ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

10 ottobre, 2016

Un “Donizettino” gemella Bergamo e Firenze. 2


Ieri pomeriggio l’OF (riempita più o meno al 60%: quindi bastava la Pergola, caso mai sistemando il coro in qualche palco, he he!) ha tenuto a battesimo un Donizetti piuttosto desueto, mettendo in scena (beh, non proprio in scena: in forma di concerto) la Rosmonda d’Inghilterra. L’esecuzione è presentata pomposamente come una prima mondiale, quella della nuova edizione di Alberto Sonzogni per la Fondazione Donizetti. Edizione che si baserebbe sul manoscritto riscoperto a Napoli 40 anni fa e che diverge in alcuni punti dal libretto originale di Romani stampato a Firenze nel 1834, in occasione della prima mondiale (quella autentica) alla Pergola (appunto!)

Da ciò che si legge sul programma di sala non è per nulla facile desumere (ammesso che interessino...) quali siano stati i criteri seguiti da Sonzogni per mettere a punto la sua edizione della partitura. La quale pare un ibrido fra il citato libretto e il citato manoscritto autografo.

Del primo è stato conservato l’esordio di Leonora (Fè mi serba, mi seconda) al posto della (di gran lunga migliore!) sostitutiva Ti vedrò, donzella audace. Ma non – chissà perchè - l’intervento (fuori scena, delizioso invero) di Arturo, mentre Rosmonda canta la sua aria di esordio.

Del manoscritto viene ignorata la parte preponderante del finale, cioè la splendida cabaletta con coro di Leonora Tu spergiuro. In compenso l’opera termina con Ella spira!... Duolo, amor, poche battute che compaiono nel manoscritto prima di detta cabaletta, laddove il libretto originale reca invece la drammatica esternazione di Leonora: Trema Enrico! Io regno ancor!

Ok, ok, uno dice: ma chi se ne frega di questi bizantinismi... Fatto sta che su di essi c’è gente che campa e lucra, accipicchia! Personalmente non ho dubbi che la versione (per così dire) messa a punto anni e anni fa da OperaRara (a partire dallo stesso manoscritto napoletano) sia assai più accattivante (nonostante i continui abbassamenti di uno o due semitoni nella registrazione in studio!) di quella ascoltata ieri.

E allora vengo a ciò che si è udito a Firenze.  

Protagonista la sempre più italiana (e fiorentina) Jessica Pratt, fresca reduce dagli... stravizi babilonesi. Al suo fianco altri rossiniani: Michael Spyres, insieme ad Eva Mei, Nicola Ulivieri e – en-travesti – Raffaella Lupinacci. Sullo sfondo, dietro l’Orchestra, il Coro di Lorenzo Fratini e sul podio, a dirigere tutti quanti, Sebastiano Rolli.

La Pratt si conferma nel bene e nel male: quando può (e/o decide arbitrariamente di) sbizzarrirsi su acuti e sovracuti (ieri è andata su, credo, fin oltre il FA di Astrifiammante) strappa applausi da stadio; ma nell’ottava bassa (che lei cerca in tutti i modi di evitare) mostra la corda. Solo così si spiega che, dopo l’aria del second’atto (Senza pace e senza speme) il pubblico le abbia tributato tre minuti di orologio di ovazioni, chiuse però da qualche sonoro buh, che ha gettato parecchio scompiglio in sala.

La sua regal rivale, Eva Mei, non mi ha del tutto convinto: avrebbe anche un timbro di voce (la parte è indicata in libretto per mezzosoprano) ed il physique du rôle adatti ad impersonare l’autoritaria, cinica e pure... attempata (11 anni più del marito) sovrana, ma gli acuti sono decisamente sfocati e vetrosi e l’emissione piuttosto periclitante. Molto meglio l’Arturo della Lupinacci, soprattutto nelle parti solistiche e nei duetti, ma purtroppo meno udibile negli insiemi.

Spyres è un Enrico sempre spavaldo e sicuro, anche se la parte forse non è fra le più adatte ai suoi mezzi: comunque non c’è una sua nota che non risuoni splendidamente anche nei grandi spazi dell’OF. Ulivieri senza infamia e senza lode: fa il suo compitino onestamente, ma non molto di più.

