ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

14 giugno, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°32


L’ultimo concerto della stagione 18-19 è affidato al redivivo Hannu Lintu, tornato sul podio dell’Auditorium dopo tre anni per proporci due celeberrimi brani composti a cavallo tra ‘800 e ‘900.

Ad interpretare il primo, il Concerto per violoncello di Dvořàk è il sommo Giovanni Sollima, il cui sito web è davvero lo specchio del suo eclettismo (!) Ma lui è anche (e soprattutto) capace di succhiar fuori dal suo Ruggieri-1679 suoni che paiono arrivare dalle profondità dello spazio siderale, che è come dire... dal paradiso! E ieri sera è stato davvero superlativo, così come apprezzabile è stato il contributo di Direttore e Orchestra (ai quali si può muovere l’appunto di qualche dinamica troppo spinta che ha talvolta sommerso il solista...)

A lui questo amabile Dvořàk deve fare solo il solletico se, finito tra applausi e ovazioni il concerto, si è esibito in ben tre encore, due immersi nella sua modernità e il terzo nello zen (parole sue) del Preludio alla Prima suite in SOL di Bach.
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Infine lo stravinskiano Sacre, che dopo più di un secolo (precisamente 106 anni!) ancora non cessa di scandalizzare, con le sue sonorità barbariche, le sue dissonanze, poliritmie e politonalità. Confesso che ogni volta che mi preparo ad ascoltarlo mi rivedo quella straordinaria lezione di Lenny Bernstein ad Harvard su Stravinski, illuminante come poche. Come trascinante è questa sua interpretazione con la LSO, che ci serve da guida per l’esplorazione di questo incredibile capolavoro.
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Parte I - Il bacio della terra

(48”) Introduzione. Il fagotto, nel registro sovracuto, intona una mesta melopea di origine popolare lituana (Tu, mia piccola sorella) poi raggiunto da clarinetti, clarinetto piccolo, clarinetti bassi, corno inglese, corni. Sembra di assistere per suoni al risveglio della natura, un indistinto Waldweben pagano, che si ingrossa sempre più con l’intervento degli archi, mentre i legni emettono ad intermittenza improvvisi fruscii. A 3’28” si fa improvvisamente silenzio, il fagotto torna per tre battute a far udire la sua melopea. Ancora fremiti di clarinetti e clarinetto basso, quindi i violini attaccano una scansione di semicrome in pizzicato che prepara il terreno per...

(3’59”) Auspici di primavera - Danza delle adolescenti. È il primo momento in cui incontriamo due delle componenti caratteristiche dell’opera: il ritmo e la politonalità. Qui siamo ancora alla regolare monoritmia, ma nel seguito Stravinski si sbizzarrirà in fantastiche, incredibili poliritmie. Tuttavia alla regolare scansione di crome il compositore associa subito secchi accordi di otto corni (più avanti anche di ottavino e clarinetto piccolo) che rompono la simmetria del discorso, creando un’atmosfera di grande instabilità. Quanto ai barbari strappi negli archi, come ben avverte Bernstein, non si tratta di note buttate lì a casaccio, ma della sovrapposizione di due chiari e precisi accordi (bitonalità): settima di dominante sul MIb in violini e viole; triade perfetta di MI (FAb) maggiore in celli e bassi. E gli strappi degli otto corni sovrappongono parimenti quegli stessi accordi. Subito dopo (4’09”) ecco la tri-tonalità: corno inglese (settima di dominante sul MIb); fagotti (triade perfetta di DO maggiore) e celli (triade perfetta di MI maggiore)! Più avanti ecco nel corno (5’40”) il motivo legato alle fanciulle che si mettono a danzare e quindi nelle trombe (6’16”) un anticipo delle successive Carole di primavera. La danza cresce fino a sfociare direttamente nel successivo...    

(7’15”) Rituale del rapimento. L’atmosfera si surriscalda, i ritmi si accavallano, siamo in presenza di una vera caccia ad una preda che fugge a rotta di collo, inciampando ripetutamente su ostacoli del terreno, con cani che la inseguono senza tregua, fino al momento della... cattura!

(8’29”) Carole di primavera. Sui trilli dei flauti il clarinetto piccolo e quello basso espongono una melodia che fu presa da Stravinski dallo stesso album di folclore lituano (trovato a Varsavia) da cui trasse l’assolo iniziale del fagotto. A 8’55” il tempo si fa pesante e a 9’32” ecco tornare il tema della danza delle adolescenti, poi ancor più appesantito, se possibile (10’25”) finchè si arriva (11’07”) ad un’orgiastica esplosione dell’intera orchestra che infine si acqueta (11’23”) con il ritorno alla tranquillità originaria e la ripresa in flauto e clarinetto piccolo della melodia lituana che aveva aperto la sezione.

(11’55”) Rituali delle tribù rivali. Qui diverse sezioni dell’orchestra evocano il fronteggiarsi di tribù rivali, con furibondi interventi dei timpani a scandire il truce rituale. Vi risentiamo anche un tema preso dal precedente Rituale del rapimento. Alla fine tutto si acqueta e ci si prepara al successivo...   

(13’44”) Corteo del vecchio saggio. Questa è la sezione dove Stravinski, oltre alla politonalità negli ottoni, inventa una strepitosa poliritmia nell’intera orchestra: a 14’01” su un metro-base di 6/4 innesta una serie di ritmi in 2, 3, 4 e 8 che evocano davvero un corteo di persone ciascuna delle quali (un diverso strumento dell’orchestra) procede con un suo proprio passo!

(14’19”) Adorazione della terra del vecchio saggio. É una breve pausa: il vecchio saggio si china e bacia la terra.

(14’42”) Danza della terra. È un’atmosfera davvero indiavolata (incluso il diabolus-tritono DO-FA# negli ottoni) caratterizzata da un basso ostinato che esplora - altra trovata di Stravinski - una scala a toni interi (DO-RE-MI-FA#-SOL#-SIb). Ci conduce vorticosamente alla repentina chiusura della prima parte dell’opera.   


Parte II - Il grande sacrificio

(16’28”) Introduzione. È un’atmosfera ovattata e misteriosa quella creata da Stravinski per introdurre la seconda parte dell’opera. Vi emergono isolati interventi della tromba. A 20’36” sono i corni ad introdurre tematicamente i successivi...

