ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

11 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (5). Religione e (o?) Arte

 

Wagner, lo sappiamo, era intimamente convinto di essere un vero artista in un mondo dominato da ciarlatani; nella sua concezione dell’arte l’artista è investito di una ben precisa missione: procurare all’Uomo adeguati e nobili strumenti di contrasto contro le proprie ossessioni esistenziali.

Ciò è prefigurato dalla filosofia di Ludwig Feuerbach, con la quale Wagner aveva preso dimestichezza fin dai tempi di Dresda e della rivoluzione, per poi studiarla a fondo – prima di imbattersi nella capitale figura di Schopenhauer - negli anni dell’esilio, durante i quali (è bene ricordarlo) getterà le fondamenta di tutta la sua futura produzione artistica, già del resto messa in cantiere a partire dal 1845 (vedi proprio i Meistersinger approcciati in quell’anno a Marienbad).

Feuerbach assegna all’Arte un ruolo paritetico e potenzialmente sostitutivo a quello della Religione. Secondo il filosofo, la Religione altro non è se non il prodotto dell’inventiva e della fantasia umane, a loro volta rese possibili grazie alle facoltà intellettive, prerogativa peculiare dell’animale Uomo. La capacità di razionalizzare l’esperienza ha portato l’Uomo a constatare, assieme alle proprie grandi qualità e capacità, uniche nel mondo animale, anche i propri limiti e le proprie deficienze, prima fra tutte la propria mortalità. Allo stesso tempo l’Uomo ha preso atto che la Natura - assieme a molti lati consolanti e positivi – presenta anche aspetti negativi, dolorosi, ripugnanti e, in definitiva, insopportabili: dolori, disgrazie, malattie, fallimenti, frustrazioni...

Per sfuggire a questa autentica ossessione, l’Uomo ha creato prima gli dei e poi Dio, che rappresenta la quintessenza idealizzata delle migliori qualità umane, inossidabili rispetto agli agenti materiali, e ancora l’aldilà, che rappresenta l’ideale di un mondo perfetto, soprannaturale e metafisico in cui poter, anzi dover credere: tutto un insieme di valori codificati dalla Religione, che ha fatto assurgere a sistema assoluto (in cui aver fede dogmaticamente) ciò che in realtà era semplicemente sbocciato dall’immaginazione e dalla fantasia umane.

Immaginazione e fantasia che sono, anche, i motori della produzione artistica dell’Uomo. E l’Arte altro non è se non un diverso (dalla Religione) strumento che l’Uomo si è dato per combattere le sue ossessioni e l’insopportabile constatazione della propria mortalità; in definitiva, uno strumento di evasione dalla miseria della propria condizione, e di elevazione spirituale, insomma: una religione laica.

Ma l’Uomo è anche e soprattutto un essere dotato di materia grigia: e dato che l’intelletto consente all’Uomo di esplorare, e sempre più in profondità, la natura, la materia (organica e inorganica) che lo circonda, ma anche la propria stessa identità e la propria stessa mente, ecco nascere il pericolo mortale per la Religione: essere smentita dalle conquiste della Ragione (tramite la Scienza) e perdere ogni rilevanza, con ciò privando l’Uomo di quello strumento auto-consolatorio che si era così faticosamente costruito, e precipitandolo, in ultima analisi, in uno stato di gelida, spettrale, e in fin dei conti disperata condizione.

Nella storia dell’Umanità Religione ed Arte sono andate quasi sempre a braccetto: basti pensare a quanta Arte si è ispirata alla Religione e quanto la Religione si sia servita dell’Arte per edificare i suoi luoghi di culto e per nobilitare le sue liturgie. Diverso invece il rapporto che la Religione ha avuto con la Scienza, rapporto spesso, se non quasi sempre, e persino ai giorni nostri, conflittuale.

Interessante è invece constatare come il rapporto fra Scienza ed Arte sia fecondo, e nel caso della musica quasi immanente nella Natura medesima. Pitagora fu uno, e non il primo, a scoprire la grande affinità fra la Scienza dei Numeri e l’Arte dei suoni. E non a caso Wagner fu definito, da Thomas Mann, come l’Artista in grado di poetizzare l’intelletto! E nessun Musicista più e meglio di Wagner seppe avere, e tradurre in parole e musica (i suoi drammi) intuizioni che la Scienza razionalizzerà e strutturerà molto tempo dopo: basti pensare alla psicanalisi (Freud) e alla teoria della relatività (Einstein).

Orbene, Wagner, interpretando Feuerbach (cui significativamente dedica, nel 1849, il suo fondamentale scritto L’Opera d’Arte dell’Avvenire) arriva a concludere che - scomparsa fatalmente la Religione sotto i colpi della Ragione e della Scienza - l’unico strumento di consolazione e, in ultima istanza, di salvezza per l’Uomo non potrà essere che l’Arte. Domanda: perché l’Arte, i cui prodotti nascono pur sempre, come quelli della Religione, da fantasia e immaginazione umane, quindi al di fuori della realtà razionalmente sperimentabile, può essere dall’Uomo accettata come strumento auto-consolatorio in luogo della Religione? Semplicemente perché l’Arte – a differenza della Religione - non pretende di imporre Dogmi, nè di rivelare Verità (dogmi e verità sempre meno accettabili dalla Ragione). Il prodotto artistico si presenta per ciò che è, senza maschere, né inganni: appunto, come un’invenzione della mente umana, volta a procurare all’Uomo non già speranze in una immaginaria e inesistente realtà metafisica, ma piacere estetico e spirituale, da consumarsi nella realtà della nostra mortale esistenza, e in piena armonia con la Natura immanente. Appunto, l’Arte come una religione laica.

Come si presentava ai tempi di Wagner lo scenario di Religione e Arte? Per quanto riguarda la prima, era in generale minacciata dai vari illuminismi, positivismi, comunismi e ateismi dilaganti in Europa, per i quali peraltro Wagner non aveva (più) alcuna simpatia; per di più, il Cattolicesimo aveva da tempo trasformato la Religione nella parodia di se stessa, schiava delle sue proprie ipocrite e mistificanti liturgie, oltre che secolarizzata: soltanto il Cristianesimo riformato aveva ancora ai suoi occhi una seria reputazione. E il luterano Wagner nei Meistersinger rende perciò omaggio alla Riforma ed esalta Martin Luther, condannando invece la falsa maestà papalina.

Quanto all’Arte e in particolare al teatro musicale, Wagner trovava la situazione deprimente e penosa. Che questo suo giudizio, più e oltre che da constatazioni oggettive, derivasse dalla sua personale incapacità di penetrare l’establishment di quel mondo, impersonato da Parigi, che gli aveva appena confermato il suo rifiuto, distruggendogli il Tannhäuser, è questione magari secondaria. Sta di fatto che Wagner si vedeva e si sentiva investito della missione di redimere (ciò accadrà compiutamente con Parsifal!) l’Arte da tutte le sue colpe. E in attesa di Parsifal, dove matureranno l’inappellabile condanna di maghi, stregoni e alchimisti alla Klingsor (Meyerbeer) e l’avvento del Gral perennemente scoperto, nei Meistersinger Wagner comincia a rottamare la critica parruccona e reazionaria, sostenitrice e complice di un’arte degenerata; critica impersonata, nel suo immaginario, da Eduard Hanslick (Beckmesser). 

Almeno tre sono i riferimenti precisi al binomio Arte-Religione che emergono dai Meistersinger. A cominciare dai due dipinti a sfondo sacro (il Landauer-Altar di Dürer e l’Assunta del Tiziano) che direttamente o indirettamente hanno a che fare con l’opera; poi la riunione dei Maestri per la prova di canto, che ha come teatro la stessa Chiesa di SantaCaterina, opportunamente ri-arredata per l’evento artistico; e infine l’associazione artistico-religiosa, che fa capolino nel canto di Walther, fra Parnaso e ParadisoE ovviamente c’è un riferimento indiretto ad Arte e Religione anche nella conclusiva perorazione di Sachs, che inneggia alla pura, anzi propriamente alla sacra Arte tedesca, chiamando il popolo a difenderla dagli assalti della falsa maestà latina.

