ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

14 gennaio, 2018

Spontini resuscita a Venezia


Il glorioso Malibran di Venezia ospiterà fra pochi giorni cinque recite della farsa giocosa per musica intitolata Le metamorfosi di Pasquale, opera del grande Gaspare Spontini che è stata miracolosamente riportata alla luce poco tempo fa in Belgio (insieme ad altre due opere e ad una cantata) e che Venezia e Jesi (rispettivamente luogo della prima del 1802, e patria del compositore di Maiolati) hanno deciso di mettere in scena con sollecitudine.

La farsa, il cui testo è di Giuseppe Maria Foppa, è sottotitolata Tutto è illusione nel mondo, che non può non richiamare alla mente il boitiano Tutto nel mondo è burla che chiude Falstaff (non si può escludere che Boito conoscesse il testo di Foppa, il quale era famoso per aver scritto libretti su soggetti shakespeariani...)
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La vicenda – tipica del genere-farsa, basata su equivoci, scambi di identità e qui-pro-quo - è ambientata nel parco e poi nel castello del Barone, che ha una figlia (Costanza) da lui promessa al Cavaliere (del Prato). Ma Costanza (che ha la sua cameriera, Lisetta) ama ed è riamata dal Marchese (Alberto, che nessuno al castello, eccetto la padroncina, ha mai visto) il quale ha a sua volta un servo, Frontino, che si innamora di Lisetta. Il protagonista (gabbato) della farsa è Pasquale, un avventuriero, tipo senza arte nè parte, sedicente innamorato di Lisetta, e che sarà vittima della simpatica macchinazione del quartetto Marchese-Costanza/Frontino-Lisetta volta ad assicurare il positivo esito delle aspirazioni amorose delle due coppie.      

Nel vasto parco del castello

Scena I
Facciamo la conoscenza con le due coppie che alla fine si uniranno felicemente. Il Marchese e il fido Frontino si aggirano circospetti nel parco per incontrare Costanza, che infatti sopraggiunge, accompagnata dalla fida cameriera. Marchese e Costanza vorrebbero subito scambiarsi ardenti effusioni, ma ne sono impediti dalla saggia Lisetta, che li invita alla prudenza e poi respinge anche le avance di Frontino. I quattro esternano i loro tormenti d’amore, poi Lisetta informa il Marchese dell’inimicizia del Barone nei suoi confronti e delle intenzioni del suddetto di dare la figlia in sposa al Cavaliere. Frontino chiede aiuto a Lisetta, perchè metta la sua astuzia al loro servizio; cosa che Lisetta sembra apprestarsi a fare, ricordando al Marchese che lui al castello non è conosciuto... Ma in quel momento Frontino avverte tutti che lì sta arrivando proprio il Cavaliere, così Costanza e Lisetta se ne scappano in tutta fretta.

Scena II
Il Cavaliere, che ha osservato la scena, scopre subito l’identità del Marchese, lo invita a rinunciare a Costanza e, al suo diniego, lo sfida ad un duello alla pistola... a cavallo!

Scena III
Frontino osserva da lontano il duello: si ode un colpo, poi il cavallo del Cavaliere si impenna e disarciona il passeggero; il Marchese spara un colpo in aria, mentre il servo del Cavaliere corre al castello a chiamare aiuto per far arrestare il Marchese, che Frontino si ripropone di salvare.

Scena IV
Facciamo qui la conoscenza del protagonista, Pasquale, squattrinato ed affamato, che arriva lì sperando di incontrare la sua (un tempo) amata Lisetta. Ma si chiede: che matrimonio sarebbe quello fra uno sbandato nullatenente e nullafacente e una modesta cameriera? Ricorda i 10 anni di girovagare a vuoto ed anche la profezia di una maga, che gli aveva predetto fortuna a seguito della caduta del suo signore. Ma quando ciò era accaduto e lui dell’accaduto rise, il signore suo lo aveva licenziato in tronco, altro che fortuna! Adesso è pure stanco morto, si spoglia della sua casacca e si addormenta.

Scena V
Frontino e il Marchese si sentono ormai braccati, ma il servo ha un’idea geniale: vede l’abito di Pasquale addormentato e lo fa indossare al padrone, gettando le di lui vesti, più cappello e spada, accanto al dormiente. Il Marchese scappa e Frontino si apposta ad osservare gli eventi.

Scena VI
Pasquale, risvegliato dal trambusto provocato da Marchese e Frontino, si ritrova al fianco i lussuosi abiti del Marchese; crede di sognare, ma poi ripensa alla profezia della maga e si convince che la fortuna è finalmente arrivata anche per lui. Si veste di tutto punto e già si immagina nei panni di un gran signore che dà ordini ai suoi servi e lacchè.

Scena VII
Frontino si presenta a Pasquale trattandolo come il suo padrone e chiamandolo Marchese del Colle. Il poveraccio ci casca e si convince ulteriormente del miracolo di cui è beneficiario. Frontino si complimenta con lui per la vittoria nel duello contro il Cavaliere, che gli voleva sottrarre la ricca ereditiera. Pasquale ringalluzzisce ulteriormente, ma vien messo da Frontino sull’avviso che il padre della ragazza si oppone alle sue nozze. Arrivano frattanto le guardie del Barone. 

Scena VIII
Ecco le guardie, cui Pasquale tenta di resistere, persino dichiarando che lui non è il ricercato, ma nessuno gli crede e Frontino, fingendo commiserazione, lo compromette ulteriormente facendolo passare per vanesio, così il poveraccio deve arrendersi e viene portato via.

Una grande sala del castello

Scena IX
Costanza è preoccupata per l’esito del duello, quando il Marchese (nei panni di Pasquale) le si para dinanzi avvertendola che – essendo a tutti sconosciuto - rimarrà lì in giro e le indicherà via via come comportarsi. Poi canta la sua determinazione a fare sua Costanza.

Scena X
Costanza è preoccupata che il Marchese si esponga troppo e rovini tutto. Lisetta arriva tutta affannata e annuncia: il Barone e il Marchese si sono incontrati in giardino!  

Scena XI
Arrivano il Barone e il Marchese (che il Barone non ha riconosciuto, come Costanza e Lisetta comprendono). Il Barone annuncia che il Marchese (Pasquale) verrà portato lì per essere interrogato.

Scena XII
Il Marchese (Pasquale) si presenta e subito ha un moto di sorpresa vedendo lì Lisetta, che da parte sua non sa trattenere lo stupore. Tutti se ne domandano la ragione e Frontino invita Lisetta a fingere che Pasquale sia il Marchese, cosa di cui si convince anche il Barone. Che chiede a Pasquale se intenda sposare la figlia. Il poveraccio risponde di sì, ma che lo fa per i suoi milioni! Il Barone lo fa accomodare in altra stanza con Lisetta, mentre lui se ne va con Costanza.

