ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

04 ottobre, 2019

laVerdi-19-20 - Concerto n°1 con Milano Musica


laVerdi ha avuto il privilegio quest’anno di fare - in un sol colpo - una doppia inaugurazione: quella, normale per così dire, della propria stagione in abbonamento, e quella davvero speciale del Festival Milano Musica, quest’anno dedicato a Luca Francesconi (che - dopo l’anteprima-giovani di martedi scorso -  domani sarà ancora protagonista alla Scala con la ripresa della sua Quartett del 2011).  

E Francesconi è al centro del Concerto, diretto dal giovane Michele Gamba (ascoltato con piacere settimane fa proprio alla Scala nell’Elisir, dove sarà anche questa sera) con due suoi brani scortati, in certo qual modo, da altrettante brevi composizioni di Gustav Mahler.

Devo ammettere e confermare che la musica di Francesconi purtroppo non riesce a convincermi. Per carità, massimo rispetto per la libertà di espressione e quindi lungi da me liquidare la questione impiegando l’ormai famosa espressione usata dal mitico Fantozzi a proposito della Corazzata Potiomkin, ma mi limiterò a prendere a prestito quella politically correct che - a suo tempo - proprio Gustav Mahler usò nei confronti della musica atonale di Arnold Schönberg (del quale peraltro difendeva a spada tratta il sacrosanto diritto ad esprimersi come meglio credeva): La sua musica non la capisco...

Ecco: se cerco di capirla, individuandone una qualche narrativa (o programma interno che dir si voglia, per i brani strumentali) non arrivo quasi a nulla (colpa mia, immagino...); e nel caso di testi musicati (come il Baudelaire di Etymo) non riesco proprio a trovare dei seri razionali che spieghino la connessione fra suono e parole. Queste opere mi paiono costruzioni magari genialoidi, ma piuttosto fredde (come le tecnologie che impiegano) troppo artefatte o eccessivamente volte all’effetto più che... all’affetto, ecco. E infatti meglio non va se provo a fruirne passivamente come si farebbe con un walzer di Strauss o un numero di balletto di Ciajkovski: zero stimuli, per dirla con Mourinho...

Adesso però sfido Ruben Jais (Direttore Generale nonchè Artistico de laVerdi) a smentire che l’impaginazione del concerto (Mahler1 - Francesconi1 /pausa/ Francesconi2 - Mahler2) sia stata dettata dalle stesse intenzioni che già 45 anni fa animavano i programmi concertistici scaligeri di Abbado: un famoso pezzo classico-romantico di apertura seguito dal brano contemporaneo (che il pubblico così era costretto ad ascoltare) e poi - dopo la pausa - un altro big dell’800. Assai più onesta l’impaginazione di un concerto cui assistetti negli anni ’80 a Monaco: Meerestille di Mendelssohn, Concerto per violino di Beethoven e, dopo la pausa, una sinfonia del Direttore-Autore Kurt Graunke. Residenz gremita qual uovo nella prima parte e letteralmente svuotatasi all’intervallo!

Ho sempre pensato anche che i primi entusiasti di musica come questa siano gli interpreti chiamati ad eseguirla. Sì perchè, oltre a poter sciorinare funambolismi tecnici che lasciano a bocca aperta, possono stare assolutamente certi che nessuno fra il pubblico (forse nemmeno il compositore in persona...) potrà mai prenderli in castagna per aver suonato/cantato un SI bemolle al posto di un SI bequadro! (Oh, dopodichè do per scontato che i ragazzi dell’Orchestra, il funambolo Jay e la bella Juliet non abbiano sbagliato una sola nota, sia chiaro.)
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Il Concerto per violoncello (tre movimenti canonici) che è stato eseguito per la prima volta in Italia (esordì circa 2 anni fa a Lucerna con lo stesso interprete, Jay Campbell) è intitolato Das Ding singt (la cosa canta, qualunque sia il riferimento alla cosa...) ma curiosamente proprio sul sito del compositore è presentato invece (quasi in Stabreim) come das Dingt singt, espressione guarda caso (!) priva di senso compiuto (Dingt non è sostantivo, ma forma verbale di Dingen, che significa mercanteggiare, o assumere): a meno di significanze recondite, parrebbe proprio un errore di stompa, il che però non fa onore a Francesconi, che evidentemente nemmeno controlla accuratamente ciò che pubblica (o che qualcuno gli pubblica) in web...  

Fossimo in ambito tonale, dovremmo parlare di un Concerto in SOL: nel primo movimento (fino a 7’31” nella citata registrazione) il solista (con sei altri celli schierati intorno, a tenergli bordone) esplora in sostanza la terza corda, una nota ostinatamente tenuta sulla quale cominciano a piovere svolazzi diversi che via via si intensificano e acutizzano fino a formare lingue di fuoco che fuggono verso l’alto (oh, questo ce lo vedo io, sia chiaro...) Il movimento centrale chiama in causa dapprima arpa e celesta, a creare atmosfere sognanti (su un sottofondo di LA) nelle quali il solista getta i suoi ghiribizzi, accompagnati da scrosci e urti delle percussioni. Si ascoltano per la verità anche alcune frasi melodiche e slanci lirici. A 13’52” ecco il movimento conclusivo, che ci riporta al sottofondo di SOL, dove il solista si produce in una cadenza liberamente presa (se lo dice l’Autore, bisogna credergli!) da una delle prime composizioni per violoncello, la Chiacona per basso solo di Giuseppe Colombi (metà del ‘600). L’atmosfera si va poco a poco surriscaldando, con i sette celli a rincorrersi fino a raggiungere un orgasmo sonoro in zona sovracuta, chiuso da un ultimo svolazzo quasi beffardo.