Ma, come al solito, è attraverso la musica e le relazioni che essa è in grado di stabilire che questi concetti assumono il carattere di opera d’arte. E mi limito ad un solo ma illuminante esempio: il Vorspiel ha appena chiuso sul tema dei Maestri e subito attacca (senza l’accordo finale che Wagner ha scritto per l’esecuzione in concerto del Preludio) il corale “Da zu dir der Heiland kam“ cantato nella chiesa di SantaCaterina. Ebbene, le prime note del corale escono direttamente dal tema dei Maestri! 

E sulla musica bisogna pur tornare.
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(continua...)

2017 con laVerdi – 11


Il bravissimo Stanislav Kochanovsky torna gradito ospite sul podio de laVerdi per dirigere un concerto dall’impaginazione abbastanza inusuale: un romantico che di più non si potrebbe e un... romantico piuttosto particolare. La Fondazione si unisce al generale compianto per la scomparsa del venerabile Alberto Zedda, ricordando una sua lontana (1999) collaborazione, che ebbe come oggetto la rossiniana Adelaide.   

Il 27enne moscovita Philipp Kopachevsky (che fa pure rima – ma anche coppia! - con Kochanovsky...) è uno degli astri nascenti (anzi, ormai abbondantemente in orbita!) del pianismo internazionale; qui ci propone una pietra miliare del concertismo romantico, il Primo di Chopin

Come mostrano anche le registrazioni pubblicate su Youtube, è già da qualce anno che i due russi si esibiscono in questo concerto, ed anche ieri sera hanno confermato alla grande il loro affiatamento, sciorinando una maiuscola prestazione. Il solista poi sembra aver interiorizzato al meglio lo spirito chopiniano (e non solo per l’impiego del rubato...) che pervade anche i due bis generosamente concessi.
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Béla Bartók è un romantico, non solo nella formazione musicale (Liszt su tutti) ma anche nella ricerca delle radici della musica popolare della sua gente, e persino nell’affrontare le sofferenze che la vita gli ha procurato (abbandono della patria, difficoltà economiche, malattie).

E proprio il Concerto per Orchestra (1942-43) è una delle ultime composizioni di un Bartók ridotto piuttosto male (morirà pochi mesi dopo la prima esecuzione con la Boston di Koussevitzky) ma dalla quale non traspare per nulla la precarietà delle condizioni materiali e psicologiche del compositore, anzi ci si ritrova una grande vitalità e un incrollabile ottimismo.

La struttura in 5 movimenti richiama di lontano le Suite o i Concertini barocchi, dove gli strumenti dell’orchestra assumono di volta in volta il ruolo di veri e propri solisti. Così accade per l’arpa, già nell’Introduzione, poi alle 5 coppie di fiati dell’Allegretto scherzando; quindi all’ottavino (Elegia) e persino all’esecutore ai timpani, che nell’Intermezzo interrotto deve suonare un passaggio che copre l’intera scala cromatica (SOL-DO-FA-SIb-MIb-LAb-DO-FA-MIb-REb-MI-RE#-SOL#-LA-RE-SOL) agendo in tempo reale sui pedali di accordatura.

Impeccabile l’esecuzione, accolta con calore, se non proprio con entusiasmo, da un pubblico abbastanza folto, a dispetto del programma che non è fra i più attraenti.

09 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (4): Rossini: disprezzo o ammirazione?

 

Una chiara citazione di Rossini che appare nei Meistersinger ha da sempre fatto nascere sospetti di una premeditata e proditoria denigrazione-in-musica del grande Gioachino da parte di un nemico giurato dell’opera italiana. Di che si tratta? Del famoso motivo da Di tanti palpiti dal Tancredi.

 

Nel terzo atto Wagner mette in scena l’arrivo delle diverse corporazioni di Norimberga presso la spianata sulla Pegniz dove si celebrerà la festa (che includerà anche la tenzone canora): ciascuna corporazione marcia - fra uno sventolio di bandiere e stendardi - cantando le lodi delle proprie professionalità e i meriti acquisiti in passato presso la città e il popolo.

Dopo che per primi sono sfilati i calzolai (la corporazione di Hans Sachs) ecco arrivare i sarti (professione del cantore Augustin Moser) illustrando i meriti di un loro rappresentante che – tempo addietro - nientemeno aveva salvato Norimberga da un assedio nemico, mettendo in fuga gli assedianti con un curioso stratagemma: farsi cucire addosso una pelle di caprone ed esibirsi poi in corse e salti sulle mura della città. Al che il nemico aveva deciso che era meglio lasciar perdere l’assedio, piuttosto che dover espugnare una colonia di… cornuti (evabbè.)

È qui che Wagner cita, in modo parodistico, i famosi Palpiti dal Tancredi. Ora, chi vuol dipingere Wagner come denigratore di Rossini ci racconta che la citazione, fatta nel contesto di una storia di assedio della città tedesca, in realtà avrebbe lo scopo di denunciare un altro tipo di assedio: quello operato dalla cultura straniera (qui quella italiana, papalina, impersonata da Rossini, ma altrove anche quella francese e ovviamente quella giudaica) ai danni di quella tedesco-luterana, difesa appunto da... Wagner. Da ciò i successivi incitamenti di Sachs a difendere l’arte tedesca da queste minacce, e la profezia che essa arte, se onorata e custodita dal popolo, avrebbe potuto sopravvivere anche al tracollo del Sacro Romano Impero.


Insomma: citandone un motivo musicale del Tancredi in modo tendenzioso se non addirittura calunnioso, Wagner avrebbe offeso e dileggiato Rossini come un pericoloso nemico dell’arte germanica. Ma sarà proprio così?

Ora, che Wagner non avesse in simpatia l’establishment culturale e musicale del suo tempo è assodato. Così come è noto come avesse aspramente criticato - particolarmente in Oper und Drama - lo sviluppo del teatro musicale e dell’opera maturato negli anni di massimo fulgore di Rossini.

Nel capitolo L’Opera e la natura della musica Wagner dedica pagine e pagine al pesarese, analizzandone l’approccio compositivo e in primo luogo il ruolo preminente destinato proprio alla melodia. Certo, Wagner si scaglia contro quella che considera un’autentica degenerazione dell’arte musicale, ma riconosce a Rossini una specie di stato di necessità, che lo aveva portato ad assecondare le tendenze di mercato: che privilegiavano i cantanti, le voci, i gorgheggi, sacrificando ad essi – pura forma – la sostanza dei contenuti del dramma per musica.

Ma è significativo notare con quali precise parole Wagner introduce il ruolo di Rossini:


Riassumendo: colui che ridiede un corpo profumato, per quanto innaturale, a ciò che prima aveva genuinamente esalato i suoi profumi da un corpo naturale; questo creatore di fiori artificiali, fatti di seta e satin, che profumano come fiori autentici; ecco, questo grande artista fu Gioachino Rossini.      