(21’21”) Cerchi misteriosi delle adolescenti. Gli archi, divisi in ben 13 parti, espongono un motivo creando un’atmosfera religiosa che a 21’46” si agita improvvisamente: il flauto in SOL vi inserisce una melodia dall’andamento irregolare (3, 2, 4 quarti) poi ripresa gradualmente dal resto dell’orchestra. A 22’30” si torna al tempo iniziale e risentiamo nei flauti un motivo udito nei corni nel precedente Rituale del rapimento. A 23’03” i corni riprendono il tema iniziale, intercalati dagli archi e poi dai legni. A 24’08” una decisa accelerazione porta all’ultima battuta della sezione, chiusa brutalmente da un accordo di 9 delle 12 note della scala cromatica (escluse SIb, SI e DO#) ribattuto per 13 volte da timpani e archi (più la grancassa).

(24’25”) Glorificazione della prescelta. Qui troviamo praticamente tutto l’armamentario che Stravinski ha impiegato nel Sacre: mutamenti di tempo, poliritmia, politonalità, scale esotiche... insomma il paganesimo allo stato puro! E non per nulla l’Autore la battezzò Danza selvaggia!

(25’58”) Evocazione degli antenati. Qui abbiamo praticamente soltanto un susseguirsi di stentorei accordi dell’intera orchestra, ma su un tempo continuamente variabile, da 3/2 a 2/2, da 3/4 a 2/4, che pare rappresentare una processione sghemba e ordinatamente disordinata!  

(26’52”) Azione rituale degli antenati. Su un pesante accompagnamento di semiminime di archi, corni e percussioni, il corno inglese emette una serie di lamenti, imitato poi da flauto contralto e clarinetto. Lo stesso flauto in SOL (27’43”) attacca un lungo lamento sul quale le trombe con sordina espongono un nuovo tema, ribadito ancora a 28’25” e poi a 29’04”, prima che l’atmosfera si tranquillizzi (29’19”) e i legni conducano verso la finale...  

(30’02”) Danza sacrificale (La prescelta). La fanciulla destinata al sacrificio si immola per fertilizzare la terra con una danza che ne consuma ogni energia, fino a toglierle anche l’ultima stilla di vita. A prima vista si stenterebbe a crederlo, ma il finale di questo pezzo barbaro ha nientemeno (!) che la macro-struttura di un Rondò (A-B-A-C-A). Il ritornello A apre la danza, concitato quant’altri mai, pieno di sincopi che tolgono il respiro. Poi (30’27”) ecco la strofa B, meno agitata, ma più martellante e con successive irruzioni spiritate di tromboni, trombe, ottavino, clarinetto piccolo e corni. Dopo un vigoroso crescendo, a 31’24” B si ripresenta in forma variata, ancora con irruzioni delle trombe. A 31’49” torna il ritornello A, al quale segue (32’14”) la seconda strofa C, caratterizzata da ampio uso di percussioni e con ritmo più largo, sul quale si dispiegano le linee degli ottoni e all’interno della quale rifà fugacemente capolino A, in forma abbreviata. A 33’19” attacca l’ultima parte, dove appaiono in realtà tutti i tre motivi del rondò, fino al drammatico schianto conclusivo.
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LaVerdi ha eseguito il Sacre almeno in una decina di stagioni, ultimamente con D’Espinosa, Bignamini e Axelrod, quindi non meraviglia che anche ieri abbia dato il meglio per valorizzare questo capolavoro. Non meraviglia, ma lascia sempre pienamente soddisfatti dell’esecuzione. Lintu ha tenuto in pugno - oltre che sotto gli occhi - questa sbifida partitura e, insieme ai ragazzi, ne ha cavato tutti i tesori, ricevendo dal folto pubblico applausi convinti e pure ritmati.

Ora si apre la stagione estiva dell’Orchestra che - abbandonate le infradito - tornerà ad indossare il frac in prossimità dell’autunno con l’ormai tradizionale Concerto inaugurale alla Scala.

11 giugno, 2019

Una masnada si prepara a mettere il Piermarini a ferro-e-fuoco


Dopo più di 41 anni la Scala ripropone fra qualche giorno una delle opere brutte (© Massimo Mila) di Giuseppe Verdi. Guarda caso a dirigerla nel lontano 1978 - con unanimi apprezzamenti di pubblico e critica - fu l’attuale Direttore Musicale (!) Che in questa occasione cede la bacchetta ad un (relativamente, ormai, a 40 anni) giovane, rispondente al nome di Michele Mariotti. David McVicar firma la regìa dello spettacolo.
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Questo olio su tela (di autore anonimo) raffigura Friedrich Schiller mentre legge ad alcuni amici, in un luogo segreto, nel 1781, il suo dramma Die Räuber.


Beh, l’atmosfera carbonara potrebbe benissimo applicarsi alla seconda scena dell’opera, laddove un invasato Carlo, lettera del fratello in mano, si auto-proclama - cantando una smaccata cabaletta, Nell’argilla maledetta - capo della masnada!

Il raffinatissimo cavalier Andrea Maffei (il cui cenacolo culturale, condiviso con la moglie Clara, aveva contribuito non poco a promuovere Verdi sulla piazza milanese) aveva appena finito di tradurre il dramma in prosa (con parti versificate) di Schiller quando Verdi gli commissionò il libretto dell’opera. Il soggetto è di quelli davvero al limite dell’assurdo (proprio un’enormità da Sturm-und-Drang) tanto che lo stesso Schiller in seguito ebbe quasi a vergognarsene, arrivando ad auto-sbeffeggiarsi (... produssi un mostro che, per buona sorte, non è mai esistito al mondo.)

In effetti i masnadieri di cui Carlo si mette a capo poco o nulla hanno a che fare con movimenti politico-rivoluzionari (tipo brigate-rosse, per dire, o anche ISIS) nè con organizzazioni di stampo mafioso, nè - a dispetto del titolo schilleriano - con fenomeni di comune brigantaggio. Si tratta invece di sbandati-plebei che uno sbandato-nobile organizza in banda armata con l’unico fine - quasi goliardico, non ci fosse di mezzo il sangue - di far casino, sfogando la propria rabbia contro l’universo intero! Ammazzando, rubando, stuprando, incendiando e così via terrorizzando, in un’autentica miscela di anarchismo e nichilismo autodistruttivi.

E qual è stata la molla che ha spinto Carlo ad una tale iniziativa? L’essere stato di fatto ripudiato e diseredato dal padre Massimiliano (plagiato attraverso un intervento criminoso dal fratello minore, l’invidioso, deforme, cinico e malvagio Francesco) a causa di proprie giovanili scapestrerie (per usare la colorita definizione datane da Mila; invero delle smargiassate sesquipedali, come quella ricordata nella seconda scena del dramma, compiuta a Lipsia e avente a pretesto il moribondo mastino di Carlo); e aver di conseguenza perso anche l’amata Amalia.

