ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

22 luglio, 2022

Muti chiude il Ravenna-Festival con la sua Cherubini

L’ultimo appuntamento del Ravenna-Festival 2022 (poi ci sarà la stagione operistica autunnale) è stato riservato al consorte della padrona di casa (aka Riccardo Muti) reduce dall’ormai tradizionale puntata delle Vie dell’Amicizia che quest’anno lo ha portato a Lourdes e a Loreto con la sua Cherubini e – doveroso rispetto all’attualità e al gemellaggio Ravenna-Kiev del 2018 – a componenti di Orchestra e coro dell’Opera Nazionale Ukraina, con un programma significativamente imperniato su Vivaldi-Mozart-Verdi ma con inserti ukraini e baschi nelle due tappe.

Ieri Muti si è invece esibito – al PalaDeAndré con la sola Cherubini (cui si sono aggiunti due strumentisti dell’Opera di Kiev, il primo oboe Dmytro Gudyma e la violinista Oleksandra Zinchenko) - in un concerto di insolita ma interessante impaginazione. Ha infatti aperto la serata la Sinfonia in DO maggiore di George Bizet, battezzata Roma perché colà composta in occasione della permanenza nella città eterna del vincitore del Prix-de-Rome del 1857. Rispetto a quella più sbarazzina del 1855, rivelata al pubblico a Bizet ormai scomparso da tempo, questa è un’opera più pretenziosa e cerebrale, che anticipa nella forma e nel contenuto il più famoso e posteriore Aus Italien di Strauss (brano prediletto dal giovane Muti in odore di… Scala): vi si evocano Roma (una caccia nella foresta di Ostia), Venezia, Firenze (una processione) e (proprio come Strauss) Napoli (carnevale).

Chissà se è l’ignoranza del pezzo ad aver portato il pubblico ad applaudirne regolarmente anche i tre primi movimenti. Va in ogni caso riconosciuto a Muti e ai suoi ragazzi di aver fato di tutto per… indorare la pillola, ecco!
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Dopo l’intervallo ecco un siparietto dedicato ad una premiazione: il Festival ha voluto così offrire un pubblico riconoscimento a Silvia Lelli che da 40 anni (con il compagno Roberto Masotti) fotografa artisti ed in particolare musicisti. Fra questi anche Muti, da lei seguito fin dai primi passi ed in particolare nei suoi anni di presenza alla Scala. Così il Maeschtre non ha perso l’occasione per suggerire al teatro che lo cacciò in malo modo di impiegare il materiale fotografico della Lelli per farci una mostra permanente…  
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Un brano che di solito apre la serata concertistica è stato invece qui eseguito per aprire la seconda parte del concerto: si tratta del brevissimo schizzo sinfonico (meno di 8 minuti, 82 battute in tutto) di Anatoli Ljadov, titolato Il lago incantato (ma anche Leggenda). Arabeschi dell’arpa e della celesta accompagnano le ondeggianti semicrome dei violini mutuate dal wagneriano Waldweben in un’atmosfera che non presenta nemmeno una piccola increspatura, terminando proprio come era iniziata e lasciando francamente perplesso l’ascoltatore che si aspettasse almeno un sussulto, non dico un temporale.

Anche qui facciamo i complimenti all’Orchestra per la raffinatezza e la trasparenza del suono, ingredienti indispensabili per non far scadere il pezzo nella banalità.
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Ha chiuso il concerto il celebre poema sinfonico di Liszt Les Preludes. Del quale ripropongo una succinta analisi pubblicata anni fa in occasione di un concerto de laVerdi.

Muti si è mantenuto fedele al suo approccio originale all’opera, approccio assai sostenuto e severo, come possiamo constatare in questa registrazione del 15 agosto 2012 a Salzburg con i Wiener. Ieri se possibile Muti mi ha dato l’impressione di calcare ancor più la mano in fatto di prosopopea e retorica.

Tanto per confrontare il suo approccio con uno assai diverso (che si materializza in quasi 2 minuti di durata in meno, su più di 17…) ecco come ci propose il brano Zubin Mehta con i Berliner, nel lontano 1995. Un’analisi più puntuale delle differenze mostra che esse non si distribuiscono uniformemente su tutta la durata del brano, il che porta a concludere che l’approccio di Mehta sia – nell’agogica quanto meno – assai più ricco di contrasti rispetto a quello di Muti.

Ma l’importante è che la Cherubini abbia confermato le sue ottime qualità (su quelle del Direttore-Fondatore non si discute…) che il folto pubblico non ha mancato di apprezzare distribuendo applausi e bravo! a tutti.

Altro intervento maieutico di Muti, che ha ricordato con colorite espressioni l’insipienza con la quale i nazisti impiegarono il tema principale dell’opera per farsi propaganda bellica… dopodichè ci ha lasciato con l’Intermezzo della Fedora, non senza una punta di bonaria polemica con i romagnoli, sedicenti esperti verdiani che però ignorano questa non disprezzabile musica di uno che veniva da… Foggia.
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Oggi sulle spiagge romagnole la vita riprende con il solito, sonnolento tran-tran: nessun sintomo (ancora) dell’apocalisse che si prevede scatenarsi sull’ingrato Paese reo di aver cacciato il suo magnifico quanto disinteressato benefattore…

18 luglio, 2022

Bayreuth di… piccolo cabotaggio?