Il che ci fa pensare che di lui Wagner avesse un’alta considerazione, così come di Bellini, del resto (al contrario di Donizetti, che Wagner probabilmente detestava più che altro per aver dovuto sbarcare il lunario a Parigi trascrivendone per trombetta alcune arie). Interessante per converso notare il trattamento riservato (sempre nel citato Oper und Drama) a Giacomo Meyerbeer, accreditato di capacità musicali pari a zero! Evidentemente per lui non era sufficiente la giustificazione delle esigenze del mercato! (Poi, per dimostrare che i suoi non erano ciechi pregiudizi, Wagner fa una lode sperticata del passaggio in SOLb maggiore – Tu l’as dit – di Raoul-Valentine dal quarto atto di Les Huguenots, che forse gli ispirerà qualcosa nel Tristan…)

E in occasione della morte di Rossini – avvenuta pochissimi mesi dopo la prima dei Meistersinger, si noti bene - Wagner vergò (nella terza delle sue Censuren) un ricordo del grande Gioachino (Eine Erinnerung an Rossini) in cui descrive con simpatia l’incontro avuto con il maestro nel 1860, quando lui era a Parigi per preparare il disgraziato Tannhäuser (e forse già cominciava a ripensare ai Cantori…): in quella occasione l’anziano maestro italiano smentì ogni malignità che gli era stata attribuita nei suoi riguardi dai giornali e mostrò, se non di condividere, almeno di provare a comprendere la sua visione sul futuro dell’opera. (Circostanze confermate dal dettagliato resoconto dell’incontro fatto da Edmond Michotte, testimone oculare e auricolare.)

Da ultimo: poche settimane prima di morire, dopo la serata-concerto data in suo onore alla Fenice a Natale del 1882 (quindi nella sua ultima apparizione in pubblico) e dopo il sontuoso rinfresco, Wagner, per accommiatarsi degnamente dai suoi ammiratori con un brano musicale eseguito personalmente al pianoforte, scelse... indovinate... il rossiniano Buonasera, miei signori!       

Quindi, per tornare ai Palpiti, se stiamo agli elementi extra-musicali, nulla ci induce a pensare che Wagner abbia voluto mettere alla berlina Rossini, e menchemeno additarlo a nemico dell’arte germanica (proprio lui, Rossini, che in Italia passava per il tedeschino...) citandone un motivo in modo tendenzioso se non addirittura calunnioso.

Ne abbiamo conferma se poi proviamo ad analizzare un po’ più da vicino lo scenario, dando un’occhiata all’unica fonte certa, autentica e inoppugnabile di cui disponiamo: la partitura (testo e musica di Wagner). Ecco cosa ci troviamo precisamente nel momento in cui i sarti cantano l’inizio della loro storiella: nove battute, che si possono suddividere in due parti uguali. Nelle prime 4 e mezza c’è il ricordo dei giorni tragici dell’assedio, nelle successive 4 e mezza l’anticipazione dello scampato pericolo, grazie al coraggio e all’inventiva del sarto:


L’entrata dei sarti si accompagna ad una repentina modulazione: dal DO maggiore precedente (con i festosi squilli di tromba) si passa al LA minore, poiché il coro deve raccontare il pericolo mortale vissuto dalla città assediata (sono le prime 4 battute e mezza). Poi abbiamo la transizione verso il consolatorio e allegro ricordo dell’impresa del sarto, che occupa, tornando a DO maggiore, le successive 4 battute, contenenti appunto la citazione – la tonalità originaria è FA - dei Palpiti.  

Ergo: la melodia rossiniana è impiegata qui da Wagner per supportare l’epinicio dei sarti per il loro valoroso collega, non già la minaccia portata dagli assedianti, che è stata evocata con il LA minore precedente, che nulla ha a che fare con Tancredi e con Rossini!

Ed è quindi una citazione del tutto positiva, un vero e proprio omaggio al compositore italiano di cui Wagner apprezzava il genio, pur criticandone l’involuzione delle forme musicali. Altro che considerarlo un… assediante! Anche il tono allegro e scanzonato della citazione (i tre ein Schneider che devono essere cantati quasi… belando, in omaggio al travestimento del sarto) non è certo irriguardoso né offensivo nei confronti di Rossini, ma simpaticamente appropriato ad evocare un’impresa dai contenuti più spassosi che drammatici (e del resto non fu proprio Rossini il campione dell’impiego della medesima musica per supportare il serio e il giocoso?) 

In ogni caso la prova definitiva l’abbiamo chiedendoci: chi è Tancredi? Guarda caso: un patriota, precisamente come l’anonimo quanto bizzarro sarto di Norimberga! (O vogliamo concludere che l’eroe di Wagner sia in realtà una macchietta da avanspettacolo? E che quindi tutti i Meister siano una farsesca presa in giro, predica finale di Sachs inclusa?) 

Ma poi un po’ di Rossini – non musica, ma... caratterizzazione di personaggio - si ritrova anche nella quarta scena del terz’atto, quando Sachs, che ha appena aggiustato una scarpetta ad Eva, canta una specie di Largo al factotum! (“Das ist eine Müh', ein Aufgebot!”) descrivendo i mille diavoli per capello che caratterizzano la sua professione. E anche questa non può certo essere una parodia, visto il rilievo assoluto che la figura di Sachs ha nell’opera.

Insomma, nulla ci autorizza a pensare che il vecchio Gioachino, che verrà a mancare proprio a ridosso della prima rappresentazione dei Meistersinger, fosse oggetto di disprezzo e di dileggio da parte del genio di Lipsia...
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(continua...)

07 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (3): un manifesto proto-nazista?

 

Wagner era antisemita? Certo che sì. Come peraltro un sacco di gente ai suoi tempi (e pure ai nostri, se è per quello...) Di più: il suo antisemitismo lui lo teorizzò con approccio quasi scientifico e lo rese pubblico con un libello del 1850, Das Judenthum in der Musik (Il Giudaismo in musica) poi reiterato, rincarando la dose, una ventina d’anni dopo. Contiene una violenta requisitoria contro l’avanzare della sub-cultura ebraica all’interno della nobile, alta e superiore tradizione germanica. Agli ebrei è concessa una sola soluzione, quella della rovina e della decadenza (Untergang). Nella riproposizione del libello (1868, proprio l’anno della prima dei Meistersinger) Wagner avanza la constatazione che l’assalto di quella sub-cultura è ormai arrivato ad un livello tale che essa sta prendendo il sopravvento; e di non saper dire se l’arresto della caduta della cultura germanica possa avvenire anche attraverso una sua reazione violenta (eine gewaltsame Auswerfung)!

E ancora: in Was ist Deutsch? (Cos’è Tedesco?) pubblicato nel 1878, ma scritto nel 1865, Wagner dipinge gli Ebrei come “elemento alieno che ha invaso la natura tedesca”. E li addita a primi e principali sfruttatori del sistema capitalistico, del profitto, del potere economico delle banche. Il tutto all’interno di un panegirico allo spirito tedesco, capace di sopravvivere ad ogni avversità e ad ogni sopraffazione.

Probabilmente gli scritti di Wagner, da soli, non avrebbero avuto diffusione e risonanza così grandi da condizionare la politica della Germania del 1930... e Hitler non si sarebbe neanche scomodato a leggerli, ammesso di venirne a conoscenza. Ma Wagner divenne famoso nel mondo e adorato in Germania per le sue opere musicali e, guarda caso, proprio nei Meistersinger troviamo abbondanti dosi di nazionalismo culturale, inutile negarlo.

Che si tratti anche di nazional-socialismo in embrione è invece una tesi che sostengono non pochi ed anche autorevoli commentatori ed esegeti. Robert W.Gutman (“Richard Wagner: the Man, his Mind and his Music”, 1968) è probabilmente stato il primo a sostenere compiutamente la seguente tesi:

Nei suoi drammi, Wagner altro non vuol rappresentare se non il conflitto insanabile, anzi mortale, fra la purezza dell’identità culturale germanico-ariana e il suo pericoloso inquinante semitico (è il succo del Giudaismo in musica). Il fine ultimo perseguito da Wagner componendo i suoi drammi non sarebbe affatto l’arte, ma l’esplicitazione ante-litteram del programma politico dell’ideologia nazional-socialista e antisemita. E dato che quelle opere ebbero una risonanza ed una diffusione enormi, ecco che quel programma, in esse contenuto e nemmeno troppo cripticamente, potè richiamare l’attenzione e l’approvazione di Hitler, che non dovette far altro che dargli applicazione pratica.

