventevoli ma porta alla scoperta di una catasta di fiaschi e bottiglie di vino); comportamenti totalmente difformi dalle esternazioni dei personaggi (primo fra tutti, la Comtesse, ma anche il Gouverneur e Ragonde…)

Bene, a che scopo tutto ‘sto po’po’ di tormentone? Per definire non meno che geniale l’impostazione registica del mitico Hugo De Ana!

Che ha colto in pieno l’intima essenza e lo spirito dell’opera, restituendocela in tutto il suo irresistibile fascino. Si è ispirato per le scene (e in parte i costumi) al celebre trittico di Hieronymus Bosch del Giardino delle delizie, del quale compare subito in formato gigantesco il pannello di sinistra mentre la scena è occupata più spesso da elementi della parte mediana del pannello di destra (l’Inferno musicale, non a caso) ma anche di quello centrale.

Il trittico è una rappresentazione, dei concetti di ogni religione che si rispetti, oltre che della musica secolare e profana. Non è fuori luogo considerarlo una (involontaria?) parodia delle vicende umane e calza quindi come un guanto sul soggetto dell’Ory.

Il Conte, travestito da eremita, mostra in testa un paio di cornetti da diavolo; al momento del riconoscimento, scoprirà il suo vero abbigliamento da satana tentatore; poi catechizzerà Isolier munito delle due tavole mosaiche della legge, con i 10 comandamenti che si illuminano a comando.

La Comtesse esprime concetti quali fedeltà, rigore morale, austerità, sobrietà… nel mentre si comporta come una donna in cerca di… manico, con atteggiamenti ed abbigliamenti allusivi e provocanti (persino un accenno di pole-dance per Ory). Non parliamo della Ragonde, custode del castello e delle sue virtù, che invece organizza pellegrinaggi dal falso eremita per le mogli e fidanzate dei crociati lontani, in cerca di piaceri secolari.

Il Gouverneur si presenta come severo tutore del Conte, facendo fallire il suo primo approccio verso la Contessa; ma poi lo scopriamo in mezzo alla banda dei gaudenti amici di Ory nell’assalto alle donne del castello.

Il primo atto si svolge in un’atmosfera esilarante, occupato da masse femminili in costumi dai colori sgargianti, che si muovono (vedi la polonaise) in un giardino di delizie fatto di ortaggi e altre cibarie, messe in carrelli del vicino Spazio Conad…  

Il secondo atto si distingue per le scene dei bagordi di Ory&soci, interrotte dall’arrivo di Ragonde, che provoca la sparizione istantanea di bottiglie e fiaschi e la comparsa di luminose aureole sul capo delle finte monache.

Che dire del famoso trio? Lo vediamo in piena luce me le mosse dei tre protagonisti sono proprio quelle che si possono facilmente immaginare data la situazione di totale oscurità prevista dal libretto: con il povero Ory che è preso in mezzo da due donne (sì, perché anche Isolier lo è nella realtà anagrafica…) il che rappresenta il culmine della parodia!   

Insomma, tutta la messinscena merita una lode incondizionata, per il gusto e il garbo che mai scadono a volgarità (ricordo con ribrezzo una produzione di Pelly passata anche in Scala anni orsono) e sono certo che gli applausi del pubblico siano andati virtualmente anche al regista, pur assente alle chiamate finali.
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Anche sul fronte sonoro-canoro, buone se non ottime notizie. A cominciare da Matheuz, che alla radio mi era parso un tantino pesantuccio e che invece ieri ha ottenuto dai professori della OSN-RAI un risultato di tutto rispetto, per varietà di sfumature e adarenza allo spirito scanzonato della partitura. Il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina ha da parte sua movimentato le brillanti scene d’insieme che costellano la partitura con apprezzabile qualità.

JDF è prevedibilmente stato il mattatore della serata: la voce cambia (non necessariamente in peggio) con gli anni e… il repertorio, ma insomma il nuovo Direttore artistico del ROF ha dimostrato di aver ancora molto, moltissimo da dire cantare anche in futuro!