A quanto pare il Covid, che aveva determinato l’annullamento della stagione 2020 e la ripartenza piuttosto asfittica del 2021, fa ancora sentire i suoi effetti, e anche l’edizione 2022 (n°110, a partire dal mitico 1876, che apre il prossimo lunedi 25) ne è vittima, con trafelati cambi all’ultimo momento. In ogni caso non è tale – almeno sulla carta – da destare grandissime aspettative.

Ci sarà il nuovo Ring, messo in scena da Valentin Schwarz, che fu appunto soppresso dal virus nel 2020 e poi ridotto nel ’21 alla sola Walküre (tre recite con allestimento semiscenico di Hermann Nitsch) e che doveva rivedere sul podio Pietari Inkinen, ora però covidizzato e sostituito da Cornelius Meister. Che sia un’edizione di passaggio era del resto chiaro in partenza a chiunque tenga presente che il (primo dei due) Ring del secolo XXI sarà ovviamente quello del 2026!

E non per nulla l’inaugurazione dell’edizione 2022 sarà affidata ad un nuovo Tristan, con regìa di Roland Schwab e diretto (in origine) da Cornelius Meister, il quale essendo però stato trasferito negli scantinati del Walhall lascia il posto allo svizzero (come attuale impiego) Markus Poschner. Produzione peraltro limitata a sole due recite, chissà se per la poca benzina rimasta a disposizione degli interpreti principali, tutti francamente in età pensionabile (della serie: tutto fa brodo…)

I collaudati Holländer (Oksana Lyniv), Tannhäuser (Axel Kober) e Lohengrin (Christian Thielemann) completano il cartellone, che comprende anche due concerti diretti da Andris Nelsons (antologie da Holländer, Tannhäuser e Tristan).

Le 5 recite di Lohengrin consentiranno a Thielemann (non più Direttore Musicale del Festival) di incrementare il suo primato di presenze sul podio, arrivate (a partire dall’esordio del 2000) a quota 184.

Il disinteresse per il Festival ha contagiato persino i patitissimi di Radio Clasica, che diserteranno anche la prima. Assente anche Radio3, mentre restano ovviamente sul pezzo i bavaresi 

04 luglio, 2022

Gidon Kremer a Ravenna con cambio di programma

Altro appuntamento di lusso al ravennate PalaDeAndré con la mutiana Orchestra Cherubini e due celebrità della musica sinfonica: Christoph Eschenbach e Gidon Kremer. Programma annunciato come tutto russo (alla faccia del CoPaSiR, haha) con un’opera di rara esecuzione di Mieczysław Weinberg e una di Ciajkovski che più inflazionata non si può.

Ma all’ultimo momento ecco la sorpresa: via il problematico Weinberg per far posto ad un raro Schumann della trascrizione dell’Op. 129. (Voci trapelate dal palco attribuiscono la causa a problemi fisici del violinista lettone.)  

Un vero peccato non poter ascoltare questo Weinberg, nato in Polonia (come tradisce il suo nome) nel 1919 ma poi emigrato in URSS nel ’39 per sfuggire al nazismo e che quindi oggi passa per compositore conterraneo di Shostakovich, da cui effettivamente ha mutuato parecchio dello stile, oltre ai fastidiosi problemini di… convivenza con lo stalinismo.

Il suo Concerto per violino è del 1959 e fu dedicato al sommo Leonid Kogan, che lo interpretò nel 1960 con la Filarmonica di Mosca diretta da Kirill Kondrashin. Poi però Weinberg cadde purtroppo nel dimenticatoio e fu proprio Gidon Kremer a resuscitarlo, riproponendone non solo i brani solistici, ma anche quelli orchestrali (con la sua Kremerata Baltica). Il Concerto è stato recentemente inciso da Kremer – in occasione del centenario della nascita di Weinberg - con la Gewandhaus di Lipsia diretta da Daniele Gatti e l’esecuzione è ascoltabile in rete.

Era una ragione in più (per me, ma credo per molti) per ascoltarlo dal vivo qui a Ravenna. Anche perché l’ascolto comparato dell’interpretazione originale di Kogan e di quella moderna di Kremer mette in evidenza una chiara (si potrebbe azzardare abissale) diversità di approccio interpretativo: assai asciutto e nervoso quello di Kogan (rispettoso dei metronomi di Weinberg e verosimilmente benedetto a suo tempo dall’Autore, presente a prove e prima) e molto più sostenuto e riflessivo quello di Kremer. Cosa testimoniata del resto dai quasi 7 minuti (sui circa 26 di Kogan) di differenza in più per il violinista baltico. 

Ma veniamo a ieri: Kremer ci ha presentato quindi una trascrizione del Concerto per violoncello di Schumann, che possiamo ascoltare qui in un’esecuzione di qualche anno fa. Però ha voluto farci anche un’altra sorpresa, iniziando con un… bis in omaggio alle sofferenze dell’Ukraina, suonando il Requiem per violino solo del compositore georgiano Igor Loboda, composto nel 2015 dopo i luttuosi fatti del 2014 che purtroppo sono oggi culminati in questa guerra insensata. La stessa cosa Kremer aveva fatto lo scorso maggio a Lubiana, come testimoniato da questo video, a partire dal minuto 4’33” (erroneamente il titolo di youtube lo cita come primo brano).