Ed esistono innumerevoli altri riferimenti a quest’accusa, ad esempio in scritti di studiosi quali Hartmut Zelinsky (“Richard Wagner – ein deutsches Thema”) o Barry Millington (“Wagner”) o Daniel L.Leeson (Antisemitism in the music dramas of Richard Wagner”) o Chris Nicholson (“Apotheosis”) o ancora Peter Brach (“The Anti-Semitic Intention of The Ring of the Nibelung”). E sappiamo che lo stesso Gottfried Wagner, pronipote del compositore e fratellastro di Kathi, l’attuale capintesta a Bayreuth, non esita a individuare un binario che collega direttamente le opere del bisnonno con Auschwitz.

E come vien dimostrata una tesi di tale distruttiva portata? Con argomentazioni come quelle schematicamente elencate qui di seguito; in particolare, sono tre le opere messe direttamente sotto accusa: i Meistersinger, il Ring e Parsifal. Mi limito qui alla prima, oggetto contingente dell’interesse suscitato dall’imminente riproposta della Scala.

Attraverso quest’opera – sostengono i suoi detrattori - Wagner intenderebbe chiamare la nazione tedesca al riscatto culturale nei confronti dell’inquinante, costituito dall’infiltrazione ebraica nella società germanica. Ne sarebbe testimonianza lo stesso esplicito riferimento a Martin Luther, antisemita fino al midollo, per la cronaca: basti pensare al Von den Jüden und iren Lügen del 1543 (Dei giudei e delle loro menzogne) dove si parla di “vermi velenosi, che è un errore non distruggere”:


Ebbene, l’esaltazione che Wagner fa di Luther nel terzo atto, musicando i primi otto versi della lode scritta nel 1523 dal Sachs storico in suo onore (Die wittenbergische Nachtigall, L’Usignolo di Wittemberg, come Luther vi viene definito) sarebbe un autentico richiamo (il famoso “Wacht auf!, Risvegliatevi!) alla reazione contro le influenze straniere, ma in particolare contro gli ebrei.  

Il puro ariano qui sarebbe l’eroico Walther von Stolzing, e il suo nemico giurato il semita Sixtus Beckmesser. Quest’ultimo incorporerebbe tutti i cliché antisemiti ottocenteschi, tutti gli aspetti sgradevoli e pericolosi che Wagner attribuiva agli ebrei: andatura strascicata, barcollante, occhi strabici, bellicoso, malintenzionato, senza scrupoli... ma soprattutto: mancanza totale di talento musicale, di doti poetiche, di senso del ritmo e della metrica. Non è esattamente ciò che Wagner aveva scritto nel Giudaismo? “Nel linguaggio e nell’arte musicale l’Ebreo può solo produrre imitazioni e merce contraffatta, non può scrivere vera poesia, nè creare autentiche opere d’arte”.

Addirittura il nome originario che Wagner aveva scelto per il personaggio Beckmesser era Hans Lich, una chiarissima storpiatura di Eduard Hanslick, il critico musicale, onesto conservatore, ma soprattutto ebreo (sia pure a metà) che aveva preso posizione per Brahms e che Wagner avrebbe perciò inteso ridicolizzare, per distruggerlo. (Che il nome sia stato poi mutato è spiegabile, più che con un improbabile pentimento di Wagner, con l’obiettivo danno d’immagine che esso arrecava alla figura di Sachs e ai religiosi richiami alla festa di SanGiovanni.)

E soprattutto verrebbe preso di mira il modo di cantare di Beckmesser, un’autentica parodia del ritmo e delle inflessioni vocali dei canti da Sinagoga. Per di più Wagner scrive, per questa parte di basso, dei passi ad altezze impossibili (addirittura un LA, difficile persino per un tenore!) ottenendo con ciò l’effetto parodistico del falsetto, della voce effeminata, caratteristica dei castrati (e nell’800 l’antisemitismo faceva volutamente confusione fra castrazione e circoncisione!) 
 
Non solo, ma Beckmesser è anche un ladro! Ruba il testo del lied di Walther (un’autentica opera d’arte... secondo Wagner) ma poi non riesce nè a decifrarne correttamente le poetiche parole (che traviserà orribilmente al momento di presentarlo al pubblico) nè quindi a musicarlo compiutamente, a dimostrazione del fatto che l’ebreo non può produrre alcunchè di buono, pur avendo a disposizione materiale ariano di prim’ordine.

Infine, Beckmesser viene esposto al ludibrio anche sul piano dei sentimenti: lui è un uomo non più giovane che (al contrario di Sachs, saggio e nobile ariano capace di responsabili rinunce) mira ad impossessarsi della bella e giovane (pura ariana) Eva, figlia oltretutto di un orafo (!) Insomma: l’ebreo ladro che ha laide concupiscenze sessuali e venali...  

Ecco quindi che le reazioni irridenti e ostili della gente di Norimberga alle sue performance, nel secondo e terzo atto, sarebbero rappresentate da Wagner al preciso scopo di ridicolizzare l’ebreo e di mostrare quale debba essere la sua meritata sorte (l’Untergang del Giudaismo!): disprezzo e scorno, fino alla violenza fisica (finale dell’atto II) da parte del nobile popolo tedesco!

Dopodichè, basta leggere le cronache dell’epoca nazista per constatare come i Meistersinger fossero elevati dal regime nientemeno che a vessillo e strumento dell’espansionismo tedesco e della necessità della soluzione finale del problema ebraico. E non a caso gli ultimi due Festival di Bayreuth (1943-1944) prima della sospensione dovuta alla disfatta, furono esclusivamente occupati da ben 28 (16 + 12) rappresentazioni di quest’opera-simbolo, un estremo tentativo di risollevare il morale del popolo, a fronte della brutta piega che il conflitto aveva imboccato.
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Beh, certo che gli indizi sembrano talmente tanti e chiari da apparire prove inoppugnabili! É possibile cercare di smontarle? Mah, anche se è cosa estremamente difficile - quanto camminare sulla lama affilatissima di un rasoio - proverò ora a farlo. 

Il riferimento a Luther: beh, in un’opera ambientata nella Norimberga del ‘500 il fondatore del Protestantesimo non poteva certo passare sotto silenzio... ma il testo ed il contesto ci dicono che Luther è citato come esempio per la sua cocciuta resistenza e ribellione alle gerarchie della Chiesa Cattolica, non per il suo antisemitismo: lo attesta innanzitutto il riferimento diretto al poema del Sachs storico, tutto incentrato sull’esaltazione della lotta di Luther contro il Papa, non contro gli ebrei; e lo conferma anche il finale appello di Sachs che chiama il popolo a proteggere l’Arte tedesca dalle minacce della wälscher Majest (la maestà di Roma) non già da quelle della comunità ebraica.

Beckmesser. Intanto cominciamo col dire che uno Stadtschreiber non può essere ebreo: come tale mai avrebbe potuto far parte dell’accolita dei Cantori. E allora qualcuno dovrebbe spiegare che senso avrebbe far incarnare ad un non-semita tutte le qualità deteriori - massimamente quelle fisico-morfologiche - attribuite dal Wagner politico agli ebrei. Insomma, per assurdo: se Beckmesser, che certamente non è semita, cammina e parla e canta come un semita... significa che fra semiti e non-semiti non c’è differenza alcuna! E allora casca tutta l’impalcatura di quest’accusa. 

Ma andiamo oltre: alla fine del primo atto Beckmesser confida al suo collega cantore Veit Pogner il desiderio di avere in moglie sua figlia Eva. E Pogner, pur riaffermando che sarà Eva a dover acconsentire, si impegna ad intercedere per lui presso la figlia. Ergo: Pogner, rappresentante a pieno titolo della società e della cultura tedesca, mostra di non avere alcuna preclusione verso il Merker, che evidentemente considera del tutto degno - Eva consentendo - di diventare suo genero.

