ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

13 marzo, 2019

A Roma torna un Orfeo maschio


Al Costanzi sta arrivando (questa sera la primina giovani) l’Orfeo di Gluck, una co-produzione italo-franco-canadese affidata a Robert Carsen e già collaudata (mediamente con successo) nel 2018 a Parigi e prima ancora, nel 2011, a Toronto. Messinscena che Carsen ha peraltro riproposto rimaneggiando quella del 2006 a Chicago.

Come si sa, il ruolo del protagonista alle prime recite del 1762 a Vienna fu affidato ad un famoso castrato, il contralto Gaetano Guadagni, mentre nella versione francese del 1774 venne rivisto per la tessitura di tenore acuto. Tramontata l’epoca dei castrati, nella versione originale la parte venne tradizionalmente affidata ad un contralto en-travesti (prassi inaugurata già nell’800, con la sua versione ibrida, da Hector Berlioz). Ebbene, in questa produzione torna invece a sostenerla un maschio: è già successo l’anno scorso a Parigi (con Philippe Jaroussky, direzione di Fasolis) e alla COC nel 2011 (con Lawrence Zazzo, direzione di Bicket); ed era successo a Chicago nel 2006 (dove si esibì David Daniel, sempre con Bicket). Anche qui la cosa si ripete, protagonista Carlo Vistoli, il quale non è evidentemente (e per sua fortuna...) castrato ma - come i colleghi citati più sopra - controtenore.

Sull’opportunità e l’efficacia dell’impiego di queste voci (contraltisti come Vistoli, o sopranisti come Jaroussky) ci sono diverse correnti di pensiero: c’è chi lo disapprova, sostenendo che un contralto femmina en-travesti sia da preferire, poichè canta con voce naturale (come i castrati, per i quali furono scritte parti come quella di Orfeo); e chi all’opposto sostiene che un falsettista (se ben preparato) può imitare efficacemente la vocalità dei castrati, con il vantaggio di essere... di sesso maschile, quindi di per sè più appropriato, anche scenicamente, ad interpretare un ruolo di tal genere (poichè un Orfeo femmina rischia di trasportare la vicenda a... Saffo).

Beh, staremo a vedere e soprattutto sentire. Venerdi 15 ore 20 su Radio3 e - per ciò che mi riguarda - domenica 17 dal vivo.

08 marzo, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°20


Il versatile Fazil Say fa il suo ritorno dopo due anni in Auditorium nella triplice veste di compositore, solista e direttore per proporci ben due concerti per pianoforte che incastonano una sua composizione. Per la verità lui deve fidarsi così ciecamente della bravura dei ragazzi de laVerdi che lascia in pratica il ruolo di direttore alla spalla Santaniello, limitandosi a indicargli quando è ponto per attaccare... e a pochi e sobri gesti.  

Di Mozart viene inizialmente eseguito il Concerto n°1 K37, che ricade nella categoria dei cosiddetti concerti-pasticcio, poichè non sono tutta farina del sacco del Teofilo, ma riprese e rimaneggiamenti di musiche di altri compositori (si tratta sempre di tempi di sonate per tastiera). Così i tre movimenti del concerto in FA maggiore hanno tre diversi padri: Hermann Friedrich Raupach (Allegro); sconosciuto (Andante) e Leontzi Honauer (Rondò). Per di più i ricercatori hanno stabilito che anche papà Leopold ci deve aver messo le mani, per correggere e migliorare il lavoro del figlioletto undicenne. Insomma, un lavoro di... gruppo! Che peraltro mostra già le spiccate qualità del ragazzino, che Say mette in luce con grande delicatezza, dando ogni tanto una sbirciatina allo spartito... (proprio come fa qui il sommo Richter!)
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Poi Fazil ci offre una sua creazione, Yürüyen Köşk (Il palazzo semovente) un omaggio al grande Kemal Atatürk, fondatore della moderna Turchia, che purtroppo oggi un tale Erdogan sta cercando in tutti i modi di smodernizzare (ma fra i due proprio di recente c’è stato un riavvicinamento...)

Il brano, ispirato da un aneddoto riguardante un... platano che Atatürk risparmiò al taglio facendo spostare su rotaie un edificio attiguo, si suddivide in quattro parti che si succedono senza soluzione di continuità:

1- Enlightenment (Illuminismo)
2- Struggle against Darkness (Lotta contro l’Oscurantismo)
3- Believing in Life (Credere nella Vita)
4- Plane Tree (Il Platano)

Vi si alternano momenti di grande lirismo e atmosfere cariche di concitazione, richiami orientaleggianti e ritmi sincopati e di jazz; sembra far capolino - nella terza parte - anche Rachmaninov; l’ultima parte riassume la vicenda del platano, con momenti di serenità rotti da altri ancora agitati o cupi e pesanti (chissà, forse lo sforzo di uomini e mezzi per spostare l’edificio...) fino alla conclusione con le note acutissime del pianoforte che evocano il cinguettare degli uccellini sul platano salvato.  

Accoglienza calorosa dal pubblico che affollava piacevolmente l’Auditorium.
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Chiusura in grande stile con il Concerto in DO minore di Beethoven. Anche qui Fazil mostra la sua vena di compositore, presentando una sua stupefacente (e per la verità anche un po’ dissacrante) cadenza del primo tempo. Ma tutta la sua lettura è personalissima e trascinante e qualche piccola sbavatura nulla toglie all’eccellenza dell’esecuzione, ben supportata dall’Orchestra, specie dalla sezione dei legni. Trionfo assicurato e ricambiato ancora con un personale bis.

02 marzo, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°19


Tutta Spagna (patrocinio dell’Instituto Cervantes) in questo 19° Concerto della stagione: direttore, solista e compositori (nativi e... simpatizzanti.) La Spagna (specie se c’è il bolerodiravel!) fa sempre centro, e l’Auditorium era pieno come un uovo, con nutrita rappresentanza di giovani e giovanissimi!

Il primo simpatizzante è Luis (per noi Luigi) Boccherini che dalla natia Lucca sbarcò dapprima a Vienna, poi a Milano, quindi a Parigi e infine (1768) in Spagna, dove raggiunse una discreta fama (propagatasi in Europa) pari alle infinite avversità e miserie che caratterizzarono buona parte della sua permanenza laggiù. Un altro italiano, Luciano Berio, nel 1975 ha orchestrato e concentrato, quasi liofilizzato le diverse versioni della Ritirata di Madrid, che si ascoltano in questo concerto.

Della Ritirata (marcia notturna) risulta che Boccherini abbia composto ben cinque versioni. Le tre principali e più eseguite si trovano rispettivamente nell’ultimo movimento del Quintetto per archi G324 (una specie di micro-poema-sinfonico ambientato nella capitale spagnola, tema e 11 variazioni, qui Savall a 9’46”) composto nel 1780; poi come secondo movimento del Quintetto con pianoforte G418 (11 variazioni, qui Ensemble Claviere); e infine come quarto ed ultimo tempo del Quintetto con chitarra G453 (derivato a sua volta - per i primi 3 tempi - dal G409, 12 variazioni, qui Scattolin&C).

Berio, su commissione della Scala, ha mantecato quattro delle cinque versioni, costruendo una pièce per grande orchestra, eseguita per la prima volta (ricordo di avervi assistito... bei tempi!) martedi 17 giugno 1975 al Piermarini, direttore Piero Bellugi. Nel 2000 anche laVerdi ci si è cimentata per la prima volta diretta proprio da Berio; poi nel 2004 l’ha anche incisa con Chailly.