Certo, si dirà che anche oggi assistiamo a fenomeni simili - i gratuiti ammazzamenti che si registrano in scuole, chiese e uffici - che curiosamente avvengono proprio nel Paese che nella sua Dichiarazione di Indipendenza (secondo paragrafo) propugna il perseguimento della felicità per l’individuo; ma lì si tratta, appunto, di reazioni individuali (e per lo più suicide) a presunte ingiustizie subite. Schiller invece ci inventa sopra un fenomeno di massa, inesistente ai suoi tempi: siamo di fronte ad un’accozzaglia di individui sfigati che si organizza militarmente, non già per cercare di sovvertire il potere costituito che sarebbe plausibilmente accusabile di produrre, appunto, le loro disgrazie... ma per abbandonarsi ad azioni ciecamente e sconsideratamente violente, che finiscono oltretutto per penalizzare, quali vittime, proprio povera gente come loro! Un fenomeno che potrebbe caso mai (dò un’idea gratis al regista...) aver qualche lontana parentela con i moderni black-bloc (che peraltro si pongono - con le loro azioni violente - obiettivi comunque politici).  

Dopodichè, per dare alla sua inverosimile storia anche un sapore maieutico, ecco che Schiller ci propina un finale ancora più inverosimile. Venute meno le ragioni della sua originaria sfiga (con l’auto-punizione del fratello ingannatore e il ricongiungimento con padre e amata) il protagonista Carlo pare per un attimo rinsavire, trovare pace e perdono nelle braccia di Amalia. Ma sono i suoi masnadieri a richiamarlo al... dovere, reclamando il suo ritorno alla loro guida, in cambio di tutti i sacrifici sopportati e delle ferite da loro subite in nome suo! E allora Carlo che fa? Morto nel frattempo di crepacuore il padre, accontenta Amalia (che si vuole morta piuttosto che privata di lui) con una precisa pugnalata al cuore; e infine va a costituirsi alla giustizia, ma non senza prima compiere un’ultima (o prima?) opera di bene: farsi consegnare ai gendarmi da un povero padre di 11 figli, in modo da procurargli i 1000 Luigi d’oro della taglia che gli pende sulla testa! 

Tutto ciò diede modo allo scrittore di giustificare così - non senza un tocco di spocchia - anche le esagerazioni del suo granguignolesco dramma: 

“Mi confido che questo mio scritto, quando si guardi al notabile suo svolgimento, possa a ragione annoverarsi fra i libri morali. Il vizio v’ottiene il castigo che merita; il traviato si ravvia nel cammino della legge, e la virtù ne riesce trionfante. Chi vuol meco esser giusto leggami da capo a fondo, e cerchi comprendermi; e se non loda lo scritto, apprezzerà, non v’ho dubbio, l’onesto scrittore.”
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Com’è naturale, nello stendere il libretto il Maffei dovette necessariamente tagliare, ridurre e semplificare molto, rispetto al dramma. Ma lo fece senza dover pagare eccessivo dazio, in altre parole, riuscendo a mantenere sufficientemente integre le fondamentali caratteristiche dell’originale. Qui si può trovare una sinossi dell’intero dramma schilleriano e - chiaramente evidenziate - le parti che Maffei ha trasferito nel libretto, insieme ad alcuni essenziali traguardi sui principali passaggi musicali.

Anche a colpo d’occhio ci si può rendere conto della quantità dei tagli: intere scene del dramma - che pure sarebbero importanti per comprendere le recondite ragioni che muovono l’azione dei protagonisti o per rivelarci il loro pensiero su problemi di primaria grandezza - sono state ignorate; diversi personaggi, soprattutto masnadieri (Spiegelberg e Kosinsky ad esempio, due chiari alter-ego di Carlo) ma non solo (vedi il servitore Daniele) non hanno trovato posto nel libretto; Maffei conserva il Pastore Moser, uomo di grande fermezza ma anche di totale integrità, mentre trascura il frate che si presenta ai masnadieri alla fine del second’atto del dramma di Schiller: un chiaro esempio di Chiesa asservita allo Stato!

Numerose scene sono state disposte da Maffei in ordine diverso da come appaiono nel dramma: esempio eclatante la seconda Parte dell’opera, dove le 7 scene, se riordinate come nel dramma, darebbero la sequenza 4-5-6-7-1-3-2! Diversa la sorte che Maffei riserva a Francesco, rispetto a Schiller: per quest’ultimo, dopo l’anatema di Moser il cattivone si suicida, strangolandosi; Maffei invece lo lascia perdere del tutto, finito chissà dove.

Si noterà anche qualche libertà presa dal librettista, come ad esempio il momento dell’agnizione fra Carlo e Amalia (Parte III, Scena 2) fortemente anticipato rispetto al dramma (ultima scena) per raggiungere un obiettivo squisitamente melodrammatico: inserire a circa metà dell’opera - al posto dell’incontro in quadreria fra il Carlo travestito da Conte di Brand e Amalia - il classico duetto d’amore fra i due protagonisti! (E pazienza se quell’incontro resta lì appeso senza capo nè coda, con Amalia e Carlo che spariscono insieme per poi ricomparire alla spicciolata: lui dopo poco fra i suoi masnadieri, bivaccanti lì attorno; lei solo alla fine dell’opera, catturata nel castello assaltato dai masnadieri medesimi! E pazienza se Maffei - nell’inventare questa scena, forse tratto in inganno da una frase sibillina che Amalia pronuncia nel citato incontro in quadreria - incorre in un marchiano errore, facendo dire ad Amalia che Massimiliano è morto, quando nella seconda scena della Parte precedente Arminio le aveva rivelato, suscitandone l’esultanza, che il vecchio era ancora in vita...)