Il puro ariano Hans Sachs, viceversa, sarà anche nobile e saggio, rinunciando in partenza ad Eva, ma si mostra assai carogna (e geloso?) nei confronti di Beckmesser allorquando, nel secondo atto, fa di tutto (Jerum! Jerum!) per rovinargli la serenata. Qui la didascalia di Wagner è inequivocabile:

Beckmesser, che ad ogni colpo (dei martello di Sachs, ndr) è trasalito dolorosamente, nel reprimere l'interno furore, è stato obbligato a forzare e ad affrettare il tono, che s'era industriato di mantenere sempre delicato; la qual cosa ha accentuato il lato comico del suo canto assolutamente fuori di ogni prosodia.

Chiaro abbastanza, vero? Sono le reiterate molestie di Sachs a rovinare la serenata allo scrivano! E persino il giovane David, tratto in inganno dallo scambio di persona Eva-Magdalene (non certo voluto dal povero Beckmesser) si rende responsabile di percosse e maltrattamenti nei confronti del Merker, e della gigantesca rissa che ne segue, da cui l’incolpevole Sixtus uscirà letteralmente con le ossa rotte! Ed è proprio in conseguenza delle botte subite la sera prima che Beckmesser, nel terzo atto, in casa di Sachs e poi sul terrapieno della tenzone canora, appare barcollante e malfermo sulle gambe, non certo perchè questo sia il modo di camminare congenito agli ebrei!

Beckmesser - è vero - ruba il foglio su cui Sachs ha trascritto il Lied di Walther. Non è certo una bella azione, ma non si può non riconoscergli, come attenuante, il fatto che Sachs si sia comportato con lui in modo davvero indegno; e adesso quella canzone gli sembra dimostrare che Sachs pretenda alla mano di Eva, e gli conferma il sospetto che il calzolaio, la sera prima, avesse architettato tutto ai suoi danni, per pura gelosia e per disfarsi di un pericoloso concorrente!

Insomma, ragionando a mente fredda, vien da concludere che Beckmesser sia una vittima, più che un pericolo pubblico. E che Sachs sarà anche un tedesco doc, ma è pure parecchio carogna. E allora si potrebbe paradossalmente ribaltare l’accusa in difesa: ammesso che Beckmesser impersonifichi il semita, non è che Wagner volesse per caso mostrarci la triste condizione degli ebrei, sottoposti ad ogni tipo di angheria?  

Non dimentichiamo infine che Wagner intendeva creare, con i Meistersinger, un’opera comica, e in tutte le opere comiche c’è necessariamente qualche personaggio che si deve prestare alla bisogna e farsi mettere alla berlina (sarà solo il caso di ricordare un certo don Bartolo...): e una figura come quella del Censore da questo punto di vista e in quel contesto era proprio l’ideale per la bisogna, senza per questo dover scomodare pregiudizi razziali. Ecco qui come Wagner stravolge il testo di Walther(Sachs) agli occhi di Beckmesser:

Beckmesser

"Morgen ich leuchte in rosigem Schein,
von Blut und Duft
geht schnell die Luft;
wohl bald gewonnen,
wie zerronnen;
im Garten lud ich ein
garstig und fein."

"Wohn' ich erträglich im selbigen Raum,
hol' Gold und Frucht,
Bleisaft und Wucht...
Mich holt am Pranger
der Verlanger,
auf luft'ger Steige kaum,
häng' ich am Baum!"

"Heimlich mir graut,
weil es hier munter will hergehn:
an meiner Leiter stand ein Weib;
sie schämt' und wollt' mich nicht besehn;
bleich wie ein Kraut
umfasert mir Hanf meinen Leib;
mit Augen zwinkend,
der Hund blies winkend,
was ich vor langem verzehrt,
wie Frucht so Holz und Pferd
vom Leberbaum."
Walther (Sachs)

"Morgenlich leuchtend in rosigem Schein,
von Blüt und Duft
geschwellt die Luft,
voll aller Wonnen,
nie ersonnen,
ein Garten lud mich ein,
Gast ihm zu sein".

"Wonnig entragend dem seligen Raum,
bot gold'ner Frucht
hellsaft'ge Wucht,
mit holdem Prangen
dem Verlangen,
an duft'ger Zweige Saum,
herrlich ein Baum".

"Sei euch vertraut,
welch' hehres Wunder mir geschehn:
an meiner Seite stand ein Weib,
so hold und schön ich nie gesehn:
gleich einer Braut
umfasste sie sanft meinen Leib;
mit Augen winkend,
die Hand wies blinkend,
was ich verlangend begehrt,
die Frucht so hold und wert
vom Lebensbaum".
   
Beckmesser

"Io luceva nel roseo chiaror della mattina
profumata di sangue,
corre rapida l'aria;
presto invero ottenuta
come perduta,
nel giardino io invitai,
laido e fino".

"Discretamente me la passo nello stesso luogo,
prendo oro e frutti,
umor di piombo, leva...
Mi prende alla gogna
il bramoso,
appena sull'aereo sentiero,
m'appendo all'albero!"

"Segretamente rabbrividisco
perché qui l'andrà allegramente;
alla mia scala, stava una donna;
ella si vergognava e voleva non guardarmi;
pallida come un'erba
la canapa s'attorciglia al mio corpo;
strizzando gli occhi,
il cane via soffiò accennando,
quel che io avevo da tempo divorato:
frutti, legno e cavallo,
dell'albero del fegato!"
Walther (Sachs)

"Luminoso nel roseo chiaror della mattina,
del profumo dei fiori
l'aria impregnata,
pieno di tutte le voluttà
mai sognate,
un giardino m'invitava
ospitalmente ad entrare".

"Voluttuosamente sovrastante al luogo incantevole,
offriva d'un aureo frutto
il succoso balsamico peso
con grata magnificenza
al desiderio,
sull'orlo dei rami odorosi,
superbamente un albero".

"Vi sia confidato,
quale alto prodigio m'è avvenuto:
al mio fianco stava una donna,
così dolce e bella, giammai avevo vista:
simile a sposa,
soavemente mi cinse la persona;
con gli occhi accennando,
la mano luminosa indicava
quel che io struggendomi bramavo:
il frutto così dolce e nobile 
dell'albero della vita".

Beh, siamo proprio all’avanspettacolo di Vieni avanti, cretino!

Ma veniamo alla sostanza: la musica!

Pochi passaggi musicali sono così magistralmente concepiti, e così belli e moderni come l’assurda e patetica serenata che Beckmesser canta nel secondo atto, e che doveva servire al compositore – secondo i sostenitori del Wagner nazista - per prendere di mira la pretesa incultura musicale del mezzo-ebreo Eduard Hanslick (il critico che lo criticava, peraltro con grandissimo equilibrio). Tutta la musica che sostiene la strepitosa, stupefacente scena finale della baruffa del secondo atto nasce e si sviluppa proprio da lì, altro che cantilena da Sinagoga! E si noti che persino David, all’inizio del terzo atto, intona inizialmente il mottetto “Am Jordan Sankt Johannes stand” proprio sulla melodia della serenata di Beckmesser! (Alla faccia dell’inquinamento, verrebbe da dire...)

Quanto al Preislied, Wagner appare a sua volta davvero carognesco (lo abbiamo ben visto poco sopra) nel formularne la versione Beckmesser: ma un simile stravolgimento del testo originale è spiegabile con mille motivazioni, e non solo con la difficoltà di un Ebreo nel comprendere la lingua tedesca; e chi ci dice invece che non sia stata tutta una manfrina di Sachs, quella di scrivere il testo appositamente in modo indecifrabile, per tendere un trappolone al povero Merker? Musicalmente è poi tutt’altro che da buttar via, e il suo fallimento, nella generale derisione, è legato precisamente all’insensatezza del testo, come equivocato da Beckmesser, non certo alla musica.