Scena XIII
Frontino e Lisetta si prendon gioco di Pasquale: il servo del Marchese gli canta sfacciatamente una dichiarazione d’amore per la cameriera di Costanza e se ne va.

Scena XIV
Lisetta e Pasquale restano soli. Pasquale, che crede Lisetta non lo abbia riconosciuto, cerca di presentarsi, pendendola alla lontana, ma Lisetta gli stronca ogni illusione, maledicendo il Pasquale che l’abbandonò dopo averle promesso di sposarla. Ora Pasquale si rivela apertamente, vantando il suo nuovo status di nobile, che le potrà dare ricchezze e onori. Lisetta finge di restare colpita dalle sue avance, ma quando lui se ne va, non manca di schernirlo.  

Scena XV (?) non indicata sul libretto

Scena XVI
Il Marchese annuncia a Lisetta che il Cavaliere, rimessosi dai postumi del duello, desidera incontrarlo. Contrariamente alla cameriera, lui sembra fidarsi del gentiluomo. Sopraggiunge di corsa Costanza annunciando l’arrivo del padre. Il Marchese e Lisetta escono.  

Scena XVII
Il Barone rimprovera la figlia per essersi invaghita del Marchese (Pasquale) che lui non è assolutamente disposto ad accogliere come genero. Costanza lo rassicura: alla fine tutto si aggiusterà, il suo amore avrà anche la benedizione del padre.

Scena XVIII
Restato solo, il Barone si interroga sul significato delle parole della figlia, poi, all’arrivo del Marchese (Pasquale), lo licenzia sdegnato e se ne va.

Scena XIX
Pasquale è raggiunto da Lisetta (e fugacemente dal Cavaliere). Sta cominciando a temere pericoli e pensa di svignarsela con la cameriera, promettendole nobiltà e ricchezze. Lei finge di seguirlo.

Scena XX
Sopraggiunge in gran fretta Frontino, che blocca la fuga dei due e poi notifica al suo (finto) padrone che su di lui si spargono voci assai compromettenti. Lisetta finge ancora di provare grande attrazione per Pasquale, rivolgendogli frasi appassionate, che però indirizza anche a Frontino, prima di lasciarli soli.    

Scena XXI
Pasquale si sincera che Frontino sia davvero e tuttora suo servitore. Alla risposta affermativa gli confessa di aver sentito in giro voci non proprio edificanti su di lui. Poi però si rassicura, e chiede al servo di aiutarlo a svignarsela, promettendogli ricchezze. Frontino chiama in causa Lisetta ed entrambi si avviano verso di lei.

Scena ultima
Il Cavaliere riconosce la nobiltà d’animo del Marchese (che nel duello, sparando in aria, gli ha risparmiato la vita) e si dice disposto a farsi da parte nella corsa a Costanza, avendo già convinto anche il Barone. Arriva Lisetta che annuncia la messinscena di uno scherzo ai danni di Pasquale, scherzo che dovrà peraltro avere conseguenze incruente. Lisetta canta la sua morale contro i maschi che troppo spesso si prendono gioco delle femmine. Arrivano Frontino e Pasquale, cui sono stati fatti indossare i panni di una anziana malconcia, per facilitarne la fuga. Ma arriva gente e a Pasquale viene consigliato di assumere atteggiamenti da vecchia in preda a crisi epilettiche. Al sopraggiungere di Barone, Marchese, Cavaliere e Costanza, Pasquale cerca maldestramente di fuggire, ma così rivelando a tutti la sua vera identità. Il Marchese racconta al Barone dello scambio d’abito con Pasquale (al momento del duello). Pasquale, assurdamente, chiede la mano di Lisetta, la quale lo smerluzza davanti a tutti per la sua passata infedeltà, notificandogli di aver già sposato Frontino. Pasquale balbetta ancora giustificazioni, poi si rassegna, mentre tutti gli altri annunciano un gran pranzo matrimoniale per festeggiare le due coppie che convolano a giuste nozze.
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Mah, un soggetto – a prima lettura – non propriamente entusiasmante, per non dire di peggio; che siamo tutti curiosi di giudicare vestito dalle note del grande Spontini. Teniamo presente che a Venezia (ma anche a Napoli e Roma) a cavallo del 1802 si era ancora lontani dalla strepitosa irruzione (1810) di un 18enne pesarese che letteralmente rivoluzionerà il genere farsa (e dopo di questo pure l’opera buffa e quella seria!) Un esempio di produzione musicale di quei tempi è questa farsa di Mayr, tutt’altro che disprezzabile, ma un poco troppo... prevedibile, ecco, senza veri spunti di genio.

Pasquale è verosimilmente l’ultima opera composta da Spontini prima del suo trasferimento in Francia, dove videro la luce quasi subito lavori di grande rilievo (Milton, La Vestale, Fernand Cortez) che decretarono l’incontrastato successo parigino del musicista marchigiano. È quindi di grande interesse scoprire se e quanto il Pasquale anticipi la successiva evoluzione francese di Spontini. E all’uopo si adopereranno Gianluca Capuano, che ha grande consuetudine con il ‘700 (non solo barocco) e strumentisti della Fenice, che supporteranno le voci di Irina Dubrovskaya, Michela Antenucci, Giorgio Misseri, Christian Collia, Carlo Checchi, Franceesco Basso e di Andrea Patucelli (nel ruolo-titolo).

13 gennaio, 2018

laVerdi 17-18 – Concerto n°11


Dopo l’esordio nella scorsa stagione, il rampante Robert Trevino è tornato sul podio de laVerdi per il primo dei suoi due appuntamenti stagionali (il secondo è previsto a maggio con la Sesta mahleriana). Per l’occasione il giovane yankee ha scelto un mastodonte sinfonico che peraltro è abbastanza di casa per l’Orchestra: la Settima di Shostakovich. E proprio in occasione della penultima apparizione di questo lavoro (sotto la bacchetta dello specialista Caetani) avevo scritto qualche riga poco, ehm... politically-correct su contenuti e struttura della mappazza.

Che purtroppo, carica di mille incrostazioni extra-musicali di cui si è ricoperta fin dalla nascita (cioè da 75 anni a questa parte) si fatica sempre ad apprezzare (nel bene e nel male) come opera di ingegno, intesa come musica di per se stessa. Per i cittadini russi (e non solo) del 1942 quella musica aveva un significato e un sapore strettamente legato alle catastrofiche circostanze materiali in cui era venuta alla luce: nessuno allora si interrogava sui suoi contenuti estetici, poichè la sentiva soprattutto come una droga utile a rigenerare le forze spirituali (e pure materiali) con cui affrontare il nemico invasore (allo stesso modo la musica in modo frigio veniva impiegata fin dall’antichità per aizzare le truppe in battaglia).