Come spesso accade, attorno a brani come questo nascono spiegazioni teorico-filosofico-scientifiche, che però invece di aiutare a comprendere rischiano di aumentare la confusione. Sentite ciò che scrisse Johannes Knapp (allora responsabile dell’Associazione Svizzera dei Musicisti) in occasione della prima del 2017:

Nella coda, i sette celli suonano nel loro registro più alto e alla massima velocità possibile, proprio al limite della pazzia. Un “insetto elettronico” è la definizione data dal compositore a questo veemente insieme di violoncelli, che assai presto collassa in rumore. Nulla in Das Ding suggerisce alcuna formula teorica di base. Francesconi parla di proprietà del suono che si possono attribuire ad un enigmatico concetto di filosofia e psicanalisi: l’Entità. Benchè Freud, Heidegger e molti altri abbiano riflettuto su ciò, noi nulla sappiamo di concreto di questa Entità. Queste proprietà esterne e mutevoli sono le uniche cose tangibili di essa. La sua intima essenza rimane, per contrasto, impenetrabile: un vuoto totale, un simultaneo tutto-e-nulla che, dice Francesconi, “nasconde in se stesso molti pericoli”. È il caos pieno di raggiante energia al quale il compositore cerca di avvicinarsi sia concettualmente che emozionalmente. L’arte è probabilmente l’unica via per comunicare direttamente con questa Cosa misteriosa. La musica rende udibile ciò che altrimenti non potrebbe essere udito.

Beh, non molto diversamente più di un secolo fa Mahler descriveva il processo creativo del musicista (come lui lo viveva): la musica rende percepibili quelle oscure sensazioni che non sarebbero altrimenti trasferibili all’ascoltatore; al quale non resterebbe quindi che affidarsi al rapsodo...

Ecco, per dire: io, se mi affido al rapsodo Mahler, qualche oscura sensazione credo di recepirla, nel senso che le mie corde interne vanno in risonanza con quella musica; se mi affido al rapsodo Francesconi, ahimè e ahilui... le corde restano quasi immobili.      
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Com’è andata? Il trio Francesconi-Campbell-Gamba si è preso la sua buona dose di applausi - se quelli al compositore siano convinti o di circostanza è sempre da stabilire - e il trentenne californiano si è confermato davvero un fenomeno di tecnica e virtuosismo. Ma da pari gli sono stati i sei moschettieri-violoncelli dell’Orchestra!
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Dopo la pausa, ecco Etymo II, rivisitazione del 2005 (con grande orchestra) di un’opera di 11 anni anteriore (Etymo) per soprano, elettronica assortita e piccolo ensemble. La materia prima che Francesconi impiega è costituita da testi presi da Baudelaire (Le voyage, L’albatros e Carnets intimes). Come spiega l’Autore, è un cammino in tre tappe (più un congedo) che ha come oggetto la parola (i minutaggi si riferiscono alla citata edizione di Etymo-1994): 1. allo stadio pre-verbale (pura fonetica); 2. (7’00”) verbale (linguistica); 3. (14’20”) post-verbale (poetica). Il congedo in prosa (24’03”) è... la morte.

Anche qui la mia personale impressione è che si tratti di un costrutto dove la tecnica e la... tecnologia prevalgono sull’ispirazione e la cui cerebralità finisce per costituire - sempre per me - una barriera alla piena fruizione del brano.

Juliet Fraser avrebbe una bella voce, solo che ieri il precario bilanciamento fra i fracassi dell’orchestra (colpa di Gamba?) e l’amplificazione (probabilmente insufficiente) della voce medesima ne ha parecchio compromesso l’efficacia.   

Come per il brano precedente, anche qui applausi e consensi, peraltro limitati ad un paio di chiamate.
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Il brano di chiusura si riallacciava in qualche modo al Baudelaire di Francesconi: là il Voyage terminava con l’incontro con la Morte; così come il Rückert di Ich bin der Welt abhanden gekommen è il poeta che si è isolato dal mondo e dai suoi... rumori (!)

Martin Hässler ne ha dato una lettura convincente: senza mai forzare la voce più di tanto, ha ben reso il carattere introverso e serenamente pessimista del Lied, parente stretto dell’Adagietto della Quinta. Caloroso successo anche per lui.
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L’apertura aveva visto il ritorno in Auditorium (dopo quasi sei anni) di Blumine, costola rimossa dalla prima versione del Titano. Ieri è toccato alla tromba di Antonio Signorile porgerlo con grande perizia ed eleganza. Adesso Jais potrà programmare un Titano originale in 5 tempi!
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Come detto, domani sera ancora Francesconi: servirà poi un antidoto...

25 settembre, 2019

Cartoline illustrate


Saluti da Valldemossa...




