ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

18 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (2)


Si è detto: Chovanščina opera incompiuta. Dato che però in teatro, fin dal 1866, essa viene rappresentata in tutto il mondo, sarà opportuno scoprire in quale modo si è arrivati ad averne una versione (anzi, oggi più di una versione) completa e rappresentabile.

Innanzitutto: cosa ci ha lasciato Musorgski? Una montagna di manoscritti, oggi custoditi nelle biblioteche russe o presso privati, tutti corredati dalla data di completamento, che riportano la concezione dell’opera, le fonti storiche consultate e - soprattutto - lo spartito canto-pianoforte delle singole componenti (qualcosa di vagamente assimilabile a numeri nella tradizionale strutturazione del melodramma) la cui sequenza di produzione fu tutt’altro che rettilinea, richiedendo non meno di 8 anni. Preziosa per l’interpretazione delle volontà del compositore è la gran messe di informazioni - relative alla composizione dell’opera - contenuta in numerose lettere scritte da Musorgski allo sponsor Stasov e ad altri amici e conoscenti.

Il materiale originale è incompleto, mancando (rispetto alle dichiarate intenzioni dell’Autore) di due finali (Atto II e Atto V) e dell’orchestrazione, della quale Musorgski ha lasciato solo due brani dell’Atto III: la canzone di Marfa e il Coro degli Strelcy. Quindi stiamo messi ben peggio rispetto ai due Boris, che Musorgski aveva passabilmente completato (soprattutto il secondo). Qui, oltre a completare i due finali d’atto citati, per rendere l’opera rappresentabile era necessario inventarne quasi per intero la strumentazione!

E a questo pensò, ancora una volta, Nikolai Rimski-Korsakov, che si accollò l’immane compito, facendo pubblicare nel 1883 la sua ricostruzione e riuscendo a far rappresentare l’opera già nel febbraio del 1886. É la versione che successivamente ha girato i principali teatri del pianeta, decretando il successo dell’opera, ed è stata oggetto di diverse registrazioni.


Ma inevitabilmente l’intervento di Rimski si portò dietro (proprio come - e più che - per il Boris e per la Notte sul Monte Calvo) le sue impronte inconfondibili, consistenti nel tagliare senza pietà interi passaggi ritenuti carenti e nel rivestire la musica di Musorgski di una (per noi assai accattivante, ammettiamolo) patina di romantica occidentalità; interventi così marcati da quasi stravolgere i tratti somatici - da lui evidentemente ritenuti rozzi e primitivi - dell’originale. Più avanti seguiremo sommariamente una registrazione di questa versione, alla quale va riconosciuto comunque il grande merito di aver fatto conoscere al mondo l’opera fin dalla sua nascita.    

Nel 1913 Diaghilev la mise in scena a Parigi e per l’occasione - ritenendo la versione di Rimski nientemeno che un attentato alle volontà di Musorgski, del quale aveva dato un’occhiata ai manoscritti - chiese a Stravinski (che poi fece coinvolgere nell’impresa anche Ravel) di strumentarla ex-novo. Cosa che non accadde se non in minima parte; in particolare Ravel riorchestrò (Atto I) la scena dei moscoviti che bistrattano lo scrivano; poi (Atto III) la canzone di Kuzka e degli Strelcy. Quanto al compositore russo, riorchestrò (Atto III) l’aria di Šaklovityj (affibbiata per l’occasione a... Dosifej, in modo da farla cantare al grande Šaliapin) e (atto V) riscrisse, ampliandone le dimensioni, il coro finale:


Quest’ultima parte è stata impiegata nella produzione di Claudio Abbado a Vienna nel 1989, di cui parleremo.

Per fortuna ci fu chi (Pavel Lamm, nel 1931) si prese l’incarico di raccogliere, sistemare e pubblicare tutto il materiale originale (disponibile a quel tempo) di Musorgski, mettendo quindi anche altri compositori nelle condizioni di completare ed orchestrare il lavoro.


Per la verità anche l’edizione di Lamm lascia aperti alcuni dubbi, relativi a correzioni e/o tagli apportati sui manoscritti originali da mani che sembrerebbero a volte quelle del compositore, ma a volte del tutto estranee. In questi casi, Lamm ha pubblicato tutto, corredandolo di note a piè pagina.

Il primo a cimentarsi nella strumentazione, e a stretto giro, fu il noto musicista-musicologo Boris Vladimirovich Asafiev, collaboratore di Lamm, il cui lavoro - pesantemente criticato ai suoi tempi da una specie di giuria di musicisti coinvolta dallo stesso Lamm - è fatalmente caduto nel dimenticatoio (leggasi: l’Archivio russo di Stato della Letteratura e delle Arti, RGALI) e da lì nessuno finora si è premurato di riportarlo alla luce e tanto meno alle scene. 

A complicare ulteriormente le cose, molti anni dopo l’edizione di Lamm (precisamente nel 1946) fu rinvenuto fra le carte di un poeta amico di Musorgski (Arseny Arkadyevich Goleníshchev-Kutúzov) un manoscritto del compositore (denominato quaderno blu e pubblicato nel 1972) contenente una specie di bella copia del libretto, preparata dall’autore verosimilmente dopo la composizione. In tale manoscritto mancano alcune parti presenti nello spartito (pubblicato da Lamm). La conclusione che i musicologi (e anche alcuni direttori) traggono è che Musorgski medesimo avesse deciso questi tagli, senza però aver avuto modo o tempo o voglia di retro-applicarli anche allo spartito: di conseguenza andrebbero scrupolosamente rispettati. Conclusione peraltro contestabile, chè se per assurdo si dovesse seguire come vangelo il quaderno blu, allora l’opera si dovrebbe interrompere dopo le prime invocazioni di Dosifej e raskolniki, e prima dell’entrata in scena di Marfa: in pratica, verrebbe a mancare l’intero finale e non solo la sua chiusa!