Accanto a lui Julie Fuchs ha confermato in pieno (ed anzi in meglio) ciò che di buono aveva sciorinato alla prima: a teatro si sono potute ammirare ed apprezzare anche le sue innegabili doti di attrice, perfetta nella parodistica interpretazione della donna pia che nasconde un’eccezionale carica sensuale.  

Monica Bacelli poco meno che perfetta in Ragonde, e non solo per la presenza scenica, ma anche per la voce, che evidentemente non conosce età…

La travestita (come Isolier) Maria Kataeva ha ricevuto meritati consensi del pubblico, che l’hanno ripagata di una prestazione davvero all’altezza, un perfetto connubio di vocalità e presenza scenica. Anna-Doris Capitelli ha dato il suo piccolo ma importante contributo al successo dello spettacolo.  

Resta da dire dei due bassi della compagnia. Entrambi da elogiare, il Raimbaud di Andrzej Filonczyk, convincente in particolare nella sua esternazione del second’atto; e Nahuel Di Pierro, un Gouverneur che ieri mi è parso più a punto rispetto alla prima udita in radio.
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Concludo ribadendo il giudizio complessivamente positivo sulla serata, 10 e lode a De Ana e voti comunque alti a tutti gli altri protagonisti.

16 agosto, 2022

ROF-43 live: La Gazzetta

Rieccomi sulla riviera adriatica (dove all’apocalisse pronosticata da sedicenti saggi in conseguenza della caduta di supermario nessuno sembra far caso) per il mio personale esordio (come spettatore, s’intende) al ROF-XLIII. Assistendo alla terza recita de La Gazzetta, una ripresa rivisitata della fortunata produzione di Marco Carniti del 2015, che fu anche da me a suo tempo ammirata.

Dico subito che la serata è iniziata in tono minore, poi vivacizzatasi man mano: forse condizionata, chissà, dalla scarsità (molte, troppe poltrone vuote in platea e nei palchi) e iniziale freddezza del pubblico. Sta di fatto che il primo atto ha cominciato a prender quota solo al momento del famoso (perché ritrovato da pochi anni) quintetto Già nel capo un giramento Insomma, dopo l’ascolto della prima del 10 agosto in radio mi ero fatto aspettative migliori, ecco.    

Com’è noto, l’opera rappresentò l’esordio di Rossini in territorio buffo a Napoli, la capitale italiana (e forse europea, ai tempi, 1816) del teatro musicale. Ebbene: due napoletani veraci, Carlo Lepore e Maria Grazia Schiavo, hanno impersonato qui la coppia padre-figlia, Prosdocimo-Lisetta, in viaggio di piacere-interesse a Parigi, dando così anche un tocco di realismo alla vicenda improbabile che un altro napoletano, Giuseppe Palomba, aveva inventato (beh, insomma, facendosi aiutare da… Goldoni) per la speciale occasione.

Lepore è un perfetto Prosdocimo Storione, una specie di prototipo di personaggi cui darà vita il grande Totò, del quale non per nulla vengono richiamate alcune gag passate alla storia. Oltre che cantare da par suo, eccelle ovviamente nei frequenti parlati in partenopeo, che esigono nativa, quindi assoluta dimestichezza con quel dialetto. 

Lisetta, che il librettista presenta in modo (almeno apparentemente) contraddittorio, affibbiandole l’epiteto francamente equivoco di donzella scaltra e baggiana (!?) è resa in modo apprezzabile dalla Schiavo, che mette la sua abilità vocale nella coloratura al servizio della natura bifronte del personaggio. E inoltre la sua voce acuta e penetrante svetta sempre nei duetti e concertati.   

