ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

27 gennaio, 2017

2017 con laVerdi – 5


Accoppiata tipica per laVerdi nel 5° concerto della stagione, diretto da Claus Peter Flor, un vero e proprio testa-coda dell'800!

Si parte con il beethoveniano Imperatore, interpretato da Gabiele Carcano, tornato per l’occasione a far visita all’Auditorium dopo quasi due anni. Il quale, a 32 anni, conferma di essere entrato nella piena maturità con un’interpretazione rigorosa, priva di deviazioni abitrarie, insomma... severamente beethoveniana al 100%. Qualche rara imprecisione nei passaggi più scabrosi non intacca l’eccellenza della sua prestazione, coadiuvata dalla gran forma dell’orchestra (che Flor, come sua consuetudine per questo repertorio, schiera in formazione tedesca, con i secondi violini al proscenio e i bassi a sinistra).

Così il riservato ragazzo torinese ci propone come bis una sonatina di Domenico Scarlatti che qui ascoltiamo da un grande del quale gli auguriamo di seguire le orme!  
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Secondo piatto forte la Nona di Bruckner, che Flor aveva già diretto qui, e con gran successo, nel maggio 2012. Partitura sterminata (chissà cosa sarebbe stata se il pio Anton avesse avuto tempo per completare anche il Finale!) e straordinariamente difficile, per gli esecutori e per il Direttore. La partenza del Feierlich mi è parsa un filino contratta, ecco, forse Flor ha ecceduto in sostenutezza, poi però le cose sono andate decisamente meglio, e questa poderosa cattedrale barocca ha potuto ancora una volta ergersi in tutta la sua magnificenza, che alle prime lascia davvero sconcertati. Nello Scherzo si sono riprodotte le barbare sonorità che anticipano e allo stesso tempo ridicolizzano quelle pur scandalose del Sacre! Nell’Adagio che chiude questo torso (comunque un’ora piena!) di sinfonia si anticipa il Mahler di un’altra celebre nona che Flor dirigerà più avanti nella stagione (mentre già la prossima settimana se la vedrà con una nona... sovietica).

Auditorium non proprio preso d’assalto (certo con la settima di Beethoven, per dire, al posto dell’ostico Bruckner si sarebbe fatto il pieno...) ma prodigo di applausi per i ragazzi: il solo saperla fare, e bene, questa musica, è già meritevole di elogio incondizionato.

21 gennaio, 2017

2017 con laVerdi – 4


Il nuovo Direttore Principale Ospite, Patrick Fournillier, torna dopo meno di un anno in Auditorium con un programma – noblesse oblige – tutto francese. Salito sul podio, si volta verso il pubblico per commemorare la figura di Georges Prêtre, con il quale si è detto onorato di aver avuto stretti rapporti (e direi proficui, a giudicare dai risultati...)

Poi attacca la versione orchestrale del Tombeau de Couperin di Maurice Ravel. Che era stato composto durante la Grande Guerra (Ravel si era volontariamente arruolato, 39enne, come autista di ambulanze) per il pianoforte solo e constava di 6 brani, proprio a mo’ di una Suite barocca, in omaggio al grande musicista francese, autore di ben 27 Ordres (Suite) per clavicembalo (in 4 libri, fra il 1713 e il 1730) ma anche in memoria di sei commilitoni, con i quali Ravel aveva rapporti stretti, caduti nella guerra. E fu Marguerite Long, moglie di uno di costoro (il musicologo Joseph de Marliave) ad interpretarla per la prima volta nel 1919. L’anno successivo Ravel approntò due nuove versioni del Tombeau: la prima (che si ascolta qui) è una trascrizione per orchestra di 4 dei 6 brani dell’originale; la seconda è una parte di questa trascrizione (3 brani) destinata ad accompagnare un balletto della compagnia svedese di Jean Borlin.

Qui un quadro riassuntivo dell’opera nelle sue tre versioni:

originale per pianoforte
versione per orchestra
versione per balletto
I – Prélude
I – Prélude
I - Forlane
II - Fugue
II - Forlane
II - Menuet
III – Forlane
III - Menuet
III - Rigaudon
IV – Rigaudon
IV - Rigaudon

V - Menuet


VI - Toccata



Come si nota, la versione orchestrale manca dei due movimenti più marcatamente caratteristici della tastiera (Fuga e Toccata); quella per il balletto è di fatto la versione orchestrata priva del Preludio. Nella versione per orchestra Menuet e Rigaudon si scambiano il posto, in modo che il brano si chiuda (in assenza della Toccata) con un movimento vivace.

Per essere un elogio funebre, è assai elogiativo e ban poco... funereo. A chi glie lo faceva osservare, Ravel rispondeva che quei poveracci avevano avuto abbastanza sfortuna, e che non era il caso di rincarare la dose.

Personalmente sono convinto che la strada più appropriata per conoscere quest’opera sia quella di approcciarne l’originale per pianoforte (qui propongo l’ascolto di una simpatica conoscenza de laVerdi, Angela Hewitt). La versione per orchestra (Ravel era uno strumentatore sopraffino, i Quadri sono lì a dimostrarlo!) è addirittura lussureggiante, ma forse proprio per questo perde un po’ della cristallina purezza dell’originale (proprio come accade a Musorgsky). Ecco qui un grande della musica interpretarla dirigendo altri grandi...

Il successo del Tombeau è stato tale che diversi musicisti si sono sbizzarriti a farne versioni cameristiche personalizzate; e qualcuno ha pure deciso di essere più smart dell’Autore e si è permesso di orchestrare anche i due movimenti che Ravel aveva deliberatamente lasciato alla sola tastiera. Fra i tanti un pianista e direttore d’orchestra, Zoltán Kocsis, del quale qui possiamo ascoltare la suite completa (con i brani nella sequenza dell’originale).    
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Seguiamo il Tombeau originale, sempre con la Hewitt.

Preludio (dedicato al tenente Jacques Charlot, musicista, parente dell’editore di Ravel, Jacques Durand). È in tempo di 12/16 (12 semicrome a battuta) con un metronomo davvero pazzesco: 92 semiminime puntate! Il che significa che l’esecutore deve suonare (mano destra e sinistra alternativamente) più di 9 note (semicrome) al secondo per quasi 3 minuti! Nella versione orchestrata il carico di... lavoro, invero massacrante nell’originale per tastiera, si distribuisce fra gli strumentini (oboe in-primis) e gli archi. Contrariamente alla struttura barocca, che prevedeva un brano monotematico, Ravel dà al Preludio una veste bi- (o addirittura tri-) tematica e una struttura vagamente sonatistica (esposizione col da-capo, sviluppo e ripresa). La tonalità (praticamente di tutta la suite, come da tradizione) è MI minore (e relativa SOL maggiore) ma in omaggio all’arcaismo dell’ispirazione il MI minore ha inflessioni modali (eolio) mancandovi sempre la sensibile RE#. Dopo un’introduzione di 4 battute, ecco (6”) l’esposizione del primo tema spiritato (MI minore modale) cui segue (29”) il secondo, più rilassato (SOL maggiore). L’esposizione viene ripetuta (47”) dopodichè inizia (1’28”) lo sviluppo, cui segue (2’06”) una specie di ripresa, che conduce alla conclusione, dopo un paio di battute di presa di respiro (2’51”) con un’esilarante volata, un tremolo e la croma finale sul MI.
   