Insomma, di antisemitismo programmatico è proprio difficile parlare, e anche il proclama politico esposto da Sachs e relativo alla superiorità dell’Arte tedesca appare una chiara risposta di Wagner - sul terreno (appunto) artistico - a tutte le incomprensioni di cui il nostro era fatto oggetto ancora in quegli anni: il tracollo del Tannhäuser tristanizzato e le mille diffidenze che dovunque (anche nei paesi di lingua tedesca - Vienna in testa - non solo nella Parigi dell’ebreo Meyerbeer!) sorgevano riguardo al suo Tristan.   

Per chiudere: sono convinto che vada fatto sempre ogni sforzo per tenere distinti gli aspetti deteriori del Wagner uomo, ideologo, capopopolo – che rappresentano per la sua figura un’autentica tragedia - da quell’unica qualità per la quale Wagner ha invece titolo per essere ricordato ed apprezzato: l’Artista!   
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(continua...)

06 marzo, 2017

La Wally tosco-emiliana


Ieri pomeriggio la Wally ha salutato Reggio Emilia, dopo aver visitato Piacenza e Modena (in febbraio) e in attesa di recarsi in futuro nella natia Lucca. Purtroppo il Valli presentava uno spettacolo piuttosto desolante: intere file di palchi deserti (ahi ahi...) In compenso l’annunciatore (che ricorda di spegnere i cellulari, etc...) ha invitato tutti ad essere felici! Evabbè, noi ci proviamo. 

Luigi Illica trasse il libretto per Catalani dal romanzo di metà ‘800 Die Geierwally (La Wally dell’avvoltoio) di Wilhelmine von Hillern. Wally è il diminutivo di Walburga Stromminger, una ragazza selvaggia e coraggiosa, il cui appellativo (dell’avvoltoio) le viene da una spericolata impresa – negata persino ai suoi coetanei maschi -  da lei compiuta in giovane età: quando si fece calare, appesa ad una fune, lungo una ripida parete rocciosa per raggiungere il nido di un avvoltoio che infestava la zona e metteva in pericolo le greggi. Nonostante le ferite infertele dagli artigli del volatile, l’intraprendente Wally riuscì a rimuovere il nido e addirittura si portò a casa il pulcino dell’avvoltoio, allevandolo come animale domestico! Ecco perchè nelle raffigurazioni dell’epoca lei compare con l’avvoltoio sulla spalla:


Questi particolari non trovano alcun riscontro nel libretto, che invece riporta abbastanza fedelmente l’impresa di Hagenbach, che da solo ha abbattuto un grosso orso, e che si presenta come l’eroe accanto all’eroina Wally.

Il libretto, come quasi sempre accade, diverge dal romanzo, in particolare nella conclusione: nell’originale Wally e Hagenbach vivono felici e contenti... anche se per poco (moriranno insieme, non viene detto come) mentre l’opera termina con la morte violenta dei due. Anche il personaggio di Afra cambia parecchio: nel romanzo alla fine si scopre che lei è sorellastra di Hagenbach, e che quindi i sospetti di Wally sui tradimenti dell’amato erano infondati. Inoltre, il personaggio di Walter è un’invenzione del librettista. Ecco, bisogna riconoscere ad Illica di aver migliorato assai il soggetto originale!

La struttura drammaturgica dell’opera richiama vagamente quella di Carmen: due atti relativamente leggeri, se non proprio da operetta, con tanto di feste paesane, canti e balli, nei quali però si creano le premesse per il successivo precipitare degli eventi, fino alla tragedia conclusiva. Altra lontana rassomiglianza è quella fra la protagonista Wally e la futura Minnie di Puccini: si tratta di due ragazze piuttosto autoritarie e guarda caso l’ingresso in scena di entrambe avviene giusto in tempo per sedare una rissa fra maschi! Anche qui abbiamo un personaggio en-travesti: Walter, una specie di Cherubino cresciutello.

Musicalmente parlando, l’opera (siamo nel 1892) risente abbastanza dell’esperienza wagneriana: i cosiddetti numeri chiusi vi sono banditi in favore di un continuo svilupparsi delle melodie. Non mancano (ma nemmeno in Wagner!) brani che surrogano arie o ariosi o romanze: la ballata di Walter, il racconto di Hagenbach, la famosissima Ebben? Ne andrò lontana, ancora Schiavo dei tuoi begli occhi di Gellner, i monologhi di Wally del terzo e quart’atto, l’estremo omaggio di Hagenbach, sono pagine che emergono come... picchi alpestri dalla pianura sottostante.  

Nessun impiego strutturato di Leit-motive o surrogati; solo in un paio di circostanze udiamo ricomparire motivi già ascoltati: la cadenza dell’Ebben? Ne andrò lontana, che si riode alla fine del terz’atto, al momento della riconsegna di Hagenbach ad Afra da parte di Wally; e un motivo del walzerino del second’atto che riaffiora nel preludio dell’atto finale.

I personaggi sono assortiti secondo i classici canoni del melodramma ottocentesco: soprano drammatico e tenore eroico nei due ruoli principali; baritono e mezzosoprano come terzi incomodi e/o guastafeste fra i due; bassi nei panni di un genitore burbero e di un vecchio impenitente; un sopranino a incarnare il ruolo del menestrello amoroso.

Certo l‘ispirazione e la vena melodica non sono quelle dei Mascagni o dei Puccini, e forse questo spiega perchè, dopo il successo iniziale, l’opera negli ultimi decenni sia stata assai più rappresentata all’estero e in particolare nei paesi di lingua tedesca che non qui da noi. 

Compagine musicale cosiddetta di provincia: ma mai come in questa circostanza l'attributo potrebbe essere un complimento. A partire dall'Orchestra (ORER) fatta di ottimi professori (per esempio: corni e legni) ma anche ben compatta ed agguerrita nell'insieme; un concertatore di tutto rispetto (Francesco Ivan Ciampa) che interpreta con gusto e senza sbracamenti una partitura solo apparentemente facile, ma piena di raffinatezze timbriche ed armoniche; e il coro del Municipale di Piacenza (Corrado Casati) che sfoggia bella compattezza musicale (oltre a quella fisica da scatola di sardine in cui lo costringe il regista!)

Cast bene assortito, fatto da interpreti già navigati e da altri scesi in acqua da meno tempo. La protagonista Wally (Saioa Hernandez) sfoggia un gran vocione drammatico, forse un po’ artificialmente gonfiato e quindi opaco nei centri ma con acuti staccati con sicurezza; buona anche la sua versatilità espressiva, necessaria per interpretare un personaggio dalla natura così poliedrica come quella della ragazzona esuberante ma anche capace di toccanti accenti lirici e di sentimenti profondi. Dovrà ancora studiare parecchio, ma si vede chiaramente per lei un futuro promettente.

Hagenbach è Zoran Todorovich, anche lui dotato naturalmente di voce di gran spessore e volume, proprio da Heldentenor: voce ancora da mettere sotto controllo e da impiegare con più espressività e varietà di accenti... insomma un futuro (se ben coltivato e programmato) da Siegfried!  

Il navigato Claudio Sgura impersona il complessato Gellner; di lui ripeto ciò che già ho scritto in passato: gran vocione gestito però approssimativamente e con tendenza continua all’eccesso di forzature con perdita di rotondità e morbidezza. Insomma, fin troppo truce e ruvido, il che mette un po’ in ombra il lato più lirico del personaggio.

Apprezzabile il Walter di Serena Gamberoni: voce appropriatamente leggera ma non pigolante, portamento sicuro e grande espressività, emerse già da subito nella romanza di esordio. Qualche vetrosità negli acuti non inficia la sua positiva prestazione.
 