E gli stessi contenuti musicali furono indubbiamente condizionati dallo scenario esterno: a partire dalla forma dell’opera, che doveva essere inizialmente un poema sinfonico, poi divenuto il primo movimento di una sinfonia in quattro movimenti, tutti peraltro a loro volta sottotitolati (salvo successiva revoca dei sottotitoli!) in modo più o meno ambiguo... E poi c’è il caso della marcetta continuamente variata, rappresentante l’invasore, infilata come corpo totalmente estraneo nel primo movimento, al posto dello sviluppo di una forma-sonata, e poi come codetta. E così ecco che lo stesso sottotitolo (Leningrado) - che ancor oggi compare a definire l’opera, mettendone in primo piano le circostanze che ne caratterizzarono l’origine – finisce per condizionarcene inevitabimente la fruizione. 
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Devo dire che Trevino ha lodevolmente provato a farcela digerire senza troppi sforzi, aggiungendovi un po’ di alka-seltzer, sotto forma di alcuni trucchetti che evidentemente il 33enne texano ha ben assimilato da suoi illustri predecessori: anticipare di qualche battuta i cambi di agogica, infilare qualche sapiente rubato qua e là, oltre che girare sul massimo la manopola del contrasto, cosa che garantisce sempre il risultato, evitando cali di... concentrazione nel pubblico.

Tutto sommato, un’interpretazione più che apprezzabile, date le circostanze, giustamente applaudita dal folto pubblico e anche dagli stessi orchestrali - autori di una prova ancora una volta maiuscola - che hanno innescato un applauso ritmato in omaggio al Direttore, con il quale evidentemente hanno trovato un ottimo feeling. Insomma, tutti felici e contenti.

11 gennaio, 2018

Per la prima volta un Pipistrello svolazzerà nel Piermarini (1)


Il prossimo venerdi (19) alla Scala andrà in scena - per la prima volta in assoluto, dal lontano 1874! – Die Fledermaus, operina-operetta-singspiel-divertissement-vaudeville, o come la si voglia definire, del papà (o figlio, ecco) del Walzer, Johann Strauß jr. Come (troppo...) spesso accade, uno dei protagonisti, forse il principale, dello spettacolo, il venerabile Zubin Mehta, ha dato forfait causa convalescenza da un’operazione alla spalla e così Pereira ha dovuto ripiegare sul (comunque) solido Cornelius Meister, che speriamo non faccia rimpiangere troppo il grande assente.

Si usa normalmente attribuire alla straussiana(-bavarese) Rosenkavalier la qualifica e l’onore di opera rappresentante, al più alto grado, uno spaccato della società e della vita viennesi a cavallo fra ‘800 e ‘900. Beh, forse sarebbe il caso di rettificare, almeno in parte, questo giudizio. E non certo perchè lo straußiano(-viennese) Fledermaus possa pretendere di competere artisticamente, esteticamente e musicalmente con il capolavoro  del grande Richard (il solito Hanslick ne scrisse come di musichetta...) ma perchè dipinge e mette alla berlina, con dissacrante e cinica parodia, la corruzione dei costumi della civiltà viennese dei tempi del Re del Walzer, mentre il Rosenkavalier, se letto e osservato bene e da vicino, nella lettera come nello spirito, di quella società presenta e ricorda (e rimpiange, semmai) le remote, sane ed eroiche origini settecentesche.

Il Cavaliere si chiuderà infatti sull’apertura delle porte di un nuovo mondo (Sophie & Octavian) fatto di sincerità e di libertà di scelte e sulla stipula di un nuovo, più moderno patto sociale (Marie-Theres’ & Faninal). Nessuna morale seria, in senso stretto, si può invece cavare dal Pipistrello, dove alla fine della storia (quintessenza di amoralità e di penuria di sani principii) tutto sembra tornare alla normalità e quindi... al preesistente degrado di una società senza ideali e perciò senza futuro. Una società che invece di interrogarsi sulle cause di eventi come il crack della borsa viennese del 1873, seguito alle ubriacature finanziarie dell’Esposizione Universale, e la contemporanea epidemia di colera, sperava di dimenticare tutte le sue disgrazie ballando il walzer e brindando a champagne!    

Nel Fledermaus non c’è un solo, ma proprio neanche mezzo, personaggio cui attribuire caratteri positivi: dal primo all’ultimo, sono tutti gente arida, ipocrita, approfittatrice, priva di scrupoli e di morale. Vediamo: Eisenstein è un ricco ereditiere (volgarmente: mangiapaneatradimento) dedito a intrallazzi e a tradire la moglie. La quale (Rosalinde) ha contratto un matrimonio di pura convenienza, così quando il marito se ne va... in galera lei trova il tempo (sotto apparenti profferte di fedeltà) di ripagarlo ipocritamente della stessa moneta con tale Alfred, tenore e maestro di canto del travestito Orlofsky, che è un classico rampollo di boiardo russo, verosimilmente un affamatore di contadini. La servetta di Rosalinde (Adele) sa benissimo come sfruttare la situazione in quella famiglia di spregevoli padroni (e poi a casa del russo) e si fa i cazzi propri inventando fandonie in quantità industriale. Il mefistofelico dottor Falke è degno sodale di intrallazzi e di avventure di Eisenstein, che non esita a sputtanare – preparandogli un gran trappolone - in risposta all’esser stato da lui sputtanato tempo addietro, quando fu esposto al pubblico ludibrio, bardato appunto da pipistrello. Frank è un direttore di carcere dalla deontologia degna di un camaleonte. Blind (un nome, una certezza!) un azzeccagarbugli da strapazzo. E fermiamoci pure qui, per pietà degli altri minori.

Ne combinano ovviamente di cotte e di crude, meriterebbero tutti, per come si comportano, di finire in galera, e invece... dalla mattinata trascorsa nei locali della galera riemergono tutti ipocritamente purificati e riabilitati dai loro peccati, pronti a riprendere seduta stante la loro normale quanto spregevole esistenza, dopo un bel brindisi a champagne. Insomma, una storia assai poco edificante, di cui la brillantezza della musica e le scenette esilaranti finiscono, invece che per mascherare, per accentuare al contrario tutta la carica negativa.
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La Scala pare volersi distinguere per approccio politically-correct, e così, decidendo di rispettare la volontà dell’Autore riguardo al principe Orlofsky (mezzosoprano en-travesti) revoca lo status alla cantante, presentandocela come Princesse Orlofskaya, roba da bigottismo davvero degno di miglior causa...

Altra curiosità nel cast riguarda l’interprete dell’avvinazzato carceriere Frosch, figura tradizionalmente affidata a personaggi da avanspettacolo. In origine la Scala aveva scelto nientedopodomanichè Nino Frassica, poi ha ripiegato su Paolo Rossi, come dire... dalla padella nella brace.