Ecco quindi questo inedito Schumann dell'ostico Concerto per violoncello trascritto per lo strumento principe degli archi. Cha Kremer ci ha porto con la raffinatezza che gli è propria, accolto da applausi e ovazioni del pubblico (per la verità non oceanico) al quale ha poi dedicato un altro breve encoreomaggio al… soppresso Weinberg, con il 5° Preludio per violoncello, dall’Op.100, che significativamente cita il tema del concerto schumanniano!

Bene, dopo questa prima parte del concerto ricca di imprevisti, ecco Ciajkovski con la sua celebre Quinta. Che ha permesso ai ragazzi di Riccardo Muti di sfoggiare tutta la loro bravura, sotto la guida vigile e sicura di Eschenbach. Quasi di prammatica un inizio di applauso già sui truci accordi di SI maggiore che precedono la coda Moderato assai e molto maestoso; applausi che poi sono piovuti copiosi e meritati sul conclusivo ta-ta-ta-taaa in Mi maggiore.

Insomma, una bella serata di musica che ci fa dimenticare per un attimo guerre, crisi e… siccità.

29 giugno, 2022

Ravenna stregata da Iván Fischer

Ieri sera l’immenso Pala DeAndré – ma con capienza ridotta rispetto al passato - ha ospitato la prestigiosa Budapest Festival Orchestra, guidata dal suo fondatore Iván Fischer, per un concerto di quelli davvero tosti. 

La Budapest fu immaginata (quasi 40 anni fa) da Fischer su basi innovative: invece di un insieme di professionisti agli ordini del Direttore che esprime (e impone magari) la sua volontà, è un gruppo di interpreti ciascuno dei quali porta all’esecuzione la sua propria sensibilità e il suo gusto: un po’ come nel teatro (o nel cinema) dove c’è un regista che cerca (perché vuole o deve) trarre il massimo dalle specifiche qualità di ciascun interprete.

Orbene, come tutto ciò non si traduca in totale anarchia e disordine, ma produca risultati a dir poco mirabili è il miracolo che Fischer riesce a ripetere ad ogni concerto, e che si è puntualmente ripetuto anche ieri.  

Concerto che presentava nella prima parte la Terza di Johannes Brahms (qui una recente incisione, che bene esalta il rigoroso approccio interpretativo del direttore magiaro e dei suoi professori). Grande portamento e seriosità nell’iniziale Allegro con brio; serena contemplazione nel variegato Andante; crepuscolare e pudica la visione del celeberrimo Allegretto; perfetto l’equilibrio del multiforme Allegro conclusivo, con il suo sotterraneo agitarsi, la sua eroica perorazione e il ritorno finale all’atmosfera dell’inizio della sinfonia, degradante verso la sognante conclusione.

Un difetto in tutto ciò? Sì, quello di averci risparmiato il da-capo dell’esposizione nel movimento iniziale!  

Poi ecco la straordinaria Scheherazade di Rimski, interpretata dal… violino di Tamàs Major. Qui è davvero il festival dei colori, del rubato, delle mille e una sfaccettature di cui il mago Rimski ha infercito e arricchito questo autentico gioiello. E qui davvero sono emerse le caratteristiche somatiche dell’Orchestra, dove le parti solistiche (primo violino a parte) abbondano e dove tutti, dai corni al fagotto all’arpa, ma proprio tutti si sono messi in luce.

Meritatissimi gli applausi e le ovazioni che hanno salutato la Principessa che si infila languidamente, senza tema di… ritorsioni, sotto le lenzuola accanto al Sultano, ormai neutralizzato.

E il successo clamoroso è ripagato da due bis, chiusi dal Brahms della Danza ungherese n°6.

21 giugno, 2022

Il nuovo Rigoletto di Martone-Gamba piace a metà

Dopo 28 anni, è arrivata al Piermarini una nuova produzione di Rigoletto. Che la metà abbondante del folto pubblico ha accolto con calore (non calor-rosso, per la verità) ma che una robusta minoranza ha invece mostrato di non gradire, prendendosela proprio con i due artefici della proposta, sonoramente buati (più il regista) alle uscite finali.

Personalmente sarei più accomodante con Michele Gamba, che il suo compitino lo ha svolto con diligenza, forse con eccessivo distacco e con venature veriste mutuate dall’approccio interpretativo (il famigerato Konzept) di Mario Martone.

Il quale regista, volendo a tutti i costi attualizzare ai tempi nostri il soggetto, e non trovando esempi calzanti, ha fatto la facile scelta (per lui non nuova, ergo recidiva – vedansi i suoi Oberto e Cena delle beffe scaligeri) di ricorrere al trito riferimento alla malavita organizzata. Cioè dal Palazzo del Louvre (Hugo) e dal Palazzo ducale di Mantova (Piave) che sono – a dispetto delle malefatte dei loro inquilini – sedi del potere costituito, lui ci ha portato dai… Casamonica! E notoriamente alle feste dei Casamonica si balla il perigordino (! mamma mia!) E Monterone è evidentemente il capo di una cosca rivale cui il Duca ha fatto le scarpe riducendolo in miseria, e per di più sottraendogli (per ingropparsela) la figlia… Ben si spiega quindi la scena sulla quale cala l’ultimo sipario: l’irruzione dai Casamonica di una banda rivale che mette tutto a ferro e fuoco!

