ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

13 aprile, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°25


Ieri sera (con replica domani pomeriggio) è andata in onda in Auditorium la prima delle due puntate dedicate all’integrale delle sinfonie di Brahms proposta da Robert Trevino, al suo ritorno qui dopo quasi un anno. Il 35enne rampante Direttore ispano-texano (oggi di stanza nei Paesi Baschi ma in procinto di migrare verso la Svezia...) segue quindi le orme del suo più maturo compaesano John Axelrod (acclamato qui la scorsa settimana) che qualche anno addietro ha diretto e inciso le 4B con laVerdi. Sala non affollatissima, causa forse il concomitante Requiem verdiano in SanMarco, officiato da un’altra star del podio, tale Teodor Currentzis...

Trevino (che dirige tutto a memoria) sceglie il percorso più lineare e immediato: presenta cioè le sinfonie in rigoroso ordine cronologico di composizione. Quindi questa settimana la coppia 1-2 (1876-77) e il 17-19 maggio concluderà con la coppia 3-4 (1883-85). Se guardiamo questo corpus come un tutt’uno, esso ci appare come un’unica sinfonia con i due movimenti esterni caratterizzati da grande severità e quelli interni da altrettanta serenità (anche se le due atmosfere non sono mai rigidamente separate fra loro, e spesso e volentieri si compenetrano). Quanto alla sequenza di tonalità (DO-RE-FA-MI) essa è nientemeno quella del gregoriano Magnificat!

Ovviamente queste sono solo considerazioni da cabala, e nulla fa pensare che Brahms vi abbia minimamente posto attenzione. Però...
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Ecco quindi la Prima, sofferta per 20 anni e anche più, attesa con trepidazione da tutto il mondo musicale di area tedesca (e non); finalmente completata nel 1876, ma eseguita in prima nella periferica Karlsruhe (paura di un flop?) e poi arrivata a Vienna dopo un’altra tappa intermedia a Monaco; quindi definitivamente consacrata solo mesi dopo a Lipsia.

Insomma, un Brahms per nulla sicuro di sè e sollevato agli altari del successo anche (se non soprattutto) dal plateale endorsement ricevuto da parte di Hanslick e dell’establishment anti-wagneriano (cui si accodò - per motivazioni non esclusivamente artistiche! - un imbarazzato von Bülow). Certo, questa sinfonia è musica grande - tonalità e percorso (per aspera ad astra) assai impegnativi (la quinta del Ludovico!) - e da quasi 150 anni occupa meritoriamente le locandine di tutte le stagioni sinfoniche del pianeta. Personalmente, mi lascia sempre un po’ di retrogusto amarognolo, e fatico ad entrare in totale sintonia con la sua (per me) eccessiva cerebralità (in ciò sono in ottima compagnia: anche un tale Mahler considerava questo Brahms piuttosto freddo...)

Chi invece sembra viverla con totale partecipazione è Trevino, che propone con grande magniloquenza i due movimenti esterni (ritornello nel primo, e teatralità nell’Adagio introduttivo del finale) per poi quasi esagerare (neanche fosse la seconda) nell’intimismo e nella leziosità nei due interni: l’Andante sostenuto in particolare mi è parso essere stato attaccato con eccessivo... languore (ma è questione di gusti). Da incorniciare nell’ultimo movimento il forte sempre e passionato di corno e flauto, che hanno meritato ad Amatulli e Manachino (in uno con l’oboe di Stocco e il clarinetto della Ciapponi) una personale peregrinazione di Trevino fra i leggii, per complimentarsi con loro.
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Rotto il ghiaccio, Brahms impiegò pochi mesi a sfornare la sua Seconda, ispirata (come peraltro anche una parte del Finale della Prima) da scenari naturali e per questo spesso accreditata dell’attributo di pastorale (per non parlare della ninna-nanna che fa da secondo tema all’Allegro non troppo iniziale).

Qui Trevino non sbaglia di certo nel pretendere dall’orchestra delicatezza e leggerezza nei tanti passaggi carichi di lirismo che percorrono la sinfonia: spesso riducendo le sonorità quasi al limite dell’udibile. Dà infine fuoco alle polveri nel finale, con gli ottoni che - uso un temine di carattere ottico - sembrano abbagliare i timpani!

Successo strepitoso, altra gita di Trevino per complimentarsi con Ceccarelli e il pacchetto dei corni, con Greci all’oboe e con tutti quanti gli altri. Dellingshausen, ieri sulla sedia del Konzertmeister, innesca col piede destro un meritato (e condiviso in pieno dal pubblico) applauso ritmato per manifestare l’evidente apprezzamento dell’Orchestra per le doti del Direttore. Ora non ci resta che attenderlo qui fra un mesetto per completare l’opera!