Allo stesso modo, Maffei lascia in vita Massimiliano (che Schiller fa spirare prima del finale, all’auto-accusa di Carlo) per potersi permettere un ultimo terzetto (Amalia, Massimiliano, Carlo) con coro, a chiudere l’opera. Con il sipario che cala appunto sul tragico trapasso di Amalia circondata dal dolore di tutti: un finale classicamente melodrammatico che rimpiazza quello ingenuamente buonista dello schilleriano Carlo, pentito e divenuto improbabile benefattore...
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Sul fronte musicale, Verdi, reduce dal completamento del quasi contemporaneo e rivoluzionario Macbeth, sembra qui tornare al seguito delle orde di... Attila. Le cabalette sparse a piene mani e certa rozzezza delle parti corali fanno concludere a molti critici che I masnadieri sia un passo indietro rispetto all’innovativo dramma sul soggetto shakespeariano. Peraltro di questo non sarebbe giusto incolpare il solo Maffei, che invece aveva appena contribuito a sistemare nel migliore dei modi proprio il Macbeth claudicante di Piave. Forse c’è per il fenomeno una spiegazione più semplice: fu in realtà il Macbeth ad essere una splendida quanto isolata eccezione all’interno di un cammino ancora lungo che avrebbe faticosamente portato Verdi dal lontano Nabucco (passando per Luisa) a Rigoletto

Il pesarese-rossiniano-doc Michele Mariotti (fra un paio di mesi, al ROF, tornerà a cimentarsi con la tremenda Semiramide) è atteso a questa nuova prova verdiana dopo precedenti positive esperienze. Lo spettacolo sarà garantito da David McVicar, che di spunti d’attualità per renderci digeribile il truce soggetto schilleriano ne ha quanti ne vuole, dati i tempi... 

Le voci in campo sono quelle collaudatissime di Michele Pertusi (Massimiliano) o collaudate di Fabio Sartori (Carlo) e Massimo Cavalletti (lo sbifido Francesco). La povera Amalia sarà nelle mani (e soprattutto nella voce) di Lisette Oropesa, che ho personalmente apprezzato al ROF ultimo come Adina, ma che qui dovrà rivaleggiare virtualmente con la mitica e leggendaria Jenny Lind, che ebbe la parte proprio cucita addosso da Verdi in persona: trattandosi di parte piuttosto rossiniana (anche se la Lind mai cantò opere del pesarese) le premesse perchè il soprano cubano-americano faccia bene ci son tutte. 

La prima martedi 18, alle 20.

06 giugno, 2019

Pollini incanta Ravenna


Il monumentale PalaDeAndré di Ravenna - letteralmente preso d’assalto! - ha ospitato ier sera il concerto inaugurale di Ravenna-Festival-2019, protagonisti il consorte della padrona di casa Riccardo Muti ed un ospite davvero d’eccezione, Maurizio Pollini.

I due, che si ritrovavano insieme dal 2013 (Chicago) hanno dato vita alla prima parte del concerto, occupata da due opere del Mozart quasi trentenne, che stava entrando nel pieno della sua grande stagione viennese. Il K449, in MIb maggiore, del 1784; e l’ancor più celebre K466, in RE minore, del 1785. Due concerti assai diversi per impostazione e contenuti: il primo forse ancora legato alla tradizione più consolidata; il secondo decisamente innovativo e proiettato verso il romanticismo.

Non ci sono parole per esprimere la meraviglia, prima ancora dell’emozione, che si prova di fronte a Pollini, questo ometto 77enne che suona per quasi un’ora filata come avesse 20 anni. Con la stessa passione e con lo stesso cipiglio che mostrava quasi 40 anni fa in queste due indimenticabili esecuzioni (K449 e K466) insieme ai Wiener Philharmoniker. Un musicista, un sommo artista, ma prima ancora un Uomo, un esempio per tutti noi del quale non possiamo che essergli eternamente grati.

Gratitudine rappresentata simbolicamente dal premio alla carriera che la maitresse del Ravenna-Festival, Cristina Mazzavillani Muti, ha consegnato a Pollini al termine di questa sua straordinaria performance.
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La serata siè conclusa con Mendelssohn e la sua Ouverture da Concerto Meeresstille und glückliche Fahrt (Calma di mare e viaggio felice) che in origine avrebbe dovuto aprire il concerto. Musica quanto mai appropriata alle circostanze: il mare qui di casa, spesso così piattamente calmo al mattino, prima dell’arrivo delle forti brezze da sud-est che lo sferzano fino a sera; e il mare più lontano, ma pur sempre nostrum, protagonista suo malgrado di viaggi tutt’altro che felici. E poi (in sostituzione dell’inizialmente programmata Isola dei morti) un brano pieno di... vita, il Bolerodiravel!   

La rinnovata Orchestra Cherubini per tutta la serata ha risposto assai bene alle sollecitazioni del suo fondatore (che ha qualche mese più di Pollini, ma sembra parecchio più giovane...) mostrando bella trasparenza di suono e - nel brano conclusivo - grande affiatamento fra le diverse sezioni chiamate a disegnare questo instancabile crescendo raveliano.

Serata - almeno per la prima parte - da collocare nell’ideale cassetto delle più preziose reliquie.

02 giugno, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°31


Oggi pomeriggio è toccato al Direttore Principale Ospite (al suo quarto appuntamento) offrirci il penultimo concerto della stagione 18-19.

Ancora Brahms in locandina, a chiusura dell’integrale di sinfonie e concerti dell’amburghese. In programma quindi il Doppio (violino e violoncello) ultima fatica del compositore nel campo dei brani per grande orchestra. Una strana coppia sostiene le parti solistiche: al violino la spalla de laVerdi, Luca Santaniello, che solo eccezionalmente si alza dalla sua sedia... e una specialista di violoncello ormai affermata - benchè soltanto ventenne! - in campo internazionale, Erica Piccotti. Per l’occasione Stefano Borali, che suonò in Orchestra... nel secolo scorso (per i primi 5 anni dalla fondazione) ha preso il posto di Konzertmeister.

È un Brahms assai cerebrale e ostico, quello dell’Op.102, ma i due riescono a rendercelo gradevole, e non solo nel lirico Andante centrale. Tecnica sopraffina e grande affiatamento, assolutamente necessario per una buona riuscita del concerto. Completa l’opera l’Orchestra, che Fournillier fa dialogare con i solisti senza mai... metterli in secondo piano.  

Dopo il funambolico bis (la Passacaglia che Halvorsen ha tratto da Händel) Ruben Jais esce sul palco per congratularsi con la bravissima Erica e per festeggiare il compleanno di Luca, imitato dall’Orchestra che intona la celebre tanti auguri a te...
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Ecco poi l’apoteosi della danza (copyright Richard Wagner) al secolo la Settima beethoveniana. Che Fournillier presenta con piglio quasi forsennato (se si esclude l’Allegretto, ovviamente) ottenendo effetti fin esagerati, dei quali va a ringraziare di persona ogni prima parte ed ogni sezione dell’orchestra.

Per lui e per tutti ovazioni da stadio.

30 maggio, 2019

Il trionfo di Korngold alla Scala


Rieccomi qua, dopo sanitaria sosta, a commentare questa strepitosa Die tote Stadt, finalmente (è bastato aspettare un secolo, ecché ‘ssarà mai...) comparsa sulle tavole del Piermarini.