II lato-b della scena girevole (il cui lato-a è la villa dei Casamonica) dove dimora Rigoletto, è quindi il più orripilante quartiere degradato della più degradata periferia dei nostri tempi; nell’atto terzo si trasforma nel bordello gestito da Sparafucile e soreta: puro verismo!

Al Duca Verdi riserva uno squarcio di umanità (Ella mi fu rapita…) che Martone gli nega proditoriamente mostrandocelo mentre si dispera tracannando un whisky dietro l’altro… Gilda da parte sua non pare proprio una Maria Goretti sinceramente innamorata, ma piuttosto una ragazza moderna insofferente ai divieti che le impone un padre-padrone.

Insomma, una concezione francamente lunatica, quindi (per me) deludente, ecco.
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Il fronte dei suoni ha risollevato abbastanza la media. Detto della concertazione poco… emozionante di Gamba, vanno elogiati il Coro di Malazzi (sempre una sicurezza) e le voci dei due bassi Fabrizio Beggi e Gianluca Buratto, davvero all’altezza dei due ruoli comprimari (Monterone e Sparafucile).

I protagonisti: apprezzata assai la Gilda di Nadine Sierra (fu già parte del cast della ripresa del 2016): bella voce calda, penetrante ed espressiva, che le ha meritato applausi a scena aperta (Caro nome) ed ovazioni finali.

Anche Piero Pretti (praticamente un veterano del ruolo qui alla Scala, avendolo cantato nel 2012 e 2016) si è ben distinto, anche se la sua emissione mi è parsa un tantino, come dire, vetrosa, soprattutto nella zona di passaggio.

Il Rigoletto di Amartuvshin Enkhbat ha un portentoso vocione da far tremare la struttura del teatro: troppo spesso peraltro tende a declamare invece che cantare e ad emettere urla belluine che poco hanno a che fare con i requisiti estetici del ruolo (non lo vedrei male spostato sul Wagner di ceffi tipo Fafner o Hagen o Hunding…) Ma è sperabile, se non certo, che possa crescere ancora… insomma è uno che merita la fiducia che gli ha espresso il pubblico di ieri. Da notare il rispetto filologico della partitura: il follia lo ha cantato sul MI e non (come tradizionalmente si fa) sullo stentoreo/eroico SOL.

Fra i personaggi di contorno cito la Maddalena di Marina Viotti, che spero non me ne voglia se dico di aver apprezzato il suo (castigato) spogliarello quanto la sua calda voce contraltile. Agli altri sette (vedi locandina) va un doveroso riconoscimento di aver fatto ciò che loro è richiesto.
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Che dire, in conclusione? Voto complessivamente discreto, ma fatto di un quasi-buono ai suoni mediato da un mediocre alla regìa.

08 giugno, 2022

Una Gioconda discreta (ma non più) è tornata al Piermarini

In un teatro non propriamente esaurito ha fatto ieri ritorno dopo 25 anni La Gioconda nella nuova produzione targata Chaslin-Livermore. Dirò subito che ha avuto un’accoglienza tutto sommato positiva (unica vittima dell’unico e isolato buh piovuto dalla seconda galleria il malcapitato Direttore) pur non essendo(mi) parsa di livello eccelso, ecco.

Parto dalla... polpa, cioè da suoni e voci. Intanto segnalando, dopo quella della Yoncheva, anche la defezione del tenore titolare (Sartori) rimpiazzato all’ultimo da Stefano La Colla, che per la verità ha buttato il cuore oltre l’ostacolo, sul quale però il corpo (cioè la voce...) è incorso in qualche inciampo, soprattutto all’esordio, magari causato dalla comprensibile emozione (anche se per lui non era proprio un esordio in Scala, essendo stato già stato un discreto Ismaele e prima ancora Calaf). Via via si è però rinfrancato ed ha portato a casa la pagnotta.

Saioa Hernandez è stata la trionfatrice della serata. Col tempo meritoriamente migliora (la ricordavo nel ruolo 4 anni fa, con qualche pecca) e la sua vociona è oggi meglio... disciplinata, ecco: per lei lunghi applausi dopo l’aria che apre l’atto conclusivo. Le han dato man forte (nei duetti) le altre due donne del cast: Daniela Barcellona, impeccabile Laura per emissione e portamento; e Anna Maria Chiuri, una Cieca efficace e commovente (cui Livermore ha dato anche più spazio del prescritto, come vedremo).

Degli altri due protagonisti maschi dirò benissimo (e il pubblico ha confermato il giudizio) di Erwin Schrott, praticamente perfetto come Alvise e lungamente applaudito a scena aperta dopo l’aria che apre l’Atto terzo; un filino sotto metterei il navigato Roberto Frontali, che ha forse ecceduto nel caricare negativamente la figura dello spione, con qualche acuto un po’ troppo... ringhiante.  