Ottimo il coro di Fratini e piacevolissima sorpresa (parlo per me, che lo vedevo all’opera per la prima volta) il 40enne (o poco più) Sebastiano Rolli: uno che penso farà ancora molta strada.

Credo che l’entusiasmo del pubblico si debba però a tale... Donizetti: è davvero incredibile come un’opera come questa, un autentico concentrato di splendida musica, sia rimasta per tanto tempo in cantina. C’è da augurarsi che non ci venga rimandata, sarebbe un vero peccato!
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Quattro dei cinque interpreti (Spyres è l’escluso) traslocheranno, insieme al Concertatore, a Bergamo - al Festival Donizetti - per le rappresentazioni in forma scenica di fine novembre.

(Quindi... continua.)

08 ottobre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°29


Questa settimana si torna alla grande tradizione ottocentesca con due somme Terze: Beethoven e Schumann! Sul podio di un Auditorium assai affollato (ma chissà mai perchè...) Claus Peter Flor, che schiera l’orchestra in configurazione crucca, con i secondi violini al proscenio (così finalmente si possono ammirare anche loro, che solitamente stanno nascosti nel mezzo del plotone) i bassi a sinistra e i timpani giù al pianterreno, sulla destra.

Due sinfonie che hanno in comune poco più che la tonalità di impianto (MIb maggiore) essendo separate da... una vita, 47 anni! Da una parte il Beethoven severo illuminista e dall’altra lo Schumann romantico sognante.

Dunque, l’Eroica per eccellenza. Flor forse esagera un filino con i contrasti (di agogica e soprattutto dinamica) e così, invece del (del resto detronizzato) Bonaparte, pare far capolino... Don Chisciotte. Ma è una lettura stimolante, a dispetto di qualche simpatica sguaiatezza. La marcia funebre mi è parso il movimento più equilibrato e ispirato.

Da lodare tutti i ragazzi per la pulizia del suono e la precisione esecutiva (il Trio dei corni ne è stato chiaro esempio) il che gli ha garantito un’accoglienza trionfale.
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Ecco poi la Renana. È lo Schumann tornato a vivere (prima della fatale ricaduta) in quel di Düsseldorf, e nella sinfonia chi canta e sogna è proprio il suo lato intimistico (Eusebius) come dimostra lo Scherzo, trasformato in una specie di Lied...

Flor mette bene in risalto la struttura (per così dire) concava della sinfonia, con i due movimenti esterni che risaltano in piena luce, lasciando in una discreta e sognante penombra (che si fa davvero misteriosa nel chiesastico corale dei tromboni) i tre interni.

Grande successo per i ragazzi e ripetute chiamate per il Direttore: insomma, una serata di musica di quelle che ti fanno scordare le miserie che ci circondano.  

07 ottobre, 2016

Un “Donizettino” gemella Bergamo e Firenze. 1


Il Festival Internazionale Donizetti-Opera offre quest’anno due primizie: Olivo&Pasquale e Rosmonda d’Inghilterra.

Quest’ultima opera fu rappresentata in prima assoluta a Firenze (Teatro della Pergola) giovedi 27 febbraio 1834 e poi, dopo una fugace ripresa a Livorno 11 anni più tardi... scomparve dai radar per 130 anni! Rimessa recentemente a nuovo dalla Fondazione Donizetti (curatore Alberto Sonzogni) costituirà il primo passo del progetto Donizetti a Firenze, che intende appunto indagare e sviluppare gli aspetti del rapporto fra il compositore bergamasco e la città toscana. Ecco quindi che, in vista delle rappresentazioni di fine novembre a Bergamo (in forma scenica) l’opera viene data in una specie di anteprima (in forma di concerto) a Firenze, non nella natìa Pergola peraltro, ma nella monumentale OF (la terza ed ultima recita del 15 verrà trasmessa da Radio3). Sotto la guida del Direttore Sebastiano Rolli, quattro dei cinque interpreti canteranno sia a Firenze che a Bergamo, con due diverse orchestre e cori, fiorentini e bergamaschi.
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Il libretto di Felice Romani (che anni prima ne aveva prodotto uno di pari soggetto per Carlo Coccia a Venezia) narra di vicende piuttosto complicate (sennò che melodramma sarebbe?) accadute a Woodstock (no, gli hippy non c’entrano, qui siamo in Inghilterra, l’America era ancora di là da venire!) nel lontano secolo XII, in un maniero dell’allora Re Enrico II. Costui, uno sciupafemmine degno antesignano del più famoso ottavo della serie, se la fa, sotto il falso nome (e te pareva...) di Edegardo (che sarebbe poi Edgardo in romanesco) con la bella Rosmonda (che per parte sua si innamora perdutamente di lui, ignorandone la vera identità) cornificando alla grande la nobile Leonora di Guienna e meditando il divorzio da quest’ultima.