Note tecnico/musicali: a) contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro fino a poche ore dall’inizio della prima, l’opera è stata presentata nella sua struttura originaria, quindi con entrambi gli intervalli fra i tre quadri; b) sempre contrariamente a quanto annunciato dal sito del Teatro, il ruolo (secondario?) di Brigitta passa da una brasilera (Kismara Pessatti) ad una rumena (Cristina Damian).

Già detto nel telegrafico intervento di ieri notte di un teatro con ampi spazi vuoti, colpa del secolo d’età di un’opera finita nel dimenticatoio (e conseguente disinteresse - per ignoranza - del vasto pubblico) o della teoria di Pereira sul ritardo dell’allineamento della domanda all’offerta? O di entrambe le cause? Fatto sta che lo spettacolo visto martedi, se non passerà proprio alla storia (mai esagerare con gli epinicii...) di certo resta - parere mio personale - una delle migliori produzioni degli ultimi tempi. E forse qualcosa di più delle pur lodevoli iniziative del Teatro - conferenza e tavola rotonda - andava fatto per promuoverlo.
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Alan Gilbert ha saputo mettere in risalto le diverse qualità della musica, che ha richiami tardoromantici, ammiccamenti da operetta e tratti espressionisti, ma sempre impiegati con appropriatezza e mai lasciati al caso o destinati al puro effetto. L’Orchestra si è evidentemente ritrovata con questa musica, non facile sicuramente da eseguire, ma certamente stimolante per gli esecutori, oltre che per gli spettatori. Da incorniciare i diversi passaggi sinfonici, come il finale primo (il turbamento psichico di Paul e l’apparizione di Marie); l’attacco del secondo quadro (la spettrale Bruges nella quale il protagonista si inoltra); la processione religiosa (che si trasforma in marcia minacciosa e spaventevole); e l’introduzione al terzo quadro, che evoca la notte tumultuosa passata a letto da Paul e Marietta, costellata di... orgasmi! Ma splendidamente resi anche gli afflati più lirici (l’aria del liuto e il Lied di Pierrot) che richiedono delicatezza e raffinatezza di supporto alle voci, senza però scadere in toni eccessivamente operettistici. Insomma un Direttore e un’Orchestra che, in perfetta unità d’intenti, hanno saputo deliziarci con questo coloratissimo caleidoscopio sonoro di Korngold.       

Il Coro di Casoni è impegnato in modo non proibitivo (nel terzo Quadro) e ha fatto benissimo la sua parte. Meglio ancora i piccoli dell’Accademia, perfetti nella scena della processione.

Klaus Florian Vogt è un convincente Paul: la sua vocina è timbricamente perfetta (per me) per caratterizzare questo personaggio-bambino, pieno di complessi e ossessioni. Se in ruoli (pur da lui ricoperti) come Lohengrin, per dire, può sembrare eccessivamente efebico (un Kind-Heldentenor) qui invece rende alla perfezione tutte le turbe mentali che portano Paul ad auto-imprigionarsi nel suo sacrario psicologico, prima ancora che materiale. E passa benissimo dall’assurda euforia iniziale (per il creduto ritrovamento della moglie) alla tremenda dissociazione che la sua psiche subisce (quadro secondo, al momento di assistere alla demoniaca - meyerbeeriana - resurrezione di Marie e di cedere infine a Marietta) all’inferno che invade la sua mente al passaggio della processione-marcia; per finire all’ebete rassegnazione conclusiva, sottolineata musicalmente dalla riapparizione sì della dolcissima canzone del liuto, ma ora a supportare un’amara constatazione: nella vita non c’è resurrezione.  

Marietta (+Marie) è Asmik Grigorian, che si sdoppia benissimo nei due personaggi: quello, limitato nel tempo ma fondamentale, dell’apparizione della moglie defunta e quello ben più esteso della sua pretesa reincarnazione, con tutt’altra personalità. Eccellente la sua performance - con i soci della compagnia teatrale - nel secondo Quadro, dove si è distinta anche per qualità e doti di danzatrice-soubrette. Insomma, una Marietta perfetta nel canto ma anche nella... professione. Per sorridere un po’, mi domando con quale credibilità avrebbe potuto ricoprire questo ruolo una Cerquetti (! ho fatto volutamente un riferimento fuori dall’attualità.)

Anche Markus Werba incarna (come originariamente previsto da Korngold, ma forse anche per ragioni di... spending review) due personaggi. E lui lo fa con la grande professionalità che lo contraddistingue, porgendoci il serioso e quasi pedante Frank (che nella sezione onirica si trasforma però in uno sbifido quanto falso traditore di amici) intercalato dal romantico e patetico Fritz, nell’aria del quale ha modo di mettere in luce tutta la sua vena lirica e quasi belcantista.   

La 42enne Cristina Damian ha sostituito quasi all’ultimo momento la brasilera Kismara Pessatti nei panni di Brigitta, questa anziana badante un po’ bigotta ma assai premurosa. Il mezzosoprano rumeno la interpreta con garbo e discrezione, mostrando voce ben impostata in tutti i registri, anche se non proprio superdotata di decibel.

Da elogiare gli altri quattro interpreti, gli accademici Marika Spadafino, Daria Cherniy e Sergei Ababkin e lo sdoppiato Sascha Emanuel Kramer.
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Vengo ora allo spettacolo, firmato da Graham Vick.

Il soggetto non si presta molto a interpretazioni di carattere ideologico (dove il nostro spesso si lascia prendere troppo la mano dalle sue convinzioni leftist) tuttavia il regista albionico non rinuncia ad inventare anche qui qualcosa di estraneo al libretto e dal sapore politico. Si tratta dell’interpretazione data alla processione e poi soprattutto alla bestiale marcia che occupa la seconda scena del quadro conclusivo, dove vediamo chiarissimi quanto gratuiti riferimenti a nazismo e Shoah: chierichetti fra i quali si mischiano ragazzini della Hitlerjugend (i balilla nazi) e scene di deportazione di ebrei. Fatti che certo Korngold non poteva minimamente divinare nel 1920 quando compose l’opera. Tuttavia mi sento di perdonare volentieri a Vick questa libertà, per due precise ragioni: a) questi riferimenti non intaccano, nè tantomeno sovvertono la drammaturgia originale dell’opera, sono in effetti delle materializzazioni (postume, rispetto ai tempi) di orrori che invadono la mente di Paul, quindi del tutto plausibili; b) si tratta di riferimenti che con Korngold hanno a che fare assai, visto che una quindicina d’anni dopo la composizione dell’opera il nostro fu costretto letteralmente a cambiare vita - materiale ed artistica - proprio a causa dell’avvento di ciò che Vick ci mostra in scena.