19 settembre, 2019

MITO-2019 - Chiusura milanese di Axelrod al Dal Verme


Ultima tappa del mio MITO-parcour milanese (con omaggio di T-shirt gentilmente offerto da uno sponsor) con John Axelrod che in un DalVerme gremito ha diretto la OSN-RAI in un programma classico-moderno, dove un lavoro di un maturo cinese contemporaneo (in prima italiana) si è inserito fra due opere del primo novecento.

Si è quindi aperto con Debussy e la sua Isle joyeuse, composta originariamente nel 1904 per pianoforte e successivamente (1917) orchestrata (col beneplacito dell’Autore) da Bernardino Molinari. Rispetto alla versione per la sola tastiera, quella orchestrata da Molinari presenta per ovvie ragioni sonorità più ricche e complesse (e un finale tardo-romantico); in compenso appare meno asciutta e impressionista. Tuttavia ad un ascolto superficiale si potrebbe tranquillamente credere trattarsi della scrittura orchestrale dello stesso Debussy.

Sono poco più di sei minuti che scorrono piacevolmente, come del resto suggeriscono il titolo dell’opera e l’ispirazione che Debussy ebbe dal quadro di Watteau, oltre a risvolti vagamente autobiografici (l’estate passata al mare con l’amante che diventerà la sua seconda moglie). Servono bene a scaldare i motori dell’Orchestra e... le mani del pubblico.
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Il 68enne cinese Qigang Chen (di lui si ascoltò in Auditorium anni fa un pezzo per violoncello e orchestra) è l’autore di Joye eternelle, un concerto per tromba e orchestra, ispirato ad un’antica melodia cinese, esposta all’avvio dal clarinetto:

Concerto composto per la famosa trombettista Alison Balsom e dedicato al maestro YU Long: dopo la prima in Cina, nel 2014, il lavoro venne eseguito a Londra (PROMS) nel luglio dello stesso anno, con gli stessi interpreti (Balsom e YU).

Qui ad interpretarlo per l’esordio italiano è stata un’altra rappresentante del gentil sesso, la 32enne norvegese Tine Thing Helseth, che - presentatasi a piedi nudi! - ha messo in mostra le sue eccezionali doti tecniche superando brillantemente le difficoltà di cui è popolato questo brano, rilevabili dall’esempio qui sotto:



Il finale è davvero pirotecnico e la simpatica Tine si merita ovazioni ripetute, che ricambia con un bis assai più... tranquillo.
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Chiusura con Mahler e la sua Quarta sinfonia. L’Orchestra la conosce evidentemente come le sue tasche e Axelrod, che con i nazionali-RAI ha un’antica consuetudine, va proprio sul velluto. Lui ci mette ovviamente del suo e devo dire con grande profitto, quanto a tempi e dinamiche sciorinati nei diversi scenari che la sinfonia propone.

Francamente mi sarei aspettato di più dalla Rachel Harnisch, che ha esposto con discreto portamento il Lied conclusivo, ma la voce è scarsina di decibel, specialmente nelle note gravi, davvero poco udibili. Ma il pubblico ha mostrato di apprezzare, richiamando ripetutamente al proscenio lei e il Direttore.

Per quanto posso giudicare dalla mia (scarsa) frequentazione di questo MITO, mi pare che abbia dato parecchie soddisfazioni al suo Direttore artistico, il valente Nicola Campogrande. Arrivederci (e risentirci) quindi al 2020!

16 settembre, 2019

laVerdi ha aperto alla Scala la stagione 19-20


laVerdi ormai da anni e anni è ospite della Scala per il Concerto inaugurale della stagione. La cosa si è puntualmente ripetuta ieri sera per la stagione 19-20. In un Piermarini abbastanza affollato, sul podio il Direttore musicale Claus Peter Flor e alla tastiera, per Mozart, Steven Osborne (due che hanno già avuto modo di collaborare in passato).

Ed è appunto con il Concerto K595 di Mozart (il suo ultimo per il pianoforte, composto a meno di un anno dalla scomparsa) che si è aperta la serata. Il 48enne scozzese lo ha interpretato con la grande sensibilità che lo contraddistingue (lui è un po’ anche... filosofo, si sente e si vede). Questo lavoro del Mozart tardo è per lui una specie di serena e disincantata meditazione sulla vita; e lui lo interpreta quasi sfiorando la tastiera, come a non voler infierire sullo strumento: un’esecuzione quasi sognante, che solo nella cadenza del Rondò ha qualche sussulto.
  
L’accoglienza è calorosissima e così lo schivo Steven ci premia con Beethoven: la 7ma bagatella, in LAb maggiore, dell’op.33, dove finalmente lui si può scatenare contro lo strumento, letteralmente aggredito!
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Dopo l‘intervallo ecco la Sinfonia per... batteria di Gustav Mahler (così battezzò la Quinta alle prime prove un’Alma piuttosto esterrefatta, riuscendo poi a convincere il marito a smagrire un filino le percussioni).