09 aprile, 2019

Un sito benemerito da sostenere


Nell’ormai lontano 1995 una studentessa canadese di informatica nonchè violinista dilettante aprì - con l’aiuto dell’Università che frequentava, poi con quello della REC Music Foundation - un sito internet che raccoglie testi musicati (lieder ma non solo) nella lingua originale e in diverse traduzioni.

Terminati gli studi, oltre a farsi una famiglia e mettere al mondo un paio di figlie, la nostra ex-studentessa ha continuato - senza alcuna retribuzione stabile - ad aggiornare il sito che nel 2003 ha assunto la forma attuale. Ogni anno sono milioni i visitatori che trovano nei più di 150.000 testi (e nelle relative 32.000 traduzioni) risposte alle loro necessità o semplicemente alle loro curiosità.

Dopo altri 15 anni le innovazioni tecnologiche hanno reso improrogabile una nuova e completa rivisitazione del sito (nel frattempo resosi indipendente dalla REC Music) che la nostra intraprendente ex-studentessa ha deciso di mettere in cantiere.

Come ogni altra impresa, anche questa necessita ovviamente di supporto, e non solo morale...

Non aggiungo altro, se non presentarvi questa benemerita mammina e il suo sito, che probabilmente molti avranno già avuto modo di conoscere e consultare. Chi invece lo incontra per la prima volta, credo non potrà non apprezzarlo appieno.

08 aprile, 2019

Xerxes a Modena


Al Pavarotti di Modena è andata in scena ieri la seconda recita del Serse di Händel, già collaudato a ReggioE. la scorsa settimana e in procinto di approdare a Piacenza la prossima e a Ravenna in futuro.

Queste 15 battute, che introducono l’arioso di Serse (Ombra mai fu...) sono con tutta probabilità - insieme alle 38 batture che seguono (appunto l’arioso) - fra le più conosciute di tutta la storia della musica. Ma la loro notorietà è pari soltanto alla totale ignoranza che il vasto pubblico ha dell’Opera in quanto tale, finita per due secoli nel dimenticatoio, dopo le rappresentazioni del 1738, ed ancor oggi di rara riproposizione.

Per di più, questo famoso ed orecchiabile brano viene suonato e cantato proprio all’inizio dell’Opera, col che fa l’effetto (scusate se scendo ai bassi livelli) di un’eiaculatio-precox (in latino suona meno volgare) dopo la quale seguono due ore e mezza di... noia.

No, effettivamente stavo un filino esagerando, e devo dire che i quasi 50 numeri che seguono (salvo tagli di prammatica) non sono certo da buttare alle ortiche: si tratta pur sempre di Händel, in fin dei conti! 

Il soggetto, tratto dal compositore da fonti non meglio precisate, anche se ipotizzabili, stanti alcuni precedenti lavori di compositori italiani del ‘6-‘700, è un risottone che non saprei se definire più ridicolo o deprimente. A leggere il titolo si sarebbe indotti a pensare ad un grande affresco storico, corredato da imprese guerresche, relazioni fra sovrani, atti di patriottismo (o di tradimento) e scenari consimili. E invece no, la trama tratta esclusivamente di complicati e contorti rapporti sentimentali fra due fratelli (Serse e Arsamene) e due sorelle (Romilda e Atalanta, figlie del comandante Ariodate) più una quinta incomoda (Amastre)... L’unico accenno a problematiche pubbliche riguarda un fantomatico ponte eretto a collegare Asia ed Europa, che però crolla miseramente sotto una tempesta (pare il Morandi, accidenti ai Benetton!) 

Lo schemino che segue sintetizza - semplificando al massimo - le relazioni sentimentali in essere; la tabella va letta entrando a sinistra sul personaggio e salendo in alto al personaggio relazionato: 


Serse
Arsamene
Romilda
Amastre
Atalanta
Serse


concupisce
promesso a

Arsamene


ama

concupito da
Romilda
concupita da
ama



Amastre
promessa a




Atalanta

concupisce




Le due coppie di celle colorate rappresentano la stabilizzazione finale dei rapporti interpersonali: come si nota, in questa particolare versione del gioco dei quattro-cantoni, è la povera Atalanta a restarci in mezzo, mentre quelle che si formano alla fine (Serse-Amastre e Arsamene-Romilda) sono le due coppie già di fatto destinate ad unirsi fin dall’inizio. In mezzo, la trama dell’opera presenta le azioni destabilizzanti di Serse e Atalanta e le mille peripezie - intrighi, falsi ideologici, calunnie, tentati suicidi e molte altre nefandezze, con qualche rara buona azione - che portano alla normalizzante conclusione. 
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La struttura musicale completa comprende complessivamente 51 numeri (più l’Ouverture e due Sinfonie) così distribuiti nei tre atti ai sette personaggi e al coro:


aria
arietta
arioso
duetto
recitativo
coro
tot
tot
Serse
2-2-2
1-0-0
1-1-0
0-2-0
1-0-0