Per il resto il regista sfodera tutta la sapienza e maestrìa del consumato uomo di teatro che è. Ben supportato dal suo team - Stuart Nunn per scene e costumi, Giuseppe Di Iorio alle luci e Ron Howell per le coreografie - non ci lascia sfuggire nulla di ciò che il libretto racconta (testo e didascalie).

Geniale per efficacia è la scelta di mantenere l’ambientazione scenica di fondo sempre la stessa, nel tre quadri dell’opera: siamo nel sacrario che Paul ha apprestato in casa sua per ricordare la moglie Marie. Nel secondo e terzo quadro il tendaggio bianco sul fondo si solleverà per far entrare nel sacrario tutti gli elementi dissacranti che compaiono nel sogno di Paul: la Bruges bigotta, le beghine con Brigitta, il Frank traditore, la scanzonata e irriverente compagnia di Mariette, la processione-marcia. Ma son tutte visioni che fanno parte del sogno di Paul, quindi è giusto che si mostrino proprio in quello stesso ambiente dove il poveraccio passa le sue giornate a macerarsi nei ricordi. Detto di passaggio: questa scelta di scenografia raggiunge anche lo scopo - non secondario - di evitare allo spettatore (quando non adeguatamente preparato) di fraintendere tutto quanto avviene in scena nel secondo quadro, pensando si tratti di accadimenti reali e non di immagini oniriche che popolano la psiche di Paul.  

L’ambientazione temporale è - per i costumi - vicina agli anni di composizione dell’opera, mentre è a noi contemporanea quanto alle suppellettili del sacrario (divanetto con struttura metallica; maxi-schermo al plasma a sorreggere il quadro con l’immagine di Marie, che vedremo solo alla fine del primo quadro, al momento dell’apparizione; un inginocchiatoio e soprattutto una teca con le reliquie di Marie, fra cui la famigerata treccia di capelli dorati). C’è poi in scena un elemento assai importante: una stilizzata porta (solo lo scheletro, di plastica trasparente) profilata da neon bianchi e lampadine colorate, che rimane in permanenza in primo piano, sulla sinistra del palcoscenico, e che saltuariamente si sposta di poco, ruotando su una piccola piattaforma circolare. Cosa ci rappresenta? Mah, a parte il significato elementare di ingresso al sacrario, può essere interpretata come il punto di passaggio dalla vita reale (che sta al di qua, verso il pubblico) e la vita virtuale e poi onirica che vive il povero Paul. Il quale, ad esempio, nel terzo quadro vi si affaccia per seguire la processione; oppure attraverso la quale - nel secondo quadro - battibecca con l’immagine del Frank traditore.

Ma come non ammirare la raffinata gestione dei movimenti dei personaggi in scena. Qui faccio solo pochi cenni: alla fine della canzone del liuto, nel primo quadro, Paul e Marietta si trovano seduti per terra, con le schiene appoggiate alle estremità del divanetto; ecco, mentre l’orchestra esala le 10 mirabili battute in SIb della cadenza, la mano sinistra di Paul e la destra di Mariette, palme appoggiate al pavimento, traslano lentamente fino ad incontrarsi... un momento di estasi davvero indimenticabile, un esempio di come valorizzare al massimo grado una frase musicale! E poi tutta la scena dei commedianti del secondo quadro è gestita in modo superlativo, fino a trasformare quasi in poesia anche alcune esternazioni dove sarebbe facilissimo sconfinare nella volgarità. Memorabile, come detto, la scena della processione-marcia, che restituisce tutta la drammaticità dell’autentico incubo che invade la mente di Paul, con povera gente che in nome di dio viene maltrattata e deportata. Impressionante (e Kitsch, sì, ma proprio quanto la musica!) la comparsa del gigantesco e sovrastante teschio che alla fine prende fuoco.

Efficacissima infine la conclusione: dopo che tutte le suppellettili del sacrario sono state rimosse e portate via, la scena si svuota e Paul, chiusa la canzone del liuto con le parole Hier gibt es kein Auferstehen, sulle 11 (apparentemente?) eteree battute cadenzanti dell’orchestra si avvia a testa bassa e con atteggiamento sconsolato verso il fondo del palcoscenico. Immagine assolutamente emblematica dell’ambiguità della soluzione del dramma.

29 maggio, 2019

Una splendida città morta finalmente al Piermarini


Quasi a festeggiare l’imminente centenario della comparsa dell’opera sulle scene (1920) la Scala ospita quest’anno per la prima volta in assoluto Die tote Stadt di Erich Wolfgang Korngold. Ieri sera è andata in onda la prima delle sette rappresentazioni in cartellone, in un teatro ancora con evidenti vuoti (anche le gallerie non proprio stipate): lunedi pomeriggio, alla presentazione della nuova stagione agli abbonati, Pereira ha cercato di spiegare il fenomeno come conseguenza dei suoi sforzi per aumentare l’offerta di spettacoli, al quale aumento evidentemente la domanda si starebbe allineando con ritardo (fenomeno che gli esperti chiamano isteresi); parrebbe di capire che gli spettatori totali crescano, ma - per ora almeno - non quanto l’aumento dei posti disponibili... Beh, se lo dice Pereira magari sarà così, chissà.

Dunque, finalmente Korngold è arrivato anche da noi, e devo dire che se lo meritava proprio e che aver atteso quasi il centenario per accoglierlo in Scala sa di scandalo, proprio come la scarsa partecipazione del pubblico.

Mentre invece va dato merito a Direttore, Cast e Regista di aver confezionato uno spettacolo di altissimo livello, valorizzando al massimo le qualità dell’Opera, sul piano strettamente musicale ma anche su quello drammaturgico.

Alla fine il pur scarso pubblico ha tributato a tutti un autentico trionfo. Personalmente ho pochi dubbi che si sia trattato del miglior spettacolo offerto dalla Scala in questa stagione.

Seguirà - dopo un forzato time-out - qualche commento più circostanziato.

27 maggio, 2019

La Scala 19-20


A mezzogiorno di oggi il trio lescano Sala-Pereira-Chailly ha presentato alla stampa la stagione 19-20. 

