ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

14 ottobre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°4


Oleg Caetani è il protagonista dell’appuntamento di questa settimana, con un programma tutto russo, anzi... russo-sovietico! Già, perchè proprio in questi giorni corre il secolare anniversario della Rivoluzione più amata e più odiata nella storia dell’umanità, e allora viene proposto per la prima volta in Italia l’omaggio che a quell’avvenimento rese Sergei Prokofiev nel ventesimo anniversario.

Si tratta della Cantata op.74, che a dispetto delle (verosimili) migliori intenzioni dell’Autore conobbe un’esistenza assai stentata: composta giusto in tempo per l’anniversario ottobrino, venne invece stroncata dall’establishment staliniano (forse per lesa-maestà, dato che cita discorsi del dittatore, oltre che di Lenin e Marx) e così il povero Prokofiev mai la potè udire eseguita compiutamente. Fu Kirill Kondrashin a riesumarla e presentarla al pubblico, ma solo 13 anni dopo quel giorno del 1953 in cui Stalin e Prokofiev si presero amichevolmente per mano per procedere insieme al... trapasso. Però, accipicchia, nel ’66 erano ancora tempi di de-stalinizzazione, e la Cantata comprende ben due numeri (dei 10) che riportano testi del baffuto dittatore caduto in disgrazia. Ecco che allora i due movimenti vennero cassati (per il reato di apologia dello stalinismo!) e il finale rimaneggiato. Solo nel 1992 a Londra l’opera verrà udita nella sua originale interezza, diretta da Neeme Järvi e con Gennady Rozhdestvensky voce recitante. Noi abbiamo pazientemente aspettato altri 25 anni, senza peraltro farci sopra una malattia... Qui invece un’interpretazione di Gergiev al Barbican.

Nella consueta conferenza che precede il concerto, l’autorevole russologo Fausto Malcovati e il sovietologo (per antica, seppur miglioristica, militanza) Gianni Cervetti (oh, dico, Presidente de laVerdi) hanno riassunto le vicissitudini – nello scenario poco rassicurante del periodo delle purghe staliniane - della gestazione e dell’aborto dell’opera; poi è stato lo stesso Caetani, prima di imbracciare la bacchetta, a dire la sua riguardo quest’opera, che molti bollano come ipocrita, mentre lui (e io concordo in pieno) le riconosce totale buona fede e patriottismo encomiabile (pur se mal riposto... ecco).

Palcoscenico riempito all’inverosimile (come del resto la sala dell’Auditorium, letteralmente presa d’assalto) con l’orchestra disposta in modo assai inconsueto: le viole al posto dei violini secondi messi al proscenio, davanti ai celli e con i bassi alle spalle. Ma c’era da far posto anche a pianoforti e fisarmoniche! Oltre, naturalmente, al coro di Erina Gambarini. E così membri della Filarmonica Paganelli (qui in veste di banda militare aggiunta all’orchestra) guidati da Donatella Azzarelli hanno dovuto trovar posto nella parte anteriore destra della galleria, da dove hanno peraltro realizzato un’accattivante effetto stereofonico.

Musica certo ricca di retorica ed enfasi (ma perchè, il Nevsky non lo è?) come si addice all’occasione; però Prokofiev vi si riconosce da lontano e se ne può apprezzare tutta l’inventiva e la carica genuina.

Grandissimo successo e massimo merito a laVerdi e al maestro Caetani per essere stati i primi in Italia a proporre quest’opera praticamente sconosciuta, ma assolutamente meritevole di apprezzamento.  
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Il concerto si era aperto, come di prammatica, con una sconosciuta e desueta composizione di riempimento: la Patetica di Ciajkovski (!!!) 

Caetani ne ha dato una lettura essenziale, prosciugandola di ogni leziosità decadente (parlo dei movimenti esterni, condotti con piglio quasi espressionista) e non lesinando in fatto di energia (e di... decibel) nei due movimenti interni. Insomma, un Ciajkovski vicino al ‘900 e a Prokofiev, date le circostanze. 

10 ottobre, 2017

I tiratori tornano alla Scala


Alla Scala torna dopo quasi 20 anni di assenza Der Freischütz, unanimemente riconosciuta come il prototipo dell’opera romantica, tedesca ma non solo.

La prima apparizione dell’opera alla Scala risale al 1872 (50 anni dopo l’esordio tedesco) con il titolo Il franco cacciatore e con la traduzione dall’originale di Friedrich Kind fatta da Arrigo Boito (si noti l’esotico Freyschütz, di moda nell’800 e non solo in Italia):


Il titolo italiano non fu però farina del sacco di Boito, ma si trova già nella traduzione di Francesco Guidi (1843, Pergola di Firenze). Intanto: perchè franco? Escluso che vada inteso etnicamente, come francese, o francone (chè la vicenda si svolge in Boemia); ma neanche come schietto, o sincero (Max non pare proprio un tipo così irreprensibile). Si potrebbe allora interpretare come bravo, preciso, ma il nostro non sembra proprio tale, se deve ricorrere alla magìa per diventarlo. In realtà, se ci basiamo sul finale dell’opera, oltre che sulla traduzione letterale dal tedesco (dove frei sta per libero, ma viene usato nell’ambiente commerciale a significare franco-domicilio, porto-franco, etc.) il protagonista è franco nel senso di affrancato (sfuggito infatti all’esilio che gli aveva comminato il Principe). C’è poi chi – partendo dall’indizio delle pallottole magiche, frutto di diavoleria - azzarda che frei sia da interpretare come stregato, allucinato.