Il brano si presenta come un tema con 11 variazioni: sono quelle musicate da Boccherini, che Berio riprende e rimescola, facendo progressivamente aumentare il volume del suono, con l’ingresso in scena di nuovi strumenti, a rappresentare l’approssimarsi e poi il passaggio ravvicinato della banda militare; quindi il suono tende progressivamente a sfumare, diradandosi sempre più, fino a scomparire del tutto. Va detto che questo effetto non l’ha inventato Berio, ma fu lo stesso Boccherini a pretenderlo, con precise indicazioni poste sulla partitura:


Torniamo alla registrazione di Chailly  per apprezzare la struttura e l’orchestrazione del brano così come ideata da Berio:

          Introduzione: sono i tamburini (assistiti dai violini secondi) a dettare il ritmo, che si manterrà per l’intero brano; è la banda che si avvicina;
   19” esposizione del tema della Ritirata; tre flauti in primo piano;
   47” variazione 1; affidata al flauto e ai violini;
1’16”        “       2;  oboe, poi accompagnato da flauto e clarinetti;
1’44”        “       3;  violini, con interventi di flauto e oboe;
2’13”        “       4;  legni e archi, con trombe sordina;
2’41”        “       5;  violini con interventi di flauti e trombe;
3’10”        “       6;  violini e fiati al completo; la banda è ormai vicina;
3’39”        ”       7;  orchestra piena: arrivo della banda sulla piazza;
4’08”        “       8;  violini, legni, oboe; il volume del suono decresce; la banda comincia ad allontanarsi;
4’37”        “       9;  oboe, poi accompagnato da flauto (variazione 2);
5’05”        “     10;  flauti, clarinetti, violini; il suono sfuma sempre più;
5’34”        “     11;  trombe con sordina, flauti; si ode quasi solo l’accompagnamento;
6’04” coda: la musica si allontana... tamburi, tre flauti e violini spengono il suono.

Come curiosità scopriamo che la conclusione della melodia di Boccherini coincide praticamente alla lettera (a partire dalla tonalità di DO maggiore, ma anche nel tempo - 2/4 vs 4/4 alla breve - e persino nell’acciaccatura e nel trillo!) con quella del tema principale del Rondo finale della Sonata per violino e pianoforte K296 che un tale Mozart aveva composto a Mannheim nel 1778 (due anni prima, quindi, della prima versione di Boccherini):

Che sia questione di plagio in piena regola, di citazione esplicita, o di pura... telepatia è domanda tutto sommato stucchevole: a noi basta sia musica mirabile. E come tale ci è stata proposta dal giovane e brillante Manuel Coves, e meritatamente applaudita dal pubblico oceanico dell’Auditorium.
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Ecco poi il primo spagnolo verace, Joaquín Rodrigo con il suo celebre (soprattutto per il centrale Adagio) Concierto de Aranjuez. Il Concerto, dedicato al chitarrista Regino Sáinz de la Maza y Ruiz, fu composto a Parigi nei primi mesi del 1939 ed eseguito per la prima volta a Barcellona, solista il dedicatario, sabato 9 novembre 1940, in pieno regime franchista. Rodrigo ne formulò una specie di programma, secondo il quale il primo movimento (Allegro con spirito, in RE maggiore) si ispirerebbe all’idilliaca natura dei giardini del palazzo reale di Aranjuez, che lui aveva visitato con la moglie, potendo peraltro apprezzarne soltanto i profumi e l’atmosfera, essendo lui cieco quasi dalla nascita; il secondo (il famoso Adagio, in SI minore) sarebbe un autentico lamento per il figlioletto nato morto e il terzo (Allegro gentile, RE maggiore) rappresenterebbe la sua serena accettazione del destino.  

La chitarra da sempre è tipico strumento di accompagnamento della voce o della danza, un po’ come l’arpa. Ma almeno quest’ultima, non fosse che per le dimensioni, ha una sonorità che le permette di emergere anche in mezzo ad un’orchestra sinfonica... Grande merito dei due compositori presentati qui (Rodrigo e Moreno-Torroba) è stato di aver scritto brani dove la chitarra ha una parte spiccatamente solistica.

Il concerto di Rodrigo si può apprezzare in rete, eseguito proprio dall’interprete di oggi, Pepe Romero, che ha ricevuto applausi a scena aperta, cioè anche al termine dei primi due movimenti. Nel secondo dei quali si è messa in bella mostra con il suo corno inglese la bravissima Paola Scotti.    
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Ancora chitarra con il Concierto en Flamenco di Federico Moreno-Torroba. Opera del lontano 1962 che Pepe Romero ha riscoperto e valorizzato. Qui lo vediamo (1 e 2) diretto dal fratello Angel interpretarlo nel 2007 a Malaga (i Romero sono una vera e propria dinastia di musicisti, c’è anche un altro fratello, Celin, tutti figli di Celedonio, e poi mogli e nipoti... e soprattutto sono stati fieri antifranchisti, il che torna a loro onore...) 

Il concerto consta di quattro parti, corrispondenti ad altrettanti e diversi balli di flamenco:

  1’22” Fandango
11’08” Farruca
  1’02” Alegrias de Cadiz
  7’25” Bulerias

Anche qui è mirabile la distribuzione di compiti fra solista e orchestra, i cui strumenti (oboi, flauti, violini...) propongono le melodie che poi la chitarra impreziosisce con i suoi virtuosi interventi.

Ancora grande accoglienza (applausi anche dopo ognuno dei movimenti intermedi) per Pepe Romero che, per nulla stanco dei due impegnativi concerti, ci regala anche un bis... famigliare, la conclusione di una Suite del padre Celedonio!
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Chiusura alla grande con l’immarcescibile Bolero di Ravel, come al solito innervato sul tamburino di Ivan Fossati, che ormai lo suona innestando il pilota automatico (! ma ciò non significa che al suo posto si possa mettere un robot!)

Pubblico entusiasta e Orchestra che manifesta apprezzamento per il Direttore, accogliendolo all’ultima uscita con applausi ritmati. Insomma, una serata davvero splendida!

28 febbraio, 2019

La Chovanščina è tornata alla Scala


Ieri sera il Piermarini ha ospitato la prima delle 7 rappresentazioni di Chovanščina, una nuova produzione affidata a Mario Martone e, per la parte musicale, al confermato (dopo il 1998) Valery Gergiev. Chiudo subito la questione tagli rispetto alla versione-Shostakovich: Gergiev conferma l’approccio che tiene da diversi anni e cioè elimina le trombe di Pietro in chiusura di second’atto, sostituite con una dissolvenza e con il passaggio senza soluzione di continuità all’atto successivo; nel terzo atto taglia completamente la canzone di Kuzka e Strelcy; chiude infine l’opera dopo il coro dei raskolniki, ripreso in orchestra e omettendo quindi il finale di Rimski (trombe di Pietro) e le aggiunte di Shostakovich (moscoviti e alba). Il tutto per una decina di minuti in meno di musica.

Gergiev si conferma, ce ne fosse bisogno, un profondo conoscitore di questa complessa partitura: nulla gli sfugge e tutto concorre a creare l’atmosfera così profondamente russa di cui l’opera è intrisa. Dove squarci di assoluto lirismo si affiancano a scene di rozzezza animalesca, momenti di intimità privata a sguaiate manifestazioni popolari, sfoghi di forza bruta ad espressioni di profonda religiosità. Il Maestro russo ottiene sempre dall’orchestra (in gran forma) e dalle voci il massimo dell’efficacia, senza che la tensione si abbassi mai nel corso delle più di tre ore nette di musica.