Fra gli altri protagonisti emerge prepotentemente, per vocalità e presenza scenica, Giorgio Caoduro, che passa autorevolmente dalla sua identità reale (Filippo, il locandiere) a quelle virtuali di quakero e turco. Qualche eccesso di forzatura nella parte acuta della tessitura non inficia il giudizio positivo sulla sua prestazione, confermato dalle ovazioni ricevute alle uscite finali, oltre che agli applausi a scena aperta dopo il duetto con Lisetta e la sua aria Quando la fama altera

Pietro Adaìni impersona un Alberto convincente, voce squillante e omogenea in tutta la gamma: dopo un esordio un poco trattenuto (Ho girato il mondo intero) anche lui è cresciuto meritando applausi con l’aria O lusinghiero amor.

Doralice è Martiniana Antonie, che mette in bella mostra la sua voce corposa di mezzosoprano, che dopo l’aria (di mano aliena, peraltro) Ah, se spiegar potessi, avrebbe anche meritato un applauso che invece il pubblico ancora freddino le ha negato. Prezioso anche il suo contributo ai concertati.

Con lei bene ha meritato l’altra mezzo, Andrea Niño, efficace Madama La Rose, vocalmente e scenicamente.

Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen) hanno onorevolmente completato la squadra delle voci.

Mirca Rosciani ha ben guidato il Coro (qui di soli maschi) del Teatro della Fortuna, componente non marginale dell’opera.  

Lodevole la direzione e concertazione del veterano Carlo Rizzi, bacchetta ambidestra... che ha ottenuto dalla Sinfonica Rossini (con la Filarmonica, una delle due belle realtà locali) un risultato di tutto rispetto: freschezza e trasparenza del suono, precisione negli attacchi, compattezza nei passaggi d’insieme.
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Come prevedibile, confermato il successo del 2015 per la proposta registìca di Marco Carniti, coadiuvato dalla sua squadra composta da Manuela Gasperoni per le scene, Maria Filippi per i costumi e Fabio Rossi alle luci.

Da ultimo lascio l’unico superstite (fra coloro che escono in scena) del 2015, Ernesto Lama, il Tommasino (quasi) muto che qui assume il ruolo del catalizzatore nelle reazioni chimiche: e anche ieri ha simpaticamente contribuito ad aggiungere verve a questo godibile spettacolo.       

10 agosto, 2022

ROF-43: le tre prime da Radio3

Una nuova produzione de Le Comte Ory ha aperto il 9 agosto a Pesaro (Vitrifrigo Arena) la 43esima edizione del ROF. Per quel che posso giudicare dall’ascolto radiofonico, una partenza decisamente positiva.

Cast ben assortito, capeggiato dall’inossidabile JDF, la cui voce non ha perso lo smalto di un tempo, resistendo bene all’inevitabile usura legata all’ampliamento del repertorio che ha caratterizzato questi ultimi anni del tenore peruviano.

Per me è stata una bella sorpresa la Contessa di Julie Fuchs (che prima avevo solo ascoltato in spezzoni del DVD del 2017 disponibili in rete): praticamente perfetta, timbro chiaro e pulitissimo, colorature impeccabili, voce svettante nei concertati, sensibilità espressiva sempre adeguata alla psicologia del personaggio.

Da apprezzare Maria Kataeva, che fra l’altro ha brillantemente contribuito, come Isolier, al mirabile quanto equivoco terzetto al buio del second’atto.  

Bene anche le due comprimarie: la veterana ma sempreverde Monica Bacelli e la giovane Anna Doris-Capitelli (uscita dall’Accademia).

All’altezza dei rispettivi compiti Andrzej Filonczyk e (un filino sotto) Nahuel Di Pierro. Così come il Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina, che ormai da qualche anno coabita con quello della Fortuna sulle scene pesaresi.  

Diego Matheuz ha guidato da par suo la ritrovata OSN-RAI, forse eccedendo nella corposità di suono (ad esempio nella polonaise del primo atto). Ma può essere impressione mia legata alla ripresa audio.