Poi: cacciatore non è certo la traduzione letterale di Schütz, che sta per tiratore (di doppietta) termine letteralmente più aderente al soggetto dell’opera, che tratta - più che di battute di caccia – di gare di tiro. Però da noi cacciatore è anche un termine militaresco, che denomina corpi di fanteria leggera esperti nel tiro, come ad esempio i bersaglieri...

E al proposito: il citato Francesco Guidi aveva precisamente tradotto il titolo come Il franco bersagliere (fantastico qui l’italianizzato De Weber: perchè non... Del Tessitore?):

 
E chissà se il Guidi, oltre ad impiegare un termine come da dizionario, abbia anche voluto rendere omaggio al corpo militare, formatosi proprio pochi anni prima.
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Quanto alla forma, l’opera è un classico Singspiel, con numeri musicali alternati a parlati, tipo Serraglio o Flauto o Fidelio, ecco. E quindi si ripropone il solito dilemma: quanto tagliare di ciò che non suona? Staremo a sentire (a proposito: Radio3 trasmette in diretta venerdi 13).

Sappiamo che Wagner fu un ammiratore entusiasta di Weber e in particolare del Freischütz, nei quali vedeva precisamente il creatore e la creazione di un teatro musicale autenticamente Deutsch... Tale fu la devozione che nel 1844 andò in Albione a riesumare le spoglie del Maestro morto lassù 18 anni prima, onde trasferirle in patria e dar loro una seconda, trionfale sepoltura! E gli rese poi omaggio improntando l’entrata del coro femminile della Wartburg nel Tannhäuser al Vivace con fuoco dell’aria di Agathe del second’atto.

Wagner è sinonimo di Leit-Motive e Weber ne fu certamente un pioniere, in specie con Euryanthe. Qui nel Freischütz c’è invece un piccolo ma significativo esempio di impiego reiterato di un motivo, poco più di un segno, di una traccia, quasi un’impronta che ricompare in momenti e contesti diversi e con diversi accenti: un piccolo tema con variazioni nascosto fra le pieghe di questo capolavoro.

Parto dalla coda, cioè dal terzo atto, e da quella celestiale aria di Agathe Und ob die Wolke sie verhülle, introdotta e poi accompagnata dalla calda melodia del violoncello. Ecco qui:

Le note riquadrate in rosso coprono un intervallo di nona (da dominante a sesta) con ricaduta sulla dominante: una cellula di una bellezza davvero sbudellante. E riappaiono più volte, nello strumento e nella voce, nel corso della cavatina.

Andando a ritroso al primo atto, ecco che ritroviamo quelle cinque note (tonalità a parte) a costituire l’incipit del 
Walzer, n°3, come certificato di seguito:

Certo, mentre con Agathe eravamo in un sognante adagio, qui manca ogni indicazione agogica, così il walzer può essere attaccato con diverso piglio: abbastanza letargico per essere abbordabile da due solerti bambinette allieve di pianoforte nel Baden-Württemberg; oppure come un comodo Ländler dal compaesano Rafael Kubelik; o anche come una rincorsa di bersaglieri (toh!) dietro un indiavolato Carlos Kleiber! Sentiremo poi Chung...

Ma non finisce qui, perchè, con tempo ancora più lesto (Molto vivace) quella cellula era apparsa ancor prima, proprio alla fine del primo coro Victoria, Victoria! (qui Sinopoli a 59”):



Sì, va bene, qui la terzina iniziale è sull’arpeggio di dominante e non di tonica... ma di fatto è la stessa cellula (che appena dopo viene precisamente replicata) degli altri due riferimenti. 

Un discorso a parte merita l’Ouverture, che è una mirabile sintesi del cuore filosofico dell’opera, la lotta fra il bene e il male, che abitano l’animo umano nello scenario della natura, a sua volta splendente o minacciosa. Seguiamola dalla bacchetta del grande Giulini (che diresse l’opera alla Scala nel lontano 1955) qui con la New Philharmonia nel 1970.

Inizia con un cupo motivo in DO (prima dalla tonica, poi dalla dominante) caratterizzato da ottave ascendenti e successiva discesa, che apre la strada (1’04”) alla seducente melodia dei corni, a introdurre lo scenario profondamente romantico di boschi e montagne. La mirabile melodia si chiude però (2’39”) in DO minore, su un sinistro tremolo degli archi, con rintocchi di timpano e di contrabbassi in pizzicato, che annunciano la presenza rabbrividente di Samiel, il demonio rappresentante (non cantante!) del male.