Ma encomiabile è anche l’affiatamento con la parte scenica dello spettacolo di Martone, che a sua volta interpreta con grande coerenza lo spirito dell’opera. Dove non si mandano messaggi nè si presentano posizioni politiche o sociologiche o ideologiche, ma si descrive semplicemente e dolorosamente un’epoca storica travagliata e caotica della vecchia Russia, un immenso paese sconvolto da fenomeni tipici del trapasso politico da medioevo a modernità, nonchè dal cambio radicale di modelli culturali: da quelli tipici dell’Asia ad altri mutuati dalla civiltà occidentale. Peccato che qualche gratuita (quanto evitabile) forzatura del regista (ci torno nel seguito) abbia compromesso una messinscena tutto sommato intelligente, tanto da guadagnare a Martone gli unici buh uditi alla fine.

Il cast delle voci merita un encomio cumulativo: ciascun interprete ha saputo dar vita al personaggio con efficacia e appropriatezza. Ecco quindi il volgare Ivan Chovanskij di cui Mikhail Petrenko mette in risalto le attitudini di vecchio possidente privo di cultura, ma pieno di boria, prepotenza e cinismo.

Splendido Alexey Markov come Šaklovityj: e non solo per la grande aria del terz’atto, davvero esposta con nobiltà, portamento e con il supporto di una splendida voce baritonale, ma anche per l’efficacia con cui ha incarnato questo personaggio caratterizzato da tratti inafferrabili, ambigui e contraddittori. 

Il santone Dosifej è impersonato da Stanislav Trofimov, praticamente perfetto in questa parte che coniuga la nobiltà di ideali religiosi con il cieco dogmatismo e l’intolleranza di chi arriva persino al sacrificio della propria vita pur di non dover vivere in una società nella quale non si riconosce più.

Evgeny Akimov incarna da par suo la figura di Vasilij Golicyn, personaggio tanto raffinato, laico e progressista quanto schizofrenicamente schiavo di assurde superstizioni. La sua è una figura che passa come una meteora (lo vediamo e sentiamo solamente nel second’atto, poi ne sentiremo solo parlare nel quarto...) ma - anche grazie all’integrità della partitura, preservata da Shostakovich e da Gergiev - ha modo di mettere in mostra la sua voce squillante (un po' meno nei centri e bassi) e le sue notevoli qualità espressive.

Discreta anche la prestazione di Sergey Skorokhodov, un Andrej Chovanskij dalla personalità instabile (con quel padre...) che lo trasforma da bestia assatanata di sesso in bambino piagnucoloso e disperato al momento del redde-rationem.

Lo scrivano è impersonato da Maxim Paster: ottima la sua resa di questo personaggio tremebondo, qualunquista e meschinello, in particolare nella scena con Šaklovityj e nella ricomparsa al terz’atto.

Penalizzato dal taglio della sua canzone della calunnia, Sergej Ababkin (uno dei sei accademici scaligeri di questa produzione) si è rifatto aggiungendo al personaggio di Kuzka anche quello, piccolo piccolo, di Strešnev.  
   
Gli altri cinque dell’Accademia vanno accomunati in un elogio collettivo: ciascuno ha meritevolmente dato vita a personaggi che saranno pure di contorno ma richiedono pur sempre (ad esempio il Pastore protestante) sensibilità interpretativa e voci adeguate.

Vengo ora al gineceo: qui il personaggio che torreggia (è l’unico presente in tutti i cinque atti dell’opera) e quello di Marfa. Bene, Ekaterina Semenchuk è assai efficace nella parte: memorabili la sua profezia e la canzone, ma di grande spessore anche tutti gli altri suoi interventi. Sostenuti da una voce di bel colore brunito e dagli acuti potenti, anche se nell’ottava bassa qualche decibel in più non guasterebbe.

I due soprani hanno parti non proibitive, ma proprio per questo non si possono permettere pecche: devo dire che sia la Emma di Evgenia Muraveva che la Susanna di Irina Vashchenko hanno messo in mostra buone qualità, voci ben impostate e corpose, e non si son fatte trascinare dalla foga che caratterizza i due personaggi e che potrebbe facilmente portare ad emettere schiamazzi invece che canto.

Il coro di Casoni è chiamato ad un compito oltremodo difficile, dovendo passare - i maschi - dalle sguaiatezze dei buzzurri moscoviti e dei prepotenti Strelcy alle stolide esternazioni dei monaci e alle esaltate preghiere dei raskolniki; ma anche dare nobiltà e religiosità ai cori degli stessi moscoviti. Le donne devono pure loro sdoppiarsi fra gentili e timide contadinelle che cantano canzoncine da educande e mogli degli Strelcy inferocite e vociferanti, oltre che in popolane esultanti per Ivan e in vecchie credenti invasate. Bene, come al solito la compagine scaligera ha dato il meglio di sè, a dispetto del... russo!

Detto ciò, mi sembra quasi superfluo aggiungere che tutti, ma proprio tutti, hanno avuto alla fine un calorosissimo riconoscimento da parte di un pubblico entusiasta, che evidentemente non ha avuto problemi a sopportare più di quattro ore di spettacolo.
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Spettacolo che ha avuto in Mario Martone il protagonista della parte scenica e drammaturgica. L’ambientazione è in un tempo-fuori-dal-tempo, un mix di passato, presente e (forse) futuro, dove convivono oggetti, suppellettili e abbigliamenti di provenienza eterogenea, come il consunto sidecar dello scrivano carico di residuati di strumenti elettronici, o gli smartphone impugnati indifferentemente da modernisti (Golicyn) e passatisti (Dosifej); c’è anche una specie di drone che attraversa la scena proprio all’inizio; i costumi sono pure di fogge svariate, dai cappottoni di Ivan e Dosifej all’impeccabile abito scuro, con valigetta 24-ore, da funzionario FBI (più che KGB...) di Šaklovityj; le scene lasciano percepire un generale stato di caos e degrado, che ben rappresenta la situazione vissuta dalla Russia nel periodo oggetto del testo di Musorgski. Meno efficace invece la differenziazione fra l’ambiente in cui vive Golicyn da quello di Chovanskij (ma di quest’ultimo parlerò più avanti).

Martone inventa encomiabilmente alcune trovate di carattere didascalico, che aiutano lo spettatore meno addentro alle contorte vicende del libretto (e alle prese con i problemi di lingua...) a capirci qualcosa in più. La ricorrente presenza in scena (accuratamente evitata, pur se inizialmente contemplata da Musorgski) di Sofia con i due piccoli zar ne è esempio illuminante. I tre appaiono proprio all’inizio dell’opera, sulla musica dell’alba, dove possono rappresentare, soprattutto Pietro, il-nuovo-che-avanza; poi tornano al momento in cui lo scrivano esce di scena, e va a consegnare la lettera delatoria di Šaklovityj alla zarevna. La quale, significativamente, la fa leggere anche al piccolo e intelligente Pietro, per poi consegnarla appallottolata nelle mani del grandicello ma minorato mentale Ivan! Alla fine del primo atto Sofia abbandona i piccoli zar per... abbandonarsi ad un amplesso con Golicyn, comparso a chiarire in anticipo il significato della lettera (no... un sms) d’amore che la zarevna gli invia all’inizio dell’atto successivo. Infine i tre tornano sulla scena nel secondo quadro del quarto atto a chiarire come il padrone della situazione resti, da solo, Pietro (che però, a 10 anni, difficilmente poteva essere già solitario al potere... ma questo è un problema di Musorgski).

