ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

16 febbraio, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°14


Jader Bignamini fa il suo esordio stagionale dirigendo un programma tutto russo, tardo e tardissimo-romantico, dalla struttura ultra-tradizionale: brano brillante di apertura, celebre concerto solistico e sinfonia.

L’apertura è affidata alla trascinante Polacca in SOL maggiore che introduce il terz’atto dell’Onegin, con la fanfara delle trombe che richiama all’ordine e al silenzio i soliti distratti e ritardatari. Musica da balletto, come altra (walzer, mazurka) che dà un tocco di grand-opéra a queste scene liriche, come Ciajkovski battezzò la sua opera più famosa. Bignamini la propone con sobrietà, tempi nè troppo sostenuti, nè scriteriatamente veloci; e dinamiche equilibrate. Chissà se in futuro lui, ormai lanciatissimo nel teatro, non provi a dirigere anche tutto il resto che contorna questa polonaise (!)  
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Il 57enne armeno-americanizzato Sergei Babayan si cimenta poi nel Concerto in SIb minore, di cui tutti ricordano la maestosa introduzione (che poi aspettano invano che ritorni...) e null’altro. Nikolai Rubinstein, originale dedicatario del Concerto, nonchè maestro e superiore (al Conservatorio di Mosca) di Ciajkovski, lo stroncò senza remissione al primo ascolto, salvo ricredersi anni dopo, di fronte al successo planetario che l’opera conobbe a partire dalla prima americana interpretata dal sommo vonBülow.

Babayan ce ne propone una lettura a forti tinte: non risparmia nulla nei momenti di grande enfasi (quei bestiali passaggi di ottave, dove è quasi impossibile evitare qualche... sbavatura) ma sa anche porgere con grande sensibilità i passi più lirici e, diciamo pure, sdolcinati, del concerto. Mirabile al proposito l’Andantino semplice, dove solista ed orchestra (citerò solo l’ispirato intervento del violoncello di Shirai-Grigolato) creano quell’atmosfera sognante, rotta da un’ingenua canzoncina, che caratterizza questa oasi di tranquillità incastonata fra i due ponderosi movimenti esterni.

Vibranti applausi per il tarchiato Sergei (fisico da lottatore di greco-romana!) che ricambia con un delicato bis (Scarlatti, direi... no, Bach!)       
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La Terza di Rachmaninov è una sinfonia un po’ sui-generis, che i fanatici del russo ovviamente trattano come un capolavoro, e i detrattori come velleitario residuo ciajkovskiano condito con salsa novecentesca.

È anche un pezzo indubbiamente ostico, proprio per la sua (e non solo apparente) frammentarietà; oltretutto laVerdi lo ha suonato solo due volte in quasi 20 anni (2000 e 2010) ergo dev'essere un oggetto quasi sconosciuto ai professori. Quindi il solo fatto che Bignamini lo abbia tutto in testa e lo diriga a memoria è già un segnale della serietà e della cura che il Maestro pone nel suo lavoro.

Dopo aver doverosamente dato atto a lui di e ai ragazzi di aver profuso lodevolmente tutto l’impegno possibile, devo però confessare che vivrei lo stesso benissimo anche senza questa musica (tanto per chiarire quali emozioni mi susciti...)

In ogni caso l’abnegazione di tutti è stata giustameente premiata con ripetute chiamate e applausi mirati alle prime parti e alle sezioni dell’Orchestra.

14 febbraio, 2018

Le vicissitudini di Orfeo (2)


Qualche osservazione a margine di Orphée et Euridice, al suo tardivo quanto colpevole debutto scaligero il prossimo 24 c.m.

Da sempre la produzione di quest’opera presenta – come in non pochi analoghi casi, fra i quali proprio un’altra opera del Gluck-riformato, Alceste, anch’essa nata a Vienna e poi portata con varie modifiche a Parigi – problemi di scelta del materiale da impiegare, dato che dell’opera esistono varie versioni e rimaneggiamenti che hanno consentito (in passato) e consentono (ancor oggi) di costruire il prodotto finito a partire da un canovaccio sul quale innestare componenti diverse, a discrezione dei responsabili dell’allestimento. Una disamina delle versioni e varianti di Orfeo/Orphée si può leggere qui: come si vede, alle due versioni originali di Gluck (1762 Vienna, protagonista un castrato-contralto e 1774 Parigi, protagonista un tenore-acuto) se ne sono poi aggiunte altre, per mano dello stesso Autore (Orfeo versione Parma 1769, con protagonista un castrato-soprano) ma soprattutto di Hector Berlioz (Orphée del 1859, strutturato in 4 anzichè 3 atti - mediante scorporo dall’atto secondo delle scene 2-3-4 - e con il fondamentale impiego della voce di mezzosoprano-en-travesti per il protagonista, più la totale soppressione del finale - coro e balletti - sostituito con un coro da Écho et Narcisse - Le dieu de Paphos et de Gnide) e una serie di altri interventi più o meno sostanziosi su testo e musica.

Successivamente sono state prodotte alcune edizioni dell’opera (Dörffel-Peters 1866, Ricordi 1889 e Novello) che in effetti sono basate prevalentemente sulla versione Berlioz (riportata però a 3 atti e con ripristino del finale di Gluck) ma con delle contaminazioni dalle due originali (ad esempio quella Dörffel, oltre a presentare anche il testo in tedesco, riporta in appendice la chiusa del primo atto con il recitativo, se non si esegue l’arietta - vedi più avanti - di Orfeo; mentre quella Ricordi riporta tutto in lingua italiana, ritraducendo le aggiunte di Moline). Ne segue che chiunque si sente autorizzato a cogliere fior-da-fiore e a costruirsi il suo Orfeo (non di rado si omette persino l’Ouverture, perchè considerata corpo estraneo). Qui un elenco sterminato e ormai certamente incompleto delle incisioni dell’opera, a partire dal 1940.
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Solo pochi richiami ad alcune particolarità, fra le mille, relative ai contenuti musicali dell’Orphée. Intanto, a smentire che la moda degli auto-imprestiti sia stata introdotta da Rossini 50 anni più tardi, nell’Orphée (non certo nel rivoluzionario Orfeo) Gluck infila brani da sue varie opere precedenti (anteriori e posteriori alla riforma del 1762).