Successo pieno, si direbbe, anche se gli applausi mi pare non abbiano superato i 5 minuti… 
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La Gazzetta (ripresa/rivisitazione della produzione del 2015) è andata in scena il 10 agosto al Teatro Rossini, con un cast completamente rinnovato rispetto a 7 anni orsono (un’eternità, se si pensa che a Palazzo Chigi c’era tale Matteo Renzi al culmine della sbornia da successo, oggi mutatasi in disperata ricerca di un qualunque mezzuccio Calenda per evitare il definitivo trasloco nell'arido paese del nuovo rinascimento…)

Carlo Rizzi ha guidato la Sinfonica Rossini (che da qualche anno si alterna con l’omonima… Filarmonica come seconda orchestra del cartellone principale) in questa sbarazzina opera comica, mettendone in luce la freschezza dell’ispirazione rossiniana (genuina ma con spruzzate, anche abbondanti, di auto-imprestiti) coniugata con l’impronta napoletanissima del libretto di Giuseppe Palomba.

E il partenopeo Carlo Lepore ne è stato il protagonista assoluto, calandosi anche (complice Marco Carniti) nei panni del grande Totò, di cui ha citato testualmente alcune battute della famosa lettera dal film Totò-Peppino-Malafemmena

Come lo era stata Julie Fuchs per l’Ory, anche qui la protagonista femminile Maria Grazia Schiavo ha meritatamente guadagnato gli applausi del pubblico interpretando una Lisetta davvero convincente, per timbro di voce, varietà di virtuosismi ed espressività.

Sugli scudi anche Giorgio Caoduro, autorevole Filippo e Pietro Adaìni, un Alberto convincente e applaudito in particolare nell’aria del second’atto.

Gli altri interpreti tutti su un più che discreto standard, a partire dalle due voci femminili, la Doralice di Martiniana Antonie e la Madama La Rose di Andrea Niño; così come onorevoli mi son parse le prestazioni di Alejandro Baliñas (Anselmo) e Pablo Gàlvez (Traversen).

Apprezzabile infine l’apporto del Coro del Teatro della Fortuna di Mirca Rosciani che ha contribuito alla generale godibilità della serata.
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Otello (nuova produzione affidata alla pesarese Rosetta Cucchi) ha chiuso l’11 agosto (Vitrifrigo Arena) il primo dei 4 cicli di rappresentazioni del cartellone principale del ROF-43.

Un’edizione che sul piano musicale - almeno a giudicare dall’ascolto radiofonico e dall’accoglienza del pubblico – si direbbe sia di un livello più che apprezzabile, il che costituisce un buon viatico per chi come il sottoscritto si prepara a seguirla dal vivo nei prossimi giorni.

E una costante emersa dalle tre serate pare proprio essere l’affermazione delle altrettante protagoniste femminili di questo Festival: anche in Otello ha particolarmente brillato la Desdemona di Eleonora Buratto, trionfatrice della serata.

Accanto a lei i tre tenori protagonisti, tutti veterani del ROF – Enea Scala nel ruolo del titolo, Dmitry Korchak (Rodrigo) e Antonino Siragusa (Jago) – hanno completato un cast ben assortito e capace di valorizzare una partitura che è a torto troppo spesso sottovalutata, messa fatalmente in ombra dall’avvento della coppia di tali Verdi&Boito

Evgheny Stavinsky (un Elmiro un po’ troppo vociferante), Adriana Di Paola (un’onesta Emilia) e gli altri due tenori (Julian Henao Gonzales, apprezzabile Gondoliere e il Doge di Antonio Garès) hanno dato il loro onesto contributo alla riuscita dello spettacolo.

Ovviamente insieme al Coro del Ventidio Basso di Giovanni Farina e all’impeccabile OSN-RAI sotto la guida del solido Ives Abel, altro veterano avendo diretto a Pesaro fin dal 1995.

La radio ci ha portato anche reazioni del pubblico alle regìe, positive per Ory e Gazzetta e contrastate per Otello: vedremo poi dal vivo.