Nell’atto iniziale citerei ancora l’incomprensibile mancanza di reazione di Marfa al tentativo di accoltellamento da parte di Andrej, il che dà modo a Emma di ricambiarle il favore (?) difendendola dall’energumeno. Azzeccata invece la permanenza dello stesso Andrej con il gruppo di vecchi credenti (mentre il padre e gli Strelcy entrano al Kremlino) che sta a prefigurare la sorte del poveraccio, come si materializzerà nel quarto e quinto atto. Poco da dire sul second’atto (il bicchiere che sostituisce la bacinella d’acqua non fa troppi danni...) Efficace la resa del turbolento convegno a tre e delle irruzioni da Marfa e Šaklovityj.

Come detto, il secondo e il terzo atto vengono accorpati e c’è assoluta continuità musicale fra la dissolvenza che chiude l’uno e l’attacco dell’introduzione che apre l’altro. Il coro dei monaci (che erano presenti e ben visibili nell’atto secondo) viene qui cantato a sipario chiuso (scelta del tutto condivisibile); sipario che si alza quindi sulla canzone di Marfa, che vediamo ingabbiata come una belva, per nulla feroce, peraltro. Gabbia che rappresenta - direi - un’allegoria: la costrizione psicologica che attanaglia la donna, prigioniera dei suoi bei ricordi dei momenti passati con Andrej ed anche della sua fede talebana in una religione fossilizzata e ormai minoritaria. Gabbia dalla quale viene liberata dal santone Dosifej che la invita ad accettare fatalisticamente ciò che il futuro le riserverà.

A questo punto arriva (secondo me e credo per buona parte del pubblico) la prima caduta di stile, e non solo, di Martone. Il quale ci mostra un Šaklovityj che canta quel mirabile e accorato arioso sulla situazione della sua povera Russia e contemporaneamente dà ordine ai suoi sgherri di arrestare Ivan Chovanskij! Davvero un’invenzione sopra le righe, poichè sappiamo già che Šaklovityj vuole Chovanskij morto, ma lo farà ammazzare nell’atto successivo e senza di certo imprigionarlo prima. Così siamo costretti a vedere Ivan che fa l’ultimo appello ai suoi Strelcy, invece che da casa sua, da una gabbia di penitenziario, dopodichè, nell’atto quarto, torna libero come un uccello (anzi con una dotazione di doppiette per sparare ai volatili) nella sua residenza di campagna, dove si gode i canti delle sue contadinelle. Mah... che siano arresti domiciliari all’acqua di rose, tipo quelli di Tiziano Renzi e consorte?  

Ma il peggio arriva adesso, con la danza delle persiane: un siparietto da volgarissimo avanspettacolo, con lap-dance, strip e strusciamenti, culminante nell’uccisione di Chovanskij per mano (anzi, per fucilata) di una delle zoccole! Qui siamo caduti proprio in basso... e in basso si resta alla fine del quadro successivo dove, in barba alla grazia concessa da Pietro agli Strelcy, alcuni di questi vengono platealmente ammazzati da tagliagole dell’ISIS! (Certo, sappiamo bene che 15 anni dopo Pietro il Grande farà ammazzare come cani gli Strelcy, ma nell’opera non è così e allora: perchè si deve correggere a tutti i costi Musorgski?)

Ecco, una regìa apprezzabile che si è in parte rovinata per voler strafare. Così alla fine, mentre per tutti c’erano solo applausi e bravi!, per Martone sono piovute sonore contestazioni. Ma chi è causa del suo mal...  

23 febbraio, 2019

laVerdi 18-19 - Concerto n°18


L’eclettico Maxim Rysanov fa una nuova e gradita visita in Auditorium per presentare un programma tutto slavo.

Programma aperto da una composizione contemporanea (del 2006) di Dobrinka Tabakova, 39enne bulgara trapiantata in Albione: Suite in Old Style (The Courth Jester Amareu). Il giullare di corte Amareu è in realtà (anagrammando il cognome) Jean-Philippe Rameau ed è lui che fornisce l’ispirazione per questo brano musicale.

Rysanov è anche il dedicatario dell’opera - originariamente scritta per viola, clavicembalo e piccolo ensemble di archi, poi arricchita per un’orchestra d’archi e percussioni - che lui presentò in prima a Mosca domenica 21 gennaio 2007 ed ha poi portato in giro per il mondo, fino all’odierno approdo milanese. Possiamo ascoltare la versione per orchestra, proprio diretta ed interpretata da Rysanov, in questa esecuzione del 2015 a Madrid, una delle tante pubblicate in rete.

I sottotitoli che vi appaiono in sovrimpressione riportano quelli dei 5 movimenti in cui la Suite è suddivisa, che hanno riferimenti extramusicali, attinenti a scene di vita in ambienti nobiliari del ‘700 (Versailles, nientemeno...) La tonalità principale del brano (la Suite barocca era tipicamente mono-tonalità) è il RE minore, con qualche divagazione su tonalità vicine (ma il 4° movimento è in DO). Mutuata dalla tradizione è anche l’alternanza fra movimenti veloci e lenti:

- Preludio: fanfara dai balconi (lento) e ritorno dalla caccia (veloce)
- Attraversando corridoi di specchi (lento-veloce-lento)
- Il giardino delle rose al chiaro di luna (lento)
- L’indovinello del suonatore d’organetto (veloce)
- Postludio: caccia e finale (veloce-lento)

Che dire: senza conoscerne l’origine, si potrebbe davvero prendere per musica del ‘700! Il che può comportare un giudizio positivo, data l’indubbia gradevolezza del brano, o negativo, un comodo e facile sfruttamento di antiche forme e contenuti.

Rysanov, presentatosi in abbigliamento scamiciato, proprio da zigano (però dopo ha vestito il frac...) ha ovviamente dato il meglio per valorizzare il brano, con i suoi pregevoli virtuosismi, e quindi ci siamo goduti questi 20 minuti scarsi di musica orecchiabile e non parliamone più...
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Ma a proposito di scimmiottature di musica vecchia di secoli, ecco il secondo brano in programma, la Suite da Pulcinella di Stravinski. Al quale va però riconosciuto di aver sì impiegato modelli e melodie di Pergolesi&C, ma arricchendoli da par suo di contenuti squisitamente novecenteschi e orchestrando il tutto con la ricerca di raffinati timbri e sonorità.

Tutte qualità che Rysanov ha saputo benissimo mettere in risalto, ben assecondato dall’Orchestra con la quale mostra ormai (dopo diverse collaborazioni) di aver raggiunto un ottimo grado di affiatamento. Quintetto delle prime parti degli archi disposto attorno al podio, per valorizzarne gli interventi solistici; che riguardano anche altri componenti dell’orchestra, penso a trombe e tromboni, ma solo come esempi.

Successo pieno e applausi e chiamate singole per tutte le prime parti e le intere sezioni dell’orchestra.
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Chiusura in bellezza con la Quinta di Prokofiev. Figlia della WWII, fu composta nel ’44 in una specie di oasi in cui alcuni artisti considerati patrimonio dell’URSS erano stati ospitati per evitare di cadere sotto i bombardamenti tedeschi e poter trovare ispirazione per le loro opere. E Prokofiev, alloggiato con la moglie in un confortevole appartamento, trovò effettivamente l’ambiente e l’atmosfera adatti per comporre questa che è di sicuro la sua più nota sinfonia e forse è anche la più esteticamente pregevole.