Fuga (dedicato al sottotenente Jean Cruppi, la cui madre si era adoperata per la messa in scena di L’heure espagnole). È una fuga a tre voci, sempre in MI minore eolio, Allegro moderato e strutturata in modo tripartito: esposizione, sviluppo e coda. L’esposizione (3’11”) presenta il soggetto della fuga ripreso a due battute di distanza dalla seconda e dalla terza voce, mentre sulla seconda voce si ode un controsoggetto (3’21”) caratterizzato da una terzina che squilibra un po’ la regolarità del ritmo. L’esposizione riprende (3’34”) in forma variata e porta direttamente(3’51”) allo sviluppo. Qui Ravel impiega parecchi dei tradizionali artifici fiamminghi, come (4’12”) l’inversione, il pedale (4’35”) il canone stretto (5’04”) oltre a giocare con le tonalità. Lo sviluppo (5’51”) si chiude e lascia spazio per la conclusione, che sfocia (6’08”) in una coda assai lenta. È una quinta vuota (MI-SI) a por fine alla fuga, una mirabile mistura di tradizione e di modernità quasi impressionista.

Forlane (dedicato al tenente Gabriel Deluc, pittore basco che probabilmente aveva ispirato alcuni lavori di Ravel). Il quale aveva appena trascritto proprio una Forlane di Couperin (nemmeno a farlo apposta, in MI minore) dal quarto dei Concerts roayaux (1722) ed evidentemente se ne ricordò per la stesura di questo movimento della sua suite. Il tempo è Allegretto in 6/8 e la forma è di Rondo. Il ritmo prevalente è puntato (croma puntata – semicroma – croma). La struttura è rappresentabile dalla sequenza A-B-A’-C-A-Coda. A 6’39” ecco il ritornello A che si chiude a 7’52” per far spazio al primo episodio interno (B). A 9’04” abbiamo una fugace apparizione di A (ma si tratta proprio di un frammento di 8 sole battute) cui segue (9’17”) il secondo episodio (C) che si chiude a 10’20” per far posto all’ultimo ritorno di A. A 11’22” si modula a MI maggiore per la Coda, che ritorna presto (11’42”) al minore, per chiudere con una nuova quinta vuota (MI-SI) nel grave.    

Rigaudon (dedicato ai fratelli Pierre e Pascal Gaudin, amici di famiglia di Ravel). É un’antica danza popolare del sud della Francia, di dove erano originari i fratelli dedicatari del brano, disgraziatamente morti, uno al fianco dell’altro, precisamente nel primo giorno del loro arrivo a Oulches, sul fronte nordorientale, il 12 novembre del ’14. Tempo Assez vif, in 2/4, tonalità (una delle due eccezioni al MI minore nella Suite) di DO maggiore. La macro-struttura è A-B-A’, dove la prima sezione (12’24”) si presenta divisa in due parti, rispettivamente di 8 e 28 battute, entrambe da ripetersi (A a 12’32” e poi B a 12’40”-13’08”). Curiosamente le prime due battute sono quelle che assumeranno il ruolo di cadenza finale, sia dell’esposizione di A che dell’intero  movimento. Si noti (12’57” e poi ripetuto a 13’24”) un esilarante passaggio nell’acuto della tastiera, che porta alla conclusione della sezione A (poi ripetuta). La sezione centrale (B) si presenta con tempo Moins vif e vira a DO minore (13’37”). Riecco il DO maggiore e poi (14’25”) un passaggio che ricorda atmosfere gitano-spagnolesche, prima di un allargamento della melodia che porta al ritorno della prima sezione (A’) con il suo incipit crudo (14’53”): la differenza dalla prima comparsa risiede nella mancanza dei due da-capo, quindi in una maggiore stringatezza, e in un sottilissimo, ma significativo cambio di armonia (15’22”, una specie di cadenza plagale) che precede la chiusa. Il tutto fa rassomigliare il brano ad una specie di Scherzo (A) con Trio (B).

Menuet (dedicato a Jean Dreyfus, alla cui madre Ravel ea molto attaccato, e alla quale indirizzò una lunga corrispondenza). É l’altro movimento della Suite che devia rispetto al MI minore che la caratterizza: essendo nella tonalità relativa di SOL maggiore, con inserto centrale in RE minore. Il tempo è Allegro moderato, 3/4 e la struttura A-B-A-Coda. La sezione A (15’37”) è composta, come nel Rigaudon, da due parti, di 8 e 24 battute, entrambe da ripetersi (A a 15’54” e poi B a 16’10”-16’59”). La sezione B (Musette) è in RE minore (17’50”) ed è costtuita da due parti, di cui la prima si ripete (18’05”) e la seconda (18’21”) presenta un culmine (18’36”) in fortissimo per poi ritornare alla prima parte (18’54”) per la conclusione. Ricompare quindi (19’11”) la sezione A ma questa volta con la Musette che all’inizio l’accompagna nel basso. Si arriva quindi (20’16) alla Coda, che stempera ulteriormente (20’41”) i suoni in pianissimo e chiude su un Ralentir beaucoup e poi Très lent, esalando un tremolo sospeso su un rivolto dell’accordo di dominante.

Toccata (dedicato al capitano Joseph de Marliave, musicologo, per molto tempo amico di Gabriel Fauré, marito di Marguerite Long, prima interprete del Tombeau). Si tratta di un movimento assimilabile ad un Allegro di sonata. Il tempo è Vif, 2/4, MI minore. Anche qui il metronomo è da... brividi: 144 semiminime, peggio che nel Preludio! L’esposizione (21’26”) presenta in 9 battute ben 5 cellulle motiviche, che costituiranno i tasselli dell’intero movimento. Il primo gruppo tematico si estende fino a 22’13”, dove gli subentra il secondo tema (Un peu moins vif). L’esposizione si chiude a 22’40” per far spazio allo sviluppo, di proporzioni assai ampie, dove (22’48”) si modula inaspettatamente di un semitono in basso (RE# minore). A 23’29” torna il MI minore d’impianto per la chiusura dello sviluppo (24’33”) dove inizia una rapida ed eterodossa ricapitolazione, in MI maggiore, che ripropone, trasfigurato ed esultante, il secondo tema dell’esposizione, fino alla chiusa, su un’ottava di MI nel grave.
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Bene, ribadito che la versione orchestrale accontenta certamente più l’orecchio che... lo spirito, devo dire che Fournillier ha mostrato di padroneggiarla al meglio (l’esprit de finesse evidentemente non gli manca) e l’Orchestra lo ha in pieno assecondato. Sugli scudi, ça va sans dire, tutti i legni, fra i quali mi limito a citare, come vessillifero, l’oboe di Emiliano Greci.    
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Ecco poi Francis Poulenc e il suo Concerto per due pianoforti. Presentato qui quasi 4 anni orsono da Wayne Marshall e dal duo Lupo-Pedroni (di cui a suo tempo ho riferito). Questa vola c’è ancora una valida risorsa de laVerdi, Carlotta Lusa, ad affiancare il più navigato Orazio Sciortino, che alterna continuamente le sue prestazioni di solista al pianoforte con quelle di compositore (che con laVerdi ha già proficuamente collaborato).