Come sempre (o spesso, nei melodrammi perlomeno) accade, c’è qualcosa che va storto ai Re fedifraghi: capita che il giovane (Arturo) cui il Re incautamente affida in custodia segreta Rosmonda, mentre lui è occupato in una delle solite e noiose guerre con l’Irlanda, abbia non uno, ma ben due buoni motivi per sputtanarlo di fonte alla moglie: il primo è che lui, povero orfanello, deve proprio a Leonora la sua sopravvivenza, ed è quindi in debito di riconoscenza verso la Regina, cui rivela la tresca; il secondo è che lui è a sua volta innamorato stracotto di Rosmonda!

Non bastasse, si scopre che il padre di Rosmonda è tale Clifford, il vecchio tutore del Re, che appena scopre la tresca non esita a rampognare il suo sovrano (ed ex-pupillo) ingiungendogli di lasciare l’amante (che ancora ignora essere la figlia, dalla quale si era dovuto separare perchè furbescamente spedito dal Re in una missione diplomatica) per tornare alla mogliettina fedele, e ottenendo il permesso di incontrare la donna oggetto di adulterio per indurla al pentimento. Quando poi scopre trattarsi della figlia abbiamo una prolungata scena madre: Clifford svela a Rosmonda, che se ne dispera, l’identità dell’amante, che puntualmente arriva e conferma le sue intenzioni di sposarla e di scacciare Leonora. La quale a sua volta sopraggiunge e così abbiamo un parapiglia perfettamente adatto a reggere il grandioso concertato del finale primo!

Enrico insiste nel suo disegno (sbarazzarsi della moglie e sposare Rosmonda) ma Leonora si mostra tutt’altro che arrendevole e pare ben decisa a non farsi divorziare dal marito, al quale – durante un epico scazzo – rammenta che lui, insignificante Duca di Normandia, deve proprio a lei e al suo prestigio internazionale la sua ascesa al trono. Per di più gli manifesta immutato amore (!?)

Leonora ha un piano, che Clifford approva ed espone alla figlia: verrà spedita in Aquitania, sposata ad Arturo (che esulta per l’insperato regalo!) Rosmonda preferirebbe il convento (dopo Edegardo-Enrico lei non può amare altri uomini) ma alla fine cede ed accetta. Però poi è talmente ingenua da tradirsi involontariamente proprio con Enrico, che le ha appena annunciato di volerla far Regina. 