Da ultimo non si può non ricordare la faccenda dei balletti che precedono la chiusura dell’Atto secondo. Strauß ha previsto una lunga e cosmopolita sequenza di danze, in omaggio agli invitati stranieri di Orlofsky (Vienna aveva ospitato per l'appunto l’Esposizione Universale): peccato che si tratti – stranamente – di musica di ispirazione miserella, come si può constatare qui, in una registrazione completa dei balletti eseguita da Karajan nel 1960: Spagna, Scozia (1’22”), Russia (2’19”), Bohème (3’43”), Ungheria (5’11”, che riprende la czarda cantata poco prima da Rosalinde). E così Harnoncourt si limita a presentare le sole ultime due danze (da 1h41’28” a 1h44’55”). Ecco che allora, già dai tempi delle prime recite, si preferì l’adozione di musiche, diciamo più... trascinanti, quali le polke tipo Trisch-Trasch o Unter Donner und Blitz (qui appunto quest’ultima, adottata dal sommo Karl Böhmche peraltro fa cantare il diciottenne Orlofsky al venerabile Windgassen... - da 1h32‘33“ a 1h35‘56“).

Altre volte si è esagerato, chiamando in scena personaggi tanto famosi quanto... alieni: già nel 1884, per il compleanno dell’Autore, furono invitati cantanti che avevano rese celebri altre operette. Poi l’idea di trasformare la festa del second’atto in una passerella per celebrità del momento fu raccolta da Heinrich (Cohn) Conried, Direttore del MET, che nel febbraio del 1905 fece intervenire le più famose voci del teatro newyorkese, fra le quali Enrico Caruso (nel quartetto del Rigoletto), Antonio Scotti (Falstaff), Maria de Macchi (Semiramide) e fece eseguire poi brani dal Faust e altri pezzi di Grieg e Delibes (e per l’occasione raddoppiò il prezzo dei biglietti...) Nel 1960 Karajan diresse a sua volta un’edizione comprendente il gala del second’atto, con interventi di numerosi e famosi cantanti dell’epoca: Renata Tebaldi, Fernando Corena, Birgit Nilsson, Teresa Berganza, Joan Sutherland, Jussi Björling, Leontyne Price, Giulietta Simionato, Ettore Bastianini, Ljuba Welitsch. 

Più recentemente, in questa recita del 1977 a Londra, diretta manco a farlo apposta da Zubin Mehta, al posto dei 5 balletti originali vengono inseriti (da 1h31’00” a 2h01’53”) addirittura 30 minuti di vero e proprio spettacolo-nello-spettacolo, dove assistiamo (1h31’40”) alla Explosions-Polka; poi (1h34’35”) a Prey che canta il Lagunen-Walzer da Eine nacht in Venedig; quindi (1h38’20”) ad un’esibizione di Barenboim (in Chopin) e poi di Stern (in Mendelssohn, 1h48’55”) prima della chiusura (1h56’05”) con il famoso Frühlingsstimmen. Nell’atto di apertura, con un certo sprezzo del buongusto (cosa non infrequente nello humor albionico...) ci tocca pure di ascoltare (27’26”) l’Addio di Wotan!

Sei anni dopo la cosa si è ripetuta, sempre con Dame Kiri e Hermann Prey (che si ripete in Wotan a 34’08”) diretti dal Topone, ma con ospiti in parte diversi: dopo la polka (1h39’25”) Prey canta (1h42’02”) un brano dallo Zigeunerbaron, quindi ecco (1h45’53”) il famoso (in UK) duo di travestiti George Logan (come Evadne Hinge, al piano) e Patrick Fyffe (come Hilda Bracket); e infine (1h52’18”) il celebre Charles Aznavour.

Nel 1990, sempre a Londra, ci fu un gala dedicato alla Sutherland, con Pavarotti e Horne. Beh, vedremo alla Scala con che cosa ci sorprenderanno.
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(1. continua

29 dicembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°10


Da oggi e fino al prossimo lunedi sera laVerdi offre ben quattro esecuzioni della Nona beethoveniana, tradizionale appuntamento di Capodanno in Auditorium. Quest’anno, dopo averci regalato la sua appassionata lettura dell’altro chiodo fisso delle stagioni dell’Orchestra (il Requiem verdiano) è ancora Elio Boncompagni a salire sul podio per quello che sarà il suo ultimo appuntamento della stagione che si concluderà a giugno ’18.

Questa sera la sala di Largo Mahler è stata letteralmente presa d’assalto (e tutto lascia prevedere che lo sarà nelle tre successive repliche) da un pubblico che ha seguito l’esecuzione di orchestra, coro e solisti in quasi (tossi e raffreddori permettendo) religiosissimo silenzio, per esplodere poi, sulla conclusiva scalata di RE maggiore, in un autentico boato di liberazione, come nessun altro evento musicale sa forse suscitare in corpi e anime. Orchestra stranamente orfana di entrambe le sue spalle, peraltro ben guidata da Danilo Giust: signore in rosso e papillon pure rosso per i maschietti.    
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L’approccio di Boncompagni è stato assolutamente conservativo, sia nella scelta dei tempi (abbastanza... toscaniniani, ecco) che in quella dei contenuti (niente da-capo nella ripresa dello Scherzo). Si è trattato, almeno per me, di un’esperienza più che positiva.

Mediamente all’altezza dei rispettivi compiti almeno tre dei quattro solisti: Cinzia Forte, Stefanie Irányi e Carlo Allemano. Il basso Simon Schnorr, purtroppo per lui, un po’ sotto la sufficienza, per l’eccessivo vociferare. Certo lui ha l’attenuante di essere arrivato all’ultimo momento a sostituire l’indisposto titolare Sebastian Holecek, oltre che quella naturale di dover aprire il canto con quel micidiale recitativo O Freunde! Sempre sui suoi standard il Coro di Erina Gambarini, che Beethoven chiama, insieme ai solisti, ad un impegno proibitivo, superato in assoluta brillantezza!

Alla fine il solito bis con la ripetizione della sezione finale dell’Inno schilleriano.
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Personalmente il momento che sempre mi emoziona di più all’ascolto della nona è quello che arriva quando violini secondi e viole fanno emergere suoni paradisiaci da questi apparenti scarabocchi:


E c’è n’è proprio bisogno, in tempi che ci riservano ogni giorno miserabili spettacoli di inciviltà e di incultura... che c’è poca speranza che anche il 2018 potrà ahinoi evitarci. E allora: un buon anno nuovo in musica, a chi la fa e a chi l'apprezza.

21 dicembre, 2017

laBarocca è tornata con GesùBambino


In vista del Natale, è tornato dopo qualche tempo l’appuntamento con laBarocca di Ruben Jais per il colossale Messiah di Händel. Così come fatto in passato, il Direttore ha presentato in-toto la Prima Parte (che tratta propriamente della Natività) accorpando poi in una sola le successive due Parti (Resurrezione e Secondo Avvento). In complesso due blocchi di circa 60 minuti, abbastanza equilibrati anche rispetto alla... concentrazione richiesta allo spettatore.