Fournillier cerca di dare il massimo rilievo ai due solisti e così smagrisce la formazione degli archi rispetto alla tassativa prescrizione dell’Autore (8-8-4-4-4) riducendo... gli estremi, violini e contrabbassi (a suo tempo Marshall aveva fatto esattamente l’opposto). Anche i due solisti sembrano suonare... in punta di piedi e così ne esce una cosa assai gradevole, che anche il pubblico gradisce, ricambiato proprio con lo stesso bis poulenchiano proposto a suo tempo dalla coppia Lupo-Pedroni (questi polacchi esagerano per davvero e lo suonano con un’orchestra di 6 pianoforti e tanto di direttore!)
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Chiude la serata Georges Bizet con la sua Sinfonia in DO maggiore, composta quando ancora non erano arrivati sulla scena sinfonica Bruckner, Brahms, Dvorak e Ciajkovski... ma vi erano appena usciti (nel senso di... trapassati) Mendelssohn e Schumann. Quindi a chi poteva ispirarsi per una sinfonia un giovin musicista con chiare propensioni melodrammatiche? Non certo a Beethoven, ma più propriamente a Schubert.

Come quelli del viennese (della Piccola e pure della Grande, per parlare di DO maggiore) i temi sono tutti accattivanti, orecchiabili, lunghi e melodici, come si addice ad arie d’opera o romanze. Sinfonia?  Beh, diciamo una simpatica pastorale, ecco.

Fournillier la dirige a memoria, evita solo il da-capo dell'ultimo movimento (cosa condivisibile) e trascina il pubblico all’entusiasmo con un Finale travolgente. Peraltro la perla resta pur sempre l’Adagio, dove l’altra prima parte all’oboe (Luca Stocco) si merita due citazioni singole dal Direttore.

Beh, è musica che consola, e non è poco, in momenti in cui ci si domanda se davvero Dio esiste.

17 gennaio, 2017

Alla Scala torna il Don di Verdi (e di Abbado?)

  

Da questa sera torna alla Scala Don Carlo(s). Con la s o senza? Essendo in lingua italiana, senza. Però tradizionalmente Don Carlo fa pensare alla versione in 4 atti, quella stesa con grande cura da Verdi proprio per la Scala in vista delle recite del 1884 ed entrata, insieme all’originale parigino in 5 atti del 1867, nei repertori dei principali teatri.

Invece la versione presentata qui è sì in italiano, ma in 5 atti... ed è quindi diversa sia dall’originale parigino del 1867 che da quello scaligero del 1884, gli unici considerabili come authoritative. Perchè invece, se si censiscono tutte le diverse versioni dell’opera provate o messe in scena Verdi vivente, si arriva addirittura a sette, precisamente:

1. Partitura completata da Verdi nel 1866 in vista della prima parigina. Impiegata nelle prove, ma mai messa in scena.

2. Versione eseguita alla generale del 24/2/1867, che differisce dall’originale per cinque tagli, evidentemente apportati da Verdi dopo le prove. Qui però Verdi aggiunse il balletto del terz’atto La Peregrina (ancora assente nella partitura originale).

3. Prima esecuzione a Parigi (11 marzo, 1867). Vi sono apportati ulteriori tre tagli, fra i quali la soppressione della scena iniziale dei boscaioli e il relativo Preludio.

4. Seconda esecuzione a Parigi (13 marzo): vi viene soppresso (in futuro, nel Requiem, diventerà il Lacrymosa) cordoglio di Filippo. Questa versione, tradotta in italiano, venne poi esportata a Londra, Bologna e Milano.

5. Versione di Napoli del 1872: è sempre la versione della prima parigina, tradotta in italiano, con però due varianti: modifica al duetto Filippo-Rodrigo del second’atto e taglio al duetto Carlo-Elisabetta dell’atto finale.

6. Versione di Milano del 1884. Talmente curata da Verdi che la definì come quella di riferimento. Vi troviamo la soppressione dell’intero primo atto e interventi su quasi tutto il corpo dell’opera. Il libretto fu predisposto (a partire dalla versione 4 di Parigi) in francese da duLocle e poi tradotto in italiano da deLauzières-Zanardini. Le principali varianti sono: Prima scena (Carlo, “Io l’ho perduta” con recupero di parti dell’atto soppresso); rimaneggiamento della scena Filippo-Rodrigo (atto II); soppressione dell’inizio atto III (Coro, travestimento Elisabetta-Eboli e Peregrina) sostituiti da un Preludio; finale rimaneggiato, senza il coro dei Frati.
    
7. Versione di Modena del 1886. Ripristina il primo atto, come nella versione 3 di Parigi cui fa seguire i quattro atti della versione scaligera (6).

Bene, ciò che (probabilmente) si ascolterà da stasera e nei prossimi giorni è qualcosa di diverso ancora dalle sette versioni citate. In omaggio alla tendenza al nuovo, che però nuovo non è, visto che già nel 1977-78 Claudio Abbado (qui con un signor secondo cast, per la teletrasmissione RAI) presentò una versione vicina a quella di Modena (7) ma con la riapertura di alcuni tagli fatti da Verdi rispetto alla partitura originale (la scena iniziale, Preludio incluso, dei boscaioli e il Lacrymosa) e l’impiego di parti della versione francese (il Coro e il travestimento Elisabetta-Eboli che aprono il terzo atto, il duetto Filippo-Carlo prima del Lacrymosa e il finale dell’opera con il coro dei Frati). Invece: per non far notte e risparmiare sui costi delle coreografie... niente Peregrina.

Ecco, Chung ci dovrebbe (meglio usare il condizionale) presentare qualcosa di simile, essendo la produzione quella di Salzburg di qualche anno fa, che seguiva la falsariga di Abbado-77. In fatto di applicazione della tecnica del meccano, non sarà mai peggio della penultima (ormai) comparsa del Carlo al Piermarini (Gatti, 2008).

14 gennaio, 2017

2017 con laVERDI – 3


Torna in Auditorium la Xian (Direttore emerito, la sua nuova carica in laVerdi) per dirigere una specie di ritardato Concerto di Capodanno

In mezzo ai più o meno tradizionali e conosciuti walzer, polke e operette degli Strauss (il più famoso Johann jr e il di lui fratello, di 10 anni più giovane, Eduard) e al sempre gradevole von Suppè di un’intera giornata a Vienna, abbiamo la simpatica intrusione di un altro viennese, del ‘900 peraltro, del quale il prossimo 27 gennaio ricorreranno i 17 anni dalla prematura scomparsa (aveva meno di 70 anni): Friedrich Gulda.

Che fu soprannominato terrorista per le sue dissacranti esecuzioni ed anche per certi suoi comportamenti provocatori. Trovandomi per lavoro in Germania, primi anni ’80, mi capitò di vedere in televisione una performance in cui lui e la sua compagna Ursula Anders si esibivano in completa nudità (no, veramente lui indossava la sua inseparabile kippah...): lui suonando peripateticamente il flauto (o qualcosa di simile) proprio come un autentico Pan... e lei accompagnandolo alle percussioni!

Di lui il trentenne scandinavo Andreas Brantelid ci presenta il simpatico Concerto per violoncello e fiati (ci sono poi anche una chitarra e un contrabbasso, più batteria). Ecco una sua interpretazione con accompagnatori connazionali. Qui invece vediamo l’Autore dirigere il suo Concerto con Heinrich Schiff, che ne fu anche il primo interprete, nel 1981.

Al proscenio fanno bella mostra di sè due diffusori di suono: è infatti prescritto da Gulda che la chitarra venga amplificata (insomma, come nelle jam-sessions che si rispettino) ma – sorpresa! – in 4 dei 5 movimenti (cadenza esclusa) lo deve essere anche lo strumento solista!