Sala (che poco tempo fa voleva licenziare in tronco Pereira per via degli arabi) ha elogiato l’opera del sovrintendente e di tutto il teatro, con un discorsetto auto-celebrativo (ma devo dire neanche troppo smaccato) che ha esaltato le magnifiche sorti e progressive della Milano da lui guidata e velatamente polemizzato con il nuovo madonnaro che ieri ha vinto le elezioni...


La stagione (si sapeva) apre con Tosca e poi prevede altri 14 titoli, fra il vetusto-recidivo (Traviata-Cavani) e l’innovativo (Salome-Michieletto).

Chailly (a proposito di Tosca) persiste a far passare come conquiste della cultura le edizioni di opere che lo stesso autore ebbe a disconoscere. Ripeto alla nausea: cose da proporre in qualche festival o come bonus-tracks nei CD. C’è anche un po’ di familismo, con un concerto che, prima di una cosuccia da nulla come la Nona di Beethoven (non so se mi spiego) proporrà un brano corale del suo papi (!)

Il sofferente Mehta (ma certo nessuno lo obbligava, quindi... grazie!) fa quasi la parte del leone fra opere e concerti sinfonici, fra cui una Terza di Mahler che è già stata fatale a... beh, basta così, per carità.

Per me la notizia-bomba (scusate la venalità dell’osservazione) è la definitiva soppressione della famigerata prelazione per gli abbonati (ci voleva Pereira per arrivarci...)

Il quale Pereira fra poche ore arringherà nel Piermarini il pubblico degli abbonati.

25 maggio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°30


Per il terz’ultimo concerto della stagione torna in Auditorium il residente (!?) Jader Bignamini per guidare non una, ma ben due orchestre insieme! Si mescola infatti alla sua laVerdi la Filarmonica Arturo Toscanini, soprattutto per moltiplicare il volume di suono richiesto dallo Strauss che riempie la seconda parte del concerto.

Ma il programma è aperto da una vecchia frequentatrice dell’Auditorium, la sempre affascinante (nel fisico e nel... sonoro!) Francesca Dego, che ci propone il Primo concerto di Shostakovich. Opera composta (1947-48) in piena era Stalin-Zdanov e quindi prudentemente tenuta nel cassetto - onde evitare fastidiosi trasferimenti nella lontana Siberia, se non qualcosa di peggio - dal quale fu estratta dopo anni, dopo la presentazione della famosa e apprezzata Decima Sinfonia e in presenza al Kremlino del più mite (si fa per dire... chiedere in proposito agli ukraini) Kruscev. Questo spiega perchè alla sua comparsa le sia stato affibbiato il numero d’opera 99 e successivamente l’originale 77, numero più congruo rispetto al periodo di composizione.

Il dedicatario David Oistrakh e l’amico fraterno Evgeny Mravinski portarono alla luce il concerto sabato 29 ottobre del 1955 a Leningrado. Concerto piuttosto eterodosso (quanto meno rispetto ai canoni classici) a partire dal numero (4) dei movimenti e da contenuti (Notturno-Scherzo-Passacaglia-Burlesque) che lo avvicinano piuttosto ad una suite dove si alternano movimenti lenti e veloci. Orchestra privata degli ottoni più invadenti (trombe e tromboni) per mantenere la massima trasparenza di suono; solista che ha pochissime pause, essendo quasi costantemente protagonista, fra l’altro di una interminabile cadenza che separa e collega i due movimenti conclusivi. Quanto alle tonalità, le armature di chiave sono poco significative: il LA (minore) apre la sinfonia e il LA (maggiore) la chiude; in mezzo troviamo SIb e LAb, ma in realtà abbiamo atmosfere continuamente cangianti.

Seguiamo l’evolversi del concerto proprio in compagnia dei due sommi artisti che lo presentarono per la prima volta al pubblico.
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Si apre con un Notturno, in tempo Moderato, 4/4. Brano assai ispirato e ricco di laica religiosità. Struttura che richiama quella di una fantasia, nulla a che vedere con la classica forma-sonata. Dopo 4 battute in ritmo puntato degli archi bassi, ecco il violino attaccare (17”) una melopea praticamente ininterrotta, basata pure su un motivo puntato, nel quale compaiono sporadiche quartine di crome. L’orchestra tiene un accompagnamento sommesso negli archi, mentre i fiati si inseriscono qua e là, ma sempre con la massima discrezione, come fanno il fagotto (1’27”) e i fiati (2’12”).

Ecco un primo sussulto (2’19”) con la melodia del violino che si apre a intervalli più ampi e con i clarinetti (e i violini) a contrappuntare con un ondeggiante motivo per terze. A 3’08” il solista riprende la sua lirica perorazione, con salite a note sovracute, chiusa da un poco ritardando che lascia un minimo di spazio (4’29”) ai fiati, prima del ritorno (4’51”) del solista che ripropone la melopea iniziale, allargando quindi molto i tempi e facendosi accompagnare da arpa in armonici e celesta, a creare un’atmosfera eterea e sognante.

A 6’12” un improvviso intervento di percussioni e tuba dà inizio ad una sezione più animata, dove la melodia del solista si muove prevalentemente per terzine. Altra breve pausa (6’54”) per il violino, occupata dai fiati e quindi (7’10”) riecco il solista con la sua melodia fatta di terzine, adesso però incalzato dagli archi e poi dall’intera orchestra, in un agitato ribollire di suoni, mentre il violino ancora allarga i propri tempi. È un crescendo che raggiunge un climax al quale fa seguito (8’19”) una nuova ripresa del motivo puntato nel violino, che fa una pausa (8’46”) per poi riprendersi il centro della scena (9’04”) con l’ultima esposizione che ricapitola i diversi spezzoni di motivi uditi in precedenza. A 11’25” ecco le ultime quattro battute del solista, tutte in armonici, con l’arpa e la celesta, morendo, a chiudere con lui questo mirabile sogno.

Segue quindi un movimento veloce, lo Scherzo, tempo Allegro, 3/8. Qui viene sostanzialmente rispettata la classica forma scherzo-trio, con la particolarità che il tema viene inizialmente esposto (11’52”) da flauto e clarinetto basso, con il solista a ritmarne l’accompagnamento, prima di prendere possesso (12’05”) della scena! A 12’48” il solista ripropone (come consuetudine classica) lo Scherzo, che poco dopo (13’03”) modula bruscamente, mentre i fiati espongono, innalzato di un semitono e lievemente storpiato verso il basso alla fine (RE#-MI-DO#-SI) il motto DSCH (RE-MIb-DO-SI, iniziali del compositore) che riascoltiamo subito dopo (13’17”) nei secchi strappi in doppia corda del violino.