Cast interessante, con il soprano Deborah York, che tornava qui dopo 5 anni (allora in Bach); il contralto (o controtenore che dir si voglia) Filippo Mineccia; il tenore Cyril Auvity e il baritono Renato Dolcini. Tutti assai ben preparati e convincenti, così come il collaudato Ensemble vocale di Gianluca Capuano.

Prima parte tenuta da Jais con approccio assai sostenuto, seconda più... vivace. Immancabile bis dell’Hallelujah con auguri natalizi, che il foltissimo pubblico ha accolto con grande entusiasmo.


18 dicembre, 2017

Faust (con chiassata) a Roma


La terza recita della Damnation all’Opera di Roma è stata ieri teatro di una clamorosa contestazione, durante e alla fine del Quadro I. Di questo colorito episodio sono in grado di riferire qualche dettaglio sfuggito al pubblico, dato che casualmente mi trovavo proprio nello stesso palco di platea dove sedeva, ad un posto di parapetto, davanti a me, la solitaria contestatrice.

Trattasi di signora diversamente giovane, francese (di Marsiglia), melomane incallita e abituale frequentatrice del Costanzi, che prima dell’inizio aveva intrattenuto i compagni di palco sciorinando una dongiovannesca lista di frequentazioni di teatri europei (ultimo, Valencia per un DonCarlo col Topone). Spazientita già alla vista del povero Faust michielettiano, affetto da mille complessi, aveva cominciato a dimenarsi emettendo sordi mugugni; ma poi, di fronte alla scena dello smutandamento del protagonista da parte dei tre bulli compagni di classe, ha cominciato ad inveire con termini irripetibili (pur se in lingua gallica, ma erano dei vaffa... e peggio). Devo dire di essere personalmente e rispettosamente intervenuto, a gesti e parole, suggerendole di rimandare le contestazioni a più tardi, evitando di disturbare la recita in corso. Cosa che lei ha fatto, a dir il vero.

Peccato che due minuti dopo, chiusa la Rácóczy, Gatti abbia abbassato la bacchetta per permettere al pubblico di applaudire (meritatamente) l’orchestra (in effetti la marcia è un pezzo di grande effetto e fa quasi da ritardata ouverture all’opera). Apriti cielo! La nostra non vedeva l’ora di poter riprendere la sua rumorosa e lunga lista di improperi, suscitando qualche sporadico fischio di altri contestatori, subito subissato dagli applausi dei più. Qualcuno dalla platea le ha gridato di andarsene, cosa che lei ha fatto davvero, all’inizio del Quadro III... per rientrare poi nel palco solo alla fine della recita (?!)
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Ora, io non voglio certo giustificare le sue intemperanze, davvero maleducate, ma per una come lei che evidentemente conosce il testo di Berlioz a memoria, il biglietto da visita del regista dev’essere stato proprio insopportabile. Ciò mi dà modo di affrontare subito il tema regìa, sul quale mi ero già laconicamente espresso dopo visione televisiva, parlando sostanzialmente di eccesso nel voler strafare da parte di Michieletto.

Il peccato originale della sua impostazione, secondo me, non sta certo nell’aver contestualizzato il soggetto ai giorni nostri, ma di aver palesemente cambiato i connotati al Faust ante-Mephisto (per così dire). In effetti, tutto ciò che il regista ci mostra dopo l’entrata in campo del diavolaccio è perfettamente compatibile con il soggetto di Berlioz(Goethe) che si allontana manifestamente dalla realtà sensibile per inoltrarsi su un territorio di pura speculazione e di metafisica. Dove Faust è tornato giovane e come tale torna anche a provare sentimenti e desideri (e anche a commettere errori) tipici di un giovane, uscendo dallo stato di totale indifferenza per la vita (e di tentazione al suicidio) cui l’aveva portato – attenzione però – l’eccesso di attaccamento morboso alla cultura e non un passato di disgrazie familiari (il padre alcolizzato, la madre morta prematuramente) e di umiliazioni da bullismo patite a scuola, come si inventa il regista di sana pianta!

Per un attimo mi era venuto di pensare che l’idea di Michieletto - mostrarci anche all’inizio dell’opera un Faust adolescente e non maturo - fosse derivata dalla lettura delle Memorie che Berlioz stesso ci ha lasciato, pubblicate in due volumi, e in particolare da quanto si legge nel Capitolo 40, titolato Variété de spleen. L’isolement. Lì troviamo sorprendenti riferimenti ai primi due e al quarto Quadro della Damnation, ma addirittura la prefigurazione dei desideri di Faust! Dunque, Berlioz racconta di quando, ancora studente sedicenne a Côte-Saint-André (suo paese natale, al centro della pianura fra Lione e Grenoble) si trovò un mattino a leggere, sdraiato sull’erba all’ombra di una quercia, un romanzo (di un francese) ambientato a Posillipo. In quel momento arrivarono alle sue orecchie canti di una processione propiziatoria del raccolto, con versi quali Sancta Maria, ora pro nobis, Sancta Magdalena, ora pro nobis (che ritroviamo pari-pari nella cavalcata verso l’abisso del Quadro IV dell’opera). Ma soprattutto la vista delle Alpi maestose all’orizzonte gli provocò un irrefrenabile desiderio di andare di là, verso l’Italia, verso Napoli e Posillipo, dove la sua immaginazione, eccitata dalla lettura del romanzo, gli faceva balenare alla mente passioni, felicità, segreti, amori, la gran vita! (pare proprio Faust...) E invece lui si ritrovava lì, a rotolarsi a terra, stringendo ciuffi d’erba e... margheritine (!)

Ecco il senso di isolamento, che lo colse allora e che sarebbe tornato a coglierlo più volte in futuro. Qui Berlioz fa sfoggio anche di ardite nozioni chimiche, paragonando i moti del suo animo e del suo corpo ad un processo termodinamico: una ciotola d’acqua ed una di acido solforico messe sotto una campana di vetro da cui viene aspirata l’aria, creandovi il vuoto; l’acqua va in ebollizione e viene assorbita dall’acido; quella poca che resta, per reazione esotermica, diventa un blocco di ghiaccio. Una simile reazione viene provocata, dal senso di isolamento, nel corpo del compositore: nel suo petto si crea un vuoto che fa evaporare il cuore; il resto del corpo si surriscalda, mentre la vita sembra sfuggire verso i quattro punti cardinali. Tuttavia non c’è desiderio di morte, nè di suicidio, al contrario cresce un desiderio di vita e di felicità, da soddisfare con immensi, furiosi e divoranti godimenti. Solo dopo arriva lo spleen, che è il blocco di ghiaccio che rimane al termine della reazione chimica; l’effetto è di creare nel soggetto che lo subisce la più grande indifferenza verso l’intero universo (Quadri I e II...)