Chi invece portò a termine l’impresa di strumentazione (e completamento) fino alla pubblicazione della partitura, fu Dimitri Shostakovich. Il quale nel 1940 si era cimentato nella ri-orchestrazione del Boris per adattarlo agli enormi spazi del Bolshoj, ma con esito francamente deludente (un lavoro caduto totalmente nel dimenticatoio) e invece nel 1958 approntò la sua versione dell’opera (con un finale di sua ideazione) che è unanimemente ritenuta quella che più si avvicina alle (o che meno si discosta dalle, se si preferisce) presunte intenzioni di Musorgski, tanto che da allora ha cominciato a circolare nei teatri ed è stata più volte incisa su disco e video.


Shostakovich adottò in-toto il materiale pubblicato da Lamm che, come detto, contiene anche le parti cancellate sui manoscritti originali e quelle non riportate da Musorgski nel quaderno blu. Tutto ciò ha come inevitabile conseguenza quella di ingenerare approcci diversi all’esecuzione: c’è chi segue comunque l’edizione completa di Lamm(-Shostakovich) e chi invece (Abbado fu tra i primi) applica alcuni di quei tagli ritenendo che rispecchino le ultime volontà dell’Autore.

Già nel 1959 fu girato un film basato sulla versione-Shostakovich, film peraltro caratterizzato da generose sforbiciate, con la musica diretta da Evgenij Svetlanov. In teatro, la prima rappresentazione di questa versione ebbe luogo venerdi 25 novembre 1960 al Kirov di Leningrado sotto la bacchetta di Sergey Yeltsin. Essa fu poi impiegata a Sofia nel 1986 (ne parleremo); nel 1989, come detto, Claudio Abbado presentò a Vienna questa versione con il finale di Stravinski. Dal 1990 è stato Valery Gergiev a impiegare regolarmente (anche se con qualche... ritocco) la versione-Shostakovich, che fu oggetto anche delle rappresentazioni da lui dirette nel 1998 alla Scala. Ed altri teatri hanno seguito l’esempio, con produzioni più o meno fedeli a questa versione.

Riassumendo: oggi esistono sul mercato (cioè pubblicate ed utilizzabili da chiunque) due versioni principali dell’opera: quella di Rimski del 1883 e quella di Shostakovich del 1958 (la terza versione orchestrata, quella di Asafiev, come detto è rimasta lettera morta.) In più è disponibile il materiale di Stravinski impiegato da Abbado nel 1989 per il finale dell’opera.
___
E del finale dell’opera ci occupiamo tra poco, descrivendone le quattro diverse forme. Prima però diamo una scorsa alle tre versioni dell’altro finale, quello dell’atto secondo, pure rimasto incompiuto. Quell’atto si chiude, nel manoscritto originale, con la notizia data da Šaklovityj dell’indagine che lo zar Pietro ha ordinato sui Chovanskij, a fronte della denuncia anonima (ma in realtà di mano dello stesso Šaklovityj) arrivata contro di loro: addirittura vi manca l’ultima battuta di musica, aggiunta da Lamm. Evidentemente Musorgski, che sappiamo come nell’iter di composizione saltasse di palo in frasca, deve aver lasciato in sospeso quel finale (per il quale era incerto fra una semplice ma sinistra cadenza orchestrale e un... quintetto!) proponendosi di completarlo successivamente, cosa che evidentemente non è avvenuta.

Rimski invece - come Stasov convinto assertore della grandezza storica di Pietro il Grande - ha pensato bene di chiudere l’atto aggiungendo di sua iniziativa il motivo dell’alba sulla Moscova (dal Preludio) probabilmente come riferimento ideale e allegorico all’avvento al potere dello zar innovatore.

Shostakovich è stato ancora più esplicito, aggiungendo da parte sua una fanfara che si ritroverà anche più avanti (atto IV e V) e che caratterizza musicalmente le truppe di Pietro.

Abbado ha scelto invece un’altra soluzione ancora, forse più vicina alle... incertezze di Musorgski, copiando qui (trasposte da MIb a RE minore) 5 battute di musica mesta e lugubre che si ritroveranno verso la fine dell’Atto III, al momento dell’invito di Chovanskij a Strelcy e consorti a tornarsene a casa.
___
E ora, il finale dell’opera, che merita un discorso assai articolato, data la sua importanza non soltanto musicale. Di esso esistono (ad oggi) quattro versioni pubblicate: originale di Musorsgki (1880, incompleto e non strumentato, pubblicato da Lamm nel 1931); Rimski (1883); Stravinski (1913) e Shostakovich (1958). 

Cominciamo ovviamente da Musorgski (e da Lamm che si è limitato a metterlo in bella copia). Dopo l’incontro fra Marfa e Andrej, la scena finale si apre con gli squilli di tromba (i soldati di Pietro) e l’appello di Dosifej: sono le trombe dell’Eterno che ci chiamano al sacrificio nel fuoco, proclama il santone.