La Danza delle Furie, che chiude nell’Orphée la prima scena dell’atto secondo, è presa di peso dal balletto Don Juan, composto un anno prima dell’Orfeo viennese. Nella seconda scena dell’atto secondo di Orphée, Gluck aggiunge – con altra nuova musica fra cui il meraviglioso assolo di flauto – una gavotta suonata dagli archi, presa da Paride&Elena del 1770. E dalla stessa opera Gluck importa nel finale la musica (non il testo, nichilista!) del trio Tendre Amour; trio che nell’originale parigino andrebbe a precedere i 3 numeri del balletto finale, mentre è ormai tradizione consolidata anticiparlo a prima dell’aria L’amour triomphe che precede appunto le danze conclusive.

Ai balletti del trionfo d’amore Gluck aggiunge due numeri tratti dall’Ouverture del bolognese (1763) Trionfo di Clelia: il vivace (Air vif) dalla prima sezione (Moderato) e parte del menuetto della sezione finale. Infine riprende, come chaconne conclusiva, quella composta per il finale di Iphigénie en Aulide, sua prima opera parigina.  

C’è infine la vexata-quaestio dell’arietta L’espoir renait dans mon âme, che Gluck aggiunse in coda al primo atto (che nell’Orfeo si chiude con un recitativo): si sospettò già a suo tempo che non fosse farina del sacco di Gluck, ma che fosse stata presa di peso dal Tancredi (1766) del Ferdinando Bertoni da Salo’ (ma pare che Gluck l’avesse già composta a Francoforte nel 1764 e che quindi il plagiatore sia Bertoni...) Berlioz e il suo assistente Saint-Saëns la lasciarono di malavoglia al suo posto, poichè negli anni era diventata letteralmente il brano di maggior successo dell’opera (ma per ripicca la infarcirono di virtuosismi inventati da loro e dalla stessa interprete Pauline Viardot, degni del miglior Gluck... ante-riforma). In alcune edizioni puriste, come questa, rimasta di riferimento, l’arietta viene pertanto omessa tout-court. In compenso - siamo all’Orfeo del 1762 - Toscanini nel 1907 alla Scala chiuse il primo atto con l’aria Divinità infernal (in origine Divinités du Styx) presa dal finale del prim’atto dell’Alceste parigino! Imitato poi nel 1951, sempre alla Scala, da Furtwängler con la Barbieri (qui a 30’31”).
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È opinione diffusa fra i musicologi che gli interventi operati da Gluck sul primitivo Orfeo per ricavarne l’Orphée abbiano sì raggiunto l’obiettivo di adattare l’opera ai gusti del pubblico e ai cliché del teatro musicale parigino, ma che ciò sia avvenuto purtroppo a spese della mirabile quanto innovativa concezione estetica che aveva guidato – a Vienna - la stesura dei versi di Calzabigi e delle note del compositore. E anche i vari auto-imprestiti hanno di certo contribuito a questa contaminazione.

L’ascolto – oggi alla portata di tutti - delle due versioni originali conferma questa tesi: l’Orfeo (destinato al pubblico scelto e colto della Corte viennese) lascia stupefatti per la sua estrema concisione (che si riflette sulla durata, non più di 90 minuti); per la rigorosissima impalcatura tonale; e per l’assenza di ogni autocompiacimento virtuosistico. È - insomma – un vero e proprio ritorno al recitar cantando fiorentino di fine ‘500. L’Orphée è invece un’opera destinata ad un pubblico di massa e soprattutto amante dello spettacolo e quindi ecco il proliferare di danze ed effetti scenici, l’ampliamento delle dimensioni e della durata (quasi 2 ore) e il ripristino di componenti virtuosistiche del canto che erano state oggetto di critica e di... scomunica da parte della coppia Calzabigi-Gluck a Vienna. Le trasposizioni della parte del protagonista e le altre aggiunte hanno poi minato (per non dire scardinato) l’impianto tonale dell’opera. 
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Oggi possiamo finalmente apprezzare le due (così diverse) versioni proprio come uscite dalla penna di Gluck; e mandare meritatamente in soffitta tutti gli ibridi nati a seguito del (pur geniale, all’epoca) arrangiamento di Berlioz. Infatti nel 1967 l’editore Bärenreiter ha approntato due edizioni critiche degli originali del 1762 e 1774. Tornando alla Scala, le cinque produzioni dell’Orfeo dal ‘47 al ‘69 (come pure le precedenti sei, a partire dal 1891) impiegarono l’ibrida, ma universalmente diffusa, versione Ricordi, mentre Muti nell’89 utilizzò appunto quella di Bärenreiter (fedele quindi all’originale del 1762, ma ovviamente con contralto-en-travesti). Quanto all’Orphée, l’edizione Bärenreiter è stata impiegata da Marc Minkowski per la sua produzione di Parigi del 2002 (peraltro con un diapason a 403, quindi un tono intero più basso rispetto all’odierno 440 e senza i balletti finali, registrati a parte). E la stessa edizione è quella che si vedrà e ascolterà alla Scala, che ha importato la produzione 2015 della ROH, lassù con Gardiner sul podio.

Al cui ascolto ci prepareremo (in corpore vili) nella prossima puntata.