É tuttora diffuso il luogo comune che definisce questa sinfonia come l’abbandono del mondo del Wunderhorn, al quale apparterrebbero le tre precedenti, infarcite di Lieder (con voce o senza) provenienti dalla collana di vonArnim-Brentano, cui Mahler aveva dedicato grande attenzione nei suoi primi anni da compositore. La Quinta segnerebbe invece l’aprirsi di una nuova era nel mondo estetico mahleriano, come dimostrerebbero i riferimenti in essa contenuti a Lieder di Rückert, oltre che ad aspetti più strettamente legati alla forma (ad esempio l’impiego del Rondò). E le due successive sinfonie confermerebbero questa tesi.

Peccato che si tratti di una tesi ampiamente contraddetta proprio dai contenuti di questa Quinta, che accoglie spunti da Mahler messi su pentagramma già ai tempi della composizione di quei precedenti lavori. Tanto per cominciare, le terzine di trombetta che aprono la sinfonia avevano fatto una fugace comparsa nel primo movimento della Quarta; alla quale quindi rimandano scopertamente. La marcia funebre che apre l’opera è una riedizione della Totenfeier dalla quale sbocciò poi la Seconda Sinfonia. Lo Scherzo in RE maggiore fu pensato in origine come quinto movimento (sottotitolato Die Welt ohne Schwere, Il mondo senza peso) della Humoreske, che divenne appunto la Quarta sinfonia, immaginata quando ancora Mahler era alle prese con la sinfonia precedente!

Quanto ai Lieder, è vero che vi si trovano richiami e citazioni di Rückert (Nun will die Sonn’ e Ich bin der Welt abhanden gekommen) ma è anche vero che il quinto ed ultimo movimento cita esplicitamente Lob des hohen Verstandes (l’intelligenza di un... asino!) dal Wunderhorn; e poi, al numero 29 del rondò finale compare, negli strumentini, un inconfondibile inciso che viene direttamente da Revelge!

E ancora, la forma: la struttura in 5 movimenti richiama la versione originale della Prima, poi la Seconda e, per difetto, la Terza. Ai quattro movimenti della tradizione Mahler era già arrivato con la versione definitiva della Prima e con la Quarta, prima di tornarci con la Sesta e (surrettiziamente) con l’Ottava, mantenendo invece per Settima, Nona e Decima la struttura in 5 movimenti. E l’eterogeneità dei contenuti (bizzarra concatenazione tonale, irruzioni di motivi sguaiati, un corale, l’interminabile tiritera del corno obbligato) non si discosta certo da quella delle sinfonie precedenti...     

Insomma, suddividere la produzione di Mahler in blocchi chiusi è proprio fare un torto al compositore, che invece per l’intera sua opera ha seguito contenuti e strutture formali dettate esclusivamente dall’ispirazione, e da un approccio estetico-filosofico che non è mai mutato, tanto da far pensare ad uno sviluppo continuo, quasi che le dieci sinfonie (più il Lied von der Erde) costituiscano un unico, gigantesco e - a suo modo - coerente monumento sinfonico.
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Da ammiratore de laVerdi, ma avendo ancora nelle orecchie i suoni della Filarmonica di SanPietroburgo, confesso di aver temuto che il confronto ravvicinato con quei giganti mi creasse qualche... imbarazzo, ecco. Ma devo dire che Flor e i suoi hanno saputo fugare i miei timori. Beh, che in un’opera così ostica ci possa scappare qualche svirgolata (gli ottoni sono per loro natura soggetti a tali pericoli) è quasi pacifico, ma mi sento di dire che la prestazione nel suo complesso sia stata più che positiva: solo orchestre di alto livello sono in grado di reggere le difficoltà oggettive presentate da questa partitura. 

Flor già mi aveva convinto con la sua lettura di un paio d’anni orsono in Auditorium. E ieri l’impressione positiva è stata confermata in pieno: appropriati i tempi tenuti dal Direttore, interessanti le rese cameristiche di molti passaggi, come il taglio espressionista dato al tema del finale, tanto per citare esempi qua e là. E l’interminabile applauso ritmato che ha accolto l’esecuzione testimonia di come il pubblico l’abbia apprezzata assai.

15 settembre, 2019

MITO-2019 - Marin rimpiazza Temirkanov al Conservatorio


Altra stazione del MITO, in un Conservatorio stracolmo, dove purtroppo il venerabile Yuri Temirkanov, annunciato sul programma originario, ha dovuto dare forfait (ancora una volta... managgia, ma mica si può criminalizzare un 81enne dalla salute malferma se si vede costretto a disdire appuntamenti; o lo giudichiamo alla stregua di una qualunque starlette capricciosa che si prende gioco di tutto e di tutti?) sostituito dal solido, ma non ancora venerabile, austro-rumeno Ion Marin a dirigere i Filarmonici di SanPietroburgo.

Programma testa-coda: una prima italiana e una... millesima mahleriana.

L’apertura è stata però una... cerimonia: presenti la Presidente e il Direttore artistico del MITO, nonchè l’immancabile maieuta Gaia Varon, l’Assessore DelCorno ha infatti premiato il compositore James MacMillan con il prestigioso Sigillo della città, in omaggio al suo consolidato sodalizio con Milano. E proprio del compositore scozzese abbiamo ascoltato la prima italiana del Larghetto for Orchestra, trascrizione strumentale di un brano per coro a cappella del 2009 (originariamente dedicato al complesso londinese The Sixteen) intitolato Miserere (tratto dal Salmo 51). La strumentazione è del 2017 e fu dedicata al 10° anniversario di Manfred Honeck come guida della Pittsburgh Symphony, dei quali si può apprezzare proprio la prima esecuzione (suggerisco di scaricare l’mp3 per poi ascoltarlo su iTunes o altro player).