Qui si inserisce una seconda parte del dialogo fra Marfa e Andrej (lei invita l’amato a seguirla al sacrificio) che Lamm non ha trovato tra i manoscritti di Musorsgki (quindi non è presente nella sua edizione). Tuttavia l’Autore ne parla in una delle sue lettere (come detto, durante gli anni della composizione, 1872-1880, egli intrattenne una fitta corrispondenza con il suo mentore Stasov e con altri amici) e pare certo che l’aria fosse stata cantata da Daria Leonova, un’artista che Musorsgki era solito accompagnare nei suoi recital: Rimski deve averne avuto a disposizione il manoscritto, tanto che ha inserito il brano nella sua edizione. Esso viene di norma ritenuto originale (oltre che mirabile...) e quindi anche Shostakovich lo ha incluso nella sua versione.  

Ora si riodono le trombe di Pietro e i raskolniki cantano lodi al Signore. Dosifej invita ancora i suoi fedeli ad incamminarsi verso il sacrificio: la luce della verità vincerà contro le tenebre infernali.

Fin qui tutte le versioni - nella sostanza - concordano. Mentre divergono anche profondamente in ciò che segue.

Musorgski progettò un coro finale dei raskolniki, che invocano il Signore, loro scudo e pastore. Per comporlo trasse lo spunto da un corale preso dalla tradizione russa, e il cui testo/melodia venne segnalato al compositore da un’amica, che lo aveva a sua volta udito da una cantante. Questo riferimento figura nell’autografo di Musorgski (riportato anche da Lamm) con l’indicazione: Cantato da Praskovia Zaritsa e fornito da Liubov Karmalina.


Da questo frammento (due strofe di 10 e 17 battute, recanti la sola melodia) Musorgski ricavò l’abbozzo del coro finale (LAb minore) impiegando le prime 10 battute della seconda strofa (cantate a cappella, come da lui ipotizzato proprio in una lettera alla Karmalina) e ripetendole (tagliando una battuta) con l’accompagnamento orchestrale. Ne modificò parzialmente il testo, nella sua prima parte, in entrambe le esposizioni del tema. Con tutta evidenza non può essere questa la chiusa di un’opera (come minimo ci si aspetterebbe una cadenza conclusiva). Musorgski aveva anche qui lasciato scritte le sue idee (il contrasto fra il coro dei raskolniki e le trombe di Pietro) su come chiudere l’opera, oltre a manifestare forti dubbi sull’opportunità di mostrare il rogo in scena, oppure di lasciarlo solo immaginare allo spettatore.

Ecco quindi che, a partire da Rimski, chiunque si sia cimentato con l’opera ha dovuto necessariamente completare questo torso lasciato da Musorgski(-Lamm) con qualcosa di proprio: non certo nuova musica (a parte piccoli dettagli) ma utilizzo di musiche dell’Autore, riprese da altre parti del lavoro.
___
Il primo a cimentarsi con l’impresa fu quindi Rimski (per le rappresentazioni del 1886). Aggiunse in testa al coro 6 battute di un tema del fuoco (musica che richiama curiosamente il wagneriano Loge!) e poi impiegò testo e melodia come riportati da Lamm, sempre in LAb minore, ma con agogica diversa e orchestrazione che ribadisce gli interventi delle trombe di Pietro. Alla chiusa del coro aggiunse di suo le ultimissime esternazioni di Marfa, Andrej e Dosifej (5 battute) e poi riprese il tema trionfale di Pietro per chiudere l’opera in modo enfatico e spettacolare, un autentico panegirico per lo zar innovatore.

Sulla fedeltà della chiusa alle intenzioni di Musorgski si possono ovviamente avanzare dei dubbi, giustificati dall’atteggiamento politico di Rimski, palesemente ideologico e pregiudizialmente favorevole a Pietro. 
___
Nel 1913 fu la volta di Stravinski che, su incarico di Diaghilev, approntò un nuovo finale, abolendo tutto ciò che aveva fatto Rimski (incluse quindi le 6 battute del fuoco, le ultimissime esternazioni di Marfa, Andrej e Dosifej e la trionfale fanfara conclusiva) per concentrarsi completamente sul coro, per il quale impiegò il testo del corale recapitato all’Autore dalla Karmalina, mentre la melodia principale è ancora quella della seconda strofa (stessa scelta di Musorgski) ma ne viene impiegata anche parte della prima (cosa ne avrebbe pensato l’Autore?) Al coro dedicò particolare cura (vi interviene anche la voce solista di Dosifej, oltre a quelle di Marfa e Andrej mescolate con il coro) e ad esso applicò anche alcuni suoi, diciamo così, ritrovati musicali già sperimentati in precedenti lavori.

A parte le modulazioni di tonalità e qualche sapiente enarmonia (DO#=REb, RE#=MIb, SOL#=LAb) Stravinski impiega come riempitivo (poi anche Shostakovich lo seguirà su questa strada) le figurazioni che compaiono all’inizio del quinto atto (la foresta). Fa capolino in contrappunto anche una reiterata citazione del coro dei Monaci dell’inizio dell’Atto III. La chiusa si presenta - agli antipodi di quella di Rimski - con una progressione tonale desunta dal Preludio e con un lento dissolversi del suono, accompagnato da lugubri rintocchi di campane.