A 3’39” compare quindi un riferimento all’aria di Max, dalla quarta scena del primo atto (Doch mich umgarnen finstre Mächte), un motivo agitato, poiché Max sta subendo l’influsso sinistro di Samiel. È immediatamente seguita (4’09”) dal terrificante motivo del malefico Caspar, che si udrà nella gola del lupo, alla fine del second’atto.

Dopo che (4’48”) i corni hanno fatto risentire i loro squilli, modulando da DO minore alla relativa MIb maggiore, ecco che, su un tremolo degli archi (4’55”) è il clarinetto che presenta un dolce motivo, che deriva dall’esclamazione di Max di fronte alla gola del lupo, alla fine del second’atto (Ha! Furchtbar gähnt der düstre Abgrund!) ma qui introduce (5’33”) il tema che rappresenta il bene, impersonato da Agathe, e la sua aria dalla seconda scena del second’atto (Süß entzükt gegen ihm) che lei canta all’arrivo dell’amato Max.

Ma ecco tornare (6’02”) il truce motivo di Caspar, poi (6’57”) ricomparire Agathe, ma in un’atmosfera sospesa e poco rassicurante, che infatti lascia spazio ancora ai motivi di Max (7’38”) e Caspar (7’55”) e poi (8’19”) ancora alla sinistra presenza di Samiel.

A 915 una colossale esplosione di DO maggiore dà inizio alla coda, che è ovviamente occupata (936) dal motivo di Agathe, ripreso ancora (1011) a chiudere in gloria.
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A parte queste spigolature, si tratta di un’opera che non ha perso la sua carica di vitalità e il fascino che continua ad esercitare sull’ascoltatore. Grazie - a dispetto di un libretto non entusiasmante - alla bellezza e all’ispirazione delle melodie (le arie di Agathe da sole meritano un monumento) che la percorrono da cima a fondo, agli squarci altamente drammatici che la caratterizzano (la gola del lupo...), alla grandiosità dei cori e alla lussureggiante orchestrazione (la scelta dei timbri, in particolare) ancor oggi esempio e riferimento assoluti.

Insomma, la grande musica c’è, quindi ci sono tutte le premesse per potersi godere anche un dignitoso spettacolo.

09 ottobre, 2017

Jérusalem a Parma


Ieri pomeriggio un Regio abbastanza (ma non totalmente) affollato ha ospitato la seconda delle quattro recite di Jérusalem. È la seconda comparsa dell’opera a Parma, dopo l’esordio avvenuto a distanza di ben 139 anni dalla prima parigina: 1986, con Renzetti sul podio e Giacchieri alla regìa.    

Quest’anno viene presentata una nuova edizione critica, di Jürgen Seik, che ha recuperato materiale finora sconosciuto, fra cui alcuni minuti aggiuntivi, rispetto agli spartiti storici, ai balletti del terz’atto (ecco da 2’57” l’esecuzione di Renzetti dell’86). Balletti di cui si può sempre discutere la pertinenza (qui sono più di 25 minuti di spettacolo-nello-spettacolo) ma che Leda Lojodice ha coreografato con eleganza e raffinatezza.

La messinscena di Hugo De Ana è precisamente ciò che ci si può immaginare leggendo il libretto. Toh, che cosa banale e ammuffita, dirà qualcuno con la puzza al naso, qualcuno che avrebbe voluto vedere, come minimo, un’ambientazione in Iraq, o Afghanistan, alla peggio in Yemen o Siria, e il prologo in Texas, a casa dei Bush o direttamente in un albergo di Trump. Con kalashnikov, bombe a mano e droni, mica spadoni, scudi e pugnali di latta. E invece qui leggiamo subito, durante il preludio, la bolla di Papa Urbano del 1095 che aizza i crociati, e poi, a partire dal second’atto, le pietraie di Palestina dove agonizzano gli assetati pellegrini e dove arrivano i liberatori papalini.

Ecco, uno spettacolo di eccellente fattura, in stile zeffirelliano (come sono sempre quelli del regista argentino, che cura anche scene e costumi, avvalendosi dei giochi di luci di Valerio Alfieri e delle proiezioni olografiche di Sergio Metalli) che valorizza al meglio una partitura che merita sicuramente una considerazione maggiore di quella in cui vien tenuta da più di un secolo.

Sul fronte dei suoni notizie dal discreto al buono, direi. Dove il buono arriva sicuramente dalla concertazione di Daniele Callegari, che ha gestito al meglio la Filarmonica Toscanini (la cui esperienza nel sinfonico ne fa interprete ideale per questa partitura): sia la compagine in buca che la banda fuori scena, che ha portato da lontano suoni pulitissimi e mai sguaiati. E buona la prestazione del coro del Regio di Martino Faggiani, che qui ha un impegno invero gravoso; impegno assolto con magistrale professionalità: O mon Dieu, il famoso O signor, qui anticipato al second’atto, ha riscosso minuti e minuti di applausi.

Fra le voci, la palma del migliore va all’intramontabile Michele Pertusi, autentico mattatore, oltre che profeta in patria: la voce forse non ha più lo smalto di un tempo e le note gravi sono un po’ forzate, ma in complesso il Roger che ne esce è da incorniciare.