Mentre il Miserere può essere scambiato - ad un ascolto naïf - per gregoriano o fiammingo, il Larghetto, introducendo modiche dosi di armonia, si presenta quasi come un lavoro di primo-novecento, sospeso fra diatonismo e atonalità. Lo schema che segue consente di allineare i versi del Miserere al Larghetto: i tempi indicati si riferiscono alla citata esecuzione di Honeck a Pittsburgh.

Larghetto
Miserere
21”
.
1’11”
.
2’02”
.
2’40”
.
3’40”
.
4’22”
.
5’08”
.
5’50”
.
6’28”
.
7’04”
.
7’34”
.
8’01”
.
8’32”
.
9’42”
.
10’06”
.
10’41”
.
11’18”
.
11’57”
.
12’39”
.
13’31”
.
Miserere mei, Deus,
secundum magnam misericordiam tuam.
Et secundum multitudinem miserationum tuarum,
dele iniquitatem meam.
Amplius lava me ab iniquitate mea:
et a peccato meo munda me.
Quoniam iniquitatem meam ego cognosco:
et peccatum meum contra me est semper.
Tibi soli peccavi, et malum coram te feci:
ut justificeris in sermonibus tuis, et vincas cum judicaris.
Ecce enim in inquitatibus conceptus sum:
et in peccatis concepit me mater mea.
Ecce enim veritatem dilexisti:
incerta et occulta sapientiae tuae manifestasti mihi.
Asperges me hyssopo, et mundabor:
lavabis me, et super nivem dealbabor.
Auditui meo dabis gaudium et laetitiam:
et exsultabunt ossa humiliata.
Averte faciem tuam a peccatis meis:
et omnes iniquitates meas dele.
Cor mundum crea in me, Deus:
et spiritum rectum innova in visceribus meis.
Ne projicias me a facie tua:
et Spiritum sanctum tuum ne auferas a me.
Redde mihi laetitiam salutaris tui:
et spiritu principali confirma me.
Docebo iniquos vias tuas:
et impii ad te convertentur.
Libera me de sanguinibus, Deus, Deus salutis meae:
et exsultabit lingua mea justitiam tuam.
Domine, labia mea aperies:
et os meum annuntiabit laudem tuam.
Quoniam si voluisses sacrificium, dedissem utique:
holocaustis non delectaberis.
Sacrificium Deo spiritus contribulatus:
cor contritum, et humiliatum, Deus, non despicies.
Benigne fac, Domine, in bona voluntate tua Sion:
ut aedificentur muri Jerusalem.
Tunc acceptabis sacrificium justitiae, oblationes, et holocausta:
tunc imponent super altare tuum vitulos.

Brano davvero di grande effetto, che i sanpietroburghesi hanno perfettamente introiettato per poi restituirlo ad un pubblico che ha ascoltato in religioso silenzio, prorompendo alla fine in un calorosissimo applauso: per gli esecutori e per l’Autore, tornato sulla ribalta a ringraziare.
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La super-inflazionata Titan-Sinfonie ha poi chiuso la parte ufficiale della serata. A partire dalla Mahler-renaissance del dopoguerra, chissà quante volte le pareti della vetusta Sala Verdi hanno accolto e riverberato i Naturlaute e i fracassi di quest’opera... ricordo personalmente un’esecuzione degli anni ’70, con l’Orchestra RAI-MI e un ventenne israeliano di belle speranze (quel Daniel Oren che in questi giorni è protagonista del Rigoletto alla Scala) dirigerla danzando sul podio come un orso da circo ed accompagnandola con rantoli e urla strozzate! 

Ieri sera i Filarmonici-della-Neva, pur orfani del loro condottiero, hanno offerto una prova magistrale: grazie ai buoni uffici del compassato ma un po’ gigionesco Marin, naturalmente, ma soprattutto - credo io - alla loro perfetta intesa, che li fa assomigliare ad una macchina (come si cerca di fare oggi nel campo automobilistico) che sa perfettamente districarsi da sola anche in mezzo al traffico più caotico! Insomma: difficile stabilire il nesso causa-effetto fra i suoni prodotti dall’Orchestra e le mossette del Direttore... 

Trionfo assicurato e congedo con un Brahms ungherese

14 settembre, 2019

Scala: un Rigoletto accademico.


Ieri sera alla Scala terz’ultima recita dell’ultima (per la stagione) puntata del Progetto Accademia, con il Rigoletto di Nucci-Oren (i due tutor che Pereira ha affiancato per l‘occasione ai giovani accademici).