C’è chi ipotizza (Claudio Abbado per primo, deciso assertore della validità di questa soluzione, da lui adottata a Vienna nel 1989) che essa sia quella che corrisponde più fedelmente alle intenzioni di Musorgski, come espresse in altre parti della sua corrispondenza: in sostanza, niente trionfalismi pro-Pietro, ma una conclusione piuttosto disincantata e quasi pessimistica. Si legga in proposito come il grande Direttore spiegò al compianto Sergio Sablich le motivazioni della scelta di questo finale stravinskiano. 
___
Infine Shostakovich, che produsse la sua versione nel 1958. Tenendo buono (salvo interventi minori sull’orchestrazione e aggiungendo alle voci del coro quelle di Marfa - prima parte - e Dosifej - seconda) tutto ciò che aveva proposto Rimski (le 6 battute del fuoco, le esternazioni finali e le strombettate dei soldati di Pietro, escluse le 4 battute conclusive, sostituite da due di transizione) ma aggiungendo poi di sua iniziativa tre spezzoni di musica e coro, precisamente:

- ripresa dall’inizio dell’atto quinto del motivo della foresta (qui a note di lunghezza doppia, negli archi bassi e viole) che poi accompagna il successivo coro (qualcosa di simile a quanto fatto da Stravinski);
- coro dei moscoviti, ripreso dal primo atto;
- ripresa (dal Preludio) del motivo dell’alba sulla Moscova.

Anche qui, taluni critici (vedremo come le scelte dello stesso Valery Gergiev si schierino su questo fronte) tendono a censurare quest’ultimo intervento, che metterebbe troppa carne al fuoco, andando ben al di là delle intenzioni di Musorgski. Poi però le critiche divergono (succede anche per il finale del wagneriano Ring, oggetto di interpretazioni consolanti o pessimistiche): c’è chi - anche in forza della scelta di Shostakovich riguardo la chiusura dell’atto secondo - interpreta il ritorno finale del motivo dell’alba come una presa di posizione pro-Pietro, quindi positiva ed ottimistica; e chi invece interpreta il ritorno del coro dei moscoviti desolati e quello dell’alba come una cinica (e forse autobiografica, per Shostakovich) sfiducia nel progresso dell’umanità (e della Russia in particolare) poichè questi ritorni ciclici sarebbero lì a testimoniare che alla fine tutto torna come prima... E chi può sapere con certezza quale fosse in proposito il pensiero di Musorgski? O è proprio l’incertezza dello stesso Autore sul significato da dare alla conclusione dell’opera che gli impedì di completarla (un po’ come succederà a Puccini per Turandot?)
___
Prossimamente proveremo a seguire da vicino, nei dettagli o per differenze, alcune esecuzioni dell’opera nelle diverse versioni/esecuzioni, per meglio comprenderne i rispettivi contenuti. In particolare:

- Versione-Shostakovich:
esecuzione integrale diretta da Emil Tchakarov a Sofia, del 1986;
commenti all’esecuzione di Valery Gergiev al Teatro Marinskii, del 2012;
commenti all’esecuzione di Claudio Abbado all’Opera di Vienna, del 1989;
 
- Versione-Rimski diretta da Boris Khaikin al Bolshoj nel 1946.

Come ausilio all’ascolto, ho predisposto questo testo del libretto, che contiene quanto pubblicato da Pavel Lamm, con l’evidenziazione dei principali interventi (soprattutto tagli) praticati in origine da Rimski ma in parte seguiti anche da Abbado; delle aggiunte di Rimski e (per il finale) di Shostakovich e Stravinski. Lo scopo è di rendere possibile seguire le diverse versioni/interpretazioni dell’opera leggendo lo stesso testo; avendo contemporaneamente la possibilità immediata (attraverso le colorazioni) di apprezzare (o disprezzare...) le scelte di autori e interpreti.
___
(2. continua...)

17 febbraio, 2019

Un Mozart ragazzo a Venezia


Ieri pomeriggio al Malibran (poco affollato in verità, ma d'altronde Venezia è immersa fino al collo nel carnevaleultima replica della serenata (sic!) mozartiana Il sogno di Scipione.

Opera del sedicenne Teofilo, opera di circostanza, da dedicare ad un personaggio e/o ad un avvenimento pubblico importante, verosimilmente il 50° (o 49°) di sacerdozio dell’Arcivescovo di Salzburg. Il soggetto - preso di peso da quel pozzo di sanPatrizio costituito dall’immensa produzione letteraria del poeta cesareo Pietro Metastasio - tratta di un sogno che lo Scipione, futuro conquistatore e spianatore di Cartagine, fa mentre dorme a casa del suo alleato Massinissa, in una regione oggi assimilabile all’Algeria orientale (va detto che nemmeno Metastasio ha inventato nulla, chè il soggetto viene da... Cicerone!)

Nel sogno incontra due intraprendenti signore che gli chiedono di scegliere fra loro due la sua compagna della vita. Insomma, uno scenario subito sospettabile di introdurre tematiche di natura non precisamente platonica, ecco (tanto è vero che qualche regista ha preso la palla al balzo ambientando l’operina in un ménage-à-trois in piena regola).

Le due signore in realtà se la tirano parecchio, presentandosi come esseri soprannaturali: una si definisce Fortuna e l’altra Costanza, magnificando ciascuna le proprie specifiche prerogative. Prima di decidersi Scipione vorrebbe sapere in qual posto sia capitato, e così gli vengono presentati nientemeno che i suoi due ascendenti nell’albero genealogico: il nonno adottivo, Publio; e il padre, Emilio. I quali gli spiegano cos’è l’aldilà, magnificandolo al punto che lui vorrebbe fermarsi lì con loro, ma i due lo spronano a completare le sue (e le loro) imprese con la definitiva distruzione di Cartagine.