Ora, dal passo citato emerge chiaramente la personalità di un ragazzo dotato di una straordinaria carica positiva, che gli deriva da attività intellettuali (la lettura di libri, caratteristica del Faust di Goethe come di quello di Berlioz) e non la personalità nichilista di una povera vittima di eventi nefasti. Per Berlioz, e quindi per il suo Faust, lo spleen, che porta all’indifferenza per ogni cosa e all’idea del suicidio (poi scongiurato da un richiamo religioso) arriva dopo una fase di grandi slanci vitali e non a fronte di una serie interminabile di disgrazie e vessazioni come quelle che colpiscono il povero Faust di Michieletto.
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Le Mémoirs contengono poi (secondo volume) la Terza lettera a Humbert Ferrand, dove troviamo un riferimento dettagliatissimo alla Marcia ungherese che Berlioz impiega per chiudere il Quadro I. Essa viene composta in un battibaleno a Vienna, alla vigilia della tappa ungherese del viaggio del compositore nell’Impero austro-ungarico. Nella capitale magiara (Pest, ai tempi non ancora gemellata con Buda...) il compositore ha in programma un concerto, e non gli par vero di infilarci, come brano di chiusura (sempre in grande, il nostro!) la sua freschissima trascrizione del motivo musicale più popolare laggiù (come poteva essere in Francia la Marsigliese!)

Ebbene, smentendo tutte le preoccupazioni e i timori (per le accuse di lesa-maestà) della vigilia, la marcia ha un successo di portata storica, il pubblico va in delirio, la interrompe con manifestazioni di giubilo, la si deve ri-eseguire e alla fine Berlioz è letteralmente portato in trionfo, promosso sul campo eroe nazionale!

E non per nulla la Rácóczy, ricordo di una sua grandiosa impresa, viene infilata da Berlioz nel Quadro I, appositamente ri-ambientato in Ungheria!

Michieletto? Ce la propina come colonna sonora dello smutandamento del suo povero Faust da parte dei tre bulli suoi compagni di classe! Beh, diciamolo francamente: come non comprendere – pur senza giustificarle – le escandescenze della babbiona marsigliese...
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I quadri (il cui titolo appare sul grande schermo) che Michieletto sovrappone alle scene di Berlioz sono tutto sommato rispettosi (esclusa, come ripeto, la rievocazione del passato di Faust) del soggetto originale, pure interpretato in modo... originale!

Ad esempio la premonizione (Faust preparato ad un’operazione al cervello – cui non sopravviverà - su un lettino di ospedale durante la ninnananna di Méphistophélès e il coro di gnomi e silfidi) che vediamo nel Quadro II è una efficace trovata per chiarirci che Faust è ormai vittima del suo diavolo interiore, che alla fine lo perderà.     

Non mancano anche immagini poetiche, come quella dei due bambinetti che impersonano Faust e Marguerite nel Quadro III, in bilico sull’asse di equilibrio nel tentativo di congiungersi, e che vengono sul più bello scaraventati a terra dall’irruzione del bieco Méphistophélès; e poi, poco dopo, la mela che lo stesso Méphistophélès (= serpente di un Eden di cartapesta destinato a crollare miseramente) fa calare ad interporsi fra le bocche dei due amanti, vicinissimi a scambiarsi un estatico bacio.

Ma a proposito di baci, ecco invece uno dei non pochi momenti di caduta-di-stile del regista: il bacio vero, e proprio sulla bocca, che si scambiano Faust e Méphistophélès, puerile quanto becera, e credo controproducente, propaganda pro-matrimoni-gay. E poi la scena di un mezzo stupro consumato dallo sbifido diavolo sulla povera Marguerite (?!) o i nudi (peraltro ipocritamente castigati nel... bottom) infilati un po’ a caso.

Strampalate (anche se evidentemente sono conseguenza del suo... peccato originale) mi sembrano altre trovate del regista: la figura del padre alcolizzato di Faust, che compare in scena infilandosi nello stesso letto del figlio (talis pater...) e che poi scopriamo essere l’indossatore della pelle di topone (no, non Placido, haha!) che serve a supportare la filastrocca di Brander (peraltro efficacemente presentata, tipo-sanremo).

E poi il mistero della chiave, che compare fin dal secondo Quadro sulla bara della madre di Faust, poi è portata da Marguerite sull’asse di equilibrio dove salgono i piccoli alter-ego; quindi ancora protagonista – in centinaia di esemplari – quando il diavolo ne butta un’intera scatola ai piedi della povera ragazza, che invano cerca quella giusta per aprire la porta che la condurrebbe da Faust, per salvarlo. Chiave giusta che poi lei trova, ma in ritardo, e che poserà sulla bara di Faust alla fine. Ora, rileggendo parola per parola il testo di Berlioz, l’unico appiglio per una possibile spiegazione di questa criptica trovata è la frase che Méphistophélès pronuncia per indurre Faust a firmare il patto con lui (ultimo Quadro) in risposta al ragazzo che lo implora di salvare Marguerite: È ancora in mio potere aprirti questa porta! Ma sarà così? E quanti hanno una spiegazione più convincente?
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Il coro, anzi i cori: nella Damnation troviamo contadini, soldati, studenti, folletti, diavoli e angioletti. La loro gestione in scena sarebbe assai complicata (anche se ad un regista come Michieletto non dovrebbero mancare spunti per trovate sorprendenti...) e forse questa è la ragione per cui il regista ha deciso di presentare il coro in-forma-di-concerto (!)

Ecco, vengo alla musica. Gatti su tutti, mi sentirei di dire, per come ha saputo tirar fuori le bellezze e pure le... stranezze del sempre ostico Berlioz. L’orchestra mi pare abbia risposto bene: apprezzabili soprattutto i passi più delicati, in pianissimo, che sottolineano le scene oniriche dell’opera.

Quanto alle voci, rispetto all’ascolto radio-tv le cose sono andate un filino meno bene (ma è normale che il microfono-in-bocca di cui vengono dotati i cantanti per le riprese falsi irrimediabilmente la resa). Mantengo un giudizio largamente positivo solo su Alex Esposito, retrocedendo a sufficiente+ la Veronica Simeoni (con il limitato, nei tempi di canto, s’intende, Goran Jurić) e a sufficiente- Pavel Černoch.

Per tutti, comunque (team registico escluso, poichè non-pervenuto sul palco alla fine) grandi applausi e ovazioni, in un Costanzi piacevolmente affollato. Quindi, una trasferta (per quanto mi riguarda) tutto sommato proficua.

16 dicembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°9


Sul podio de laVerdi torna il violista-direttore Maxim Rysanov, per dirigervi un concerto (quasi) tutto mozartiano.

L’eccezione è il pezzo che apre la serata, Fratres del compositore estone Arvo Pärt, brano di cui viene eseguita qui una delle innumerevoli versioni succedutesi negli anni (a partire dal 1977): quella per archi e percussioni.