Si apre con Ouverture, che attacca con un tema squisitamente rock-jazzistico, nervoso, cui fa da contraltare (in stile forma-sonata) un motivo dal taglio contemplativo e dal sapore vagamente schubertiano. Ecco poi Idyll, introdotto da una dolce fanfara di corni, che a me ricorda Freischütz, alla quale risponde il violoncello, prima dell’arrivo di una sezione spiritosa dove oboi e chitarra trascinano il solista in una specie di valse triste. Ancora i corni e il cello chiudono l’idillio. Ora segue una lunghissima, estenuante Cadenza del solista dove troviamo di tutto, dal cantabile al virtuosismo più sfrenato. Ecco ancora Menuett, dal sapore orientaleggiante, con il suo trio dove dialogano amabilmente flauto e violoncello. Il Finale alla marcia pare uscito da una colonna sonora di Morricone per Fellini. Insomma, un pot-pourri di tutto lo scibile musicale!

Beh, ogni tanto un po’ di... distrazione dai soliti Beethoven e Bruckner non fa male! Però che contrasto con il Bach (Sarabanda dalla prima suite) che il disinvolto nordico – dopo aver fatto i complimenti a Milano e alla (mezza) Orchestra che lo ha accompagnato - ci propina come bis!

Per il resto, si scimmiotta (non è la prima volta qui in Auditorium) il Musikverein a Capodanno: chiuso il programma ufficiale, ecco arrivare, reduce dalla scoppola rifilata a noi poareti taliani, il feldmaresciallo Johann Josef Wenzel Anton Franz Karl Graf Radetzky, che chiude il concerto accompagnato dai battimani ritmati del pubblico.

Per la verità qui lo spettacolo era piuttosto... ehm... dimesso: perchè l’Auditorium era pieno (o vuoto, a seconda dei punti di vista) a metà.

06 gennaio, 2017

2017 con laVERDI – 2


Tocca a Jader Bignamini inoltrare laVerdi lungo la stagione 2017, dirigendo un concerto tutto russo: Ciajkovski e Rachmaninov. Doveroso ricordare qui la scomparsa del grande Georges Prêtre, dal quale l’Orchestra ebbe il grandissimo onore di essere diretta un paio di volte proprio quando (lei, l’orchestra) era praticamente in fasce!

Di Ciajkovski ri-ascoltiamo La Tempesta, già udita qui in Auditorium poco più di due anni fa dalla bacchetta della Xian. (Ecco alcune mie personali note scritte in quell’occasione).

Sempre compatta e precisa l’orchestra e autorevole il gesto di Bignamini che ci restituisce tutti i pregi (mascherando i difetti...) di quest’opera abbastanza poco eseguita.
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Dopo lo scenario acquatico con isola, di Ciajkovski, intovina ke fiene foi atesso? Uno scenario acquatico con isola, ma di Rachmaninov: L’isola dei morti (1909). Ispirata da una riproduzione bianco&nero del quadro di Arnold Böcklin (di cui l’autore, tanto l’idea gli era piaciuta, dipinse altre quattro versioni, variando ogni volta leggermente qualche dettaglio).


Che acqua è? Dicono: lo Stige. O l’Acheronte? E il rematore? Caronte (mah, veramente pare una figura poco... autorevole rispetto a quella che ci immagineremmo.) E la bianca, slanciata figura ritta al centro della barchetta? Mah, forse l’anima candida del corpo chiuso nella bara coperta dal bianco lenzuolo e imbarcata di traverso, a prua. Oppure, chissà, uno speciale becchino, diciamo pure... la Morte in persona: sì, perchè la bara bisognerà pur che qualcuno la issi sull’isola per poi sistemarla in una delle catacombe di cui si intravedono gli ingressi... e il rematore magrolino non è detto che sia contrattualmente tenuto a farlo. Oppure potrebbe essere il defunto in persona, che si dovrà portare la bara (vuota) fino al suo loculo, per poi infilarcisi dentro e riposare per l’eternità (!?)

Rachmaninov deve aver scelto di musicare quel dipinto perchè così aveva la scusa buona per infilare l’ennesimo Dies Irae in una sua composizione: per lui la sequenza medievale doveva essere come il prezzemolo, che si mette un po’ dappertutto, più per sfizio che per oggettiva necessità, ecco. Però qui il Dies Irae non è solo prezzemolo, ma praticamente è la base di tutto il manicaretto e pure delle bevande che lo accompagnano! Il brano si potrebbe benissimo intitolare Fantasia sul Dies Irae

L’Autore in persona nel 1929 incise il brano con la Philadelphia Orchestra: però, oltre alla qualità della riproduzione che è ovviamente mediocre, sono presenti anche dei tagli (forse per necessità di... spazio su disco) e allora per esplorare il pezzo sarà meglio affidarsi al solido Ashkenazy.  
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Rachmaninov sceglie per l’ambientazione cupa del brano la stessa tonalità con la quale Mahler apre e chiude la sua sinfonia tragica: LA minore. Nello sviluppo centrale troviamo ovviamente delle modulazioni: principalmente, ma non solo, DO maggiore, DO e RE minore, LAb e MIb maggiore. Il tempo è prevalentemente Lento (ma con più di uno... scossone) e il metro è prevalentemente 5/8 (ma abbiamo anche un po’ di 4/4 e 3/4).  

Il sipario si apre su archi bassi, arpa e timpani, che impongono il ritmo sghembo di 5/8. Per romperne un po’ la monotonia, Rachmaninov alterna spesso la configurazione 2+3 con quella 3+2. C’è chi ci vede (o ci sente, per meglio dire) il ritmo della vogata del barcaiolo, e/o lo sciacquio prodotto dal lento avanzare della barca. (Certo, non ci fosse il quadro a farci da... faro, in queste note potremmo vederci qualunque altra cosa o nulla del tutto.) 
 
Ciò che è innegabile è l’atmosfera piuttosto lugubre, inizialmente dipinta (14”) da strumenti gravi (controfagotto, fagotto e clarinetto basso, più due corni che suonano note sotto il rigo). La melodia si muove salendo e scendendo per gradi congiunti, sul tappeto formato dall’arpa e dagli archi (ora anche viole e violini) che rimuginano le loro 5 crome a battuta creando un effetto vagamente ondeggiante. 

Un primo sussulto lo si avverte (1’09”) quando i violini aizzano il primo corno, che presenta un motivo che già ci ricorda vagamente l’attacco del Dies Irae. Imitato poco dopo (1’42”) dall’oboe. Questo andazzo si protrae ancora, ma con un lento crescendo che porta (2’41”) ad una nuova comparsa (sempre in... incognito) del Dies Irae in flauto, poi in oboe, corno  e corno inglese. Una nuova e improvvisa scossa (3’04”) nei violini, proprio sull’accenno di Dies Irae dei corni, seguita subito da una seconda, porta alla ripresa della mesta cantilena precedente, che però adesso si anima, con l’ingrossamento delle file dell’orchestra (4’27”) e con l’animarsi improvviso dei violini e successivamente (4’49”) di flauti e oboi.  