Di buon livello i tre comprimari (che cantano part-time ma hanno parti non proprio secondarie). Stromminger è Giovanni Battista Parodi, voce ben impostata e passante; l’altro basso (Il Pedone di Schnals) è un efficace Mattia Denti, capace di esprimere gli accenti vuoi burloni vuoi severi del vecchio navigato; discreta anche la Afra di Carlotta Vichi, voce ben impostata e rotonda, che emerge anche dal trambusto della festa di Sölden.
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La regìa di Nicola Berloffa è tradizionale (il che per me è sempre un merito: di ambientazioni tipo scuole elementari o comunità di drogati ne abbiamo viste – per soggetti anche assai più importanti - a sufficienza) e quindi siamo in mezzo a gente di montagna (oddio, sui costumi forse i montagnoli avrebbero da ridire, nel senso che solitamente non si va in alta quota con il tacco-12... ma l’alta montagna è forse l’allegoria della solitudine della Wally e allora prendiamola per buona, ecco). Ma insomma sono cose perdonabili (caso mai si sorride un po’ sulla scena del rescue di Hagenbach, proprio da saggio scolastico) e la trama viene fuori abbastanza integra. Scene (di Fabio Cherstich) appropriate, compresa la scatola di sardine del second’atto, dove in 50 mq erano stipati tutti gli interpreti e il coro, una scena più adatta ad un barcone di quelli che purtroppo danno altro tipo di spettacolo nel Mediterraneo... Costumi (Valeria Donata Bettella) come detto, di epoca... boh, novecentesca e luci ben manovrate da Marco Giusti.    

Trovate più o meno gratuite: la Wally dovrebbe irrompere in scena (à la Minnie, come detto) scaraventando a terra Hagenbach per soccorrere il padre: invece qui la vediamo sostituita da Gellner (che forse si esercitava in vista del terz’atto...) mentre osserva da lontano. In compenso, nella scena del recupero di Hagenbach nel burrone, invece di scendere a mani nude nell’abisso, ecco che lei viene imbragata ridicolmente con una funicella e poi calata come un sacco di patate: forse il regista voleva raccontarci ciò che si legge nel romanzo e viene taciuto nel libretto, evabbè.   

A parte tutto, una proposta più che meritoria, purtroppo punita da un’affluenza di pubblico che lascia sempre più depressi.

05 marzo, 2017

Alla Scala arrivano i Maestri (2): un manifesto politico?

 

Nel testo dei Meistersinger, oltre alla problematica a lui cara (perchè fortemente autobiografica) riguardante il rapporto fra l’Artista e la Società (Religione inclusa, come testimonia il richiamo a Luther) Wagner indirizza anche (non solo) questioni di natura politica e di costume. Rimandando ad altra puntata la trattazione degli aspetti più gravi delle implicazioni politiche dell’opera, consideriamone ora altri comunque importanti.   

Come ad esempio quello che si può etichettare come la questione femminile. Essa emerge dalla natura e dalle modalità di assegnazione del premio per la tenzone canora che si dovrà tenere durante la festa di SanGiovanni. Il premio per il cantore che sarà giudicato (dai Maestri) vincitore è nientemeno che... una ragazza! E qui parrebbe di essere nella barbarie più totale: altro che donna-oggetto, qui si tratterebbe addirittura di donna-oggetto-di-regalo. Però il padre della ragazza (il ricco orafo Veit Pogner, ideatore della geniale trovata di mettere la figlia Eva in palio in una specie di riffa) prova a riportare tutti alla... civiltà, affermando che l’ultima parola spetterà comunque alla stessa Eva: la quale dovrà dare il suo assenso ad essere consegnata in premio al vincitore, ma sarà libera anche di non darlo. Tuttavia, in quest’ultimo caso, lei non potrà scegliere per sè un altro, al posto del vincitore. Come dire, non esageriamo con le libertà concesse alle donne!  

Beh, qui davvero la cosa assume caratteri paradossali, e la congrega dei Cantori, riunita per giudicare in via preliminare eventuali pretendenti, non manca di farlo notare al buon Pogner: ma come, allora a che serve il severo giudizio degli esperti (i Maestri, appunto) se poi esso può essere disconosciuto da una ragazza qualunque? Il più infervorato su questa critica è Sixtus Beckmesser, Cantore e addirittura Censore (Merker, colui che segna gli errori dell’aspirante cantore) ma allo stesso tempo pretendente alla mano di Eva e concorrente alla tenzone (accipicchia, che bel conflitto di interessi!): lui è convinto di vincere la prova e questa libertà di rifiuto concessa alla ragazza non gli va per niente giù (anche perchè lui non è propriamente un giovanotto di bell’aspetto, ma un uomo ormai avviato alla mezz’età, assai poco attraente, e già paventa il rischio di cader vittima del diritto di veto concesso ad Eva).

A questo punto ecco la proposta semplicemente rivoluzionaria di Hans Sachs, il grande saggio: invece di far scegliere il vincitore alla ristretta cerchia dei Maestri, facciamolo democraticamente scegliere al popolo! Questa proposta suscita quasi lo sdegno dei Cantori: ma come, la gente comune adesso diventa giudice ultimo su materie che sono di esclusiva pertinenza degli addetti-ai-lavori? Di questo passo, dove andremo a finire? Come si vede, certe problematiche non sono nate ieri mattina con l’impiego del web per assumere, o ratificare, decisioni della massima portata! Peraltro anche questa proposta di Sachs sembrerebbe fare acqua, poichè implicherebbe che comunque Eva debba accettare una decisione di altri, sia pure del popolo. E allora Sachs cerca di rimediare, con un’affermazione gratuita o tendenziosa: il popolo di certo starà dalla parte della ragazza (!? mah... neanche si fosse al Festival di Sanremo!) Ohi ohi, qui non ci si raccapezza più: allora è la ragazza che sceglie e il popolo ratifica? E quindi che ci stanno a fare i Cantori? Rottamati in blocco?

Visto che la proposta di tirare in ballo il popolo non passa, relativamente al caso-Eva, ecco che Sachs la reitera in una luce assai più politica: la corporazione dei Cantori (oggi andrebbe di moda chiamarla casta) farebbe bene ogni anno a verificare il supporto del popolo, proprio per evitare di rinchiudersi in se stessa, perdendo quindi il contatto con la realtà. Ecco, questa sì che è una considerazione davvero seria e di grandissima attualità! (Ovviamente la casta non ne vuol sapere...)  

Il finale metterà ogni cosa al suo posto, ma al prezzo di una cinica rottamazione (quella del povero e solo Beckmesser, vittima designata sull’altare della presunta innovazione) che il popolo condanna senza appello, per preferirgli Stolzing, la cui arte pur fatica a comprendere (così come nella prova del prim’atto era accaduto ai Maestri) ma dalla quale è epidermicamente ed emotivamente affascinato. 

E lo stesso Stolzing, cui di diventare Maestro non importava un fico secco (il suo unico obiettivo era farsi la bella e giovine Eva... dopodichè aveva spudoratamente mentito a Pogner – scena terza del primo atto – giurando di essere venuto in città proprio per amore dell’arte canora!) si vede ora trascinato in un ingranaggio più grande di lui, la politica! Lui diventa in effetti l’incarnazione della massima gattopardesca del potere: cambiar tutto perchè nulla cambi!
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Cosa c’è dietro il quadro che Dürer non ha mai dipinto?