(2. continua)

07 febbraio, 2018

L’Orfeo parigino approda in Scala (1)


L’attuale stagione della Scala si caratterizza per alcune primizie che un appassionato medio non può non accogliere con interesse, ma che allo stesso tempo testimoniano di qualche colpevole omissione compiuta in passato dai programmatori del Teatro. Poche settimane fa abbiamo così assistito - con soli 144 anni di ritardo - a Fledermaus, e fra pochi giorni potremo goderci l’Orphée dopo appena 244 anni di attesa!

Sì, perchè sabato 24/2 nella sala del Piermarini si ascolterà (e vedrà) per la prima volta la versione parigina (1774, lingua gallica, di Pierre-Louis Moline) dell’Orfeo di Gluck. Versione che oltre all'idioma si differenzia assai – causa introduzione di svariate modifiche-aggiunte e imprestiti, non ultima la parte del protagonista trasferita dal castrato-contralto al tenore - da quella originale di Vienna (1762, lingua rigorosamente italiana e prototipo della riforma dell’opera propugnata da Ranieri de’ Calzabigi). La quale a sua volta, dopo essere stata prodotta nell’anteguerra per sei stagioni (1891-1907-24-25-26-42) e nel dopoguerra in ben cinque in 22 anni (1947-51-58-62-69) manca ormai al Piermarini dal lontano 8 luglio, 1989 (Muti).

Per l’occasione la Scala ha importato la produzione 2015 della ROH (lassù con il baronetto John Eliot Gardiner sul podio) per la regìa di John Fulljames e Hofesh Shechter, che cura anche le coreografie dei balletti, assai in risalto in questo allestimento. Produzione che avrà quale protagonista, come a Londra, la star JDF!

E che vedrà sul podio il lanciatissimo Michele Mariotti, ormai spintosi ben oltre il suo originario, quanto ampio e difficile, spazio rossiniano: dopo Verdi e Puccini, passando per Bellini, Bizet e altri, ora si cimenta anche in Gluck (e prima o poi dovrà pur decidere quando buttarsi su Wagner!) A proposito del Direttore pesarese, ecco cosa si legge sul sito-web del Teatro, sotto la locandina dell’opera: Guida musicale è Michele Mariotti, un Maestro su cui il Teatro fa affidamento per i prossimi anni (sottolineatura mia). Beh, un simile apprezzamento non può essere certo l’invenzione di un redattore del sito... evidentemente Mariotti dev’essere nel mirino del Teatro per qualche ragione assai seria, ed anche facilmente intuibile (auguri!) 
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Due parole sul soggetto musicato da Gluck, che è ovviamente lo stesso quale che sia la versione che viene di volta in volta propinata al pubblico. La sua origine nella mitologia greca è arcinota, e del resto Orfeo è stato preso di mira in mille e mille opere di qualunque genere. Una peculiarità della visione di Calzabigi-Gluck sta nel fatto che, per loro, Euridice muore sì due volte, ma pure due volte resuscita (tale Gesù ne potrebbe essere invidioso)! Il che comporta il lieto-fine in opposizione al tristo-fine del mito. È Amore (non a caso uno dei tre personaggi dell’opera) a fare il miracolo, restituendo al povero Orfeo la sua bi-resuscitata Euridice.

Nell’allestimento che verrà presentato alla Scala in realtà scopriremo che la morta Euridice, di cui si celebrano le esequie all’inizio dell’opera, morta la ritroviamo tal quale alla fine, sotto forma di un’ardente pira: tutto ciò che accadrà nel tempo scenico - discesa agli inferi, ritrovamento di Euridice, ritorno verso il mondo umano con fatale sguardo all’indietro, conseguente seconda morte di Euridice e ulteriore intervento salvifico di Amore - sarà come un semplice sogno vissuto da Orfeo. Insomma, un lieto fine assai laico, che induce consolante rassegnazione, non miracolose quanto improbabili resurrezioni.

Come detto, i balletti occupano uno spazio persino esagerato in questa produzione. Non a caso il coreografo israeliano Hofesh Shechter va addirittura ad affiancare, nella direzione scenica, il regista John Fulljames. La scenografia, assai spartana, prevede che l’Orchestra sia collocata sul fondo del palco (quindi non nella tradizionale buca, e dietro invece che davanti ai cantanti) ma sia in grado di sprofondare di sotto o alzarsi al di sopra della base scenica, a seconda delle esigenze registiche. Soluzioni innovative che a Londra hanno suscitato un mix di approvazione e perplessità... staremo a vedere.

Prossimamente qualche ulteriore dettaglio su soggetto e relative vicissitudini.

(1. continua)

05 febbraio, 2018

Perle musicali


I geni della musica sono riconosciuti come tali non solo per aver ideato e costruito mirabili architetture sinfoniche o per aver rivestito di note immortali alcuni testi letterari, ma anche, per non dire soprattutto, per aver saputo impiegare con assoluta genialità (appunto) il mezzo musicale a supportare i soggetti musicati.

Spesso e volentieri queste intuizioni geniali riguardano dettagli minimi e apparentemente trascurabili, dettagli che sfuggono all’ascoltatore superficiale, ma spesso anche a quello più attento e preparato. Ma poi, quando si scoprono, ad un’analisi più profonda, si rivelano essere delle vere proprie perle. Che inducono quindi nell’ascoltatore, al di là dell’apprezzamento estetico, anche un piacere squisitamente intellettuale.

Eccone un esempio pratico: riguarda il rapporto fra espressione musicale e genere (inteso qui come essere umano maschio-femmina). Ora, da che mondo è mondo, si associano ai due generi (o sessi, se si preferisce) gli attributi di forte (il maschio) e debole (la femmina). Attributi che non sono stati soppiantati nemmeno da fenomeni di costume (il femminismo) o da teorie filosofiche o antropologiche e che rimangono tuttora radicati nel senso comune.