Si arriva così ad un’improvvisa schiarita (5’05”) dove i primi violini espongono un tema ascendente (in DO maggiore, relativa della tonalità di base) per ampi intervalli, alla sommità del quale (5’11”) troviamo immancabilmente l’incipit del Dies Irae, ripreso subito, in forma variata, dal corno inglese e poco dopo (5’44”) da oboe e flauto e quindi dal corno. Dopo un mesto recitativo dell’oboe (6’13”) una variante del motivo ascendente di poco prima viene presentata (6’21”) da violini e viole, ora in LAb maggiore; ad essa segue un lungo passaggio, che vira a DO minore, nel quale l’incipit del Dies Irae, assai dilatato nei tempi, sembra pervadere il crescendo orchestrale, basato sul motivo per gradi congiunti udito all’inizio, qui però in armonizzazione meno cupa.

Dopo un primo climax (8’24”) nei fiati, si ripristina l’atmosfera iniziale, che presenta un grande crescendo che ci conduce ad un culmine (9’34”) a seguito del quale il flauto solo riespone il Dies irae, imitato poco dopo da due corni, in sequenza. Il tempo muta ora a 3/4 e l’atmosfera si fa sempre più rarefatta per sfociare (10’42”) in un corale in RE minore dei corni che ribadiscono pesantemente il Dies Irae, dopodichè sono gli archi ad esibirsi in una veloce scalata in fortissimo che porta alla sezione centrale in MIb (11’10”).

È questo un passaggio di grande vitalità (qualcuno ci vede l’anima del defunto che rivive i giorni felici dell’esistenza, ma potrebbe anche pregustare quelli ancor più felici dell’aldilà, chi lo sa?) anche se l’inciso che compare nel motivo che lo sostiene ha un che di... Dies Irae, ecco, tanto per cambiare, con quelle terzine con la nota centrale un semitono sotto le due estreme. La melodia si allunga a dismisura, passa (12’11”) attraverso la sottodominante LAb maggiore, poi torna (12’39”) ad un MIb pieno, dove però comincia a incupirsi, e non a caso, poichè (13’54”) ecco il Dies Irae rifare esplicitamente e minacciosamente capolino negli ottoni, fino ad una successiva proterva affermazione (14’07”) in fortissimo, accompagnata da botti del timpano.

Dopo una caduta repentina quanto momentanea, il Dies Irae riprende (14’27”) ancora in ottoni e violini, avanzando ora proprio come un castigo di Dio, con un implacabile crescendo che sfocia (15’33”) in una parossistica progressione chiusa (15’38”) da un primo tremendo schianto, cui ne segue un altro, dopo una pausa segnata dal DO dei soli corni e viole, ancor più definitivo (15’46”).

Ecco ora (15’55”) il Dies Irae ripartire sommessamente - mentre il tempo muta a 4/4 e la tonalità è tornata al dimesso LA minore - nel clarinetto accompagnato in tremolo dai violini secondi con sordina: è una vera e propria marcia, implacabile come il destino, cadenzata da timpani, arpa e archi sui tempi pari della battuta. Su di essa si innesta (16’44”) una variazione nervosa nelle terzine dei violini primi in tremolo, caratterizzata da un accelerando e subito da un diminuendo, con salita dal LA grave al MIb.

Qui (17’02”) siamo tornati in 3/4 e l’oboe, raggiunto poi da clarinetto e clarinetto basso, espone una melodia che richiama, in modo minore (DO) il motivo in MIb maggiore che aveva caratterizzato lo squarcio di serenità precedente. Ma è uno sbiadito ricordo che subito si perde, degradando mestamente fino a sfociare su un SIb tenuto (corona puntata) da archi e clarinetti (questi in trillo).     

Ora (17’35”) abbiamo quattro ricorrenze di un passaggio costituito da una battuta in 3/4 seguita da 3 battute (5 nell’ultima ricorrenza) in 5/8: il Dies Irae vi viene esposto in forma al solito variata. Tutto ciò porta (18’31”) a quella che possiamo definire la ripresa dello scenario (in LA minore) che aveva caaratterizzato l’apertura del brano. Questa volta il motivo a grandi intervalli ascendenti nei violini (18’47”) è esposto nella canonica tonalità d’impianto e sotto-sotto vi fa capolino, oltre al Dies Irae, anche il Dies illa!

Ormai ci avviamo alla conclusione, l’atmosfera (19’20”) si dirada e poi ecco (19’42”) un timido accenno del Dies Irae nell’oboe e quindi (19’48”) alcune discese degli strumentini sulla scala di LA minore, tonalità che chiude, come lo aveva aperto, il brano, su un accordo pianissimo dell’orchestra.
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L’Orchestra e Bignamini devono essere alla prima esperienza con questa pretenziosa letteratura della morte, e mi pare che come esordio non ci sia male: il Direttore fa del suo meglio (che è moltissimo!) per accompagnarci in questa specie di viaggio verso l’aldilà corredato da ricordi dell’aldiqua; e i ragazzi rispondono da par loro, mettendo in risalto ogni minimo dettaglio di una partitura che è da molti considerata un capolavoro, ma che io, nel mio infinitesimo piccolo, fatico ad apprezzare più di tanto, parendomi essa frutto di vellitarismo a buon mercato.

Il pubblico ha applaudito calorosamente: di sicuro a Bignamini e ai ragazzi, non so quanto a... Rachmaninov!  
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Chiude il concerto la tremenda Quarta ciajkovskiana, che invece per laVerdi è pane di tutti i giorni, altro che prezzemolo! Sta diventando un appuntamento fisso stagionale, da 10 anni ad oggi è passata dalle mani di Inkinen a quelle di Fedoseyev, poi di Xian (2 volte) quindi di Ceccato, di Caetani e ancora Xian.

Oggi la eredita Bignamini (ma si sa che negli anni scorsi era pur sempre lui a preparare l’Orchestra...) e quella che ne esce è un’esecuzione davvero coi fiocchi! Il Direttore gioca sapientemente con le dinamiche: nei movimenti esterni per dare la massima espressione agli archi, nei rari momenti di respiro fra un fracasso e un altro degli ottoni; nell’Andantino per creare un bellissimo stacco in corrispondenza del Meno mosso centrale; nello Scherzo per ottenere dagli archi un pizzicato a volte al limite dell’udibile, ma con guizzi che parevano lampi (o lame taglienti).

Il nostro sta ormai diventando famoso e così comincia anche a permettersi qualche libertà, come nel Molto più mosso del finale primo, che nel da-capo diventa quasi un Prestissimo! E subito dopo, al momento di ripetere per l’ultima volta il primo tema, lui va oltre Karajan (18’30”) facendo fare due semiminime di pausa, oltre ai fiati, che le hanno in partitura, anche agli archi (che invece dovrebbero tenere, portandolo da ff a fff, il REb) creando così un attimo di silenzio che è tanto emozionante quanto... apocrifo!

Ma va bene così, un cicchetto in più è quello che ci vuole con questo gelo che sta piombando su Milano (e non solo). 

30 dicembre, 2016

2017 con laVerdi – 1


Siamo ancora, per poco, nel 2016 ma laVerdi guarda al futuro e dà inizio alla stagione 2017 rifacendosi anche il trucco con un nuovo portale (vagamente rassomigliante a quello della Scala, e che tanto per gradire... rende inservibili quasi tutti i link al vecchio!) e con l’ormai tradizionale Nona beethoveniana di fine-inizio anno. Lo stile del nuovo Direttore Esecutivo, Ruben Jais, si distingue subito: prima del concerto viene proiettato sul maxi-schermo un video promotional, che mostra i successi passati dell’Orchestra e invita il pubblico a decretarne i futuri. Completa la festa l’ingresso sul palco, per ultime, delle quote-rosa dell’Orchestra, per l’occasione up-gradate a quote-vermiglio!