Ad un ascolto passivo si rimane piacevolmente coinvolti dalla nobile spiritualità del brano, la cui agogica resta immutata per tutto il tempo (circa o poco più di 10') e dove la dinamica ha un picco poco dopo la metà del percorso. Sempre al primo ascolto si noteranno il continuo bordone di violoncelli e contrabbassi (una quinta vuota grave LA-MI) e i reiterati interventi delle percussioni (clave / tomtom o grancassa coperta) sempre sul primo, terzo e quarto tempo di due battute di 6/4 ad anticipare la melodia degli archi alti (e poi dei celli); cosa che si ripete precisamente per nove volte, semplicemente mutando le altezze dei suoni (la prima nota parte da MI e poi, nelle successive riprese, scende di terza minore o maggiore, quindi: MI-DO#-LA-FA-RE-SIb-SOL-MI-DO#).

Quanto alla melodia (escludendo quindi le due battute affidate alle sole percussioni) essa si snoda su 6 battute suddivise in due blocchi di 3: nel primo blocco viene esposto il tema, a sua volta creato per arricchimento successivo (4 note nella prima battuta in 7/4, 2 note in più nella seconda in 9/4 e altre 2 note in più nella terza in 11/4); il secondo blocco di 3 battute ripresenta il tema in forma cancrizzante, dove cioè in ogni battuta le note si succedono in sequenza retrograda rispetto all’originale:

Il tutto ci dà l’impressione di un imperturbabile fluire sonoro che trasmette oniriche sensazioni di pace.

E invece, guarda un po’, dietro tutto questo c’è nientemeno che una costruzione scientifica, un’invenzione di Pärt, basata su ciò che lui ha battezzato tintinnabuli. In parole povere, la melodia principale viene accompagnata, nota per nota, da una nota (tintinnabuli, appunto) di una triade caratteristica del brano (nel nostro caso: LA minore, LA-DO-MI). Le note tintinnabuli stanno in altezza sopra o sotto la nota della melodia e possono essere solo due note della triade: quella più vicina o la seconda più vicina a quella della melodia, evitando però consonanze e aspre dissonanze. Ecco qui un esempio preso dalla partitura (battuta 5):

In questo caso (e per l’intero brano) la melodia è suonata da due strumenti a distanza di una decima (MI-DO# sulla prima nota della battuta) e i tintinnabuli sono posti sempre ad altezza intermedia fra quelle delle due note di melodia, secondo la regola esposta. Quindi sulla prima nota (MI-DO#) ecco comparire un LA, che è la nota della triade di LA minore più vicina alle note di melodia DO# e MI (qui il LA è scartato perchè consonante e il DO è scartato per non creare dissonanze con il DO#). Sulla seconda nota (RE-SIb) abbiamo il MI, che permane anche sulla nota successiva (DO#-LA). Segue il DO (su SIb-SOL) e così via.

Proviamo a seguire l’esecuzione di questa versione 1983-1991, diretta da un compatriota dell’Autore, il più giovine rampollo della gloriosa famiglia Järvi:

0”  primo intervento percussioni
13”  prima esposizione tema (parte 1) dal MI
46”  prima esposizione tema (parte 2)
1’16”  secondo intervento percussioni + tema dal DO#
2’33”  terzo intervento percussioni + tema dal LA
3’49”  quarto intervento percussioni + tema dal FA
5’06”  quinto intervento percussioni + tema dal RE
6’19”  sesto intervento percussioni + tema dal SIb
7’35”  settimo intervento percussioni + tema dal SOL
8’53”  ottavo intervento percussioni + tema dal MI
10’21”  nono intervento percussioni + tema dal DO#
11’59”  intervento percussioni di chiusura

Insomma, Pärt ha inventato un metodo compositivo che tende a garantire sempre una stabilità (ed una gradevolezza) armonica; al contrario, per dire, del metodo seriale, che tale stabilità e gradevolezza esclude di fatto.

Per le nostre orecchie (beh no, parlo per me) molto meglio questo Pärt... E ieri sera Rysanov e l’Orchestra ci hanno offerto un’esecuzione invero coinvolgente, dosando perfettamente l’arco delle dinamiche, dal pianissimo iniziale, al limite dell’udibilità, al forte dell’apice sulla sesta ricorrenza, al nuovo pianissimo che chiude il brano.
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Poi, tutto Mozart, come detto. Si parte con la celeberrima Concertante K364 per violino e viola, in cui Rysanov (rientrato in... maniche di camicia) è affiancato dal violino dell’Artista residente Domenico Nordio. Una coppia strepitosa, che ci delizia con quel continuo botta-e-risposta che caratterizza i tre movimenti del brano. Un’Invenzione di Bach corona la loro prestazione, accolta trionfalmente. 
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Dopo la pausa, ancora Nordio nel Quinto Concerto per violino, il più noto ed eseguito dei 5 composti da Mozart, chiamato turco per quel passaggio - appunto, da turcheria – incastrato nel Menuetto finale. Ma anche il primo movimento contiene una... stranezza, con una sezione in Adagio calata inopinatamente nel bel mezzo dell’Allegro aperto.

Nordio ne dà una lettura esemplare, ben supportato da Rysanov e dall’Orchestra, meritandosi a sua volta ovazioni ripagate ancora con Bach.
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Si chiude in bellezza con la K543, la prima del trittico sinfonico con cui Mozart diede l’addio a questo mondo... Rysanov – sempre senza bacchetta – l’affronta col dovuto cipiglio, non risparmia nessun da-capo, nemmeno nel Finale, e i ragazzi (guidati ieri da Dellingshausen) rispondono da par loro. 

Insomma, una serata da incorniciare per chiudere il 2017. A cavallo di Capodanno tornerà l’immancabile Nona.     

14 dicembre, 2017

Chénier in corpore vili


Ieri sera terzo appuntamento per l’opera che ha inaugurato la stagione scaligera, in un Piermarini discretamente affollato.

Dedico l’apertura alla Direzione d’orchestra, che secondo me merita in pieno tutte le lodi che ha ricevuto già dalla sera di SantAmbrogio: Chailly evidentemente non scherzava quando esaltava le qualità di questa musica, che anche ieri lui ha saputo valorizzare al meglio. E l’Orchestra gli ha risposto in maniera adeguata, facendo risaltare la brillantezza della strumentazione di Giordano, senza mai peraltro recar danno all’udibilità delle voci. Non sarà certo un capolavoro assoluto, lo Chénier, ma se viene suonato come si deve il suo figurone lo fa, eccome! E a ciò contribuisce anche la mancanza di soluzione di continuità nel fluire musicale, che fu fortemente voluta dal compositore e che Chailly ha fatto rigidamente rispettare, riportando l’opera alla sua vera natura di dramma, che i tradizionali e pur meritati (dagli interpreti) applausi a scena aperta finiscono per svilire a mera vetrina di gorgheggi privi di sostanza.