Con i due protagonisti amanti si scende (sul mio personalissimo cartellino, come usava dire il Rino Tommasi commentatore di boxe) verso il discreto: Ramon Vargas ha voce ormai usurata, opaca, poco squillante, il che per una parte scritta per tale Gilbert-Louis Duprez non è proprio il massimo, ecco (i due DO acuti del second’atto? mah...) Annick Massis da parte sua ha mostrato qualche limite negli acuti e una voce non molto penetrante e dal timbro non proprio gradevolissimo. Al suo livello la sua confidente Isaure di Valentina Boi.

Abbastanza efficaci il Legato pontificio di Deyan Vatchkov, il Conte di Paolo Gálvez e l’Emiro di Max Catellani. Oneste le prestazioni degli altri tre comprimari.

Tirando le somme: una proposta che fa onore al Regio e che non per nulla il pubblico ha mostrato di gradire assai, con applausi a scena aperta dopo i principali numeri e alla fine per tutti i protagonisti. Mi sentirei di inserirla decisamente nei miei consigli per gli acquisti.

06 ottobre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°3


Torna a calcare il podio dell’Auditorium il texano, ormai trapiantato in Europa (ora factotum alla ROSS di Siviglia) John Axelrod, che propone opere giovanili dei due giganti del tardoromanticismo, precedute da un’opera matura che viene dal sollevante ma che con le altre due (e i relativi autori) ha parecchio in comune, compresi – per la seconda - i drammatici eventi che funestarono gli anni precedenti la metà del secolo scorso.

Il filo conduttore del concerto, che è anche quello di ciascuno dei tre brani in programma, si può individuare come il cammino che porta dalla vita alla morte, e da qui alla resurrezione, o trasfigurazione. Programma che non pare abbia avuto particolare attrattiva sul pubblico, a giudicare dalle molte poltrone vuote (ma gli scettici hanno ancora due chance per rimediare...)

Per Mahler questo fu il programma interno di quasi tutte le sue sinfonie: nella prima si passa dai sogni di gioventù alla marcia funebre e da qui al trionfo finale; nella seconda è la marcia funebre che si presenta subito per poi lasciar spazio a ricordi, sereni o grotteschi, e sfociare precisamente nell’Auferstehung; nella terza c’è tutto un lunghissimo percorso che parte dalla materia inanimata e arriva all’uomo, peccati compresi, per raggiungere infine l’estatica contemplazione divina; la quarta apre su scorci agrodolci di vita, poi incontra per strada la morte (con tanto di violino scordato) e quindi si trasfigura fino a salire in un fanciullesco paradiso; la quinta attacca con non una, ma due marce funebri (o giù di lì) quindi con un poco raccomandabile scherzo, per poi ritrovare serenità, in vista di un trionfalistico epilogo; la settima ne segue le orme, passando da atmosfere sinistre a notturni incantamenti, inframmezzati da danze di streghe, prima di chiudere con esilarante gaiezza; la sesta e l’ottava fanno dovuta eccezione alla regola, collocandosi ai due antipodi, un quasi-nichilismo e una messa cantata; la nona ripercorre il ciclo dei ricordi, della vita con alti-e-bassi, con squarci di gaiezza e spettrali intermezzi, fino al raggiungimento di una serena rassegnazione e al perdersi in un silenzio eterno ed infinito.

Per Strauss siamo di fronte ad un autentico testa-coda: a 25 anni compone il suo terzo Tondichtung evocando immagini di sofferenza preagonica, ma con irruzione di un ideale rincorso vanamente per un’intera vita, ideale che si completa e si raggiunge finalmente solo dopo che il corpo ha esalato l’ultimo respiro; praticamente 60 anni dopo, sulle soglie dell’estremo trapasso, Strauss se ne ricorderà nell’ultimo dei suoi 4 ultimi Lieder, il cui titolo (Al tramonto) e il cui ultimo verso (É questa forse la morte?) mirabilmente dipingono l’attesa, ma anche la serena preparazione del momento a cui nessun essere vivente può sfuggire; e pochi mesi prima, giusto al termine di quella guerra che ne aveva distrutto gli ideali perseguiti per tutta una vita (ideali guglielmini, certo, ma sequestrati poi dal nazismo) Strauss aveva composto una specie di De-profundis per 23 archi solisti.

Ad eventi di quella stessa tragica guerra ci rimanda il primo brano in programma, del nipponico Tōru Takemitsu (del quale avevamo ascoltato anni fa un’altra opera non disprezzabile, Marginalia) che nel 1989 compose la colonna sonora del film Kuroi ame (qui la breve introduzione) letteralmente Pioggia nera (quella del fungo atomico di Hiroshima, soggetto del film): musica per soli archi, poi riarrangiata nel 1996, poco prima della scomparsa dell’Autore, e pubblicata con il titolo Morte e Resurrezione.     