Tutti onestamente all’altezza del compito i quattro comprimari (Reggi, Valerio, Pittari e Bussolini). Cori (di Alberto Malazzi i grandi e del venerabile Mario Casoni i piccoli) in gran spolvero, meritatamente applauditi a lungo.

Che dire del Kapellmeister? Frédérick Chaslin era (così pare) al suo primo incontro con Gioconda e devo dire che (a parte qualche eccesso bandistico qua e là) ha cercato di scavare - come evidentemente comporta la sua attitudine alla composizione - nei dettagli della partitura per metterne in risalto le tante sfumature e gli aspetti innovativi (che daranno spunti anche a sinfonisti come Mahler). Ne è uscita un’interpretazione (apparentemente?) dimessa e priva di smalto e brillantezza, tanto che il pubblico (a parte l’isolata contestazione) non pare avere apprezzato più di tanto.
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Davide Livermore perde il pelo ma non il vizio (in senso buono, dico) della celluloide: nella breve presentazione del suo Konzept sul programma di sala tira in ballo il Fellini di Casanova e i fumetti veneziani di Moebius. Poi però all’atto pratico il tutto si materializza in... effetti senza cause.

La scenografia (di Giò Forma) prevede nei due atti dispari una struttura cubiforme che racchiude rispettivamente il ponte di Rialto, il Palazzo ducale e la Ca’ d’Oro: struttura che viene fatta via via ruotare di 360° per presentare prospettive diverse (a teatro, a differenza del cinema, la macchina da presa, che è l’occhio dello spettatore, è forzatamente in posizione fissa, così per esplorare il mondo, si fa... girare il mondo). Nei due atti pari abbiamo rispettivamente un onirico brigantino, con stiva trasparente, e... il vuoto desolato del Canal Orfano. Saltuariamente un gigantesca cornice (Venezia è la patria dei dipinti) scende ad incorniciare (appunto) un panorama o più spesso dei tableau vivant o ancora dei video astratti (D-WOK) più o meno appropriati.  

I costumi di Mariana Fracasso sono plausibilmente seicenteschi, con maschere veneziane che toccano l’apice in quella di Laura, recante ai due lati un paio di... corna di bufalo indiano (!) Le luci (Antonio Castro) sono intelligentemente sfruttate per esaltare le scene di festa (Ore incluse) o per incupire quelle di dramma.

Dignitosa la coreografia di Frédéric Olivieri e lodevoli gli Allievi della Scuola di Ballo dell’Accademia, protagonisti di un’apprezzabile Danza delle Ore.

Per il resto, movimenti delle masse abbastanza stucchevoli e qualche tocco più o meno gratuito che Livermore si è permesso di inventare, come il fugace incontro fra Enzo e Laura in mezzo alla folla festante a fine del primo atto, o come la presenza di una controfigura della medesima Laura (ufficialmente morta) sdraiata su un lampadario durante il balletto.

Ma è proprio il finale a venire dal regista re-interpretato in modo piuttosto discutibile: la Cieca torna in scena accanto alla figlia e insieme cantano la profezia del rosario; poi, al posto della conclusione dura e verista di Boito (Gioconda che si trafigge e Barnaba che si accusa dell’omicidio della Cieca e fugge imbufalito e imprecante) ecco che allo spione viene recapitata una controfigura rappresentante la salma della cantatrice, mentre la Gioconda in carne ed ossa si riunisce con la madre in... paradiso (?) Insomma, una chiusura consolante che contraddice - pare a me - quella originale.
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In conclusione: uno spettacolo non più che discreto, certamente al di sotto del livello di altre produzioni della stagione in corso. 
 

05 giugno, 2022

Una certa Gioconda sta tornando alla Scala

A partire dal 7 giugno La Gioconda torna alla Scala per la quarta produzione dal dopoguerra (le precedenti risalgono al ’48, ’52 e ’97). 

È noto che le difficoltà di allestire Gioconda risiedono principalmente nella necessità di mettere insieme un cast vocale di quantità (oltre che qualità) assai robusta: si tratta di sei protagonisti e deuteragonisti che coprono altrettante (quindi tutte le) tessiture vocali, dal soprano al basso.

Toccherà al poliedrico 61enne Frédéric Chaslin concertare il cast che include nei sei ruoli principali: Saioa Hernandez (chiamata a sostituire l’indisposta Yoncheva) che ebbi l’occasione di udire nel ruolo di Gioconda nell’aprile del 2018 a ReggioE; Daniela Barcellona che torna alla Scala come Laura; Anna Maria Chiuri che impersona la Cieca (in passato ha cantato anche Laura...); Fabio Sartori (Enzo); Roberto Frontali (Barnaba) e il redivivo Erwin Schrott che sarà Alvise.

Oltre ai 4 comprimari (Beggi, Valerio, Pittari e Bussolini) si esibiranno i cori dei grandi e dei piccoli, diretti da Alberto Malazzi, mentre le coreografie per le Ore (ed altro) saranno affidate a Frédéric Olivieri e agli allievi dell’Accademia.