Teatro pieno se non strapieno (la sesta di Rigoletto-Nucci batte anche la prima di Elisir di parecchie decine di posti...) per questa decima consecutiva (!) ripresa dello spettacolo di Gilbert Deflo, dopo il debutto nell’ormai giurassico 1994: altro che museo! Personalmente ho visto solo 3 di queste 10 riprese e devo dire che non mi sono per nulla annoiato, pur ricordando quasi nei dettagli tutto ciò che scorre in scena: l’interesse (come è naturale, credo, trattandosi di teatro musicale) è per ciò che arriva alle orecchie e l’occhio non se la prende troppo se l’eccipiente è sempre lo stesso.

Nulla scrivo quindi della (lodevole, come ormai assodato da decenni) regìa, e passo direttamente ai suoni. Tenendo ovviamente presente che il grosso degli interpreti è rappresentato da allievi dell’Accademia, e non da navigati frequentatori di buca e palco della Scala.

Le due eccezioni (i fuori-quota, haha!) devono aver fatto un buon lavoro sui giovani, a giudicare dai confortanti risultati dell’impresa. E arrivo quasi a dire che gli allievi abbiano superato i maestri... Perchè Nucci sarà sempre (per altri 500 Rigoletti) un Rigoletto carismatico, però ormai declama più che cantare e le note di arrivo di intervalli ascendenti le prende con un semitono, minimo, di avvicinamento: il che è francamente tipico di schiamazzi da osteria e lascia una sgradevole impressione (per la cronaca: niente bis vendicativo... meglio così). Quanto ad Oren, ora che ha passato abbondantemente i 60, non emette più grugniti da scimpanzè, nè prende il podio come un tappeto elastico, però la sua concertazione mi è parsa un tantino approssimativa, ecco.

Gli allievi sono tutti da elogiare, se non altro per non essersi fatti attanagliare dall’emozione: è evidente che debbano ancora studiare assai per aspirare a salire in SerieA. In particolare i due deuteragonisti Rodrigo Porras Garulo e Francesca Manzo sembrano promettere bene: lui ha una voce da lirico che forse si adatta meglio a un certo Rossini; lei pure tende a volte a pigolare, ma ha anche staccato un paio di acuti non disprezzabili. Gli altri, così come il coro di Salvo Sgrò, non hanno affatto sfigurato.

Bene anche l’Orchestra, che Oren ha gestito con prudenza, salvo pochi sconfinamenti nel fracasso gratuito.

Successo calorosissimo (un po’ meno per Oren) non sai se dettato da... superficialità di un pubblico di turisti o da comprensibile atteggiamento incoraggiante verso questi giovani virgulti. Pereira - conti alla mano - credo stia gongolando.

12 settembre, 2019

MITO-2019 - Chung-Romanovsky agli Arcimboldi


Ieri sera il vasto anfiteatro degli Arcimboldi - riempito più di un uovo! - ha ospitato la Filarmonica scaligera per un concerto tutto russo. Sul podio il redivivo orientale-estremo Myung-Whun Chung e alla tastiera l’orientale-semplice (ma svezzato qui da noi, nel bolognese) Alexander Romanovsky.

É curioso ricordare il diverso atteggiamento tenuto (ai suoi tempi) verso i due brani in programma da tale Gustav Mahler. Il quale, nel 1911 a New York, si adoperò allo spasimo per ribadire il successo al nuovissimo Terzo concerto di Rachmaninov con la NY Philharmonic, un paio di mesi dopo la prima eseguita dalla NY Symphony con Damrosch sul podio. Lo stesso Autore (e interprete) rimase stupefatto dal rigore e dal perfezionismo di Mahler, che non esitò a strapazzare gli orchestrali, costringendoli ad un super-lavoro nelle prove per raggiungere l’eccellenza nell’esecuzione.

Ecco invece come lo stesso Mahler, nell’estate di 10 anni avanti, a Vienna, aveva descritto a Guido Adler la Patetica ciajkovskiana:

Si tratta di un lavoro superficiale e senza profondità. Anche il colore dovrebbe darci qualcosa di più di se stesso, altrimenti rimane un mero ornamento e polvere negli occhi! Osservandolo da vicino, non ne resta poi gran cosa. Questi arpeggi, che vanno dal grave all’acuto, queste concatenazioni armoniche insignificanti non possono dissimulare il vuoto e l’assenza di invenzione.

Apperò!
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Dopo il consueto pistolotto (in senso non salviniano!) della maestrina Gaia Varon, che è incorsa in un tipico lapsus da lateral-thinking (attribuendo l’idea di appiccicare alla Sesta il titolo di Patetica a Modest... ehm, Musorgski) il 35enne ukraino si è quindi cimentato con il famigerato Rach3, da lui caricato di tutto il possibile tardo-decadente-romanticismo, che da sempre suscita nel pubblico e nei critici ampie divisioni, fra ammiratori estasiati e detrattori nauseati. Ma il ragazzo (non sembra cambiato molto dal lontano 2001 quando si impose al Premio Busoni) ha una tal carica espressiva, coniugata con una innata modestia (temprata dagli anni duri che lui e famiglia passarono dopo l’emigrazione) da garantirsi un successo clamoroso e ripetute chiamate, alle quali risponde dapprima con un altro Rachmaninov e poi con un Bach... adulterato!      
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Chiusura quindi in grande con la Patetica, dove Chung ha avuto modo di smentire ampiamente il velenoso giudizio di Mahler, mettendo in risalto di questa ormai inflazionata partitura il carattere di sguardo-all’indietro (come sarà, ma guarda un po’ la nemesi, la Nona mahleriana) a ripercorrere una vita artistica accidentata e costellata di grandezze - lo spontaneo applauso arrivato alla fine dell’Allegro molto vivace ne è stato testimone - e di miserie, destinata inesorabilmente a chiudersi nel silenzio, dopo le ultime battute della triade di SI minore esalate dagli archi bassi, sull’indicazione Molto ritenuto (e non... Morendo, come la simpatica Gaia ha inventato, anche qui parlando di Mahler!)   