Per la verità, a differenza di quanto si ascolta in Strauss e Mahler, dove il contrasto tra morte e trionfo (o trasfigurazione) è netto e inconfondibile, qui siamo in presenza di una reiterazione di momenti che evocano dolori lancinanti (esasperato cromatismo e atmosfere decisamente dissonanti) e di momenti di relativo sollievo, come quello che appare per la prima volta a 3’02” e che ricorda proprio il Mahler della Quinta (primo tema della Trauermarsch, che rimanda a sua volta allo Schumann della Romanza della Quarta...) La Resurrezione – almeno come la si intende qui da noi, con pompa ed enfasi - si fatica assai a decifrarla: l’opera si chiude con un semplice e scarno passaggio diatonico, SOL-LA-FA# e l’ultimo suono che udiamo è un flebile accordo FA#-RE (tonica di RE maggiore o settima di dominante di SOL?) che si spegne nel silenzio eterno.

Brano comunque di ottima fattura che gli archi de laVerdi, guidati per l’occasione dalla seconda spalla, Dellingshausen, hanno proposto con grande efficacia e sensibilità.
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Ecco poi lo straussiano Tod und Verklärung, sui cui contenuti mi ero dilungato tempo fa, in occasione di un concerto diretto – guarda caso - proprio da Axelrod. Come ha acutamente osservato il sommo Quirino Principe, fra tutti i poemi sinfonici di Strauss è quello più scopertamente descrittivo, quello dove la musica aderisce con accuratezza quasi fotografica al soggetto ispiratore - sintetizzato da Strauss in poche righe - più ancora che nella smaccatamente descrittiva Alpensinfonie.

Axelrod evidentemente non ha cambiato idea interpretativa rispetto a 4 anni fa: la sua mi è parsa anche questa volta una lettura assai severa - con tempi mediamente sostenuti - anche se tutt’altro che noiosa o inefficace, anzi. E il pubblico ha apprezzato moltissimo, a giudicare dal livello raggiunto dall’applausometro.
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Si chiude con il (cosiddetto) Titano, in origine Poema sinfonico in 5 movimenti e poi – espunto il Blumine - innalzato da Mahler al rango di Sinfonia in RE maggiore. Pezzo fra i più inflazionati, ma che – se assunto in modiche dosi – fa comunque sempre il suo bell’effetto. Axelrod, da buon allievo di tale Lenny Bernstein, ci mette parecchio di suo, ma senza mai scadere – pericolo sempre in agguato con questa partitura - in gigionerie assortite.  

In un insieme più che apprezzabile mi sentirei di segnalare lo sviluppo del primo movimento, per la delicatezza delle sonorità esibite; poi la marcia funebre, tenuta sempre su un piano lontano da volgarità da strada. Va da sè che il finale abbia incendiato gli animi, se lo stesso direttore ha sentito il bisogno di fare uno slalom fra i leggìi per complimentarsi e/o abbracciare rappresentanti di tutte le sezioni dell’orchestra.   

30 settembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°2


Terza consecutiva presenza sul podio de laVerdi per Patrick Fournillier (lo rivedremo altre due volte nella stagione) che ci guida in una promenade attraverso l’800 operistico francese (con escursione nel primo ‘900) insieme al soprano fiammingo 35enne Iris Hendrickx (nuovo cognome d’arte della Luypaers).

Programma francamente modesto, e non a caso l’Auditorium è rimasto semideserto. La Hendrickx deve aver scambiato il concerto per una sfilata di moda, sfoggiando ben due abiti talmente ingombranti da quasi impedirle l’accesso e l’uscita dal proscenio... Dirò malignamente che sono le cose migliori che ha saputo presentare: voce che negli acuti ha un timbro francamente sgradevole (urla piuttosto che canto) e personalità interpretativa un po’ deboluccia, ecco.

L’Orchestra ha vissuto su qualche assolo (Scarpolini, Santaniello, Stocco, Amatulli, Piva) e su pochi sprazzi di carica dei bersaglieri (Carmen e Samson) per il resto normale amministrazione.

Alla fine bis in pieno ‘900 (Poulenc: Les chemins de l’amour) ma resta la domanda: perchè niente di Meyerbeer, Auber, Halévy? Troppo impegnativi per la voce ? Evabbè, almeno... che non si ripeta.

29 settembre, 2017

27 settembre, 2017

Il Verdi-festival parte per le crociate


Domani 28/9 a Parma si apre l’annuale festival verdiano con una nuova produzione di Jérusalem.  

Singolari le analogie che accomunano le vicissitudini della nascita e poi della vita di quest’opera verdiana con quelle del Siège de Corinthe di Rossini. Verdi percorse infatti nel 1847 (quasi) pari-pari la strada aperta 20 anni prima dal grande Gioachino per la conquista di Parigi (strada che già era stata battuta anche da Donizetti): proporre come prima opera francese un adattamento-rifacimento di un lavoro già presentato e collaudato in Italia. Rossini scelse Maometto II e lo fece usare ai librettisti franco-italiani (Soumet&Balocchi) come base di partenza per la creazione del Siège, poi musicato impiegando buona parte delle note del Maometto, accanto a moltissime composte all’uopo. Successivamente il Siège venne ritradotto in italiano e importato da noi come L’assedio di Corinto, la cui fortuna per la verità fu assai modesta, schiacciato fra i due originali, napoletano e parigino.