La situazione precipita: mentre attende il momento della partenza, Rosmonda è raggiunta da Leonora, che la accusa di aver deliberatamente fatto fallire il suo piano (al fine di sostituirla sul trono) e, armata di pugnale, è decisa a liberarsi di lei. Ma poi, impietosita dalle attestazioni d’innocenza della rivale, pare quasi orientata a risparmiarla. Senonchè in quel preciso momento arrivano Enrico e i suoi per sventare il suo piano, così Leonora trafigge Rosmonda e può proclamare in faccia al marito: Trema, Enrico! Io regno ancor! (Qui chiude il libretto originale, ma... ci saranno delle sorprese.)
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Beh, insomma, non sarà un libretto all’altezza delle opere della trilogia Stuart, ma non è nemmeno da buttare. Va detto che quattro dei cinque personaggi hanno un’identità storica ben precisa: Henry II, Eleanor of Aquitaine, Rosamund Clifford e suo padre Walter (e anche Woodstock è un luogo ben preciso nell’Oxfordshire). Solo Arturo è un’invenzione del librettista, al quale serviva per romanzare la vicenda: storicamente non è per nulla accertato, tutt’altro, che Rosamund sia stata eliminata da Eleanor: lo tramandano soltanto alcune tradizioni popolari. E in realtà pare che il Re e l’amante abbiano convissuto addirittura per 10 anni, avendo forse pure un paio di figli, prima della morte di lei, appena 26enne.
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Quanto alla musica, il suo livello spiega a fatica la collocazione dell’opera fra le minori di Donizetti, e meno ancora giustifica il letargo secolare che l’ha colpita: la struttura drammaturgica è assai solida, pochi sono i cali di tensione e i diversi numeri (solistici o di gruppo) sono di ottima fattura. Come ad esempio l’aria d’esordio di Rosmonda Perchè non ho del vento l’infaticabil volo? seguita dalla cabaletta Torna, ah! Torna, o caro oggetto, che verranno da Donizetti riciclate (complice la Fanny Tacchinardi-Persiani, prima Rosmonda a Firenze) nientemeno che al posto di Regnava nel silenzio (!) dapprima nelle rappresentazioni veneziane della Lucia del 1837, poi nella versione francese della Lucie (Que n'avons-nous des ailes? e Toi par qui mon coeur rayonne).

Ci sono anche due numeri, per così dire, contestati, nel senso che non si trovano nel libretto uscito in occasione della prima dalla stamperia Fantosini di Firenze. Si tratta di una nuova cabaletta di Leonora (Ti vedrò, donzella audace, nella seconda scena - con Arturo - in sostituzione di Sì, ti leggo in cor) e del finale dell’opera (Tu! spergiuro, disumano) cantato da Leonora e coro. Queste varianti si trovano nella partitura manoscritta di pugno dell’Autore, scovata a San-Pietro-a-Majella nei primi anni ’70 dello scorso secolo da parte di Patric Schmid, co-fondatore di OperaRara, scomparso nel 2005, il quale le ha poi presentate in esecuzioni pubbliche e in registrazione (1975 e poi 1994). Va ricordato che l’opera avrebbe dovuto essere rappresentata (ma non è certo che lo fu) a Napoli nel 1837, con il titolo Eleonora di Gujenna, il che probabilmente spiega la presenza del manoscritto nel locale Conservatorio. In attesa di ascoltarla dal vivo, ci possiamo gustare la registrazione del 1994 di OperaRara con la Fleming.

(1. continua)

03 ottobre, 2016

La Semiramide al Maggio, ovvero la “tagliata alla fiorentina”


Ieri pomeriggio terza e penultima recita di Semiramide all’OF, per l’occasione piacevolmente presa d’assalto da un pubblico tanto folto quanto entusiasta (il che è già di per sè un bello spettacolo...)

Semiramide è opera di lunghezza... wagneriana (intonsa tocca come nulla le 3 ore e 3/4 nette) e per questo spaventa chi la deve allestire ancor più di chi la va ad ascoltare (personalmente vorrei che di ore ne durasse cinque o sei, tale è la grandezza della musica!) Così capita quasi sempre che venga fatta oggetto di tagli più o meno corposi e più o meno giustificati. Firenze non ha fatto eccezione con potature che saranno pure, come si usa dire, di tradizione, ma alcune purtroppo intaccano componenti non proprio marginali dell’opera e qualche piccolo o medio danno alla drammaturgia e all’equilibrio complessivo lo arrecano. Sarebbe come rimuovere dalla facciata del Duomo di Firenze le nicchie con relative statue e le raggiere dei rosoni e dal campanile le colonnine che impreziosiscono bifore e trifore: certo, il Duomo resterebbe lì in tutta la sua imponenza, ma insomma...