Nella prima scena dell’opera, in chiesa, veniamo a sapere che Eva e Walther si sono già visti la sera prima, quando il giovin cavaliere di belle speranze, appena arrivato a Norimberga dalla campagna, ha fatto visita a casa Pogner (per la verità per ragioni assai prosaiche: farsi aiutare dall’orafo a vendere un suo podere). Adesso lui è invaghito di lei e glielo dice apertamente; ma anche lei ne ricambia i sentimenti, arrivando a confessargli (a proposito del premio alla gara di canto) Voi o nessuno! E subito dopo spiega a Magdalene come Walther le abbia a prima vista ricordato un’immagine di David. Ah sì, Re David, quello dipinto sullo stendardo dei Maestri Cantori (di cui era patrono) con la lunga barba e nell’atto di suonare l’arpa... sentenzia sicura Magdalene. E infatti sullo stendardo dei Maestri poteva benissimo trovarsi l’effige di Re David che compare – arpa bene in mostra - in un altare dipinto (1509-11) da Albrecht Dürer su ordinazione del facoltoso commerciante norimberghese Matthäus Landauer:

 
(E non a caso, nel Vorspiel, l’arpa entra in campo proprio ad accompagnare il tema dei Maestri!) Ma Eva la smentisce decisamente: no, no, io parlo del David che ha abbattuto Golia con una pietra, quello con la spada al fianco, la fionda in mano e i riccioli luminosi, come ce lo ha dipinto il Maestro Dürer!

Effettivamente sarebbe grottesco che il giovane Walther (probabilmente imberbe, o con pizzetto... da sparviero e di sicuro armato di spada) potesse rassomigliare a quel David attempato, lungo-barbuto, con enorme corona in testa e armato di... arpa del dipinto cui fa cenno Magdalene: assai più verosimile sarebbe la rassomiglianza con un David giovane, esuberante e con i capelli al vento...

Ma però c’è un però: Dürer – e questo è assolutamente accertato - non ha mai dipinto un David come lo descrive Eva!

E allora cosa dobbiamo pensare? Ad un abbaglio di Wagner, che di certo conosceva il dipinto del Landauer-Altar ed ha erroneamente attribuito a Dürer anche una diversa effigie di David probabilmente opera di altro artista? Oppure che si sia proprio inventato questo quadro inesistente? E a quale pro?

Di certo questa contrapposizione assai secca (come secca è la risposta di Eva a Magdalene) fra due diverse figure di David non è casuale (spesso anche la tradizione tende a distinguere due David, quasi fossero persone diverse): il David per così dire arrivato (il Re, quello di Magdalene) è associabile ai Cantori, un’accolita di severi custodi della tradizione e delle regole, collocata quasi in un immutabile empireo (lo si vede, nell’altare, occupare con altri Santi come lui il livello superiore, paradisiaco, ai piedi della Croce e della Trinità); il David-Walther immaginato da Eva (e da Wagner, che in parte vi si riconosce, perlomeno in forza delle sue vicende giovanili) è viceversa una figura di giovane esuberante, insofferente dell’autorità e pronto a lanciarsi in imprese temerarie, sfidando ogni regola e persino il buon senso.

È questo il momento di fare una breve sosta: per tornare al quadro dell’Assunta del Tiziano, dalla cui vista Wagner racconta di essere stato fulmineamente spinto a riprendere in mano con determinazione il soggetto dei Meistersinger. Ebbene, a nessuno sfuggirà come il dipinto visto per la prima volta da Wagner a Venezia abbia un’evidente e fortissima rassomiglianza a livello strutturale con quello del Dürer, che il compositore doveva aver bene in testa da tempo: entrambi presentano, ben distinti, il piano terreno e quello celesteEcco quindi un buon motivo per rivalutare la tesi del colpo di fulmine veneziano quale stimolo al riavvicinamento di Wagner ai Meistersinger.

Ora nasce però una nuova questione: se Re David è il rappresentante dei Cantori, a quale di essi lo possiamo associare? Qui le ipotesi sono due, e piuttosto incompatibili, fra loro e con il riferimento pittorico. La prima porta evidentemente il nome di Hans Sachs, il vecchio saggio da tutti rispettato (sarà portato in trionfo alla fine). Ci sono però alcune controindicazioni: Sachs (come Walther del resto) non suona alcuno strumento (nel second’atto si esibirà come... percussionista, con il martello); poi (lo scopriremo compiutamente nel terzo atto) non è proprio così indigesto alla bella Eva (come farebbe invece intuire la reazione della giovane all’osservazione di Magdalene) che gli dichiara esplicitamente la sua predisposizione addirittura a sposarlo; infine ci sarebbe parecchia discrepanza tra la figura di Re David, fatto Santo dalla Chiesa Cattolica e quella di Sachs, che testimonierà (terzo atto) la sua incondizionata ammirazione per la figura di Martin Luther... L’altra opzione si chiama Sixtus Beckmesser! Che è l’unico in tutta l’opera a suonare uno strumento, a corde (il liuto) come l’arpa di Re David. E che è decisamente inviso alla bella Eva, come constateremo nel second’atto; peraltro sembrerebbe inverosimile che un tale personaggio possa essere collocato in una posizione così alta, in compagnia dei Santi vicino alla Trinità... a meno di non pensare che si tratti di una feroce offesa di Wagner al Cattolicesimo, la falscher wälscher Majestät contro cui Sachs si scaglierà nella sua finale perorazione!  

Sachs e Beckmesser mostrano opposte attitudini verso Walther: il Merker lo soffre come un rivale nella corsa alla conquista di Eva, e quindi cerca di tarpargli le ali fin da subito, esercitando una severità al limite dell’accanimento nel giudicare la sua prestazione nella prova del primo atto. Va però riconosciuto che, fermo il conflitto d’interessi che lo condiziona, Beckmesser non sembra sconfinare in comportamenti manifestamente fraudolenti: prova ne sia che tutti i Cantori (il solo Sachs escluso, ma compreso perfino il bendisposto Pogner) finiscono per condividerne il giudizio negativo e per decretare la bocciatura di Walther. Viceversa Sachs, che è rimasto colpito dalle qualità di Stolzing (neanche lui sa spiegarsi compiutamente perchè) diventa subito difensore e consulente del giovane cavaliere, che probabilmente ha già individuato come suo... successore. E così, per mettere fuori gioco Beckmesser, rivale di Walther, non esita ad usare contro di lui metodi francamente carogneschi, cosa di cui siamo ben testimoni nel second’atto.

Insomma, la conclusione della vicenda viene pilotata da Sachs in modo non proprio cristallino, e del resto il finale dell’opera ci proporrà una gattopardesca morale della favola: l’establishment che eleggerà (e col furor di popolo!) a suo nuovo rappresentante, erede e custode della tradizione, lo scapestrato e recalcitrante giovane che era arrivato a Norimberga con la spada al fianco e tutt’altre idee in testa.

Ecco, Walther, cooptato da Cantori e popolo, prende il testimone direttamente da Sachs, con Eva al suo fianco: una conclusione rassicurante, nel pieno rispetto del principio di evoluzione e non di rivoluzione. Quindi tipicamente conservatrice, per quanto illuminata e non certo reazionaria.

Proprio come accadde per la musica di Wagner, spintosi fino al limite massimo dell’evoluzione della tonalità, senza mai (nemmeno e menchemeno nel Tristan) varcarlo. In fondo, anche per lui le barricate di Dresda del ’48 erano ormai lontane, nella sua vita era appena piovuto dal cielo tale Ludwig II, in casa gli era piombata la sua Eva Cosima... e all’orizzonte cominciava a profilarsi un tempio tutto suo, con annessa dépendance: Bayreuth!   
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P.S.
La faccenda del quadro inesistente è stata studiata (e in certa misura spiegata, a discolpa di Wagner) da una studiosa della Columbia University: Lydia Goehr, inglese di nascita ma figlia di musicisti tedeschi, che ha esposto i risultati delle sue ricerche in un saggio (di lettura non proprio eccitante...) In poche parole, l’immagine di David descritta da Eva non sarebbe stata dipinta, bensì... descritta da Dürer.
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(continua...)