5-5-2
12
Romilda
1-3-1
2-0-0
1-0-0
0-1-1
0-1-0

4-5-2
11
Arsamene
2-2-1

0-1-0
0-0-1


2-3-2
7
Atalanta
2-3-0
0-0-1
0-1-0



2-4-1
7
Amastre
1-2-0
0-0-1
1-1-0
0-1-0


2-4-1
7
Elviro

1-2-0
0-1-0



1-3-0
4
Ariodate  
1-0-1





1-0-1
2
Coro





1-1-2
1-1-2
4
tot
9-12-5
4-2-2
3-5-0
0-2-1
1-1-0
1-1-2
18-23-10
51
tot
26
8
8
3
2
4
51


La colonna dal titolo recitativo riporta soltanto il numero di recitativi accompagnati. Ma l’opera include anche una gran massa di recitativi secchi: 14, 15 e 8 rispettivamente, nei tre atti.

Dalla tabella si deduce come Serse e Romilda siano i personaggi più ricchi complessivamente di numeri, mentre le singole arie sono più equamente distribuite anche ad Arsamene ed Atalanta (5, come Romilda, contro le 6 di Serse): quanto alla loro struttura, su 26 totali, in ben 21 (7-10-4) è presente il classico da-capo.

Le voci. In assenza dei castrati, che spopolavano ai tempi di Händel, già dall’800 (vedi le edizioni critiche di Friedrich Chrysander) i ruoli dei fratelli Serse e Arsamene furono assegnati a voci femminili (soprani e/o mezzosoprani) en-travesti. E così avviene anche in questa produzione.

Lo specialista Ottavio Dantone (che - more solito - ha anche smanettato al clavicembalo, dirigendo spesso con le... spalle) ha sforbiciato non poco, a cominciare da un certo numero di recitativi secchi; poi, non avendo in cast il coro, ha eliminato 3 dei 4 brani ad esso assegnati, per fortuna recuperando l’ultimo (e anche il più corposo, che oltretutto sigilla il lieto-fine) affidato assai intelligentemente alle 7 voci soliste. Quanto ad arie e consimili ha effettuato i seguenti sconti ai cantanti: nel primo atto la seconda strofa e la ripresa dell’aria di Serse Più che penso; nel secondo un breve arioso di Atalanta (A piangere ogn’ora); poi ha soppresso la seconda strofa e il conseguente da-capo dell’aria di Atalanta Dirà che non m’amò; quindi l’arioso di Arsamene (Per dar fine alla mia pena) e la successiva aria (con da-capo) Sì la voglio; infine l’aria con da-capo che chiude l’atto (Chi cede al furore, di Romilda); nel terz’atto la seconda strofa e il da-capo dell’aria di Serse (Per rendermi beato).

Ecco perchè le circa 2h50’ nette di un’esecuzione integrale qui si riducono a 2h40’ includendo anche i 20 minuti dell’intervallo, il che significa almeno mezz’ora di musica lasciata per strada. Ma tanto avevo cominciato col dire che, dopo l’Ombra era tutta una noia, giusto? Ovviamente no, scherzavo e devo dire che questi tagli sono sempre dolorosi, anche se (e proprio perchè) ciò che si è suonato, cantato e ascoltato merita largo apprezzamento e giustifica ampiamente (almeno per le mie tasche) il costo di ingresso e trasferta.

La durata ridotta dello spettacolo ha suggerito ovviamente di dividerlo in due anzichè in tre parti: così l’unico intervallo si ha a circa metà del second’atto, dopo l’aria di Romilda (É gelosia). Al termine del primo atto solo una breve sosta, più che altro per consentire ai bravissimi strumentisti dell’Accademia Bizantina di rimettere a punto l’accordatura degli archi (che su strumenti d’epoca è sempre problematica).