Sinfonia dal carattere e dalla struttura classica: 4 movimenti, tonalità scolasticamente accostate (SIb - RE - FA - SIb) impiego della forma-sonata e poche innovazioni (il pianoforte a far da riempitivo e qualche tamburo assortito). L’atmosfera che si respira è le mille miglia lontana dai fragori e dalle miserie della guerra (quindi da ciò che componeva, vedi l’ottava sinfonia, lì nei pressi tale Shostakovich) e solo l’Adagio, quasi espressionista, fa eccezione alla regola.

Qui ce la propone, con i suoi del Marinskii, Valery Gergiev, che usiamo come cicerone per esplorarne sommariamente le bellezze.

L’iniziale Andante (SIb maggiore) è in forma sonata, quindi due sono i temi principali che lo caratterizzano (in realtà sono accompagnati da almeno quattro altri motivi di una certa rilevanza, quindi parliamo sempre di gruppi tematici):


Il tema A viene subito esposto, senza introduzioni di sorta, da flauti e fagotto e poco dopo (1’04”) è ripreso, quasi distorto nella tonalità, da archi e poi dai fiati e ancora sottoposto a varianti, esposto a piccoli nuclei che lo compongono e affiancato da motivi secondari. Si arriva al secondo gruppo tematico (3’02”) con il tema B (canonicamente nella tonalità dominante di FA maggiore) ancora esposto dal flauto accompagnato dall’oboe: alcune micro-sezioni del tema richiamano il tema A, a conferma della coerenza della struttura tematica. Anche questo tema si accompagna con motivi di supporto, viene ripreso e rielaborato, finchè si arriva alla chiusura dell’esposizione e all’inizio dello sviluppo (4’50”).

Il quale presenta dapprima il tema A, e poi il tema B, manipolati sapientemente e sempre accompagnati dai rispettivi motivi secondari. Mirabile anche l’orchestrazione, con un ribollire di effetti e un continuo rincorrersi fra le diverse sezioni.

Si arriva quindi (8’17”) alla ricapitolazione, che in realtà non ripresenta stucchevolmente i temi come uditi nell’esposizione, ma ancora li sottopone a sottili manipolazioni e/o li trasferisce da una sezione all’altra dell’orchestra. Il secondo tema (B) ricompare (10’00”, anche qui nel rispetto delle sacre regole) in tonalità SIb, seguito e accompagnato dai suoi motivi ancillari.

A 11’13” ecco la coda, aperta da pesanti perorazioni degli ottoni, basata ancora su spezzoni del tema A (qui in MIb maggiore) che si chiude con la massima enfasi su uno schianto di SIb maggiore di tutta l’orchestra.

L’Allegro marcato, in RE minore, può essere vagamente assimilato al tradizionale Scherzo, e si presenta infatti con tre sezioni, delle quali quella centrale, in tempo più lento, potrebbe lontanissimamente assomigliare al classico Trio, anche se qui è di proporzioni e articolazione colossali. I temi principali sono due, sempre accompagnati da motivi di supporto:


Il primo tema (13’23”, chissà se Nino Rota se ne è ricordato per le sue musiche di 8½) pare evocare sbuffanti locomotive lanciate a tutta velocità, o l’incessante lavoro di magli che modellano l’acciaio nelle fabbriche di armamenti... Viene al solito presentato e poi manipolato sapientemente, fino all’arrivo (1602”, meno mosso) del motivo B (RE maggiore) che introduce il secondo gruppo tematico (16’28” e poi 17’06”) di proporzioni enormi e in metro ternario, che viene chiuso ancora dal motivo B (18’14”). Riecco il primo gruppo tematico (18’45”) che si presenta quasi ansimando, sembra proprio una locomotiva che sta faticosamente mettendosi in moto, sbuffando sempre più affannosamente, finchè (20’03”) eccola lanciarsi ancora nella sua folle corsa! Che per la verità (ecco la coda, 21’24”) si interrompe bruscamente (21’48”) come sbattesse contro un muro... di RE minore!

Ora abbiamo l’Adagio, in FA maggiore, una vera oasi di calma (ma anche di severa riflessione) dopo cotanta agitazione. Un movimento francamente ostico e non facile (a differenza degli altri) a digerirsi al primo ascolto. É in forma ternaria, con una sezione centrale più mossa. Dopo 3 battute introduttive ecco il tema A esposto da clarinetti e clarinetto basso (22’11”) subito seguito da un paio di controsoggetti e poi ripetuto (23’15”) dagli archi in MI maggiore. Un altro motivo B è esposto (24’58”) per chiudere la prima sezione:

La parte centrale del movimento (26’07”) presenta un ritmo più mosso, con un ostinato asimmetrico (terzine e duine per battuta) e vi appare (come a 26’19” e poi a 26’48” e ancora a 28’05”) un motivo puntato (C) assai dolente che sfocia (29’28”) in una poderosa perorazione dell’intera orchestra.  

A 30’15” attacca la terza parte del movimento con la ripresa del tema A negli archi; poi riecco (31’48”) il tema B. A 32’38” arriva la lunghissima coda che il clarinetto conduce in un’atmosfera sempre più rarefatta, a chiudere questo movimento davvero sofferto!

Ed eccoci al finale Allegro giocoso, SIb maggiore. La sua struttura ternaria si presta in questo caso ad una interpretazione in termini di forma-sonata, con esposizione, sviluppo e ripresa, anche se spesso si indica la forma come rondo, per il periodico ritorno del tema principale. L’Introduzione (che attacca riprendendo il FA conclusivo del precedente Adagio) è caratterizzata dalle reminiscenze del tema principale dell’Andante (primo movimento) che appaiono rispettivamente a 35’13” (frammento) e a 35’25” (tema completo).

Le viole, imponendone il ritmo, danno l’attacco al tema A esposto dapprima (36’03”) dal clarinetto solo e poi, dopo una risposta dei violini, da legni ed archi (36’20”). Il secondo gruppo tematico (motivo B) è esposto dal flauto a 37’17”, poi ripreso ancora a 37’45”, sempre dal flauto spalleggiato dal clarinetto. Ancora il tema A (38’10”) attaccato dal clarinetto ad invitare il flauto per il suo completamento, cui segue un transizione che chiude questa prima parte del movimento (l’esposizione, in linguaggio di forma-sonata).


Ecco quindi la sezione centrale, o sviluppo (39’12”) che introduce per la verità un nuovo motivo C, di natura assai cantabile, che richiama nello spirito il tema A del primo movimento. Poi vengono rielaborati e manipolati i motivi esposti in precedenza, compreso il tema C, fino a concludere questa sezione.

La ricapitolazione inizia a 40’57”, con la riproposizione del tema A e poi (41’48”) del tema B. Ancora il tema A (42’15”) viene esposto a grande ampiezza, spezzato nelle sue componenti, e poi torna a farsi vivo (42’43”) enfaticamente nei corni. Con il tema C innesca infine una colossale coda, dove tiene banco, fra le percussioni, un insistito quanto impertinente martellamento del legno, che rende ancor più esilarante la conclusione della sinfonia.
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Anche questa sinfonia è ormai entrata nel vasto novero dei cavalli di battaglia dell’Orchestra, che anche ieri non si è smentita, tirando fuori un’esecuzione davvero encomiabile. Merito certamente anche di Rysanov, che mostra grande autorevolezza nella direzione e perspicacia nel mettere in risalto le tante perle di questa grande partitura (per dire, anche l’ostico Adagio è stato padroneggiato in modo da evitare assopimenti!) 