In un mirabile saggio sul DonGiovanni, comparso su Musica&Dossier del 1987, il grande Roman Vlad ci fa notare un’autentica perla mozartiana (ovviamente c’è lo zampino di DaPonte, sul fronte testo) analizzando il celeberrimo duettino Don-Zerlina del primo atto. È il maschio ad iniziarlo con Là ci darem la mano, là mi dirai di sì, e di seguito la femmina risponde, sulla stessa linea melodica, con Vorrei, e non vorrei, mi trema un poco il cor. Bene, osserviamo i due attacchi (tempo 2/4): quello del Don (sesso-forte) è sul tempo-forte della battuta; quello di Zerlina (sesso-debole) è sul tempo-debole della battuta!

La stessa cosa, mutatis mutandis (questo mi permetto io di osservarlo) succede con Bellini nella Norma, nel celebre duetto del finale (4/4). Qui è la femmina a cantare la prima frase In mia man alfin tu sei; Pollione risponde poi, sulla stessa linea melodica con No, sì vil non sono.

 
Come si vede, anche Bellini (complice Romani) applica la stessa geniale idea del Teofilo!

03 febbraio, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°13


Un forfait all’ultimo momento della ex-direttora Xian ha portato sul podio de laVerdi – dopo Emelyanychev - un altro virgulto della scuola russa: è il 32enne Valentin Uryupin (nato peraltro nell’Ukraina poco prima del collasso dell’impero sovietico) che sta facendo carriera come direttore dopo aver iniziato (come Bignamini) dal clarinetto. La giovane età non gli impedisce di essere anche attivissimo operatore musicale, dapprima nella sperduta Perm’ (negli Urali, dove ha preso il testimone da Teodor Currentzis, che vi portò da Novosibirsk il suo ensemble musicAeterna) e oggi a Rostov, dove dirige la locale filarmonica.

Il programma del concerto sembra fatto apposta per lui, con due (anzi... tre) compositori russi e musiche che spaziano per 70 anni, dal 1867 al 1937: si va dal Musorgski edulcorato da Rimski, a quello strumentato da Shostakovich, per finire alla più inflazionata delle sinfonie di quest’ultimo.

Si apre quindi con Una notte sul Monte Calvo, nella versione più eseguita, che non è quella originale, ma quella sottoposta nel 1886 a maquillage e riorchestrazione da Rimski. Non solo, ma questi non si basò nemmeno sul poema sinfonico del 1867, bensì su una sua derivazione del 1880, titolata Visione onirica del contadinello e inserita senza troppa razionalità in un'opera (La Fiera di Sorochyntsi) rimasta incompiuta. Lì nel sogno il ragazzo vede le streghe, il demonio (Chornobog) e il sabba, però – a differenza del poema sinfonico, davvero brutale e chiuso proprio dal sabba - il sogno si conclude con la sparizione di spettri e diavoli, cacciati dallo spuntare del giorno e dai rintocchi di una campana. Ecco perché la versione di Rimsky – fra l'altro assai più stringata e magistralmente strutturata (bisogna riconoscerlo) rispetto al poema sinfonico originale - termina proprio con la dolce melodia del clarinetto, poi del flauto, i rintocchi della campana, e gli arpeggi in RE maggiore dell'arpa.

L’esecuzione è di prim’ordine, Uryupin si agita parecchio, con atteggiamento un po’ stralunato, ma raggiunge l’effetto desiderato... a me però resta sempre la voglia di ascoltare, una dopo l’altra, la versione originale e questa qua!
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Ancora un Musorsgki inquinato (ma in senso positivo, va da sè) è quello dei Canti e Danze della Morte, un ciclo di 4 Lieder per voce e pianoforte che qui ascoltiamo come orchestrato da Shostakovich (ma ci si misero anche il solito Rimski, Glazunov e recentemente Lazkano e Aho). I testi sono di Kutuzov e a prima vista si potrebbero scambiare per Des Knaben Wunderhorn, visto che trattano di miserie, malattie, fatalità e guerre. Uno scenario in cui è assoluta protagonista la morte (al femminile o al maschile, par condicio) presentata quasi come una... benedizione (quindi siamo al nichilismo puro!)

La morte compare già da subito (Ninna-nanna): una madre veglia il bimbo ammalato per tutta una notte e poi, al mattino, ecco che arriva lei e canta al piccolo l'ultima ninna-nanna.

Serenata: una giovine tipo-Violetta langue in una notte profonda; ma il suo fascino ha sedotto un misterioso cavaliere (la morte si traveste anche da maschio...) che le canta l'ultima serenata.

Un ubriaco si perde danzando il Trepak in un bosco, in mezzo ad una tormenta; qualcuno (indovina chi?) lo incoraggia ad addormentarsi sotto la neve. Poi la primavera arriverà, e con lei le falci che mietono.

Gran parata militare, alla presenza del condottiero (il Feldmaresciallo) che loda i suoi per il valore dimostrato. Ma quel condottiero è (indovina indovinello) lei, e loro son tutti i morti in battaglia.

Quasi 7 anni fa li aveva diretti qui Oleg Caetani con una voce di mezzo (Susanna Anselmi); adesso tocca invece ad un baritono, Pavel Baransky (anche lui ukraino) che ci porge con grande sensibilità queste canzoni intrise di nichilismo, che paiono proprio fatte per ispirare la sconvolgente musica di Musorgski. La quale per la verità ancor più risalta nell’asciutta e spettrale versione pianistica, come si può constatare qui con la premiata coppia Vishnevskaya-Rostropovich.

Calorosi e reiterati applausi per Baransky, voce assai ben impostata, calda e rotonda, che infatti già gli ha permesso di impersonare Onegin (mica pizza e fichi...)
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Si chiude con la Quinta di Shostakovich, che mancava qui da quasi 4 anni (diretta allora dalla oggi assente Xian). Su quest’opera si è scritto di tutto, e moltissimo in termini politici, col risultato di trattarla come qualunque cosa, tranne che come... musica. Al proposito anch’io ho già scritto la mia proprio in occasione della precedente esecuzione. 