Pubblico entusiasta e prodigo di battimani e ovazioni per Direttore e Professori.

11 settembre, 2019

Un frizzante Elisir mette la Scala di buonumore.


Sarà forse perchè i contestatori seriali delle prime hanno prolungato le vacanze, fatto sta che L’elisir d’amore andato in scena ier sera al Piermarini (peraltro con diverse poltrone vuote in platea...) è stato accolto con pieno consenso di pubblico, senza se e senza ma. Intendiamoci, nulla di storico o di strabiliante, ma uno spettacolo che nel complesso si è rivelato di buon livello, in tutte le sue componenti: voci, orchestra e allestimento.

Allestimento di Grischa Asagaroff già ampiamente e positivamente collaudato alla sua comparsa nel 2015, con le poetiche e favolistiche scene e gli sgargianti quanto esilaranti costumi di Tullio Pericoli, il tutto sapientemente illuminato da Hans-Rudolf Kunz.

Alla grande come sempre il Coro di Mario Casoni, che Donizetti qui impegna corposamente ad interloquire con i protagonisti, o a creare le tipiche atmosfere contadine in cui prende piede la patetica vicenda di Nemorino e Adina.

E i protagonisti di questo lieto fine hanno riscosso un caloroso consenso di pubblico: lo yankee René Barbera per la sua voce squillante che ha messo al servizio del rustico e ingenuo personaggio, prestazione culminata con un trionfo dopo la Lagrima; la casertana Rosa Feola (non proprio impeccabile soprattutto nelle note gravi) per la civetteria e la verve di cui ha ricoperto la sua parte di ragazza un po’ viziatella ma alla fine... innamorata.

Ambrogio Maestri sembra nato per parti come questa di Dulcamara (o di Schicchi o Falstaff): le fa con tanta efficacia che poi rischia di... compromettere personaggi seri o truci come Amonasro, per dire. Per lui, ormai beniamino della Scala e deus-ex-machina della vicenda, accoglienza poco meno che trionfale.

Discreto anche Massimo Cavalletti, efficace nell’impersonare il tronfio Belcore: qualche forzatura di tono magari poteva essere evitata.

L’accademica Francesca Pia Vitale ha dignitosamente interpretato Giannetta, un ruolo tutt’altro che di contorno.

Per tutti, incluso il mimo Stefano Guizzi (tirapiedi di Dulcamara) applausi e bravo! si sono sprecati.

Positivo anche il ritorno sul podio del 35enne Michele Gamba, che ha guidato un’orchestra in gran spolvero (qualche eccesso di decibel si può perdonare, e comunque non è mai andato troppo a discapito delle voci) e concertato con cura e precisione singoli e masse sul palco (lavorare con gente come Pappano e Barenboim evidentemente fa bene alla salute!) Lo si rivedrà nel sinfonico, il 3 ottobre in Auditorium quando inaugurerà Milano Musica con laVerdi in Francesconi e Mahler.

Come ripeto: tutto sommato una serata più che positiva.

04 settembre, 2019

A Rimini un po’ di Rotterdam


Il glorioso e centralissimo Teatro Amintore Galli di Rimini - che aveva ospitato nel 1857 la prima rappresentazione nientemeno che di un’opera di Giuseppe Verdi (Aroldo) - a seguito dei bombardamenti della seconda guerra mondiale era caduto praticamente nel dimenticatoio. Fino a quando (pochi mesi orsono) è finalmente stato riportato al suo antico splendore: Cecilia Bartoli lo ha re-inaugurato nell’ottobre 2018.

Così ora può ospitare, oltre a rappresentazioni di opere, anche i concerti della Sagra musicale malatestiana (arrivata quest’anno alla 70ma edizione) che si tenevano tradizionalmente nelle sale alquanto anonime dei Palazzi dei Congressi (vecchio e poi nuovo) della periferica via della Fiera. Quest’anno la Sagra ha già ospitato Riccardo Muti (spostatosi di pochi chilometri dalla sua casa di Ravenna) e la London Symphony con Simon Rattle.

Ieri sera è stata la volta della prestigiosa Rotterdam Philharmonic, in tournèe estiva, proveniente da Gstaad e poi diretta (domani) a Verona ad offrire ad un pubblico folto quanto entusiasta un interessante programma otto-novecentesco.

Lahav Shani, trentenne israeliano pupillo di Mehta, fresco di nomina a Direttore musicale dell’Orchestra - uno che dirige fcendo uso assai parco della mano sinistra - ha presentato dapprima le musiche dallo stravinskiano Petruška, che hanno consentito ai professori della sua Orchestra di mettere in luce le loro grandi qualità, i fiati e le percussioni in particolare.