Pubblico anche ieri tutt’altro che oceanico, anzi: evidentemente se mancano Ciajkovski o Beethoven molti non si scomodano... ma anche stavolta hanno avuto torto.

22 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (4)


Dopo aver fatto la conoscenza con l’integrale dell’opera nella versione-Shostakovich, e prima di dare una scorsa a quella tradizionale di Rimski, prendiamo in considerazione le esecuzioni di due direttori che, come si dice in gergo, hanno lasciato il segno nella storia interpretativa dell’opera così come strumentata e completata dal grande Dimitri. Cercherò di essere il più asettico possibile, limitando al minimo personali giudizi sulle diverse (in alcuni casi diversissime) scelte dei due direttori. Ripropongo il riferimento al libretto multi-uso, che può facilitare l’ascolto, specie in presenza di tagli al testo.

Cominciamo - se non altro perchè sarà lui sul podio del Piermarini dal 27/2 - da Valery Gergiev che è da anni (almeno dal 1991, anno di uscita della sua prima incisione) un campione di questa versione, da lui già diretta alla Scala quasi 21 anni orsono.

É possibile oggi seguire in rete (con video) una sua (relativamente) recente produzione (2012) al teatro Marinski di SanPietroburgo. A parte le immancabili piccole divergenze di carattere interpretativo, questa esecuzione di Gergiev si differenzia dalla versione adottata in alcuni particolari. Il primo è di scarsa importanza: verso la fine del primo atto, allorquando Ivan Chovanskij comanda agli Strelcy di rientrare al Kremlino (si è udita una fanfara di trombe) Gergiev inserisce (da 48’30” a 48’54” della registrazione) subito prima dell’ultima invocazione di Dosifej, 12 battute di soli strombazzamenti (inesistenti in Lamm e Shostakovich) prese di peso dalla partitura di Rimski. Non è escluso che questa scelta sia stata suggerita da esigenze puramente registiche (accompagnare il corteo degli Strelcy che esce di scena); l‘inserimento è presente anche nell’edizione CD del 1991.

Altra deviazione da Shostakovich è il finale dell’Atto II: Gergiev ignora la trionfalistica fanfara di zar Pietro e si limita ad un colpo di tam-tam, facendo poi tenere (1h32’20”) agli archi il RE (su cui Šaklovityj aveva chiuso il suo intervento) in dissolvenza. Una scelta abbastanza vicina alle intenzioni dell’Autore, e anche - come vedremo - a quella di Abbado.

Gergiev poi taglia (in questa occasione, ma non nella registrazione del 1991) la filastrocca di Kuzka, accompagnata da Strelcy e mogli, dell’atto terzo: a 2h01’44” salta direttamente all’arrivo dello scrivano (questo è uno dei tanti tagli di Rimski).   

E infine ecco la differenza, questa sostanziale, che riguarda il finale dell’opera. Come si può constatare, Gergiev segue fedelmente Shostakovich (in realtà... Rimski, come abbiamo visto in una precedente puntata, esaminando i diversi finali) fino alla perorazione del coro dei raskolniki, seguita dalle invocazioni di Marfa, Andrej e Dosifej (3h15’18”). A questo punto però, invece della sequenza prevista da Shostakovich (marcia delle truppe di Pietro + motivo della foresta + coro dei moscoviti + alba sulla Moscova) il Direttore russo fa semplicemente ripetere alla sola orchestra il tema del coro, chiudendo (3h15’54”) con un lungo accordo tenuto di LAb minore. Una soluzione quindi che sconfessa Shostakovich, mentre si avvicina un pochino a quella di Stravinski, che osserveremo in dettaglio ascoltando l’esecuzione di Abbado: insieme a quest’ultima, è la soluzione per il finale che forse meglio interpreta ciò che l’Autore aveva affermato di voler realizzare. 
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E a proposito di Abbado, ha fatto storia la sua interpretazione del 1989 a Vienna, di cui esistono in rete almeno due riprese dal vivo in date diverse, con cast leggermente ma significativamente diversi. La prima è stata trasmessa in video; la seconda è incisa su CD. La base è sostanzialmente costituita dalla versione-Shostakovich, ma con alcuni tagli e soprattutto con il finale mutuato da quello composto nel lontano 1913 da Igor Stravinski (per Diaghilev). Le considerazioni (e i riferimenti temporali) che seguono si riferiscono alla versione CD.

Una prima constatazione riguarda la durata netta dell’intera opera: 2h50’. Rispetto a quella dell’edizione integrale (3h18’ sia per Tchakarov-1986 che per Gergiev-1991) ci sono ben 28 minuti di differenza! Il che ovviamente porta subito a concludere che Abbado abbia tagliato parecchio!

Una delle ragioni, diciamo così, programmatiche, dei tagli è stata esposta dallo stesso Abbado, che li ha giustificati (ma non tutti...) con il desiderio di rispettare la presunta volontà di Musorgski, deducibile dalle cancellature rinvenute sui suoi manoscritti e dalle parti di testo mancanti nel quaderno blu; tutto materiale che Lamm (e Shostakovich con lui) hanno invece tenuto in vita. Si tenga presente che la quasi totalità dei tagli di Abbado è mutuata da Rimski. Vediamo però più in dettaglio.

Primo atto. A 11’46” vengono omessi alcuni versi cantati da Šaklovityj, effettivamente pleonastici: una parte cancellata (da mano ignota) anche sul manoscritto.

A 13’54” c’è un piccolo taglio nel dialogo fra Šaklovityj e scrivano, anche questo di versi pleonastici, cancellati anche sul manoscritto. 

A 20’27” troviamo un taglio più sostanzioso, che elimina una parte del battibecco fra i moscoviti e lo scrivano; effettivamente è anche questo un passaggio pleonastico, che fra l’altro lo stesso Musorgski non riportò nel quaderno blu.

A 35’08” ecco un piccolo ma significativo taglio, nel corso del terzetto Emma-Marfa-Andrej: taglio che elimina una velata minaccia di Marfa ad Andrej, che ha un momento di paura. Tuttavia si tratta di una delle cancellature apportate sul manoscritto verosimilmente dallo stesso Autore.

Il secondo atto è quello che Abbado ha sfrondato di più (almeno un quarto d’ora di musica).

La prima grossa sforbiciata (49’50”, mutuata da Rimski) inizia con la lettura da parte di Golicyn della lettera della madre (Abbado salva pochi versi conclusivi). Il taglio ci priva del primo apparire del tema trionfante della casata di Golicyn, tema che ci viene negato anche subito dopo, a causa della cassazione totale dell’incontro tra Golicyn e il Pastore luterano (il che purtroppo ci impedisce anche di farci un’idea più precisa della personalità del principe). Abbado ha qui la scusante della mancanza di questa scena nel famoso quaderno blu, ma francamente mi pare che questo taglio presenti più contro che pro. Si passa quindi direttamente al momento in cui Varsonofev annuncia l’arrivo di Marfa.