Ebbene, una trafila quasi identica caratterizzò la nascita e la vita della Jérusalem: Verdi, richiesto dal più grande teatro parigino di un’opera francese, decise – per ragioni di tempo ma soprattutto per evitare rischi e brutte sorprese – di riciclare una sua opera già collaudata con discreto successo in Italia: I Lombardi alla prima crociata. Così ne affidò la trasformazione (in Jérusalem) ai librettisti francesi Royer&Vaëz, che scrissero un nuovo testo sul quale Verdi trasportò in parte la musica dei Lombardi e ne compose parecchia di completamente nuova (inclusi gli immancabili balletti, tassativamente previsti dal capitolato tecnico de l’Opéra). A fronte del buon successo dell’impresa, Jérusalem fu tradotta in italiano (in Gerusalemme) per essere importata sul nostro mercato. Dove però, proprio come il rossiniano Assedio, fece completamente cilecca, anche lei schiacciata fra l’originale italico e la versione parigina.

Un eccellente studio di David R.B. Kimbell (apparso a gennaio del 1979 sulla rivista Music and Letters) intitolato Il primo rifacimento di Verdi: Lombardi e Jérusalem, analizza le principali differenze (testo e musica) fra le due opere. Il confronto fra i libretti di Solera e di Royer&Vaëz è abbastanza impietoso (per il povero Solera): il testo francese appare nettamente superiore a quello italiano, sia dal punto di vista strettamente drammaturgico (l’organizzazione dell’intero soggetto) che da quello letterario.

Quanto alla musica, Kimbell analizza le differenze fra le due opere distinguendo fra imprestiti (parti riprese pari-pari o con minimi ritocchi), rifacimenti (dove l’originale venne modificato in funzione del nuovo testo, ma a volte semplicemente... migliorato) e novità (musica quasi completamente scritta ad-hoc); vengono poi elencate le parti dei Lombardi puramente cassate. Riassumo nella tabella sottostante (l’oggetto è Jérusalem) queste differenze (i numeri esposti si riferiscono a singoli movimenti musicali, es.: recitativo, tempo di mezzo, cabaletta, scena, etc.)

atto
totale
imprestiti
rifacimenti
nuovi
esclusi
I
20
7
4
9
8
II
16
5
5
6
8
III
15
2
3
10
2
IV
10
-
6
4
6
Totale
61
14
18
29
24

Come si può notare, quasi la metà (29 su 61) dei movimenti è nuova, mentre ben il 42% degli originali dei Lombardi è stato escluso da Jérusalem e solo 1/4 sono quelli re-impiegati nella nuova opera senza sostanziali modifiche.

L’analisi di Kimbell può essere riassunta – proprio nei minimi termini – così: nei meno di 5 anni che separano Jérusalem dai Lombardi, e grazie al mercato francese, Verdi smise di usare la vanga!

26 settembre, 2017

Il Tamerlan-baffone di Livermore


Ier sera la Scala ha ospitato la quarta delle sette recite di Tamerlano. Per le considerazioni legate alle scelte dei contenuti musicali rimando alla mia breve nota scritta dopo la prima radiofonica del 12 scorso: ribadisco qui le perplessità rispetto ad alcune di tali scelte. Come anche la critica all’orario d’inizio dello spettacolo, che andava tassativamente anticipato, come  minimo, alle 19:30, se non alle 19.

Parlo invece subito dell’allestimento di Davide Livermore. Spettacolo di alto livello, molto ben curato nelle scene e nella recitazione dei protagonisti; si può certo dire che sia – nel suo complesso – uno spettacolo precisamente modellato sul teatro musicale barocco (e londinese in particolare): che privilegiava grandi spiegamenti di mezzi tecnologici a supportare drammi-per-musica aventi come oggetto tipiche vicende umane (il potere, l’amore, l’odio, la vendetta, ...) attribuite a personaggi fantastici o pseudo-storici, vicende come questa versificata da Nicola Haym e musicata da par suo dal grande Georg Friedrich.

Come osserva giustamente il regista nelle note allegate al programmma di sala (titolate L’Antistoria) nessuno all’inizio del ‘700 si sognava nè pretendeva, assistendo all’opera, di approfondire la conoscenza di un pezzo di storia vecchio di (più di 3, nel caso) secoli: quel pubblico (e a maggior ragione noi che arriviamo dopo quasi altri 3 secoli) voleva godersi senza problemi il teatro del dramma umano su cui si basa il libretto. Dove i personaggi storici come Tamerlano&C vengono impiegati dagli autori dell’opera quasi come degli archétipi, prescindendo completamente dalle loro reali vicende vissute, per presentarne di totalmente inventate: sono in sostanza poco più che un pretesto onde costruirci sopra un mirabile spettacolo e della grande musica. E la cosa funziona proprio in quanto la storia autentica di tali personaggi e delle relative relazioni si perde in un passato quasi mitologico, dove realtà e finzione si possono facilmente confondere, o mescolare, o scambiare. Ecco quindi fiorire i Giulio Cesare, gli Orlando, i Rinaldo, come più tardi - in Mozart - troveremo Idomeneo, Silla, Mitridate, Tito e poi - in Rossini - Ciro, Tancredi, Elisabetta, e ancora - in Verdi – Nabucco, Attila, Macbeth, Boccanegra... e giù giù fino alla Lucretia di Britten, tanto per chiudere il ciclo e tornare a Londra.   