Fra le voci metto su tutti la bravissima Monica Piccinini, una convincente Romilda, e con lei l’autorevole Serse di Arianna Vendittelli e il fratellino Arsamene di Marina De Liso. Ma bene han fatto anche gli altri quattro: efficaci i due bassi Luigi De Donato (Ariodate) e Biagio Pizzuti (che come Elviro fa anche il buffo...); discrete l’Atalanta di Francesca Aspromonte e l’Amastre di Delphine Galou (cui alzerei il voto se lei alzasse di più la... voce!)
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Gabriele Vacis firma la regìa, coadiuvato da Roberto Tarasco per scene, costumi e luci, e dal suo aiuto Danilo Rubeca. Contrariamente ad altre opere di barocco-magico, qui nel Serse c’è poca o nulla azione e nessun mirabolante avvenimento, se si esclude il crollo del famigerato ponte, di cui si fatica a giustificare la presenza (e infatti in questa produzione è convenientemente cassato).

Per di più la ridotta presenza (qui poi annullata del tutto) di cori priva il regista del classico strumento utile a movimentare la scena. Così la regìa diventa un’impresa non da poco, e Vacis ricorre ad una soluzione di fatto semi-scenica: orchestra sollevata quasi al livello del proscenio, dove sono schierati i cantanti che - invece di entrare e uscire dalle quinte come si fa di solito in caso di rappresentazioni in forma concertante - restano lì in bella vista, ma accomodati quasi fossero nei loro camerini, davanti a toilettes e specchiere.

La mancanza di azione viene affrontata facendo intervenire, ad un livello assai più alto (almeno 2 metri) rispetto al palcoscenico, dei ragazzi figuranti che riempiono lo spazio con movimenti e spostamenti di oggetti più o meno (soprattutto meno, direi) relazionati con ciò che i protagonisti si stanno raccontando in musica. Di tanto in tanto lo schermo che separa i cantanti da ciò che li sovrasta serve a proiettarvi immagini suggestive, come quella del gigantesco platano che Vacis ha scovato a Torino e che pare abbia precisamente la stessa età del Serse! 

Insomma, trovate se non altro poco invasive e disturbanti per ravvivare la scena. I simpatici costumi e l’efficace l’impiego delle luci hanno contribuito a rendere più che godibile lo spettacolo, accolto alla fine dai convinti applausi del pubblico che affollava il Pavarotti in ogni ordine di posti.

06 aprile, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°24


In sostituzione del programmato Oleg Caetani, il concerto di questa settimana è diretto dal redivivo John Axelrod. In locandina opere (relativamente) minori e di non frequentissima esecuzione, di Brahms e Shostakovich.

Due opere abbastanza (ma solo apparentemente) leggere, e non certo disimpegnate: per il 24enne Brahms si trattò - insieme con il coevo Concerto per pianoforte - del primo approccio con la grande orchestra e quindi con un mondo assai vicino a quello della sinfonia, cui approderà da ultra-quarantenne; per Shostakovich, di un delicato passaggio della sua vicenda artistica ed esistenziale, sempre in bilico fra altari e polvere.

Si apre quindi con la Serenata op.11 del 1857, arrivata alla piena orchestra dopo essere nata come musica da camera. È un Brahms ancora romantico, per quanto il suo romanticismo sia quasi esposto con pudore, senza slanci velleitari o languide sdolcinature: e già fa intravedere il futuro, fatto di rigore e razionalità, di musica che si alimenta soltanto di se stessa (non per nulla Brahms diventerà quasi un modello assoluto per l’esteta Eduard Hanslick...)

Sono tre quarti d’ora di musica gradevole, orecchiabile, che infonde sentimenti di pace e tranquillità, senza allo stesso tempo annoiare o... addormentare. L’Orchestra la affronta per la terza volta nella sua ormai lunga storia, e di certo questo Brahms giovanile dev’essere un ottimo trampolino di lancio per la prossima, più impegnativa avventura delle quattro sinfonie, che Robert Trevino dirigerà qui prossimamente in due serate che si prospettano del massimo interesse.

Auditorium piacevolmente affollato e pubblico assai caloroso nell’accoglienza a questo brano che meriterebbe più presenza nei palinsesti concertistici.
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Ed eccoci alla Sesta di Shostakovich, del 1939. Sinfonia dalle caratteristiche così eterodosse da lasciare tuttora perplessi i musicologi sulla sua intima natura e sul suo (criptico?) programma interno. Sinfonia acefala, si dice, comportando un ipertrofico Largo seguito da due brevi movimenti veloci, ergo mancante di un classico Allegro di apertura. O viceversa, secondo il modello dell’ultimo Mahler (del quale il Largo evoca l’Adagio-Andante della Decima) mancando di un nuovo Adagio finale, a chiudere il discorso.

Sinfonia che viene dopo la trionfale e trionfante Quinta (1937) un autentico autodafè del musicista, costrettovi per difendersi dalle accuse (1936) di tradimento degli ideali sovietici (con la sua Lady del 1934) e per evitare di finire all’altro mondo sotto i colpi di Zdanov&C.