Fortuna e Costanza non sono disposte ad attendere oltre e portano ciascuna i propri affondo per conquistare l’eroe. Il quale - ovviamente deve dimostrare di aver la testa sulle spalle, mica di essere un pazzo avventurista - sceglie la Costanza, suscitando le ire di Fortuna che lo riempie di saette e fulmini, provocandone il risveglio.

Adesso deve arrivare la conclusione-con-dedica. E capita che le opere dedicate a qualche personaggio (soprattutto se a potenti) a volte presentino problemi, come dire, di adattamento alla bisogna. E qui nello Scipione ne emerge uno la cui soluzione fa abbastanza sorridere. Dunque, il testo di Metastasio, da Mozart impiegato alla lettera, verso la fine prevede l’intervento di un particolare personaggio (la Licenza) che canta, prima della sua aria, un recitativo secco nel quale - al fine di esplicitare la dedica dell’opera - svela chi si celi, in realtà, sotto le spoglie dell’ultra-lodato Scipione. Metastasio scrive: Carlo. E perchè mai? Semplice: perchè Carlo VI Imperatore era il suo sponsor e protettore!

Ma quando Mozart compone la serenata, il dedicatario è l’Arcivescovo di Salzburg in carica al momento (1771): tale Sigismund III Christoph Graf von Schrattenbachautentico patron dei Mozart. E così, nel recitativo della Licenza, il nome Carlo viene sostituito da Sigismondo. Peccato che il prelato non faccia in tempo a godere della dedica, poichè tira le cuoia quando ancora Mozart deve completare l’operina. Al suo posto arriverà lo sbifido Hieronymus Franz de Paula Josef Graf Colloredo von Waldsee und Mels (quello che anni dopo licenzierà in tronco il povero Teofilo... ma così facendone senza volerlo la fortuna). E allora, prontamente Mozart (lui o il padre Leopold, ma fa lo stesso) cancella dal manoscritto il nome Sigismondo e ci scrive sopra: Girolamo!

Ora, siccome a noi frega nulla di Carli, Sigismondi e Girolami, imperatori e vescovi assortiti, si doveva pur trovare un nome adatto per attualizzare la dedica della serenata, qualcuno di nostra conoscenza e meritevole di panegirico. Bene, siamo a Venezia, Fenice, giusto? Qui non c’è un arcivescovo, ma comunque un capo della Fondazione. E quindi il fortunato prescelto (toh!) è proprio un... Fortunato!

(Diciamo che c’è andata pure bene: non hanno scelto un... Matteo.)

A proposito della Licenza, va detto che Mozart compose una seconda versione dell’aria, assai più elaborata di quella originale (che è stata eseguita a Venezia). In questa registrazione assai pregevole e ascoltabile in rete (fra l’altro senza una riga di tagli) a 1h36’41” viene eseguita l’aria originale e a 1h42’10” quella composta successivamente.

Per le 10 arie Mozart interpreta la classica struttura bistrofe metastasiana (A - B - A da-capo) con ampia libertà, mostrando un precoce istinto all’innovazione: l’esposizione della prima strofa è sempre assai articolata, con ripetizioni del testo in tonalità diverse (comunque adiacenti) mentre quella della seconda è sempre asciutta e senza riprese. Eliminato il meccanico e un po’ arido da-capo, la prima strofa viene riesposta con nuove varianti.

Particolare cura è messa nella caratterizzazione musicale dei personaggi; ad esempio Fortuna ha melodie vivaci e caratterizzate da ampi intervalli, Costanza invece è più riflessiva e posata, con melodie che si muovono senza troppi scossoni. Forse più convenzionali sono i due Cori, mentre la Sinfonia si distingue per la mancanza di una chiusura tradizionale, estinguendosi direttamente nel recitativo di apertura.

E a proposito dei famigerati (da noi) recitativi secchi, a Venezia si è tagliato parecchio (un quarto d’ora circa) come si desume dalle evidenziazioni presenti sul libretto pubblicato nel prezioso programma di sala. Mirabile invece il recitativo accompagnato (Fortuna-Scipione) che precede l’entrata di Licenza.  

L’organizzazione dei numeri musicali presenta una simmetria abbastanza spiccata. Se escludiamo i due cori e l’intervento asimmetrico di Licenza, ecco come si struttura la sequenza delle 9 arie affidate ai 5 protagonisti principali:





Emilio







Publio

Publio





Costanza



Fortuna



Fortuna





Costanza

Scipione







Scipione

Scipione apre e chiude, le due femmine - che trattano aspetti di carattere comportamentale - occupano le parti a ridosso del protagonista, mentre ai genitori - che si occupano di politica - è assegnata la posizione centrale.      
___
Vengo ora a ieri, cominciando dalla musica. Le cinque voci in scena hanno tutte ben meritato. Volendo proprio fare una (mia personale) graduatoria, metterei in testa lo Scipione di Valentino Buzza e la Costanza di Francesca Boncompagni, poichè mi son parsi i più efficaci nei rispettivi ruoli e vocalmente non hanno mostrato limiti o pecche. Ma tutti hanno ricevuto applausi a scena aperta alla fine delle rispettive arie.