Tanto per essere esageratamente pignoli, ecco il menu completo (rilevazione – spartito Ricordi alla mano - dalla prima radiotrasmessa il 27) della tagliata fiorentina (stra-smile!) Nel primo atto abbiamo le seguenti cassazioni:
- N°1 (Coro di apertura): tutta la sezione Dal Gange aurato alla fine; poi (esordio Idreno): seconda delle tre ripetizioni del verso Un costante e vivo amor; poi (esordio Assur): seconda delle tre ripetizioni del verso La Regina sceglierà; poi (terzetto Assur-Idreno-Oroe, A quei detti): la prima parte di Oroe; poi (Coro Ah! Ti vediamo ancor): ripetizione di In lei, elementi dei; poi (insieme Ah già il sacro fuoco è spento): prima esposizione di Trema il Tempio, infausto evento;
- Tutto il recitativo dopo il N°1 (da Oh tu, de’ Magi fino all’ingresso di Arsace);
- N°2: brevissimo recitativo dopo la cabaletta di Arsace (Ministri, al gran Pontefice);
- N°4 (Aria di Idreno): dalla ripresa di Ah! Dov’è, dov’è il cimento fino alla cadenza conclusiva (che ognora Idreno adorerà);
- Breve recitativo di Azema dopo il N°4 (Se non avesse e meritasse Arsace);
- N°5: nell’Introduzione strumentale si salta il controsoggetto, da metà della battuta 7 a metà della battuta 23 (delle 31 totali);
- Recitativo dopo il N°5: tagliato dalla frase di Semiramide E voi dunque approvate, fino a Va’, Mitrane; poi da Oroe, co’ Magi fino all’entrata di Arsace; poi da Io ne conosco già la fè fino a inizio cantabile (Serbami ognor);
- Tutto il recitativo dopo il N°6 (Oroe dal tempio nella reggia?);
- N°7: soppresso il Coro di Magi (E dal ciel placati, o numi); poi (Coro finale Atto I): tagliata la ripetizione di Atro evento...

Nell’Atto II spariscono:
- Breve recitativo introduttivo di Mitrane (Alla reggia d’intorno cauto);
- Recitativo Semiramide-Assur: da A me restava allor un figlio, fino a inizio duetto;
- N°8 (Duetto Semiramide-Assur): ripetizione di Ah! Senti! Questa gioja! fino alla stretta conclusiva del duetto;
- N°9: dalla quinta battuta del Preludio, eliminato il Coro di Magi, fino all’ingresso di Arsace (Ebben, compiasi omai); poi la frase di Oroe Gli empi conosci omai... è il tuo dover e la risposta di Arsace (Ah tu gelar mi fai); poi (Arsace e Coro) l’interiezione fra le due ripetizioni di Al gran cimento;
- N°10 (Idreno-Coro): seconda delle tre ripetizioni del verso S’abbandoni il vostro cor;
- N°11 (Semiramide-Arsace): ponte e ripetizione di Tu serena intanto il ciglio;
- N°12 (Coro Oroe dal tempio uscì): soppressa la frase Sull’Assiria al nuovo dì fino a Non v’è soglio più per te;
- Recitativo dopo il N°12 (Mitrane);
- N°13: Coro di Magi (Un traditor con empio ardir) soppresso fino ad entrata di Arsace (Qual densa notte);
- N°13: soppresso il resto della scena da Il vostro Re mirate fino al Coro finale.  

Mi limito a commentare lapidariamente solo l’ultimo dei tagli: semplicemente da denuncia penale!

Domanda: ma ne vale davvero la pena? Per quale pro? Accorciare i tempi di circa 15 minuti su 225? (ma allora perchè non fare le cose in grande e, già che ci siamo, tagliarne 30 o 45 di minuti, tornando alla barbarie della pre-renaissance...?) Oppure risparmiare un po’ di fiato ai cantanti e fiato e fatica agli orchestrali? Mah...