Poi la bella e brava 33enne violinista norvegese Vilde Frang ha interpretato quell’autentico distillato e concentrato di romanticismo virtuosistico che risponde al nome di Concerto op.26 di Max Bruch. E lei ne ha fatto emergere proprio il lato più dolciastro (detto nel bene e nel male) mentre Shani, quando era l’Orchestra a prendere la scena, ha un po’ troppo esagerato con il fracasso. Ma il successo non è mancato e i due protagonisti si sono poi esibiti in un bis di duo piano-violino.

Ha chiuso la serata ufficiale il Walzeraccio di Ravel, dove ancora Shani ha lasciato briglia sciolta all’Orchestra, davvero compatta e dal suono tagliente, proprio adatto ad esaltare le impertinenze di questa bizzarra partitura raveliana. Per mandarci a letto contenti, l’Orchestra ha offerto una bis... sognante.

Fra poche settimane toccherà a Jordi Savall, che proporrà un insolito - fino a poco tempo fa, per lui - programma beethoveniano: 3-5; e poi - a dicembre - alla Santa Cecilia (con Dudamel) chiudere il ciclo dei 5 concerti sinfonici della Sagra-70.

24 agosto, 2019

ROF-XL live: chiude Demetrio & Polibio


Ieri sera il ROF-XL ha chiuso i battenti, in un Teatro Rossini abbastanza affollato, con la quarta recita di Demetrio&Polibio. Produzione ripresa da Alessandra Premoli da quella originale del 2010, ideata da Davide Livermore.

Un allestimento bizzarro assai, ambientato nel retro-scena di un teatro, ingombro di bauli, macchine di scena e di centinaia di costumi appesi sull’intera altezza. In più, le magie di Alexander (specchi che si animano, fiamme che vagano nello spazio o che si accendono in mano ai personaggi) e lo sdoppiamento degli stessi, che hanno sempre un mimo alter-ego che li segue ovunque, apparendo e scomparendo magicamente. Costumi (dell’Accademia di Urbino, come le scene) più da farsa che da dramma serio quale l’opera pretenziosamente venne presentata dai Mombelli e musicata dal Rossini ancora ragazzino. Efficaci le luci (e i... bui) di Nicolas Bovey. Uno spettacolo comunque godibile, che già a suo tempo trovò giustificazione nell’approccio low-cost imposto dalle circostanze.

Se però nel 2010 anche il cast era, diciamo così... da discount (senza offesa per alcuno, s’intende, e detto da uno che i discount li apprezza assai) in questa ripresa non si è badato a spese: a cominciare dalla presenza della star Jessicona Pratt, che è tornata al ROF dopo 4 anni e ha trascinato all’entusiasmo i suoi numerosi fan.

Da validissime spalle le hanno fatto Juan Francisco Gatell e la mia conterranea benacense Cecilia Molinari, entrambi alla loro terza presenza nel cartellone principale del Festival. E Carlo Fassi, esordiente al ROF ma già passato da teatri importanti (Scala, Carlo Felice, Vienna...)

Fra i momenti salienti dell’esibizione canora ricorderò la bellissima Pien di contento in seno (Molinari) poi il rapinoso duetto Odio, furor, dispetto (Fassi e Gatell); quindi la Pratt in Alla pompa già m’appresso e (con la Molinari) nell’ispirato duetto Questo cor ti giura amore; ancora la Pratt alle prese con i virtuosismi di cui è costellata Sempre teco ognor contenta. Gatell convince nell’impegnativa aria con coro All’alta impresa tutti, e a chiusura del primo atto ecco la coppia Pratt-Gatell con Ohimè, crudel, che tenti, prima del grande concertato di chiusura.

Nell second’atto da rimarcare Come sperar riposo (Fassi) e il successivo duetto con Molinari Venite, o fidi miei. Poi il grande quartetto Donami omai Siveno. Una vera perla è l’aria davvero irta di difficoltà e costellata di acuti (Superbo, ah tu vedrai) dove la Pratt si ritrova proprio... a casa sua, suscitando entusiasmi.

Infine è sempre alla Pratt cui tocca ancora di aprire il coro finale (Quai moti al cor io sento) sul quale si chiude in bellezza.

Aggiungo lodi per i 20 componenti del coro di Mirca Rosciani  e per i ragazzi della Filarmonica Rossini, che Paolo Arrivabeni ha guidato con leggerezza e leziosità proprio... settecentesche.

Trionfo per tutti, con ripetute chiamate e ovazioni per i quattro protagonisti e per Arrivabeni e Rosciani.
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Ecco, anche per quest’anno, alle 22:38, il vetusto portone ligneo del Teatro Rossini si è chiuso sul ROF. In attesa di riaprire il giorno 8 agosto 2020 (ma sarà poi così... anche lo scorso anno la data annunciata fu quella, ma poi si è iniziato l’11) per l’edizione icsli (?!) che ci propinerà Moïse et Pharaon (allestito da Pier Luigi Pizzi, ieri sera in platea per... imparare il mestiere, haha) Elisabetta e Cambiale. E magari... un’altra crisi di governo balneare, perchè no?