L’allampanato Uryupin è arrivato quasi all’ultimo momento e non sarebbe strano che sia stato più lui a imparare dall’orchestra (che conosce questa musica come le proprie tasche) che non ad insegnarle qualcosa di mai sentito prima. Esecuzione trascinante, che l’Auditorium piacevolmente affollato ha salutato con lunghi applausi (anche ritmati) all’indirizzo di tutti.   

29 gennaio, 2018

Torna al Carlo Felice la Norma-fuori-norma


Nel mio personale tour delle Repubbliche marinare, dopo la Venezia del 21 ecco, ieri 28, la Genova del Carlo Felice, che ha ospitato la terza recita di Norma. Beh, mentre la Lanterna (personalmente) mi eccita assai meno di SanMarco, devo dire che il Bellini (e non solo quello di Norma) è davvero altro rispetto allo Spontini (e non solo quello del Pasquale) che pure fu uno dei suoi modelli.

Poco meno di 5 anni fa avevo potuto assistere all’esordio in Norma di Mariella Devia (con il quasi-esordiente Mariotti) a Bologna. E ne avevo scritto come di un evento di prima grandezza, con un epiteto che ho ripreso oggi nel titolo di questo post. A quel tempo la Mariellissima aveva già compiuto i 65, e adesso, 3 mesi dopo questa nuova Norma, lei spegnerà nientemeno che 70 candeline: un cosa da Guinness dei primati! E ovviamente non nella sezione dei Fenomeni da baraccone, ma in quella dei più Grandi artisti lirici di ogni epoca!

Ieri pomeriggio si è fregiata di un ennesimo trionfo, con una prestazione proprio da manuale. Certo, alla sua età le note gravi potranno essere un filino problematiche, ma i centri e gli acuti sono tuttora integri e sbalorditivi. Qualcuno ancora insiste ad avanzare riserve sulla sua voce, che sarebbe di soprano non-abbastanza-drammatico: beh, credo che ieri nessuno abbia potuto tirar fuori sofismi di tal fatta.

La sua allieva (profetessa) Annalisa Stroppa ha discretamente meritato, peccando un po’, secondo me, sugli acuti, spesso piuttosto vetrosi, mentre ha mostrato buona impostazione nei centri: azzeccata comunque la scelta (non è poi una novità, si ricorda la Ludwig con la Callas) di affidare Adalgisa ad un mezzo.

Dei due protagonisti al maschile mi sento di apprezzare Stefan Pop, bella voce squillante, ma un po’ incerto e timoroso (occhi perennemente puntati su Battistoni). Ma di sicuro il tenore rumeno si farà strada, ha solo 30 anni o poco più... Discreto l’Oroveso di Riccardo Fassi, da cui avrei preteso più autorevolezza, sia scenicamente che vocalmente: il suo mezzo è notevole, ma va forse meglio disciplinato.

Elena Traversi e Manuel Pierattelli han dato il loro onesto contributo. Da lodare il Coro di Franco Sebastiani, sempre solido e compattissimo nello strepitoso guerra, guerra!

Andrea Battistoni si agita sempre come un forsennato (forse per cercar di smaltire... ehm, qualche chilo di troppo) e saltella sul podio come da giovane faceva Daniel Oren; quando ci sono brani a piena orchestra scatena i fiati (ottoni in particolare) in accompagnamenti fracassoni che coprono la melodia degli archi. Però nelle scene ad elevato tasso di lirismo (tipo il duetto Norma-Adalgisa dell’atto secondo) si riscatta, trattenendo l’orchestra come si deve, per far risaltare le meraviglie di Bellini.
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L’allestimento, già visto da maceratesi e palermitani, è della premiata coppia di Teatrialchemici (i siculi Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi). I quali avevano da tempo rivelato al mondo la loro vision dell’opera, che comporta il trasloco dell’Irminsul (che già il libretto aveva bizzarramente spostato in Gallia dalla sua natìa Teutonia) in Sardegna, fra fili, tele, reti, stracci e cordami, materiali ispirati alla compianta Maria Lai : la foresta (scena unica, di Federica Parolini) è una jungla di liane, più enormi gabbie che paiono nasse restate a marcire in mare per anni, e dove non si trova una fogliolina nemmeno a pagarla oro. Di stracci o telami simili son fatti anche i costumi (Daniela Cernigliaro) del popolino, mentre i protagonisti (tutti più o meno appartenenti a... caste) si servono da gucci o versaci. Le luci di Luigi Biondi sono abbastanza efficaci, incluse quelle che illuminano il fondale, che cangia da giorno, a notte, a... rogo.

Ma ovviamente non si potrà tacere dell’interpretazione filo-socio-psicologica, che presenta arditi paralleli fra il mondo dei Druidi e quello globalizzato attuale, e digressioni nell’antropologia e persino nella genetica, visto che il bianco Pollione mette al mondo, ingroppandosi una gallica più slavata di lui, un figlio bianco e uno nero... (Evabbè, già il libretto ha dell’inverosimile, visto che ci si vuol far credere che Norma, personaggio quanto mai in vista, abbia potuto avere non dico una, ma due gravidanze senza che alcuno - suo padre compreso, ed esclusi solo Clotilde, Pollione e, per tramite di costui, Flavio - si accorgesse di nulla.)