Federico Maria Sardelli ha guidato la (correttamente) sparuta pattuglia di orchestrali de LaFenice con grande autorevolezza e non a caso il pubblico ha riservato per lui, alla fine, l’accoglienza più calorosa. Bene anche il coro di Claudio Marino Moretti, che ha cantato il finale dalla buca dell’orchestra. Buca dove si sono distinti (in casi come questi il loro apporto è fondamentale) i continuisti Luca De Marchi (cembalo) e Alessandro Zanardi (cello). 
___  
Lo spettacolo è stato realizzato con la collaborazione dell’Accademia di Belle Arti veneziana e l’apporto di giovani studenti delle Scuole di scenografia e costumi. Tutti coordinati da Elena Barbalich, regista di fatto dello spettacolo. Un lavoro di gruppo encomiabile, tenuto conto delle caratteristiche dell’opera, dove non esiste la minima parvenza di azione, ma solo dissertazoni su filosofia, psicologia e politica. Del resto, non per nulla il pezzo si chiamava serenata: da eseguirsi - se non proprio sotto le finestre di una casa popolare - magari nel giardino di una residenza patrizia o in un salone dell’Arcovescovado...

Alcune trovate della messinscena possono essere apparse un filino goliardiche o sopra le righe, ma nel complesso si è trattato di uno spettacolo godibile, grazie anche alla supervisione dello scenografo Massimo Checchetto e del responsabile alle luci Fabio Barettin.
___
In definitiva, una proposta quanto mai interessante, della quale il Fortunato dedicatario-patron può ben andare orgoglioso.

16 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (1)


Il titolo che porta la prossima opera in cartellone alla Scala, Chovanščina (scritto quasi come lo pronunciamo noi, in cirillico sarebbe... Хованщина) farebbe sulle prime pensare ad un nome proprio, o cognome, femminile. Tipo, per dire, Iolanta, o Jenufa, o magari Kabanova o Izmailova, per restare nel mondo slavo.

E invece la chovanščina altro non è (nella sprezzante definizione che ne dà - in chiusura del second’atto - lo zar Pietro il Grande) se non una ribellione messa in atto da tale Ivan Chovanskij, un nobile che avrebbe cercato velleitariamente di detronizzare lo zar con una scalcinata e maldestra congiura di palazzo. Quindi, un’azione biasimevole, ma anche degna di irrisione: una stupidata insomma, o una smargiassata, o una... cazzata. Per fare un esempio concreto: chi è diversamente giovane ricorderà di sicuro il termine maldinata, coniato qualche decennio fa per definire le ricorrenti leggerezze difensive della buonanima Cesare Maldini, che costavano al Milan qualche gol di troppo.

Ma ora, di grazia, ‘sto Chovanskij, chi l’ha mai coverto? Ecco, appunto: Musorgski!

Lo spiritoso (nel senso di amante dell’alcool...) compositore aveva a mala pena completato il suo secondo Boris (1872) quando si lanciò in questa nuova impresa, che per lui sarebbe stata l’ultima, per di più rimasta incompiuta (quanto meno rispetto a ciò che il compositore stesso aveva prefigurato). Il lavoro si protrasse per più di otto anni, dal luglio 1872 all’agosto 1880, cioè fino a pochi mesi prima della scomparsa del musicista, e seguì un percorso praticamente schizofrenico, con continui spostamenti di attenzione (a zig-zag) da una scena all’altra, da un atto all’altro: una specie di caotica costruzione di un grande mosaico. Caos provocato anche dal contemporaneo interesse del compositore per un’altra opera (comica questa, La fiera di Soročincy) rimasta ancor più incompiuta della Chovanščina.

A differenza del Boris, per il testo del quale lo aveva soccorso un tale Puškin (non so se mi spiego...) qui il compositore si avvalse dell’aiuto e dei consigli dell’onnipresente Vladimir Stasov (autorevole mentore del Gruppo dei Cinque) e della lettura di testi storici del ‘600 e ‘700 pubblicati attorno alla prima metà dell’800 (minuziosamente elencati dall’Autore nei suoi scritti) che narravano passate vicende della sua amata Russia. Il risultato fu la mancanza di un organico libretto (come comunemente inteso) sul quale comporre la musica, rimpiazzato dalla produzione di appunti (con testo e musica) spesso lasciati in sospeso o ripresi e modificati a fronte di nuove acquisizioni di fonti storiche. Diverse idee furono abbandonate al momento di decidere la forma finale del mosaico, come ad esempio le apparizioni di Pietro il Grande e della sorellastra, la zarevna Sofia, oppure una scena ambientata nel quartiere tedesco di Mosca, o un quintetto da cantarsi in chiusura del second’atto. Addirittura parti fondamentali (come due finali d’atto!) furono lasciate allo stato di frammento (o di idea solo sulla carta) e mai più completate. Vedremo più avanti come si arrivò ad ottenere, partendo da un sia pur ricco semilavorato, il prodotto finito, eseguibile e rappresentabile in teatro. 

Come per il Boris, anche qui è la Russia che fa da sfondo all’opera, in un periodo di circa un secolo posteriore, precisamente nell’estate del 1682, anno in cui Musorgski concentra, per comprensibili esigenze drammaturgiche, fatti che accaddero in realtà a partire da quell’anno e fino al 1698 come minimo. Tanto per citare una patente inverosimiglianza storica presente nel soggetto, basti pensare che Pietro il Grande, che nel dramma è già presentato - pur se fuori scena - come zar con pieni poteri, nel 1682 era in realtà ancora fanciullo (10 anni!) e quindi estraneo agli affari di governo, dei quali si occupava la sorellastra Sofia, reggente del trono anche per conto dell’altro fratello, il minorato Ivan, di 5 anni più anziano di Pietro...