É il redivivo Claus Peter Flor, che dopo la parentesi malese (piuttosto... ehm, tribolata) sta tornando sempre più spesso qui sui Navigli dove era stato di casa fino al 2008 e che già nel 2000 aveva diretto questa sinfonia, a proporcela come prima stazione di una serie di quattro che nella stagione lo vedranno cimentarsi con altre famose none: Bruckner, Shostakovich, Mahler!

La sua è una lettura veemente, le dinamiche sono al massimo (neanche ci fosse in sala il sordo Beethoven cui far arrivare i suoni!) ma insomma così nessuno si può certo permettere distrazioni. Unico taglio – di prammatica – il secondo da-capo dello Scherzo.

L’Orchestra – disposta alla tedesca, con i secondi violini al proscenio - suona senza sbavature e per la verità si distingue anche nell’Adagio, unica oasi raccolta e religiosa in questo turbinare sonoro.

Nel Finale a quella dell’Orchestra si aggiunge l’ottima prestazione del Coro di Erina Gambarini, che va elogiato anche per la cura della pronuncia crucca (!) Note decisamente meno liete, ahinoi, per i quattro solisti (che Flor ha piazzato davanti al coro e dietro gli strumenti). Il basso polacco Daniel Borowski ha mostrato un vocione cavernoso ed ingolato da far paura, oltretutto peccando assai nell’intonazione e persino nel solfeggio: insomma, un mezzo disastro. Un filino meglio (ma è fin troppo facile...) Carlo Allemano, che ha una discreta voce di tenore lirico, forse non perfettamente tagliata per questa parte. Senza infamia e senza lode le due voci femminili: meglio la Christina Daletska, voce abbastanza corposa e svettante anche negli insiemi; così-così la Marie-Pierre Roy, che ha l’attenuante di aver dovuto sostituire (probabilmente in fretta e furia) la prevista Karen Vourc'h.

Ci sono altre tre repliche e le cose non potranno che andar meglio...

19 dicembre, 2016

Werther a Bologna. 2


Ieri pomeriggio terza recita del nuovo Werther bolognese. Bibbiena piacevolmente affollato e, lo dico subito, entusiasta dello spettacolo, guidato in scena da Rosetta Cucchi e in buca da Michele Mariotti.

Occhi (orecchi, soprattutto) puntati sul mitico JDF, che non ha tradito le attese, anche se in questo repertorio dà l’impressione di essere un pesce fuor d’acqua: non certo perchè canti male, ma per la forse eccessiva assuefazione che abbiamo noi, suoi ascoltatori, ad aspettarci sempre da lui i mirabolanti virtuosismi rossiniani, che il tardo-romanticismo ha irrimediabilmente mandato in soffitta. Insomma, il problema non è suo, ma nostro! Dopodichè stabilire graduatorie (meglio Kraus? Kaufmann?) è esercizio che lascio volentieri agli specialisti (o millantati tali): a me personalmente è piaciuto abbastanza come cantante e un po’ meno come attore, sempre impacciato e poco credibile.

I suoi fan non hanno perso l’occasione per osannarlo dopo Pourquoi me réveiller che, essendo l’unica aria dell’opera degna di questo nome, da sempre viene usata per celebrare il tenore di turno: fatto sta che quell’applauso prolungato rovina irrimediabilmente la drammaticità della scena (Massenet in quel punto non prevede alcuna pausa, arpa e archi bassi devono continuare a suonare, gli strumentini riprendono subito la melodia). Ma si sa, certo pubblico è lì per il fenomeno da baraccone, mica per il dramma! E ieri l’insistenza è stata tale da convincere JDF al bis. Così, quasi per vendetta, il destino ha voluto che il dramma, cacciato dal palcoscenico, si sia trasferito in platea, dove una persona è stata colta da malore proprio durante le rumorose richieste di bis: chissà se per l’emozione provocatale dal canto di JDF o per lo spavento dovuto a tutto quel baccano. Sta di fatto che sono dovuti intervenire gli addetti alla sicurezza per trasportare la vittima fuori dalla sala, passando dall’uscita di emergenza posta proprio a lato della buca. Mariotti ha visto, ma si è girato per attaccare il bis: insomma, una scena assai poco edificante!

Isabel Leonard veste i panni, ma soprattutto dà la voce a Charlotte e devo dire che se l’è cavata più che bene, mostrando belle qualità vocali in tutta la gamma e restituendoci efficacemente tutta l’ambiguità di cui Massenet (al contrario di Goethe) riveste il personaggio. Interessante, con lei, anche la sorellina, la Sophie di Ruth Iniesta, voce ben impostata e robusta, sempre a suo agio in questa parte leggera e scanzonata.

Albert è interpretato da Jean-François Lapointe: senza infamia e senza lode la sua prestazione, davvero in linea con la grigiosità (?!) del personaggio. Da dimenticare il borgomastro di Luca Gallo, vociferante invece che cantante. Bravi invece Alessandro Luciano, Lorenzo Malagola Barbieri, Tommaso Caramia e Aloisa Aisemberg nelle parti di contorno. Encomiabili i sei piccoli fratellini di Alhambra Superchi.  

Michele Mariotti non si scopre oggi: sapiente la sua direzione, che ha esaltato le raffinatezze dell’orchestrazione di Massenet; sempre precisi ed efficaci gli attacchi ai cantanti; fracassi mai esagerati e invadenti.

Complessivamente mi è parsa una prestazione più che accettabile.
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Rosetta Cucchi (coadiuvata da Tiziano Santi per le non mirabili scene, Claudia Pernigotti per i costumi anonimi e Daniele Naldi per le luci, molto efficaci) ha proposto un’idea allo stesso tempo interessante e abusata: il protagonista appare sin dal preludio seduto su una sedia al proscenio, dalla quale osserva gli avvenimenti in una specie di flashback, che però è anche flashforth, visto che Werther prevede anche il futuro ménage Charlotte-Albert con tanto di figlioletto (... mah).

Questa idea dell’osservatore fuori-scena viene sapientemente sfruttata dalla regista alla fine del terz’atto: lei deve essersi resa conto che quel finale è - nel libretto e contrariamente a Goethe – quanto di meno plausibile si possa immaginare, con quell’accavallarsi di avvenimenti nel giro di pochi secondi; così ha ideato un’autentica genialata: niente domestico di Werther a recare il messaggio delle pistole, ma il biglietto lo lascia sul tavolino direttamente Werther prima di andarsene. Però ci si chiede: come faranno adesso le pistole ad arrivare in mano all'aspirante-suicida? Semplice: è la stesa Charlotte che, invece di consegnarle al domestico, le deposita direttamente sulla poltrona al proscenio dalla quale Werther ha osservato in flashback-and-forth gli avvenimenti, e sulla quale lei lo troverà poi già sparato!

Ambientazione di inizio ‘900, come conferma l’etichetta 1919 della bottiglia di grappa che il Werther, osservatore di passato e futuro, sorseggia seduto sulla poltrona in proscenio (il libretto non fa cenno, contrariamente a Goethe, alle attitudini libatorie del protagonista). Tutto ciò forse in omaggio all’epoca di massimo sviluppo delle teorie di Freud, anticipate da Goethe già a fine ’700. Suppellettili e costumi adeguati all’epoca. Il clavicembalo di Charlotte si trasforma in un minuscolo carillon, così anche il libretto viene adattato alla bisogna: Werther canta (e il display lo conferma) Voilà le carillon, al posto dell’originale Voilà le clavecin. I libri posti sul tavolino di casa si trasformano nel terz’atto in un’enorme libreria occupata da lussuosi tomi rilegati in pelle, mentre Ossian è relegato a paginette di un’agendina tascabile di Werther. Ma insomma, piccolezze.  