Si arriva (13’37”) al Trio, Poco più mosso, 2/4, sempre dominato dal solista, con motivi e ritmo che ricordano il Klezmer (danza ebraica) comportando anche veloci scorribande, fino ad arrivare (15’36”) alla ripresa dello Scherzo, dove ascoltiamo impertinenti interventi dell’oboe prima, del flauto poi e infine dell’ottavino a contrappuntare il solista.

La scansione si fa sempre più frenetica fino a sfociare (17’27”) nella temporanea ripresa del tempo di Trio (2/4, Poco più mosso) che chiude (17’47”) tornando a 3/8 (tempo dello Scherzo) con una riproposizione del motto DSCH (adesso senza storpiature, ma trasposto di un tritono, a LAb-LA-SOLb-FA) e con il solista che insiste nel suonare quartine di crome sul tempo ternario, fino alla brusca chiusura.

Eccoci ora alla Passacaglia, Andante, 3/4. Il basso ricorrente (si ripeterà per 9 volte) copre 17 battute e viene inizialmente suonato (18’11”) dagli archi bassi, con corni a contrappuntare in ottave e timpani a scandire il ritmo. La seconda apparizione (19’06”) coinvolge la tuba e il fagotto, con gli altri fiati a cantare una specie di corale. Sulla terza (20’01”) affidata agli archi bassi ecco arrivare il violino solista, che intona una languida melodia (di atmosfera simile a quella del movimento iniziale). Il suo motivo viene ripreso dal corno inglese alla quarta tornata (20’56”) mentre il solista si lancia in volute più ampie. La quinta ripetizione (21’50”) vede al basso il primo corno, mentre il solista prosegue la sua melopea. Anche alla sesta reiterazione del basso (22’39”) affidata a corni, tuba, celli e contrabbassi, Il solista continua nel suo canto, sempre più accorato, animato ora da ripetute terzine.

La settima proposizione del tema di passacaglia (23’29”) è affidata ora direttamente al solista, con piglio stentoreo, mentre all’ottava (24’16”) sul basso tenuto da tuba e fagotti sono i clarinetti ad accompagnare la prima melodia tornata nel violino. Ai timpani (25’10”) spetta di guidare la nona ricorrenza dell’accompagnamento, con il solista sempre in primo piano, che arricchisce il suo tema di note ribattute. Seguono (26’12”) 12 battute di chiusura, con passaggi anche in doppia corda, che portano inaspettatamente (27’01”) ad una mastodontica Cadenza. Essa inizia riprendendo l’ultimo motivo suonato nella passacaglia, per poi svilupparsi in tempo Maestoso, con qualche moderata variazione agogica e dinamica. A 30’09” un primo Accelerando anima il ritmo e poi un secondo (31’15”) introduce la parte conclusiva, in Allegro, dove troviamo ogni artifizio virtuosistico, compresi passaggi in doppia, tripla ed anche quadrupla corda! 

E così, senza soluzione di continuità, a 31’42” attacca la conclusiva Burlesque, Allegro con brio, 2/4. É uno dei classici, inconfondibili, tarantolati pezzi di questo autore, dove solista e orchestra sembrano inseguirsi in una forsennata discesa senza freni. Il ritmo è spesso puntato, singhiozzante, oppure più regolare ma sempre forsennato. 

L’orchestra apre con 28 battute introduttive che preparano l’entrata (32’02”) del violino solista accompagnato dal clarinetto, con il quale innesca una specie di gioco a rincorrersi, chiuso da reiterati sussulti, quasi dei singhiozzi dei flauti. Il solista d’ora in poi avrà solo poche pause di respiro, alternando motivi in ritmo puntato ad altri (32’46”) più distesi, ma senza mai rallentare il passo. 

Dopo una sezione caratterizzata da passagi sincopati, a 33’18” il solista riprende il motivo dell’introduzione orchestrale, poi continua contrappuntato da strappi di flauti e clarinetti. A 33’50” si concede finalmente una pausa, lasciando momentaneamente spazio all’orchestra, per poi riprendere (34’21”) la sua corsa solitaria (accompagnato solo da violini e viole) e successivamente (34’43”) anche da clarinetti, corno e xilofono. Il passo adesso accelera, con volate di semicrome che portano (34’59”) a nuovi sussulti nei fiati, che accompagnano il solista fino a 35’36”. Qui il violino, ora sostenuto solo dagli archi, attacca una sezione con note ribattute, anche in corda doppia. 

A 35’46” ecco iniziare il Presto che ci conduce al repentino schianto conclusivo. 
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La bella Francesca ce lo ha porto mirabilmente, mettendone in risalto la grande nobiltà dei temi, in specie nei due movimenti lenti. In quelli veloci ha fatto valere le sue eccezionali doti tecniche.

Una prestazione davvero eccellente, salutata dal folto pubblico con grandi applausi. Che lei ha ricambiato, dopo l’impegno proibitivo del Concerto con ben tre encore, aperti da un ossessionato Ysaÿe.
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Ecco quindi la colossale Eine Alpensinfonie. Sui contenuti (naturalisticamente appariscenti o filosoficamente criptati) della quale non mi sto a dilungare, rimandando i curiosi a questo mio ormai lontano scritto di presentazione. Aggiungo solo che lo stesso Strauss, in una lettera ad Hofmannsthal poco dopo il grandioso successo del loro Rosenkavalier, ammise che il poema sinfonico alpestre gli procurava meno eccitazione dello scuotere maggiolini dai rami di un albero! Evidentemente anche le attività più prosaiche mettevano Strauss nelle condizioni ideali per creare grande musica!  

Musica che laVerdi ha eseguito in passato solo una volta (stagione 2006-7). Come detto, qui viene suonata da un organico derivato dall’assemblaggio di due compagini sinfoniche, in modo da rispettare (e forse nemmeno al 100%!) le prescrizioni dell’autore in fatto di strumentisti. Palco quindi affollato come non mai. Apprezzabile l’iniziativa di proiettare passo passo sui due schermi i 22 titoli programmatici delle sezioni del brano, accompagnati anche da fotografie che rimandano alle diverse fasi dell’escursione straussiana.

Bignamini attacca con grande sostenutezza, poi scatena l’orchestra nelle grandi campate sonore che costellano la Sinfonia. Apprezzabile la qualità dell’esecuzione, se si considera che due orchestre si sono dovute fondere, con poco tempo per provare. Gran successo, applausi ritmati per il Direttore, che da parte sua ha fatto alzare le singole prime parti e le intere sezioni per tributare loro il meritato trionfo.