Lo scenario di quella seconda metà del ‘600 nella quale Musorgski ambienta l’opera è caratterizzato da profondi sommovimenti politici e religiosi, che vedono scontrarsi - su entrambi i fronti - progressisti e conservatori, riformatori e reazionari: da una parte i seguaci delle idee innovatrici del defunto zar Alexei Mikhailovich Romanov (padre di Sofia, Ivan e - da altra madre - di Pietro) e del patriarca Nikon; dall’altra i loro fieri oppositori.   

Scenario che vede protagonisti - da un lato, la lotta per il potere - il citato Ivan Chovanskij, un principe reazionario che comanda gli Strelcy (guardia speciale degli zar) e mira a portare se stesso e/o il figlio Andrej al Kremlino, simulando fedeltà a Sofia e a Pietro; poi il principe Vasilij Golicyn, di idee progressiste (ma anche schiavo di assurde superstizioni) e nemico dei boiari conservatori, un tempo amante di Sofia, ma ora di lei sospettoso; e un boiaro ambizioso, machiavellico e ambiguo, Šaklovityj, consigliere (e nuovo o aspirante amante?) della stessa zarevna.

L’altro terreno di scontro è quello della religione, dove le riforme di Nikon (volte a riportare l‘Ortodossia russa nell’alveo bizantino) sono contestate dai Vecchi Credenti, divenuti ormai una setta (i raskolniki) guidata da un ex-principe, Dosifej; della setta fa parte Marfa, ex-principessa pure lei, ora una specie di veggente, un tempo amante di Andrej Chovanskij che l’ha poi abbandonata per concupire (respintone con perdite) la protestante Emma, residente nel quartiere tedesco (in realtà, internazionale) di Mosca.

E proprio Marfa è l’autentica protagonista del dramma, l’unica a comparire sulla scena in tutti e cinque gli atti: in forza del suo passato legame con Andrej (del quale è tuttora perdutamente innamorata) lei rappresenta lo snodo fra il piano secolare e quello religioso dell’opera; in più, è la sua figura ad arricchire il soggetto di una componente caratteristica e imprescindibile del teatro musicale, quella legata al piano dei sentimenti (la sua lacerante contraddizione fra la purezza della fede e la carnalità della passione amorosa) e delle relazioni personali e affettive...

A differenza di Stasov e poi di Rimski-Korsakov (che portò alla luce l’opera incompiuta) i quali si ostinavano a dare del lavoro un’interpretazione a senso unico, tutta orientata ad esaltare la grande stagione riformista di Pietro il Grande, Musorgski mostra di non voler prendere posizione netta a favore o contro l’una o l’altra delle tendenze (innovatrice o reazionaria) in atto a quei tempi (memorabile la sintesi che ne fece il compianto Sergio Sablich: Ritrarre più che giudicare): il suo obiettivo è evidentemente quello di portare sulla scena la vita e le sofferenze del popolo russo in quel tormentato frangente storico. E di fare ciò attraverso la valorizzazione degli idiomi musicali del suo grande e adorato Paese.

L’opera si articola su 6 quadri distribuiti su 5 atti (1 - 2 - 3 - 4+5 - 6) per una durata totale che arriva (in esecuzione integrale) a più di 3h15’ al netto degli intervalli. Lo svolgimento drammatico si presenta come un continuo, inesorabile, fatalistico precipitare verso la catastrofe finale, l’immolarsi della vecchia Russia, travolta dall’arrivo della modernità occidentale. Finale che rimase però nella... penna di Musorgski.

Ecco (per il momento...) una succinta sinossi della trama.

Primo Atto.

Preludio che evoca l’alba sulla Moscova e il risveglio di Mosca, sulla Piazza Rossa. 

Scena degli Strelcy: Kuzka ancora sonnolento e due commilitoni che vantano le loro sanguinose imprese.

Scena dello scrivano e di Šaklovityj, che gli detta una delazione per la zarevna, accusando Ivan Chovanskij e il figlio Andrej di preparare un colpo di stato contro Sofia e i fratelli zar.

Scena dei giovani moscoviti analfabeti che bistrattano lo scrivano per costringerlo a leggere una grida che annuncia esecuzioni contro boiari ribelli.

Scena di Ivan Chovanskij che denuncia alla folla i boiari traditori e ladri, promettendo di difendere Sofia e gli zar.

Scena di Andrej Chovanskij che cerca di conquistare Emma, ragazza di religione luterana, figlia di un commerciante del quartiere tedesco.

Arrivo di Marfa, amante tradita da Andrej, che difende Emma e sfugge ad un tentativo di Andrej di accoltellarla.

Ritorno di Ivan Chovanskij che concupisce Emma e ordina ai suoi Strelcy di catturargliela. Andrej minaccia di ammazzarla, pur di non cedergliela.

Arrivo di Dosifej, il santone dei Vecchi Credenti, che blocca Andrej e fa accompagnare Emma a casa da Marfa. Poi implora i Chovanskij di aiutarlo a salvare la Russia e l’antica fede.

Secondo Atto.

Residenza del principe Golicyn, che legge una lettera d’amore della zarevna Sofia, ma si mostra di lei sospettoso.

Poi legge una seconda lettera, della madre, il cui consiglio di mantenere onestà e purezza lo mette di malumore.

Arrivo di un pastore luterano che lamenta il comportamento di Andrej Chovanskij nei confronti di Emma e chiede di poter costruire una chiesa luterana a Mosca. Golicyn lo liquida sprezzantemente.