A 1h00’21” abbiamo un piccolo taglio (mutuato sempre da Rimski) durante il battibecco fra Golicyn e Chovanskij, che ci fa sfuggire uno dei motivi di rancore del capo degli Strelcy verso il consigliere della zarevna: accusato di aver manipolato le decisioni della Duma!

Altro taglio, più o meno significativo, a 1h03’22”: Dosifej, appena arrivato, rivela di essere stato principe, prima di convertirsi all’apostolato come guida spirituale dei Vecchi Credenti. È un taglio di Rimski, e per pochi versi finali è anche una mancanza nel quaderno blu.

Ci sono infine due tagli (sempre da Rimski) che riguardano aspetti non proprio trascurabili della personalità e della storia di Chovanskij: il primo si trova a 1h04’36”: laddove Chovanskij si propone in sostanza come nuovo capo del governo, impiegando i suoi Strelcy per arrivare al potere su Mosca e sulla Russia. Il secondo (minuscolo e quasi impercettibile) si incontra a 1h07’14”: è Chovanskij che ricorda a Dosifej di averlo già in passato aiutato con idee, uomini e mezzi.

Si è già detto, trattando dei finali d’atto incompleti, come Abbado abbia di sua iniziativa ignorato la versione di Shostakovich, anticipando qui (1h11’20”) cinque battute della fine del terz’atto.

Nel quale atto terzo notiamo come Abbado abbia impiegato, per la canzone di Marfa (1h15’15”) la versione originariamente orchestrata da Musorgski (accompagnamento di archi, mentre Shostakovich aveva fatto di testa sua, accompagnando con i fiati). Poi troviamo a 1h20’45” il primo dei due tagli personali (cioè non mutuati da Rimski) di Abbado: è una piccola parte dello scontro fra Marfa e Susanna, e contiene un frase appena-appena osé: non può certo essere questa la ragione del taglio... bisognerebbe chiederlo ad Abbado!         

Per il resto, solo un altro piccolo taglio (1h24’27”, giustificato dall’assenza dei versi nel quaderno blu) di parte dello scambio di battute fra Dosifej e Susanna. Effettivamente non si tratta di cosa grave.

Nel quarto atto c’è solo da segnalare la Danza delle persiane, dove Abbado sembra fare un mix fra l’orchestrazione di Rimski (vedi impiego delle arpe) e quella di Shostakovich (esempio: la cadenza finale con scoppiettanti interventi delle percussioni).

Nel quinto atto troviamo il secondo e ultimo (e minuscolo) taglio personale di Abbado (2h36’04”): sono i primi versi dell’esternazione di Marfa, che manifesta il suo dolore per l’abbandono di cui Andrej l’ha fatta oggetto.

Ed eccoci ora arrivati al cuore della scelta drammaturgica di Abbado: il finale dell’opera. Si è già sommariamente descritto l’approccio del Direttore, consistente nell’adozione della versione 1913 di Stravinski. Seguiamo ora la musica in dettaglio, a partire dal momento (2h45’04”) in cui Marfa accende il rogo, sull’accordo di MIb maggiore che ha chiuso l’invocazione di Dosifej e fedeli dopo quella strabiliante discesa cromatica: questo è chiaramente riconoscibile come il punto dal quale la soluzione Abbado(-Stravinski) che fin lì aveva seguito sostanzialmente quella di Shostakovich(-Rimski) se ne distacca nettamente.    

E se ne distacca anche dal punto di vista della complessità dell’impianto, che sarebbe stata del tutto impensabile da parte di Musorgski, e ancor meno da parte di Rimski; lo stesso Shostakovich (arrivato 45 anni dopo Stravinski) si è ben guardato dall’introdurre nel suo finale (come nel resto dell’opera) soluzioni tanto brillanti quanto lontane dallo scenario in cui l’opera prese vita. Dopodichè non sorprende che un musicista orientato al ‘900 come Abbado si sia letteralmente innamorato di quel finale! Che - lo ammise lui stesso - è puro Stravinski, quindi nulla a che vedere con Musorgski, del quale impiega peraltro genialmente le note... (Curiosità: Stravinski enarmonicamente adotta notazioni con i diesis al posto di quelle con i bemolle usate sempre da Musorgski.)

Il coro inizia a cappella (come previsto da Musorgski) con la frase musicale dell’Autore, ma subito (2h45’22”) Stravinski introduce una nuova frase composta intrecciando il motivo scelto da Musorgski con l’altro (parte anch’esso del corale popolare fornito dalla Karmalina) che l’Autore aveva ignorato. Il tema completo di Musorgski viene esposto con accompagnamento orchestrale a 2h45’48”, e alla conclusione (2h46’15”) ecco il tema della foresta (inizio atto V) che finora era rimasto in sottofondo, uscire allo scoperto in funzione di interludio, seguito (2h46’30”) da una sequenza discendente del coro, di pura mano di Stravinski.

A 2h46’51” è Dosifej da solo a cantare il primo verso; gli rispondono (2h47’09”) Andrej e i raskolniki (RE# minore, come dire... MIb) e in sottofondo, nei bassi, si ode distintamente il tema cantato dai Monaci alla fine del secondo e poi all’inizio del terzo atto (un bell’esempio di politonalità, non c’è che dire). La cosa si ripete: 2h47’28” Dosifej e 2h47’42” Andrej e fedeli (SOL#=LAb). Un ultimo intervento del coro e dei solisti (2h47’56”) porta alla chiusa (2h48’23”) in dissolvenza, sostenuta da un insistente pedale acuto di RE# e LA#, accompagnato da cupi rintocchi di campana.
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Da ultimo ascoltiamo l’opera come apparve per la prima volta in scena nel 1886 e come è stata ovunque rappresentata fino alla metà (come minimo) del secolo scorso: la versione di Rimski, che per più di mezzo secolo è stata l’unica disponibile sul mercato. Sappiamo che Rimski, oltre a creare l’orchestrazione (del tutto o quasi assente nei manoscritti di Musorgski) aveva anche apportato pesanti modifiche all’originale, consistenti in ampi tagli e in interventi sia su melodia che su armonia. Seguiamone quindi sommariamente i contenuti ascoltando questa edizione storica del Bolshoj del 1946.

Preludio: nella chiusa (3’28”) la tonalità, dal precedente FA#, anzichè a LAb è trasposta alla sottodominante REb.

Primo atto: nella prima scena (Kuzka e due Strelcy) a 6’50” troviamo un piccolo taglio (Kuzka manda al diavolo i commilitoni). Poi, a 8’09” sono omesse poche battute di dialogo all’arrivo di Šaklovityj presso lo scrivano. A 10’56” è omessa la prima parte della dettatura di Šaklovityj (cancellata sul manoscritto di Musorgski). Piccolissimo taglio a 13’03”, parte pure cancellata sul manoscritto. Idem a 13’32”.

A 15’12” ecco il proditorio (davvero) taglio di tutta la lunga scena che coinvolge scrivano e moscoviti. Soltanto una piccola parte di essa si giustificherebbe con l’assenza dal quaderno blu. Veniamo così privati di una fondamentale componente dello scenario dell’opera, quella che descrive la condizione di vita del popolo russo. Inoltre, la scena che segue - il tripudio popolare in attesa di Ivan Chovanskij - è stata da Rimski pesantemente modificata nella linea musicale e pure nel testo. Poco dopo (coro di lode, 19’45”) ecco altri interventi di Rimski, che aggiunge delle ripetizioni (il numero di battute raddoppia!) e alcuni incisi musicali di sua invenzione.