Livermore, per questo suo esordio scaligero, sceglie di ri-ambientare l’opera ai tempi della Rivoluzione dell’ottobre 1917 (di cui siamo proprio in piena ricorrenza centenaria) e forse, se si può muovere un appunto alla sua scelta, è di essersi troppo, e pericolosamente, avvicinato all’attualità, calando il soggetto originale su personaggi e vicende a noi ancora troppo vicini e vividi nella memoria per non avvertire l’assurdità di tale accostamento. Poichè, grazie a Livermore, ci troviamo di fronte a Nicola II (che non si suicidò affatto, ma sappiamo bene come venne orrendamente passato per le armi con l’intera famiglia); a sua figlia (ma quale poi delle quattro?); a Stalin, a Lenin e a Rasputin, personaggi dei quali conosciamo a menadito vita-morte-e-miracoli, a partire dai loro volti per finire alle vicende umane e alle loro reciproche relazioni.   

Ecco che, allora, mostrare Stalin che bistratta Lenin e cerca di sottrargli la figlia dello Zar, sua promessa sposa, rischia di farci sorridere, invece che emozionare, così come scoprire che Rasputin è stato resuscitato per essere posto al servizio non già del suo Zar, ma del povero Lenin, del quale si adopera per facilitare le nozze con una rappresentante dell’alta nobiltà (la figlia dello Zar, nientemeno!) 

Insomma, qui con l’antistoria mi pare si sia un filino esagerato. Proviamo ad immaginare come avrebbero reagito i londinesi di metà ‘700 se un regista avesse ambientato l’opera un secolo prima, protagonisti Carlo I e Oliver Cromwell (?!?)   

Strettamente legati all’ambientazione che il regista ha scelto per la sua messinscena sono poi – dichiaratamente – alcuni accorgimenti (registici e scenici) del grande Eisenstein, aedo della Rivoluzione bolscevica. Che funzionano assai bene, allo scopo di dare un po’ di sapore ad un soggetto dove di azione non v’è quasi nulla e dove le classiche arie-col-da-capo sono sempre micidiali da gestire scenicamente.

E devo dire che anche le trovate di Livermore non sempre riescono ad evitare momenti di stagnazione o ripetitività. Che ad esempio si manifestano nel primo atto, con il vagone ferroviario in cui i protagonisti si muovono sempre scendendo da una porta e risalendo dall’altra o viceversa, oppure compaiono e scompaiono al centro della carrozza, la cui fiancata si apre e richiude per scorrimento. Altre volte il regista, per animare la scena, ricorre ad ammiccamenti a-luci-rosse, come all’inizio del second’atto, ma anche per lui è difficile inventarsi qualcosa, sempre nell’atto centrale, per accorciare (nella percezione dello spettatore) l’interminabile recitativo che precede il trio Asteria-Tamerlano-Bajazet, e che d’altra parte è essenziale per preparare lo sviluppo della vicenda.

Ma tutto sommato si tratta di uno spettacolo eccellente, cui il pubblico non oceanico del Piermarini ha riservato un’accoglienza assai calorosa.  

Che è stata riservata anche ai protagonisti della parte musicale, Fasolis in-primis, che come suo solito si è sdoppiato nelle vesti di direttore ed accompagnatore al cembalo (uno dei tre dislocati in buca).

Rispetto all’audizione via etere, confermo le perplessità su Domingo, che al di là della voce fatalmente usurata fatica a proporsi come interprete squisitamente barocco: troppe incrostazioni verdiane ne caratterizzano il canto; come attore nulla da eccepire, e non è escluso che lui abbia scelto questo ruolo (di tenore... non spinto) perchè si avvicina, per molti aspetti, a quelli di baritoni che lui ha impersonato di recente, come Simone e Rigoletto, che comportano scene finali di alta drammaticità che lui sa gestire come pochi.

I due controtenori (Mehta e Fagioli) hanno sciorinato tecnica sopraffina e, a differenza del Topone, alta specializzazione (per così dire) in questo genere di opera. Peccato che le loro vocine fatichino assai a percorrere le decine di metri che separano palco da loggione... La vecchia, cara e mai abbastanza rimpianta Piccola Scala sarebbe stato l’ambiente ideale per valorizzare le loro qualità.

Discrete le prestazioni delle due nobildonne, alle quali scambierei gli elogi fatti dopo l’ascolto radio: brave entrambe, ma un filino sopra (per me) la Crebassa rispetto alla Schiavo. Non più che dignitoso (anche qui gli abbasso il voto) l’apporto di Senn, che ho trovato un po’ troppo vociferante (forse anche lui preoccupato dai grandi spazi da... perforare) e non sempre perfettamente intonato.

Ma il pubblico non ha mancato di applaudire tutti, Domingo in testa.