L’allestimento è affidato ad un ospite ormai quasi fisso nelle stagioni della Scala, Davide Livermore, coadiuvato dal suo team (Giò Forma, Mariana Fracasso, Antonio Castro e D-WOK) dai quali è lecito attendersi uno spettacolo di alto livello. In occasione della sua Tosca scaligera, il regista ne aveva rispettato quasi alla lettera l’ambientazione, sostenendo che la Roma dell’anno 1800 era troppo centrale per il soggetto da non poter sopportare mutamenti di luogo e tempo. Beh, lo stesso si potrebbe anche dire di Gioconda, tutta immersa nella Venezia del ‘600: staremo a vedere.  

Miei commenti seguiranno dopo ascolto-visione dal vivo. Per intanto ripropongo qui alcune mie note sull’opera scritte originariamente quattro anni fa proprio in occasione di una rappresentazione al Valli.  

28 maggio, 2022

laVerdi è tornata al Lirico(-Gaber) con Mahler

Ieri sera il recentemente rinnovato Lirico di Milano (oggi intitolato al mitico Giorgio Gaber) ha ospitato un concerto straordinario dell’Orchestra Sinfonica di Milano (a.k.a. laVerdi) che, guidata dal Direttore Musicale Claus Peter Flor, ha per l’occasione eseguito la Seconda Sinfonia di Gustav Mahler, per l’appunto quella della... Resurrezione! 

Teatro preso letteralmente d’assalto e palcoscenico stipato all’inverosimile (quasi 200 esecutori!) dalle compagini strumentali e corali protagoniste di quest’opera che di Sinfonia mantiene solo il nome e poco altro: è infatti una specie di settimana santa profana, che inizia con un funerale (Totenfeier, marcia funebre l’aveva intitolata Mahler quando pensava solo di limitarsi ad un poema sinfonico...) prosegue con ricordi sereni e grotteschi della vita del defunto, e finalmente si conclude con l’Auferstehung che, dopo breve riposo, ridarà la vita alla polvere racchiusa nel sepolcro...  

Dopo l’interminabile Allegro maestoso iniziale Flor ha fatto rigorosamente rispettare la lunga pausa (almeno 5 minuti!) prescritta dall’Autore, che serve a far digerire a tutti la mappazza (haha!) ed è anche servita a far entrare sul palco, sistemandosi proprio sotto il podio, le due voci soliste, il soprano Sarah Fox e il mezzosoprano Eva Vogel.

I due intermezzi (il sereno con qualche screziatura Andante moderato e la dissacrante parodia della Predica di SantAntonio ai pesci) hanno fatto da preludio al canto della Rosellina rossa, che la Vogel ha porto con ispirazione e voce ben impostata e penetrante; al quale è subito seguito il gigantesco e teatrale Finale dove si è messo in mostra il Coro guidato da Massimo Fiocchi Malaspina e dove anche la Fox ha avuto modo di esibire la sua bella voce di soprano lirico (qualche decibel in più però non guasterebbe...)

Complessivamente un’esecuzione di tutto rispetto (in queste occasioni qualche incertezza qua e là è quasi inevitabile e perdonabile) che è stata accolta da ovazioni per tutti.

20 maggio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 30

Prima di dare il via ai suoni, Massimo Ferrarini, imprenditore di gran talento e presidente dell’AVIS Milano ha ricordato i 95 anni dalla fondazione della benemerita Associazione che tanta parte ha nel salvare vite umane, con il sangue dei volontari.
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Chiusura in bellezza della stagione dell’Orchestra Sinfonica di Milano (per gli amici resta sempre laVerdi!) con un concerto che presenta l’interessante accostamento Rachmaninov-Reger. Sul podio dell’Auditorium il redivivo Michael Sanderling, violoncellista passato alla direzione, mentre alla tastiera, per propinarci il famigerato Rach-3 - qui alcune mie note illustrative -  siede Alexei Volodin, che fa così il suo esordio in Largo Mahler.

Volodin, classe 1977 (ha anche studiato a Como anni addietro) ha Rachmaninov in posizione privilegiata nel suo repertorio, e... si sente! Lui interpreta alla lettera lo spirito del compositore russo, i suoi travagli, le sue debolezze, gli slanci eroici come le svenevolezze decadenti. Uso sapiente del rubato, varietà di dinamiche e - ça va sans dire - tecnica staordinaria (ingrediente fondamentale per questo brano) gli garantiscono uno strepitoso successo presso il folto pubblico dell’Auditorium.

Che lui ripaga con altra dose di Rachmaninov, il Settimo Preludio dall’op.23.
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Chiude il concerto la più importante e più nota delle ultime opere di Max Reger, le Variazioni e Fuga su un tema di Mozart (l’iniziale Andante grazioso della Sonata IX, K331). Reger, oltre che (discusso) compositore fu un grande esecutore, soprattutto all’organo. Ed in queste Variazioni la cosa appare evidente dal tipo di strumentazione adottata, come si evince da questa pagina della partitura:

Come si vede, suonano (quasi) sempre tutti gli strumenti, ma contrariamente all’apparenza non c’è mai sovraccarico sonoro, ma sempre varietà di atmosfere, di colori e di sfumature che impreziosiscono questo brano.

Merito ovviamente anche di Sanderling, che ha sapientemente dosato le dinamiche, mettendo sempre in risalto il tema e le sue variazioni senza mai farle annegare in un magma sonoro.