L’entrata di Norma lascia davvero perplessi: mescolata in mezzo ai Druidi, si stenta a riconoscerla, fin quando non comincia a cantare. Dico, lasciamo pur perdere i capelli cinti di verbena e la falce d’oro per mietere il vischio (come da libretto) ma la musica è quella che introduce una specie di regina, con il coro che la annuncia (Norma viene) con enfasi e retorica degne di una marcia trionfale! La scena mi ha ricordato da vicino l’apparizione del Lohengrin di Guth (visto anni fa in Scala) che la folla scopre a terra in preda a convulsioni epilettiche, mentre (a parte il libretto che lo descrive arrivare raggiante su una barchetta trainata dal cigno) la musica è quanto di più trionfalistico si possa immaginare. Ma si sa, quando un regista creativo si convince di avere un’idea geniale, pur di realizzarla non guarda in faccia nè a libretto, nè a partitura... e se lo spettatore storce il naso, la colpa è esclusivamente sua, ignorante che non è altro!

Devo dire però che sul lato della recitazione i registi non hanno demeritato, così come nel trattamento della masse, fatte muovere con misura ed appropriatezza. Qualche modesto dissenso nei loro confronti (all’uscita finale) è stato annegato da preponderanti applausi.

Applausi e ovazioni che sono andati a tutti indistintamente, con l’eccezione - in superlativo - per la Mariellissima, da parte di un pubblico stipato in teatro come sardine in barile. Oltretutto in una giornata di sole quasi primaverile, mentre al di qua del Turchino imperversa il nebbione... 

26 gennaio, 2018

Chailly: inferno e paradiso


A proposito di giudizi su interpretazioni ed interpreti, ma anche a proposito di tifoserie, claque e affini, ecco un esempio davvero paradigmatico. Mi è offerto dall’esecuzione della Quarta ciajkovskiana (di cui ho riferito da poco a proposito del concerto de laVerdi con Emelyanychev) della Filarmonica scaligera, lo scorso 22, con Chailly sul podio (dico subito: non ho assistito a quel concerto, nè ho potuto seguirlo per radio).

Leggete cosa ne scrive un’importante (forse la più importante) rivista online italiana di musica:

Nella seconda parte della serata, il numeroso pubblico – entusiasta per Grosvernor – ha potuto assistere ad una memorabile esecuzione della Quarta Sinfonia di Čajkovskij. Chailly in più occasioni ha mostrato una predilezione personale per il lavoro sottolineandone la pregnanza drammatica e appassionata: una inclinazione sentimentale confermata da una lettura che è stata il frutto di un rinnovato studio della nuova edizione critica della partitura da parte del maestro. Da una lettera del compositore alla confidente e generosa mecenate baronessa Nadezda von Meck possiamo delineare con chiarezza il dettagliato programma che sta alla base della Sinfonia e sintetizzabile nella lotta dell’uomo contro il destino.
L’approccio di Chailly - maturato negli anni - si è mostrato fortemente dolente e meditato nei toni (primi due movimenti) e, in generale, poco propenso alle fascinose concessioni esteriori (terzo e quarto tempo). Dopo il coinvolgente turbinio emotivo del mastodontico Andante maestoso (che da solo dura circa la metà della Sinfonia), il direttore ha ben delineato - aspetto solitamente trascurato – la struttura asimmetrica dell’Andantino in modo di canzona accrescendone così quel colore malinconico tipico della sera (riprendendo le note esplicative del compositore) "quando siedi solo, stanco del lavoro, prendi un libro, ma ti cade dalle mani e i ricordi si affastellano”. Con un gusto teatrale sempre controllato, Chailly ha contrapposto all’introspezione del movimento precedente l’acceso virtuosismo dell’orchestra dello Scherzo e il rondò dell’Allegro con fuoco conclusivo. Alla conclusione meritata ovazione per tutti i protagonisti della serata.

Due giorni dopo Chailly e Filarmonica hanno ripetuto il concerto a Londra, nel prestigioso Barbican. Ecco come recensisce, in particolare, la sinfonia una commentatrice britannica:    

So to Tchaikovsky’s Fourth. Oh no, not again? Well, that crunching noise you can hear is the sound of a critic eating her words. Hear an interpretation like this one and you see why this work is played so often: it’s fabulous. In Chailly’s hands the first movement emerged as an overwhelming emotional statement, marvellously paced and structured, heart and logic fusing to spectacular effect. With musical drama like this, who needs opera? (...) An encore from Verdi himself – the Overture to I vespri siciliani – sent us home hoping for a return visit from the Milanese as soon as possible.

Ecco invece qualche parere di loggionisti scaligeri:

Molto godibile Grieg. Il resto da dimenticare
...
Orripilante quarta, piatta, scialba, noiosissima e con un orribile suono
...
durante la Quarta ero quasi in pena

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Ora, non è escluso che i commentatori paludati abbiano un filino calcato la mano con gli elogi: succede spesso e volentieri, per carità. Ma che la Quarta di Ciajkovski suonata dalla Filarmonica con Chailly diventi oggetto orripilante, è un parere sinceramente bizzarro (o anche qui è questione di claque?)

laVerdi 17-18 – Concerto n°12


Dopo un 33enne yankee, per par-condicio, ecco un 30enne russo salire sul podio de laVerdi: si tratta di Maxim Emelyanychev, che è di casa qua vicino (in Svizzera) come abituale Direttore del Pomo d’oro.

In omaggio alla sua Patria, il simpatico Maxim ci offre un concerto centrato su Ciajkovski, ma che contempla anche la prima esecuzione assoluta di un’opera italiana, precisamente del triestino (Ronchi) Federico Gon, anche lui uscito da poco dalla... pubertà (hehe!) avendo 36 anni o giù di lì, ma già con un curriculum invidiabile.