Ma la Quinta, per quanto insincera (stando alle ammissioni fatte in privato dallo stesso compositore) è una grande sinfonia proprio sul piano della forma e dei contenuti, tutt’al più accusabile di anacronismo. Invece questa Sesta lascia interdetti sia per la forma che per i contenuti. Chi ne ha dato una spiegazione accattivante (più o meno condivisibile) è il grande Lenny Bernstein, che senza mezzi termini ne individuò come caratteristica fondamentale l’ipocrisia. Ipocrisia impiegata dall’Artista per sbugiardarne un’altra ben più grave e colpevole: quella di un regime dispotico e sanguinario che in nome del comunismo aveva appena stretto un patto scellerato con Hitler!

Sul fronte musicale, sempre secondo Bernstein, esiste un legame - nemmeno troppo criptico - fra il Largo della Sesta di Shostakovich e l’Adagio lamentoso che chiude un’altra e più famosa Sesta, la Patetica ciajkovskiana, entrambi incardinati nel cupo SI minore: si tratterebbe nei due casi di una dolorosa presa d’atto di condizioni di vita difficili, per non dire intollerabili. Ma a differenza di Ciajkovski, dove si distinguono e si alternano due temi, il primo lugubre e il secondo più elegiaco, che poi sfuma lentamente nelle tenebre, in Shostakovich abbiamo un continuo susseguirsi di spettrali melopee degli archi, interrotte sporadicamente, ora dall’ottavino nel registro acutissimo, ora dai clarinetti o dalle trombe con brevi segnali, ora dai due flauti soli e da un recitativo del clarinetto basso; tutto in un’atmosfera che evoca rassegnazione e totale assenza di prospettive.

Poi ecco che, come nulla fosse, si passa schizofrenicamente dal buio pesto dello sconforto ad una irresponsabile orgia sonora, uno Scherzo continuo (cioè senza Trio) che sembra evocare fallaci entusiasmi. E il Rondò finale rincara la dose, immergendoci in una specie di happening da discoteca, una vera ubriacatura di danze e ritmi, qualcosa che pare voler stordire l’ascoltatore, iniettandogli una droga che gli faccia dimenticare... ?             

E allora ascoltiamo la lettura che ne diede proprio Bernstein con i Wiener nel 1987. Per confronto ecco come l’interpretò nel 1965 Yevgeny Mravinski (grande amico del compositore, colui che aveva diretto la prima del ’39). E infine come l’ha interpretata di recente (2016) Paavo Järvi. La tabellina che segue riporta sinteticamente i tempi delle tre esecuzioni citate, insieme ad una teorica durata delle tre parti della sinfonia, dedotta dalle indicazioni metronomiche dell’Autore presenti in partitura: 

Shostakovich
movimento
Bernstein
Mravinsky
Järvi
17’ 10”
Largo
21’ 45”
15’ 00”
18’ 30”
7’ 40”
Allegro
8’ 00”
5’ 30”
6’ 05”
6’ 00”
Presto
7’ 30”
6’ 20”
6’ 30”
30’ 50”
sinfonia
37’ 15”
26’ 50”
31’ 05”
-
scostamento
+20,8%
-13,0%
+1,0%

Rispetto alle teoriche volontà dell’Autore: macroscopica la differenza di tempi (soprattutto nel Largo) di Bernstein; velocissimo (a parte il finale) Mravinsky e complessivamente in tempo Järvi. Qui in Auditorium a dirigere la Sinfonia è, guarda caso, un allievo del grande Lenny: Axelrod però ha (curiosamente) imitato il maestro nei due movimenti veloci (8’ e 7’) mentre è stato più rapido in quello lento (18’) totalizzando comunque 33’, quindi un approccio fra i più... tranquilli. (Chissà se invece Caetani avrebbe seguito le orme di Mravinsky... i ragazzi dell’Orchestra potrebbero saperne qualcosa, visto che con lui hanno inciso l’intero corpus sinfonico di Shostakovich.)

Va da sè che questi freddi numeri costituiscono poco più che curiosità, e non possono certo essere utilizzati per emettere condanne o innalzare monumenti. Rappresentando oltretutto solo uno (e magari non il più importante) elemento di valutazione di un’interpretazione, che va giudicata anche secondo le mille sfumature agogico/dinamiche che la caratterizzano: come sempre, sarà il gusto di ciascuno a decidere quale lettura privilegiare.  

E il folto pubblico di ieri sera pare proprio aver gradito, riservando a tutti un’accoglienza quasi trionfale, con ripetute chiamate e applausi, anche ritmati, per il Direttore.