E il pubblico ha mostrato di apprezzare con lunghi applausi per il Direttore e per gli esecutori.
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Com’è sua tradizione, laVerdi non si ferma praticamente mai, e già il prossimo venerdi 27 maggio sarà al da poco risorto Teatro Lirico milanese (oggi Teatro Gaber) che, prima della chiusura, fu anche una delle case dell’Orchestra appena nata, per un concerto, appunto di... Resurrezione!

14 maggio, 2022

laVerdi 21-22. Concerto 29


Il penultimo concerto della stagione (inserito nella prestigiosa rassegna Milano Musica) vede il gradito ritorno in Auditorium di Stanislav Kochanovsky (un russo sfuggito chissà come dalle grinfie del CoPaSir!!!) che dirige un programma est-europeo del ‘900. 

I primi due brani sono di Witold Lutosławski. Ecco la Musique funébre, per soli archi (da 44 a 66, divisi in 4 parti di violini e 2 parti di viole, celli e bassi) composta a partire dal 1954, 10° anniversario della scomparsa di Béla Bartók (protagonista della seconda parte del concerto) e terminata nel 1958.

Composizione davvero singolare per concezione e realizzazione, che si può ben definire di alta ingegneria combinatoria, in particolare per la struttura dei due movimenti esterni dei quattro in cui si articola.
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Esploriamola a volo d’uccello in questa interpretazione di Daniele Gatti con la ONF. Il Prologo (1’15”) si fonda sull’impiego di serie dodecafoniche ottenute per trasposizione, inversione e retrogradazione di due serie di base (S1 e S2, le prime entrate a canone dei due violoncelli) costruite alternando tritoni (a partire da FA-SI e SI-FA rispettivamente) seguiti da una seconda minore discendente (a); l’inversione delle due serie dà luogo a serie che alternano tritoni a seconde minori ascendenti (b):

Altre serie sono poi costruite a partire dalle restanti 10 note della scala cromatica. Possiamo interpretare (almeno io così mi sento di fare) il tritono come elemento di negatività (la morte, in effetti, e per di più crudele, come quella di Bartók) e la seconda minore come evocazione del lamento per quella morte.

La sequenza di entrate successive, dopo l’apertura dei due primi violoncelli, vede l’entrata delle prime viole, e via via dei violini e infine dei contrabbassi, che si aggiungono proprio a preparare il culmine di questa prima parte (3’19”) dove il tritono FA-Si viene reiterato pesantemente, poi sempre decrescendo con l’abbandono degli archi alti che lasciano solo celli e bassi (4’45”) a chiudere sommessamente sul FA.

Segue poi (5’09”) Metamorfosi, che parte da sordi pizzicati per poi (6’13”) evolvere in un continuo e lento crescendo melodico. La serie del Prologo viene ancora trasformata, la melodia culmina in volate di semicrome, che portano (10’07”) al breve...

Apogeo, solo 12 battute in fff dove l’intera compagine suona soltanto pesanti accordi di 12 note, tenuti e poi ribattuti. Un progressivo aumentare della lunghezza delle note (semicrome, crome, terzine di semiminime, semiminime, minima e breve) introduce (10’57”)...

l’Epilogo, che vede il ritorno in primo piano (11’31”) delle serie del Prologo, con il tritono SI-FA in posizione preponderante.

La chiusura (15’05”) è ancora riservata, come l’apertura del brano, al primo violoncello, che ripercorre spezzoni sempre più minuscoli delle ultime 4 note dell’inversione della seconda serie, che degrada di un semitono da quella fondamentale: MIb-LA-SIb-MI / LA-SIb-MI / SIb-MI / SIb / MI:

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Che dire? Musica che non è proprio delle più digeribili... Tuttavia, se diretta e suonata come si deve merita di essere apprezzata, come ha fatto il pubblico abbastanza folto non lesinando lunghi applausi a Direttore e musicisti, con il violoncello di Tobia Scarpolini sugli scudi.
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Ancora di Lutoslawsky ecco un brano vocale, Chantefleurs et Chantefables per soprano e piccola orchestra. Si tratta di un ciclo di 9 canzoni per bambini, scelte fra gli 80 testi surrealisti di Robert Desnos e composte fra il 1989 e il 1991:

1.   La Belle-de-Nuit

2.   La Sauterelle

3.   La Véronique

4.   L'Eglantine, l'aubépine et la glycine

5.   La Tortue

6.   La Rose

7.   L'Alligator

8.   L'Angélique

9.   Le Papillon

Ad interpretarle è il soprano Łucja Szablewska-Borzykowska, connazionale del compositore e al suo esordio qui in Auditorium. Musica atonale e canto che si avvicina allo Sprechgesang (tipo Pierrot lunaire...) La bionda Lucja sfoggia una bella voce lirica con la quale illustra tutte le sfumature di questi canti. L’Orchestra sottolinea discretamente la voce, salvo scatenarsi proprio nell’ultimo brano: l’invasione delle farfalle! 