La Natura, tanto adorata da Werther, è rappresentata da foglietti di cartavelina che cadono dall’alto e da due altissimi alberi, che poi si riducono ad uno soltanto e di cui infine non resta che un tronco di... tronco, radici all’aria. 

Tutto sommato, pochi danni e va bene così. Anche per il pubblico!

18 dicembre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°38


L’ultimo concerto della stagione 2016 vede sul podio un altro uscente (dopo la Xian) dai ranghi de laVERDI: John Axelrod è qui per l’ultima volta in veste di Direttore Principale Ospite. Ciò non significa però che abbandoni di brutto l’Orchestra, che già nella prossima stagione dirigerà in due concerti (dei quali uno in particolare si annuncia assai interessante, con lo Schicchi in forma semiscenica).

Per questo addio-arrivederci il Maestro texano ha scelto musiche del suo Paese, anzi del massimo compositore americano: George Gershwin.

Di cui ascoltiamo subito la Rhapsody in Blue, interpretata al pianoforte da Giuseppe Albanese, ritornato qui in Auditorium dopo due anni e mezzo dalla sua prima apparizione (e ancora con le scarpe bicolori!) È dichiaratamente un pot-pourri di motivi sapientemente accostati e variati, dove il jazz la fa da padrone, ma dove (Andantino moderato) emerge anche un cantabile che sarebbe stato bene in bocca a Sinatra.

Il bravissimo Giuseppe sciorina tutta la sua maestria tecnica, ben coadiuvato dall’Orchestra in cui spicca - ça va sans dire – il clarinetto magico di Fausto Ghiazza. Accoglienza trionfale da parte di un foltissimo pubblico, gratificato addirittura di due encore, sempre di musica yankee: The man I love nella elaborazione di Earl Wild e il bellissimo Hesitation Tango di Samuel Barber.  
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Dopo la pausa ecco Porgy and Bess, di cui ascoltiamo la versione da concerto predisposta da Robert Russell Bennett. Si tratta di 14 numeri dell’opera, l’introduzione e 13 song interpretate da soprano (Adina Aaron) e baritono (Michael Redding). Ma dato che ci sono un paio di numeri per il tenore (Sportin’Life) ecco che nel primo di questi (It Ain’t necessarily so) si esibisce dal podio lo stesso Axelrod, che dimostra così di avere una carriera... di riserva, sai mai che torni utile! È questa l’occasione per impegnare a dovere anche il Coro di Erina Gambarini.

Sono 40 minuti di splendida musica, e la concentrazione di queste particolari arie rischia di provocare quasi un’indigestione (invece, diluite sapientemente nelle 3 ore dell’opera si possono meglio... metabolizzare!)

In ogni caso, ben vengano indigestioni di tal fatta! Bravi tutti e successo enorme, con replica del finale strappalacrime (oltre che applausi) Oh Lawd, I’m on my way.
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Adesso solo una settimana di pausa e poi, il 29/12 con l’immancabile Nona, inizia la nuova avventura 2017, 34 concerti che ci accompagneranno fino a metà dicembre.  

14 dicembre, 2016

Werther a Bologna. 1


Sta per andare in scena al Comunale di Bologna un atteso Werther in cui debuttano Juan Diego Florez nei panni del complessato protagonista e Michele Mariotti alla concertazione.

Il libretto di Edouard Blau, Paul Miller e Georges Hartmann fu derivato, come sappiamo, dal romanzo epistolare di Goethe (I dolori del giovane Werther) che giocoforza dovette essere smagrito per evidenti ragioni di compatibilità con i requisiti e le esigenze di un melodramma. E purtroppo questa riduzione/compressione ha comportato una serie di problemi, a partire dalla stessa definizione delle personalità dei protagonisti, che ahinoi nel libretto perdono parecchi dei tratti di cui li rivestì il sommo Goethe.

Così Werther ci appare come una sbiadita figura dell’autentico eroe che in Goethe trabocca romanticismo da ogni sua lettera, essendo ridotto qui a poco più di un velleitario e malato sognatore; Charlotte è una ragazza quasi volubile, non dissimula nemmeno la sua attrazione per Werther e il suo legame con Albert pare giustificato esclusivamente da un giuramento impostole dalla madre e accettato solo per dovere, mentre la Lotte di Goethe è una donna con la testa sulle spalle, che ama sinceramente Albert e per Werther prova un’affinità quasi esclusivamente cultural-spirituale; Albert è per Goethe un personaggio di larghe vedute, non esita a riconoscere il fascino che Werther esercita sulla moglie, non teme che i due si incontrino anche da soli, proprio perchè sicuro del rigore e della fedeltà della sua Lotte, mentre nel libretto assume via via i tratti di un marito geloso, che addirittura arriva carognescamente (assai più che nel romanzo, dove si dichiara contrario per principio al suicidio) a costringere la moglie a consegnare l’arma mortale a quello che ormai considera un pericoloso rivale.

L’estrema compressione dei tempi dell’azione - in Goethe, dopo un’introduzione che data dal 4 maggio, si va dal 16 giugno 1771 (incontro di Werther con Lotte) fino alla notte dell’antivigilia di Natale del 1772; nel libretto il tutto inizia in un non meglio precisato giorno di luglio per concludersi nella notte di Natale dello stesso anno (178x) cioè poco più di 5 mesi, nei quali i librettisti hanno dovuto liofilizzare le vicende di 18! - ha finito per creare nel libretto parecchie inconsistenze e salti logici piuttosto evidenti.  

Dunque l’opera inizia in luglio quando Werther, che a mala pena conosce il borgomastro (padre di Charlotte) si reca a casa di costui (facendosela indicare da un contadino) per prelevarvi una ragazza da accompagnare ad una festa: è lì che incontra per la prima volta Charlotte, che immediatamente lo colpisce... a morte. La serata passata in sua compagnia pare avere effetti afrodisiaci anche sulla ragazza-madre (ops... madre nel senso di sorella maggiore di 6 fratellini, come lei orfani della mamma) che arriva persino a scordarsi di essere promessa sposa a tale Albert, giovane, serio e intraprendente uomo d’affari. Costui torna proprio quella sera da un viaggio di lavoro e così il povero Werther deve constatare che la sua Charlotte si è trasformata in un miraggio.

Ora attenzione: nel secondo atto – siamo a settembre - Albert e Charlotte conversano amabilmente davanti alla chiesa e ci fanno sapere di essere felicemente coniugati da tre (!) mesi. Beh, dovremmo pensare che Albert stia un filino esagerando, a meno che il primo atto non si fosse aperto e chiuso il 1° luglio, il matrimonio celebrato immediatamente e il secondo atto sia ambientato il 30 settembre... ma insomma, non sottilizziamo. Ciò che ci interessa è invece scoprire Werther che sembra pedinare e scrutare da lontano i due coniugi, forse per verificare la solidità del loro legame o intravedere qualche falla (che gli dia delle speranze per il futuro) nella predisposizione di Charlotte verso il marito. Di più: Albert scorge Werther, lo avvicina e mostra di conoscerne i sentimenti verso Charlotte: sentimenti che lui non si sente di biasimare (sua moglie è talmente a modo che chiunque se ne potrebbe innamorare). Werther incontra poi Charlotte che lo congeda invitandolo a partire, ma giustificando la loro separazione esclusivamente con un dovere cui lei si deve assoggettare (lei dice Albert mi ama, ma mai... Io amo Albert!) Fatti un bel viaggio e scordami... tutt’al più torna per gli auguri di Natale! Alla notizia che Werther partirà Albert mostra i primi sintomi della gelosia, chiudendo l’atto con un sinistro sguardo alla moglie turbata e mormorando Egli l’ama...