Arrivo di Marfa, in veste di veggente, che predice un futuro di rovina al principe, che ordina di sopprimerla.

Arrivo di Ivan Chovanskij, che si lamenta a nome dei boiari per i danni che le riforme volute da Golicyn avrebbero fatto alla loro categoria. Battibecco fra i due.

Arrivo di Dosifej che ammonisce i due a cercare il bene della Patria. Chovanskij e Golicyn continuano a beccarsi e il primo si propone come salvatore della patria e futuro capo del governo.

Si odono in lontananza i canti dei monaci dei Vecchi Credenti: Dosifej li esalta, Chovanskij si associa all’elogio, mentre Golicyn li definisce come dei settari.

Torna Marfa che accusa Golicyn di aver ordinato la sua morte. E avverte del sopraggiungere dei soldati dello zar Pietro.  

Irrompe sulla scena Šaklovityj, annunciando che è stata sporta denuncia contro i Chovanskij con l’accusa di tramare un colpo di stato. Lo zar avrebbe sprezzantemente definito la faccenda come una chovanščina... ordinando un’indagine sui denunciati.

Terzo Atto.

I Vecchi Credenti sfilano cantando inni di vittoria e di trionfo sui seguaci del riformatore Nikon. 

Scena di Marfa, presso la dimora del suo amato Andrej. La donna ricorda in una canzone i bei giorni della giovinezza e l’amore adesso sfumato. Ma prefigura la fine in compagnia dell’amato, fra le fiamme purificatrici.

Arriva Susanna che ha sentito la canzone e aggredisce Marfa rimproverandone la lascivia.

Intervento di Dosifej che rimprovera Susanna, accusandola di idolatria e scacciandola; poi cerca di consolare Marfa, che ribadisce come solo il sacrificio estremo (nelle fiamme) la potrà salvare.

Scena di Šaklovityj che prega Dio di salvare la grande Russia, ancora in balìa di mercenari stranieri.

Scena del risveglio degli Strelcy che irrompono in strada cantando le loro turpi imprese e ubriacandosi già di primo pomeriggio.

Arrivano le loro mogli per rimproverarli delle loro malefatte e della loro irresponsabilità.

Scena di Kuzka che viene incaricato di calmare le donne con una canzone. Tutti cantano una filastrocca su una donna (la calunnia) che rovinerebbe le famiglie.

Arriva lo scrivano che annuncia che un contingente di Strelcy è stato sopraffatto da mercenari stranieri affiancati da truppe regolari dello zar Pietro!  

Gli Strelcy increduli chiedono ordini al loro capo Ivan Chovanskij; il quale li invita a tornarsene a casa ad aspettare gli eventi! Agli Strelcy e alle loro mogli non resta che affidarsi alla provvidenza...

Quarto Atto.

Primo Quadro. Nella sua lussuosa residenza Ivan Chovanskij cerca di dimenticare i suoi problemi con i piaceri della buona tavola e delle belle donne.

Le sue contadinelle cantano canzoncine tristi e allegre, quando arriva un emissario di Golicyn per annunciare imminenti pericoli. Il principe lo liquida all’istante.

Scena del balletto delle danzatrici persiane.

Arrivo del solito Šaklovityj che informa Ivan di una convocazione al Kremlino da parte della zarevna. Chovanskij dapprima snobba l’invito, poi si fa convincere ed ordina i suoi abiti da cerimonia.

Le contadine riprendono il loro canto, glorificando il cigno bianco Chovanskij, proprio mentre lui viene pugnalato alle spalle e muore sotto lo sguardo beffardo di Šaklovityj.

Secondo quadro. Davanti SanBasilio. Un carro sta portando verso l’esilio il principe Golicyn. Dosifej lo compiange, come pure compiange Ivan Chovanskij, vittima della sua stessa boria.

Arrivo di Marfa che comunica ai confratelli le decisioni del Gran Consiglio: i Vecchi Credenti sono banditi e i mercenari hanno l’ordine di sterminarli. Ora anche Dosifej è convinto che a loro resti solo l’estremo sacrificio.   

Arrivo di Andrej, che continua a reclamare Emma. Marfa lo avvisa che se la sono portata via in mercenari. Andrej minaccia di denunciare Marfa e farla arrestare dai suoi Strelcy, ma questi sono ormai in catene e si preparano ad essere giustiziati. Andrej chiede a Marfa di salvarlo e lei lo porta via.

Le mogli degli Strelcy reclamano l’esecuzione dei loro uomini, macchiatisi di indegnità, ma arrivano i soldati dello zar Pietro, annunciando che gli zar hanno concesso la grazia a tutti.    

Quinto Atto.

I Vecchi Credenti sono riuniti in un bosco presso il loro eremo e ricevono l’ultimo conforto da Dosifej.

Si odono in lontananza le trombe dell’esercito di Pietro. I raskolniki preparano l’immensa pira che li accoglierà.

Arrivo di Andrej, sempre invocante Emma. Marfa prova invano a convincerlo ad accettare il suo stesso destino, in nome dell’amore che li aveva uniti in passato.

Mentre ancora risuonano gli squilli di tromba dell’esercito dello zar, guidati da Dosifej i fedeli si avviano cantando verso le fiamme che Marfa ha fatto divampare.
___
Nella prossima puntata verrà esplorata la storia della predisposizione delle diverse versioni dell’opera (e del suo finale, ovviamente) oggi esistenti grazie al lavoro di alcuni eminenti musicisti e compositori. 
___
(1. continua...)