E così - come premio - il Papillon ci viene bissato!
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Come detto, si chiude con Béla Bartók e il suo Divertimento per archi, commissionato dal, e dedicato al, mecenate della musica Paul Sacher e alla sua Orchestra di Basilea, che tenne a battesimo il brano l’11 giugno del 1940. Brano composto di getto in una villa di Sacher sulle Alpi svizzere nell’estate del ’39, quando Bartók ormai si stava rassegnando ad andarsene in esilio negli USA, abbandonando dolorosamente la sua amata Ungheria, sempre più risucchiata nell’orbita nazista.

Tre movimenti che richiamano, come spesso in Bartók, ritmi e melodie popolari, con chiare inflessioni modali, ma sono costruiti su forme classiche, dal settecentesco Concerto grosso all’ottocentesca forma-sonata.
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Ecco come li interpreta il compatriota di Bartók Eugene Ormandy. Si parte (9”) con un Allegro non troppo, che ha struttura di forma-sonata... con qualche libertà. Il primo motivo (in atmosfera di FA maggiore, con caratteristico accompagnamento di triplette) si sviluppa su 13 battute, poi viene ripreso (35”) per altre 11 battute. Cui segue un rallentamento che introduce (1’07”) un secondo motivo (Un po’ più tranquillo) - un passaggio tipico del Concerto grosso, con dialogo fra le prime parti (il concertino) e il pieno orchestrale - che parte in LA e si chiude su un unisono di FA. Il quale prepara il terreno al secondo tema (1’47”) assai lezioso, in ambientazione di RE minore (relativa del FA del primo tema) e sempre con dialogo soli-tutti. Lo sviluppo (3’09”) vede classicamente protagonisti i due gruppi tematici, con passaggi a canone più mossi alternati a prese di respiro; e porta poi (5’40”) alla ripresa: il primo tema viene riproposto, anzichè sul FA, sul SOL e sul DO, mentre è il secondo (6’31”) ad accodarsi al FA minore. Una coda (7’49”) basata su una rielaborazione (Più tranquillo, poi Sempre più lento) del primo motivo porta ad una sommessa conclusione.

Il centrale Adagio (9’02”) apre con l’esposizione di una cellula di tre note nei violini secondi, poi nei primi su un accompagnamento degli altri archi che passa da un ostinato serpeggiamento ad una certa increspatura (10’07”) proprio su una melodia (mahleriana?) nei primi violini. Dopo un breve rallentamento ecco un fortissimo RE acuto che introduce (11’02”) un’irruzione delle viole, che poi passano il testimone a violini primi, fino al sopraggiungere di un passaggio (12’34”) caratterizzato da instabilità agogica: ecco un‘alternanza di sostenuto, lento e agitato, ed un progressivo crescendo che culmina a 13’45”, seguito da un decrescendo. Ancora il dialogo fra soli e tutti (14’28”) e poi ecco (15’17”) il ritorno della cellula primigenia, fino (16’59”) ad un autentico grido di dolore prima della mesta chiusura.

Il terzo movimento (17’25”) è un Rondo in Allegro assai. Anche qui torna spesso e volentieri l’alternanza soli-tutti del Concerto grosso. Dopo 13 battute introduttive che stabiliscono il ritmo, ecco (17’35”) esposto il tema del Rondo, una derivazione di quello del movimento iniziale, quindi dalle chiare connotazioni della musica popolare magiara. Seguito (17’45”) da un controsoggetto dl carattere diatonico (MIb maggiore) che dopo un breve ponte a canone, sfocia (18’13”) in un perentorio unisono di FA# e prepara l’ingresso (18’26”) di una nuova sezione bipartita: un tema che peraltro riprende tratti del primo, seguito (18’45”) da un controsoggetto. Il primo tema si ripresenta a 18’52” per chiudersi su un nuovo unisono che introduce (19’13”) una sezione occupata da una fuga, il cui soggetto è presentato anche in inversione. Il tempo rallenta e a 20’03” (Più lento) abbiamo un assolo del primo violino chiuso da una classica cadenza virtuosistica. A 20’51” ecco 7 battute introduttive e poi riappare il tema principale, immancabilmente variato sia nel soggetto che nel controsoggetto. Un crescendo, con ritorno del dialogo soli-tutti, ci porta (21’43”, Meno mosso) ad una sezione che ripropone, sempre in nuove forme, i motivi del Rondo. A 22’34” (Più mosso) ecco un sottofondo di terzine di violini secondi e viole che supportano la ricomparsa del tema principale, che viene sottoposto ad un vorticoso sviluppo, che poi va progressivamente calmandosi fino a... fermarsi completamente su una battuta di pausa. Adesso (23’43”, Grazioso) abbiamo un intermezzo tutto in pizzicato, dal sapore di una polka leziosa e ...settecentesca, chiuso (24’08”) col ritorno all’arco per un accordo che dà il la alla stretta conclusiva (Vivace, poi Vivacissimo e ancora Stringendo) basata sul tema principale ostinatamente reiterato. A 24’36” ecco un ritorno (per 12 battute) al Tempo I per un’ultima leziosa comparsa nei soli del tema del Rondò. Cui seguono (24’42”) le 4 battute di esilarante chiusura.
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Un brano davvero geniale e ispirato, che Kochanovsky ci porge con la consueta compostezza di gesto, mentre - inutile aggiungerlo - l’Orchestra, capitanata da Luca Santaniello, ci mette... il resto. Grande successo per tutti.