La Tempesta è il brano di apertura del concerto: un Ciajkovski anche lui assai giovane già mostra tutte le sue capacità con questa composizione che nulla ha da invidiare a ciò che il complessato Piotr comporrà in futuro: la struttura assai articolata e i contenuti dell’Ouverture (un poema-sinfonico in realtà) sono davvero di tutto rispetto (qui i curiosi ne possono trovare una mia illustrazione). Il sorridente Maxim  - sempre senza bacchetta – si agita con movenze da danzatore e sembra proprio divertirsi come un bambino, trascinando così i ragazzi ad un’esecuzione vibrante, in cui spicca il reiterato tema amoroso  Miranda-Ferdinand.  
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Ecco poi la primizia della serata: si continua a trattare di Tempesta, ma quella che ora ascoltiamo è la visione di Federico Gon, ispirata nel 2016 all’Autore dal quarto centenario della morte del Bardo. Subito prima del concerto l’Autore medesimo è intervenuto alla consueta conferenza organizzata da Pasquale Guadagnolo per anticipare i tratti principali della sua opera, coadiuvato dal prof. Enrico Reggiani - esperto di letteratura albionica, oltre che di musica - che l’ha inquadrata nel vasto mondo delle produzioni artistiche fiorite attorno a Shakespeare.

Gon si deve esser messo nei panni di Strauss e ha composto un poema sinfonico (in una sorta di forma-sonata) dove il tema di Prospero la fa da padrone, un tema diatonico che esplora i gradi armonici classici (tonica, dominante, sesta, settima, maggiore e minore...) e dal quale poi derivano quelli di quasi tutti gli altri personaggi, da lui in qualche modo... pilotati. In sequenza ascoltiamo Ariel (una ventata di armonici di DO); poi Prospero; quindi Caliban (il cui tema assume i caratteri sbifidi del personaggio tramite mutazione... dodecafonica!); ancora i congiurati Antonio&Trinculo (cui Gon appioppa ritmo e stilema che ricordano i... colleghi Sam&Tom del Ballo verdiano). E poi naturalmente Miranda e il relativo love-theme con Ferdinand; per finire con una scena di nozze fra i due (che Shakespeare si era esentato dal presentare) supportata da un motivo derivato dalla tradizione albionica, che ha però venature di tarantella, quindi appropriate per il maritino napoletano. Però non si finisce in pompa magna, ma invece finisce... un sogno: interrotto da un risveglio per nulla brusco.

Ecco, Gon dimostra come nel terzo millennio si possa ancora comporre - senza vergognarsene - musica tardoromantica, à-la-Strauss e con orchestrazione respighiana... Come minimo il pubblico non si è nè addormentato, nè annoiato, nè tantomeno esasperato: che volete di piu?
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La serata si è chiusa con la famigerata Quarta: udita mille volte in tutte le salse e cento volte anche qui, suonata da laVerdi. Come tutte le droghe (e questa non è per nulla leggera...) andrebbe presa con grande cautela e parsimonia, ma quando un brano è diventato cavallo-di-battaglia è fatale che venga proposto ad ogni piè sospinto. Ciò che ne certifica però la qualità è il fatto che – a differenza di altre droghe - non porti assuefazione: ogni volta la si ascolta come se fosse la prima (non capita la stessa cosa, per dire, nei rapporti con il partner...)

Emelyanychev, a dispetto della sua attitudine al barocco (che però era amato anche da Ciajkovski!) sembra aver nel sangue questa musica, che dirige con una sensibilità rara in un direttore giovane come lui. Poi ci aggiunge anche qualche tocco da... vecchio marpione, con forzature all’agogica, messa in risalto di linee interne, rubati e altro. Insomma, un’interpretazione da Maestro consumato, che ovviamente le qualità dell’Orchestra (anche qui guidata da Dellingshausen) hanno supportato in maniera determinante.

Gran successo per tutti, in un Auditorium abbastanza affollato, nonostante il tempo che invitava a restarsene in pantofole, al... caminetto.  

22 gennaio, 2018

A proposito di osti e vino


L’ispirazione per questo scritto un filino... ehm, politically-uncorrect, mi è venuta dalla produzione della Bohème (di Mariotti-Vick) attualmente in cartellone a Bologna. Premetto di non aver ascoltato la prima su Radio3, nè di essere in grado di assistere ad una delle prossime rappresentazioni, e nemmeno alle prossime trasmissioni nei cinema, nè su RAI5 (cause di forza maggiore). Ergo, lungi da me il trattare di cosa (quasi) sconosciuta.

Invece mi ha incuriosito un aspetto (che non dev’esser certo nato con questa Bohème) che spiega il titolo di questo post: che allude, come si può facilmente arguire, al tema (vecchio quanto il mondo, per carità) dei conflitti di interesse.

Mi spiace prendere qui di mira una mia illustre conterranea, la musicologa Roberta Pedrotti da Lumezzane (bresciana come me quindi, solo di una valle attigua). La sua figura e il suo curriculum sono ispezionabili sul sito L’Ape musicale, da lei fondato qualche anno fa. Come si può notare, lei ha studiato a Bologna e colà è Direttrice scientifica del Concorso Città di Bologna, che promuove nuovi talenti nel mondo dell’opera.

Veniamo a questa benedetta Bohème: mentre non c’è traccia (sul sito del Teatro, nè sul web) di video di presentazione dell’opera prodotti in prima persona dal Comunale, si trovano su youtube alcuni video (due in particolare sulla Bohème, altri indirettamente ad essa legati) prodotti dal canale della rivista, come risulta dall’indicazione dell’uploader dei filmati e dall’indirizzo del sito che compare perennemente in sovrimpressione sulle immagini.

Nel primo video, dove Mariotti parla della produzione (curiosamente soffermandosi sugli aspetti filo-socio-esistenziali più che su quelli musicali) a 1’40” pare proprio che il Maestro si rivolga alla nostra Roberta: il che è più che verosimile, visto che la ripresa è fatta dalla rivista. In un secondo video è Vick a raccontare la sua vision sul soggetto. In un terzo, si direbbe che sia la Pedrotti a fare una domanda riguardo la programmazione RAI del Don Giovanni di Vick del 2014, già da lei recensito in occasione delle recite bresciane (il link alla recensione è pubblicato proprio in calce al video).