All’arrivo di Emma, piccolo taglio (22’29”) di un botta-e-risposta fra la ragazza e Andrej. Subito dopo (23’26”) un taglio che ci priva dell’offerta di Andrej di fare di Emma la zarina! Ancora tagli piccolissimi nel seguito (23’44”, minaccia di Andrej di usare la forza). E poi (24’45”) tagliata una parte dell’intervento di Marfa a proteggere Emma. E poi altro taglio (25’08”, è una cancellatura nel manoscritto) dove Marfa chiede ad Andrej se ha dimenticato il giuramento fatto in passato e lancia una velata minaccia di denunciarlo: qui viene a mancare la prima comparsa del tema dell’amore perduto di Marfa. Modifiche anche alle tonalità del canto di Marfa e Andrej. Ultimo piccolissimo taglio a 27’51”, allorquando Andrej sfida gli Strelcy. 

Dopo l’arrivo di Dosifej e il suo accorato appello, a 34’01” Rimski aggiunge all’originale alcune battute, reiterando la fanfara degli Strelcy per accompagnarne il corteo che si muove verso il Kremlino. Un’ultima, microscopica ma significativa modifica all’originale: a 36’43” Dosifej chiude il suo invito ai fedeli - a rinunciare a questo mondo - con una terza minore discendente (RE-SI) al posto della terza maggiore (RE#-SI) dell’originale. 

Secondo atto: dopo che Golicyn ha letto la focosa quanto erotica missiva della zarevna, ecco il primo gigantesco taglio (42’33”): se ne vanno la lettura della lettera della madre e l’intera scena dell’incontro con il Pastore protestante (questa manca per la verità nel quaderno blu). Si arriva quindi direttamente alla scena con Marfa. La cui aria (quella della profezia, 44’33”) ha un’introduzione di Rimski, diversa dall’originale, oltre ad essere innalzata di un semitono (da DO a DO#) e ancora presentare tonalità diverse nel seguito (MI e SOL minore, anzichè LAb) e modifiche nell’accompagnamento. 

Dopo l’esternazione di Golicyn si arriva ad un paio di tagli abbastanza corposi, durante il battibecco fra il padrone di casa e il sopravvenuto Ivan Chovanskij. Il primo a 53’14”, quando Golicyn ricorda all’ospite come fu la Duma a varare le leggi che Chovanskij reputa lesive dei suoi diritti e privilegi. Il secondo (53’46”) quando Golicyn ricorda al suo ospite fatti che lo mettono in cattiva luce. 

Arriva Dosifej e qui c’è il lungo taglio (55’48”, solo in piccola parte giustificato dalla mancanza del testo nel quaderno blu) che riguarda il passato del santone. Poi (57’20”) altro taglio, dell’offerta di Chovanskij di fare un colpo di stato e salire al potere. Poco dopo, tagliato (58’03”) un breve battibecco fra Dosifej e Golicyn, accusato di comportamenti reprensibili. Tagliato anche (58’49”) il successivo battibecco fra Dosifej e Chovanskij, per cui si passa direttamente al canto dei Monaci Neri.

Arriva Marfa e una parte del suo racconto (1h01’37”) dell’aggressione subita è soppressa. Ecco poi Šaklovityj e il finale, che Rimski inventa (1h02’56”) riprendendo - in RE maggiore, dal preludio - il motivo dell’alba sulla Moscova.

Terzo atto: Rimski ristruttura il coro dei Monaci Neri (1h03’56”) apportando modifiche sia al testo che alla linea delle voci. Per la canzone di Marfa Rimski impiega la strumentazione di Musorgski, come si deduce dall’attacco degli archi (1h06’41”). Poi qualche modifica ai tempi.

Per lo scontro Marfa-Susanna (1h10’11”) Rimski adotta la versione accorciata (come nell’edizione di Lamm) ma introduce modifiche all’armonizzazione e alle tonalità (Marfa, 1h12’43”). Dopo l’arrivo di Dosifej ecco il taglio (1h15’54”, giustificato dalla mancanza del testo nel quaderno blu) dello scambio di battute fra il santone e Susanna. Piccolo taglio (1h18’04”) alla risposta di Marfa a Dosifej, dove la donna prevede sventure. Nell’aria di Šaklovityj troviamo due piccoli e ravvicinati tagli (1h25’01” e 1h25’25”) quando il boiaro ricorda le vicissitudini politiche della Russia.

Dopo l’ingresso in scena degli Strelcy e quindi delle rispettive mogli, ecco un altro macroscopico taglio (1h30’45”): l’intera scena della canzone di Kucka, accompagnata da Strelcy e mogli. Si passa direttamente all’arrivo dello scrivano. Piccolo taglio (1h31’33”) alle minacce degli Strelcy al povero malcapitato. Microscopico taglio (1h33’16”) ad un’esternazione delle mogli. Poi, nella scena finale con Kuzka, Strelcy e Ivan troviamo più che altro delle trasposizioni di tonalità.

Quarto atto, primo quadro: i due cori delle contadinelle appaiono variati nell’armonizzazione e nell’accompagnamento. Rimski identifica poi (1h43’26”) l’emissario di Golicyn (che per Musorgski è un tenore) con il suo assistente Varsonofev (che è però un basso) per cui ne deve abbassare la tessitura originale, oltre che alterarne l’accompagnamento.

La Danza persiana (1h45’07”) presenta due piccoli tagli (10 battute in tutto) e piccole differenze di armonizzazione. La canzone finale (1h54’14”) presenta pure differenze più o meno marcate di armonizzazione.

Quarto atto, secondo quadro: pochi gli interventi di Rimski sull’originale (accompagnamento, armonizzazioni). Durante l’appello di Dosifej, subito dopo un inciso di Marfa (2h01’18”) la frase di Dosifej alla donna è abbassata dal DO al SIb maggiore.

Per il resto sono da rilevare soltanto tre piccoli interventi. Dapprima un piccolo taglio sull’ultima esternazione di Marfa (2h08’50”) che cerca di tranquillizzare Andrej. Poi (2h09’41”) un’aggiunta (una battuta!) al coro delle mogli degli Strelcy. Infine (2h10’10”) un altro minuscolo taglio al coro degli Strelcy.

Quinto atto: l’introduzione strumentale viene accorciata della metà. Il primo intervento piuttosto corposo di Rimski riguarda l’esternazione iniziale di Dosifej: alla quale viene aggiunto di bel nuovo (2h18’25”) un altro appello ai fedeli di argomento, potremmo dire, politico. La musica impiegata qui a sostenere il testo di Rimski è la medesima che nel primo atto aveva accompagnato il richiamo dello stesso Dosifej.

Poi troviamo trasposizioni di tonalità nei cori dei fedeli, e una ristrutturazione dell’ultima parte del coro, con un taglio di implorazioni a 2h26’18”, che porta direttamente all’entrata di Marfa. A proposito della quale poco dopo (2h33’34”) troviamo l’aria che non figura nell’edizione di Lamm, ma che si è già visto come sia da considerare del tutto autentica.

Infine (2h37’01”) ecco le battute scritte da Rimski per evocare le lingue di fuoco, che introducono il coro finale in LAb minore, chiuso (2h38’16”) sulle esternazioni (aggiunte da Rimski) di Marfa, Andrej e Dosifej, prima del sopraggiungere delle truppe dello zar Pietro e della trionfalistica chiusura in modo maggiore.
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(4. fine.)