Anna Netrebko ha sciorinato la sua voce nobile e ciò è bastato a fare di lei la protagonista della serata. Se la sua presenza scenica fosse pari alla qualità del canto, farebbe forse dimenticare anche Callas, Tebaldi, Stella e tutte le altre interpreti del ruolo di Maddalena (perlomeno da 60 anni a questa parte)!

Il maritino azero (uno dei pochi islamici che persino i leghisti non demonizzano) Youssef Eyvazov è ancora abbastanza acerbo per poter aspirare all’empireo; la sua voce mi vien di definirla secca (in opposizione a morbida...) e quindi per ora finisce (selon moi) alla ghigliottina in quel limbo dove son finiti prima di lui altri cantanti che la Scala ha provato ad inventare quasi dal nulla a SantAmbrogio in anni recenti: Storey e Rachvelishvili, tanto per non far nomi ma cognomi... Limbo da cui gli auguro di uscire in fretta, ma dipende solo da lui, i mezzi naturali non gli mancano di certo, solo vanno meglio disciplinati, il che richiede tanto... olio di gomito.  

Luca Salsi è un buon baritono, ma più in là di così - nelle lodi - non mi sentirei francamente di andare: solida presenza scenica, voce robusta ma (stesso rilievo fatto al tenore) non gestita al meglio, direi, con alcune vociferazioni e sguaiatezze che rischiano di trasferire il verismo in... osteria.

Chi invece è credibile sotto ogni punto di vista è un... Incredibile: Carlo Bosi infatti non si smentisce, da splendido caratterista qual’è, capace di calarsi alla perfezione in ogni personaggio di contorno gli venga affidato: voce sempre squillante e bene impostata, eccellente presenza scenica; come e cosa pretendere di più?

Nei panni della Bersi Annalisa Stroppa (al suo secondo SantAmbrogio consecutivo) se la cava dignitosamente, mettendo in evidenza, sul piano scenico, la sua evoluzione (stando perlomeno a Illica) da servetta a... ehm, puttanella. Vocalmente, la sua parte (a differenza della Suzuki di un anno addietro) è quantitativamente e qualitativamente circoscritta, ma la lei la disegna con efficacia e sensibilità. Con qualche decibel in più salirebbe ulteriormente in classifica... Altrettanto valido Gabriele Sagona (anche lui tornato dopo il 7 dicembre 2016): voce di buona corposità ed emissione sempre ben controllata che gli ha permesso di proporre un convincente Roucher, ruolo peraltro già da lui sostenuto anni fa a Napoli. Mariana Pentcheva è una brillante Contessa, e la giovane Judit Kutasi si cala efficacemente nella parte di... sua nonna (!) la strappalacrime Madelon. Meritevole di elogi anche Francesco Verna, che incarna con appropriatezza scenica e voce ben passante quel mezzo invasato del sanculotto Mathieu. Agli altri comprimari darò un cumulativo voto di ampia sufficienza, ecco.

Benissimo al solito il coro di Casoni, sia negli impegni separati della componente maschile che di quella femminile e nei turbinosi episodi promiscui in piazza e nel tribunale.
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Sulla regìa mi sono già favorevolmente espresso dopo visione RAIca, e qui non posso che confermare quella positiva impressione. Devo quindi complimentarmi con il regista che, a differenza di altre sue esperienze scaligere, e anche in forza degli stretti vincoli imposti dal soggetto, non si è permesso – per fortuna, aggiungo io - di inventare alcunchè. Cosa che non gli ha impedito di allestire uno spettacolo di alto livello, il che a sua volta ha contribuito a valorizzare i contenuti musicali dell’opera.

L’attenzione con la quale Martone ha predisposto la sua messinscena è attestata anche da alcuni (apparentemente) trascurabili dettagli, che il regista ha curato in modo quasi maniacale, mettendo riparo anche a problemi che Illica, nella sua foga narrativa, ha creato con le sue minuziosissime didascalie. Mi limito a citare un paio di esempi.

L’Abatino, quando nel primo quadro ragguaglia i presenti sul clima politico che si respira a Parigi dovrebbe, secondo il libretto, gustare della marmellata, offertagli dalla Contessa: dapprima assaggiandola timidamente, poi affondandovi platealmente e avidamente il cucchiaio. Atto che potrebbe lasciare perplesso lo spettatore, che nulla sa del contenuto della tazza. Allora il regista opta per una soluzione forse più banale, ma certo più efficace, facendo sorseggiare all’Abatino una tazza di caffè (o the, o cioccolata, plausibimente).

Altro esempio riguarda un particolare del terzo quadro: dopo il drammatico incontro-scontro con Maddalena, Gérard promette di far di tutto per salvare Chénier e subito scrive un biglietto che consegna a Mathieu perchè lo recapiti a Dumas (il Presidente del Tribunale); peccato che Illica si dimentichi quasi del tutto di questo particolare e che quindi lo spettatore, oltre a non poter proprio immaginare a chi è destinato lo scritto, fatichi poi a decifrare il cenno di assenso fatto da Mathieu a Gérard. Di più, del biglietto si perde totalmente traccia. Ebbene, Martone trova la soluzione anche a questa evidente sbavatura del libretto: lasciando lo scritto in mano a Gérard, che lo consegna poi personalmente a Dumas al momento di accusarsi di aver falsificato le prove contro Chénier.

In altri casi il regista propone scenari improbabili, anche se lo fa con evidente intento didascalico. Ad esempio il letto che compare in scena nel terzo quadro, nel locale del tribunale: pezzo d’arredamento che lì è del tutto fuori posto, ovviamente, ma serve a mostrarci Gérard convalescente dalla ferita infertagli da Chénier alla fine del quadro precedente, e poi a far da teatro verista alla minaccia di stupro (però con lei... consenziente, obietterebbe cinicamente l’avvocato difensore) di questo Scarpia-ante-litteram ai danni di Maddalena.

Non mancano anche trovate di carattere volutamente più sarcastico che didascalico: in apertura del secondo quadro Mathieu (secondo Illica) si lamenta della polvere che ricopre il busto di Marat e si mette subito a spazzolarla via. Martone lì ci mostra una cittadina che scopa il tetto dell’edificio che sovrasta il busto, facendovi piovere sopra la polvere, che poi sarà la ex-servetta Bersi a rimuovere con tanto di piumino.

Ma a parte queste piccole curiosità, tutto l’insieme funziona assai bene, sia nelle scene di massa (villa Coigny, piazza di Parigi, tribunale) come in quelle di carattere intimistico o drammatico, dove i movimenti di gruppi o dei singoli sono studiati sempre con appropriatezza e totale aderenza al libretto.

Insomma, una regìa per la quale l’aggettivo tradizionale è – perlomeno per quanto mi riguarda - un grandissimo complimento.
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Ieri sera applausi convinti e reiterati per tutti. Ai quali personalmente mi sono associato e mi associo.