Domanda: preso atto di questo scenario, è plausibile ipotizzare che nei (meno di) tre mesi trascorsi Werther sia stato ospite quasi quotidiano a casa degli sposini Albert-Charlotte e vi abbia incontrato la donna a quattr’occhi, intrattenendo con lei rapporti assai sospetti? Parrebbe proprio di doverlo escludere... e invece è ciò che scopriamo inopinatamente nel terzo atto.

Che si apre alle 5 del pomeriggio della vigilia di Natale, in casa di Albert-Charlotte. Questa scena è completamente inventata dai librettisti, non ve n’è traccia alcuna in Goethe: Charlotte è alle prese con una catasta di lettere inviategli nei tre mesi precedenti da Werther, auto-esiliatosi chissà dove, proprio su suo consiglio. Ma proprio come lei gli aveva suggerito, il giovane spasimante arriva a casa sua e - ohibò – assistiamo qui ad un’assurda, ingiustificata e impossibile serie di ricordi di momenti di grande intimità intercorsa fra i due in quelle stesse stanze - la casa di Albert! - in passato. E quando, di grazia? Fra luglio e settembre, quando Charlotte e Albert erano sposini freschi-freschi e – ne siamo stati testimoni - Werther poteva solo spiarli di lontano? O fra ottobre e Natale, quando Werther era chissà dove e non poteva che scrivere lettere su lettere? Ahi ahi, qui tutto scricchiola maledettamente!

Come si spiega questo clamoroso abbaglio? Precisamente con l’esigenza dei librettisti di comprimere il testo (e i tempi) di Goethe. Come vanno le cose secondo il grande drammaturgo? Ecco qua: dopo il primo incontro al ballo (16/6/1771) Lotte e Werther si ritrovano a casa della ragazza (del borgomastro quindi, non di Albert!) e lei gli rivela tranquillamente di essere fidanzata e innamorata di Albert, che è assente per affari e tornerà 40 giorni dopo, il 30/7/1771. Durante questi 40 giorni Werther incontra più volte Lotte a casa sua (ne fa cenno in due lettere, del 13 e 16 luglio) e fra i due si stabilisce una certa intimità (canzoni che lei suona al clavicembalo, letture un poco galeotte, le loro mani che si sfiorano, sguardi languidi) che lui interpreta (erroneamente, come ci verrà confermato dai successivi sviluppi) come amore da parte della ragazza.   

Ecco, ora abbiamo capito a quali incontri si riferiscono i ricordi della sera di Natale, a casa di Albert, nel libretto dell’opera: peccato che però siano relativi a fatti (raccontati da Goethe) avvenuti a casa del borgomastro prima del matrimonio di Lotte, fatti che sono del tutto incompatibili con la trama del libretto, che ci mostra Albert tornare la sera stessa del primo incontro fra Werther e Charlotte, cui seguirà a tambur battente il matrimonio, mentre il povero Werther (chiusura atto primo) è addirittura disperato!

Il racconto di Goethe prosegue poi con grande dovizia di particolari e con assoluta coerenza: dopo il suo ritorno Albert fa amicizia con Werther e lo invita (12 agosto) a casa sua (qui Werther vede le pistole fatali). Il 10 settembre Werther annuncia a Lotte e Albert la decisione di trasferirsi e a fine mese prende impiego all’ambasciata.  Poi un lungo black-out, rotto dopo quasi 4 mesi (il 20/1/1772) quando Werther scrive a Lotte ribadendole il suo affetto; il 20/2/1772 manda a lei e Albert una lettera di felicitazioni per il loro avvenuto matrimonio (!) Il 19/4/1772 si congeda dall’impiego e torna. Solo dopo altri 5 mesi, il 12/9/1772, incontra nuovamente Lotte a casa sua e di Albert; la rivede regolarmente, sempre a casa sua, a ottobre, novembre e dicembre, approfittando delle continue assenze di Albert, impegnato in viaggi d’affari (sono passati 7 mesi dal matrimonio...) ma si tratta di incontri che (perlomeno nelle intenzioni di Lotte) si mantengono sul piano di amicizia e cortesia, nulla più.   

Anche il finale dell’opera diverge abbastanza da quello del romanzo: è in effetti assai più melo-drammatico! Ma a spese anche qui di un affastellarsi di eventi invero al limite dell’incredibile, se non del ridicolo: Werther che fugge dalla casa di Albert, dopo quella drammatica scenata con Charlotte, Albert che rientra un minuto dopo e trova Charlotte sconvolta, il domestico che arriva proprio in quel momento con la missiva di Werther, Albert che ordina bruscamente alla moglie di consegnargli le pistole, Charlotte che corre fuori in scia al domestico per cercare di raggiungere Werther prima che si spari... (!?) Charlotte trova Werther ancora vivo e gli dichiara il suo amore; Werther (che come ogni tenore che si rispetti, prima di morire canta ancora un’ultima aria) muore contento nelle sue braccia, mentre si odono gli allegri canti natalizi dei fratellini di Charlotte.

Nel romanzo le cose vanno in modo assai più plausibile, ordinato e verosimile: la domenica prima di Natale Albert chiede a Lotte di diradare i suoi incontri con Werther, così lei lo invita a rifarsi vivo non prima del 24 sera (giovedi). Lunedi 21 Werther comincia a scrivere l’ultima lettera a Lotte contenente propositi suicidi (verrà trovata nella sua stanza); va a casa del padre di Lotte e saluta i bambini; la sera torna (anzitempo, rispetto alla richiesta della donna) da Lotte e la trova sola in casa; lei è infastidita, ma lo invita gentilmente a leggerle qualcosa e lui le sciorina una montagna di versi di Ossian, che la turbano profondamente; quindi le si avventa addosso coprendola di baci; Lotte si ritrae sconvolta e si chiude in camera; Werther fugge, torna a casa: il mattino dopo (22/12) completa la lettera per Lotte; poi manda ad Albert il biglietto con la richiesta delle pistole in prestito; Albert e Lotte sono a casa e ricevono il servo di Werther con la lettera: Albert chiede a Lotte di consegnargli le pistole e aggiunge auguri di buon viaggio per Werther; è l’ora di pranzo, Werther vaga ancora per il territorio e poi torna a casa nel pomeriggio e vi trova le pistole; a mezzanotte in punto si spara nell’occhio destro. L’indomani (23/12) viene trovato ancora in vita, muore senza riprendere conoscenza, verso mezzogiorno; la sera alle 11 viene sepolto secondo le sue volontà. Dal giorno precedente Lotte, sconvolta e prostrata immaginando il peggio, non si è più mossa da casa sua.
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Beh, dato a Goethe quel ch’è di Goethe, diamo doverosamente a Massenet ciò che gli spetta. Qui lo fa il grande Antonio Pappano, in occasione di una produzione della ROH con Grigolo e la DiDonato.
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La prima di giovedi 15/12 viene trasmessa da Radio3, ore 20.