22 settembre, 2017

laVerdi 17-18 – Concerto n°1


Dopo il tradizionale rientro dalle vacanze (si fa per dire) festeggiato con il concerto al Piermarini, laVerdi torna nel suo Auditorium per riprendere il cammino della stagione 2017 (sarebbe il concerto n°26) che però, stante il ritorno al calendario scolastico, diventa l’inizio della stagione 2017-2018 (quindi 9 concerti quest’anno e 22 da gennaio a giugno prossimi).

Sul podio ancora (e lo sarà anche la prossima settimana) il neo-direttore-principale-ospite Patrick Fournillier, con un programma mozartiano arricchito da una (quasi) primizia assoluta. Costituita da una versione rinnovata di Orfeo. Flebile queritur lyra di Silvia Colasanti, una composizione per voce e (piccola) orchestra che ebbe la sua prima a Roma martedi 10 novembre 2009, come concerto per voce e ensemble, recitata da Maddalena Crippa. In seguito rappresentata in varie località, fra cui Parigi (2014) e Venezia (2016, dove per l’occasione fu tenuta a battesimo una versione per clarinetto e pianoforte soli, recitata da Sandro Cappelletto). Per questa ripresa milanese era prevista l’interessante presenza della grande Natalie Dessay, che già ha recitato il melologo di recente in Francia. Ma l’inopinato forfait del celebre soprano ha determinato il richiamo in servizio-permanente-effettivo della voce primigenia della Crippa.

I testi del lavoro sono tratti dai libri X (Orfeo ed Euridice) e XI (Morte di Orfeo) delle Metamorfosi del sommo Ovidio. In particolare, il titolo viene dal passaggio (libro XI) che recita l’universale lutto per la morte dell’aedo di Tracia. Qui i versi conclusivi del lavoro della Colasanti:

Membra iacent diversa locis,
caput, Hebre, lyramque excipis:
et (mirum!) medio dum labitur amne,

flebile nescio quid queritur lyra,
flebile lingua murmurat exanimis,
respondent flebile ripae.
...
...
Umbra subit terras,
et quae loca viderat ante,
cuncta recognoscit
quaerensque per arva piorum
invenit Eurydicen cupidisque
amplectitur ulnis;
hic modo coniunctis spatiantur
passibus ambo,
nunc praecedentem sequitur,
nunc praevius anteit                    

Eurydicenque suam iam tuto
respicit Orpheus.
Disperse intorno giacciono le membra:   capo e lira li accogliesti tu, Ebro;            
è un prodigio: mentre fluttuano 
in mezzo alla corrente,
la lira, non so come, flebile si lamenta,
la lingua esanime mormora un flebile
gemito e flebili rispondono le rive.
...
...
Sottoterra scende l'ombra di Orfeo,
e tutti riconosce i luoghi
che aveva visto prima;
poi, cercandola nei campi dei beati,
ritrova Euridice e la stringe
in un abbraccio appassionato.
Qui ora passeggiano insieme:
a volte accanto,
a volte lei davanti e lui dietro;
altre volte ancora è invece
Orfeo che la precede
e, ormai senza paura, si volge
a guardare la sua Euridice.

Insomma: vita e morte, alfa e omega dell’esperienza umana, evocati dalla musica, che nell’immagine poetica ancora sprigiona dal capo mozzato dell’aedo e dal suo strumento, trasportati dalla corrente dell’Ebro.

Maddalena Crippa, in un lungo e candido pigiama-palazzo-con-spacchi-laterali, è stata la protagonista della serata, senza voler togliere alcunchè ai meriti della Colasanti (entrambe lungamente applaudite alla fine). Talmente drammatico e profondo è il testo ovidiano - e così coinvolgente la lettura che ne dà la recitante - che finisce per essere quasi soverchiato, più che sorretto, dai suoni di una (grande) orchestra. Suoni che hanno certo momenti di pura emozione, primo fra i quali l’intervento del corno solo (di Giuseppe Amatulli) che sottolinea l’ascesa di Orfeo dagli inferi provenendo da dietro le spalle del pubblico (che, come Orfeo, si gira a guardare...)

Ora, dopo aver impiegato un piccolo ensemble, poi addirittura pianoforte e clarinetto soli, e oggi un’orchestra sinfonica a ranghi completi, chissà come giudicherà il suo lavoro la stessa Autrice... Personalmente – ma è una pura illazione – sarei propenso a privilegiare le versioni (come l’originale del 2009) per formazioni strumentali ridotte, credo più adatte a ricreare l’atmosfera e l’ambientazione mitologica del soggetto.  
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Ad incastonare l’opera della Colasanti il Mozart del Flauto, di cui è stata eseguita in apertura l’Ouverture, e poi dell’inflazionata K550, di cui Fournillier ha proposto una lettura... effervescente: penso in particolare all’Andante, trasformatosi sotto la sua bacchetta in Allegretto. Per contrappasso, inversione di tempi nel Trio, proposto ad un tempo assai sostenuto. In ogni caso, grandi applausi per tutti al termine di una serata davvero interessante.