Insomma, mettendo insieme tutte le circostanze citate, chiunque è indotto a pensare (andreottianamente, per così dire) che fra il Teatro e la Pedrotti ci sia un qualche rapporto privilegiato, quale ne sia la natura (formale-informale). In sostanza: la Pedrotti non ci fa – nella specifica circostanza - la figura di un critico musicale indipendente, ecco.    

E allora arrivo al punto: leggiamo la recensione che la Pedrotti scrive dopo la prima di questa Bohème: un autentico panegirico (e faccio sinceramente i complimenti alla straordinaria penna della mia conterranea)!  

Però, qui pare proprio che l’ostessa stia decantando (in tutti i sensi) il suo vino.

Il Pasquale di Spontini rivive a Venezia


Ieri pomeriggio al Malibran di Venezia (molte le poltrone vuote...) è andata in scena la seconda recita della farsa Le metamorfosi di Pasquale di Gaspare Spontini, operina ritenuta perduta ma riscoperta l’altr’anno in Belgio.

In un precedente intervento avevo scritto di un soggetto, quello del Foppa, che mi pareva, almeno a prima vista, piuttosto deboluccio, e della conseguente curiosità di ascoltarne la resa in musica del grande (...ma non ancora, nel 1802) Spontini. Ecco, la curiosità è stata soddisfatta, naturalmente, ma non così... l’aspettativa. Non che (personalmente) sognassi di ascoltare Mozart e menchemeno Rossini, ma insomma, si è avuta la conferma che lo Spontini del 1802 era un musicista ormai involuto – come del resto doveva aver concluso il pubblico del San Moisè, rimasto assai freddo - e che solo il totale cambiamento d’aria (leggasi: Parigi) gli potè (e 5 anni dopo) ispirare cose davvero innovative e imperiture.

Federico Agostinelli, cui è stata affidata l’edizione critica (così recita la locandina, a me pare in termini un tantino pretenziosi, date le circostanze in cui la partitura è tornata alla luce) ha dovuto far fronte alla mancanza di una Sinfonia, così ha ipotizzato che Spontini abbia fatto ascoltare ai veneziani del 1802 quella tratta da La fuga in maschera, giustificando ciò con il razionale che Spontini aveva già impiegato (e avrebbe impiegato successivamente) tale sinfonia in altre opere, e che alcune sezioni tornano nel finale della farsa. Finale che Agostinelli ha dovuto anche integrare di suo in alcune parti mancanti nel tomo rinvenuto in Belgio. Sempre secondo Agostinelli, quest’operina mostrerebbe qualche elemento di novità rispetto alla produzione precedente di Spontini, come: modulazioni più ardite, cadenze evitate e accordi aumentati. Okay, ma il risultato, ripeto a mio modesto avviso, è quello che è...

Gianluca Capuano ha comunque fatto del suo meglio per... indorarci la pillola, con una direzione vibrante, ben assecondato dagli sparsi strumentisti della Fenice. Al proposito, al Malibran ieri è successo ciò che forse non capitava nemmeno nel 1802: per ben due volte è mancata improvvisamente l‘illuminazione nella buca! Nella prima occasione l’orchestra è riuscita miracolosamente a chiudere il numero, suonando nel buio più fitto e raccogliendo meritati applausi. Al secondo incidente, Capuano ha dovuto fermare tutti e riattaccare poi l’aria di Lisetta (quella col corno inglese). Evabbè...

Proprio Lisetta, al secolo Irina Dubrovskaya, è stata la mattatrice del pomeriggio, essendo anche il personaggio più impegnato da Spontini: un po’ censurabile il suo timbro di voce (nella Sonnambula di qualche tempo fa mi era parso più gradevole) ma apprezzabili i virtuosismi e le salite ai sovracuti che le hanno meritato un’ovazione alla singola. Meno impegnata e meno appariscente la Costanza di Michela Antenucci, che ha però sfoggiato una voce più rotonda di quella del soprano siberiano.

I cinque rappresentanti maschi hanno discretamente meritato, su tutti metterei il Frontino di Carlo Cecchi, voce ben impostata e buon portamento. Poi Giorgio Misseri (Marchese) una voce piccola e però sufficiente in un ambiente... piccolo, appunto.  Efficaci nelle loro non proibitive parti il Barone di Francesco Basso e il doppione (Cavaliere-Sergente) di Christian Collia. Quanto al protagonista Pasquale, Andrea Patucelli merita ampia sufficienza, anche se questa parte di buffo forse richiederebbe ancora più verve, ecco.
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Quanto alla regìa, Bepi Morassi ha scelto – in assenza totale di riferimenti spazio-temporali nel libretto del Foppa - un’ambientazione in epoca appena pre-primo-conflitto-mondiale e ha immaginato il barone come il ricco proprietario di un elegante caffè-bar. All’interno o nei pressi del quale (insegne luminose di entrata e uscita scambiate alla bisogna) collocare gli avvenimenti. Scene spartane, quelle di Piero De Francesco, e costumi più o meno plausibili quelli di Elena Utenti, tutti ideati – così come l’impiego delle luci - da allievi della Scuola di Belle Arti veneziana.

Morassi sa poi far muovere da par suo personaggi e comparse (avventori del bar) sulla scena, garantendo un buon livello di vivacità ad uno spettacolo i cui ingredienti di base lasciano effettivamente molto a desiderare.

Pubblico abbastanza ben disposto, con alcuni applausi a scena aperta e un doveroso apprezzamento finale per tutti i protagonisti. Insomma, un ritorno dopo 216 anni che difficilmente farà... storia. Viaggio che comunque si concluderà proprio a casa di Spontini, fra qualche mese, in occasione del Festival 2018.