Vengo ai protagonisti, cominciando ovviamente da madre e figlio. Che devo dire hanno cantato assai bene, corrette in tutti i passaggi, particolarmente nelle impervie fioriture (originali e/o predisposte all’uopo). Purtroppo sia Pratt che Santafé mi paiono, come dire, fuori-ruolo, avendo voci congenitamente assai più leggere di quanto non servirebbe per i due personaggi. Pratt trasporta spesso e volentieri dei passaggi (o singole note) all’ottava superiore; nel Bel Raggio si permette addirittura un paio di MI sovracuti, staccati perfettamente e che le procurano un diluvio di applausi, poi nel Giuri ognuno sale in agilità ad un MIb ghermito approssimativamente. Tutte note che Rossini si era ben guardato dallo scrivere, conoscendo alla perfezione i limiti della mogliettina, che mai e poi mai ci sarebbe potuta arrivare. La sua è quindi una Semiramide assai lirica ma assai meno drammatica, ecco. Idem per il contralto, che in effetti è un mezzo (adatto più per Azema che per Arsace?)  

L’Idreno di Gatell ha mostrato buone (e riconosciute) qualità, apparendo abbastanza omogeneo su tutta la gamma, con qualche affanno sugli acuti (il RE, scritto in partitura, questo, uscito un po’ sporco) nella sua prima aria. Inspiegabile pertanto (o sospetto) il taglio apportato al medesimo numero. Cionondimeno si è avuto un lungo applauso dopo l’aria con cui saluta tutti, dove tocca un bel SI (non scritto).

Palazzi è un più che discreto Assur, voce sempre ben impostata, con qualche affanno però sui diversi FA sopra il rigo, dove perde chiaramente potenza e si fa sommergere da coro e orchestra (vedi la chiusa della sua grande aria nel finale).

Gli altri (Tsybulko, Lee, Giovannini e Langella) su standard appena accettabili, così come il coro di Fratini (relegato in buca, faccia al palco e dietro al Direttore, per discutibili prescrizioni ronconiane) anch’esso gratificato di sconti da saldi di fine stagione...

Benino l’Orchestra, non indenne da svirgolamenti di corni e da qualche attacco approssimativo, e malino (malissimo per parte del pubblico) il Direttore Walker. Costui si è preso una serie di buh al rientro e poi è stato sommerso di improperi – unico dell’intera compagnia - all’uscita finale. Io sono di bocca buona e gli rimprovero una certa erraticità nello stacco dei tempi, spesso fin troppo compassati e talvolta eccessivamente stretti (il coro finale davvero incredibile: ci mancava solo che invece di Vieni Arsace cantassero Vecchio scarpone...) Anche le dinamiche non sempre erano a posto... però bisogna riconoscere che pilotare fino al porto un transatlantico (pur alleggerito) come questo non è comunque cosa da poco.
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Ronconi. Parlar male dei morti, lo so, non sta bene... ma quando ce vo’, ce vo’! poi era ancora vivo nel 2011 quando inventò questa genialata per il SanCarlo. Lui, come tutti i grandi, fa grandi anche le... cazzate, come questa messinscena davvero inaccettabile (per me, ovviamente).

Dico, va bene che Semiramide è un soggetto pieno zeppo di problematiche assai cupe: lei con i continui sensi di colpa, Assur frustrato per non riuscire a raggiungere il potere, Arsace disperato che vede sfumare sul più bello l’amore della sua vita, Oroe che sfoga le sue clericali inibizioni abbeverandosi di sangue... Però, accidenti, l’ambiente immaginato da Rossi-Rossini è quello della Babilonia fiorente, prospera, ricchissima e viziosa, proprio come la stessa Regina l’aveva modellata dopo aver fatto secco il marito che la stava ripudiando! E i numerosi cori che (se non vengono brutalmente tagliati) costellano l’intero svolgersi della vicenda sono proprio lì a mostrarcene la magnificenza e la gloria. Ed è precisamente il contrasto fra l’euforia dell’ambiente esterno e lo strazio che abita le anime dei protagonisti a rendere mirabile l’intero impianto estetico dell’opera, grazie ai suoni di cui Rossini l’ha rivestito.

Ronconi? Mentre il coro vero canta (per quel che gli lasciano cantare) la sua felicità restando invisibile, noi che vediamo sulla scena? Mura diroccate e catacombe dalle quali fuoriescono ospiti di un lebbrosario: mammamia!

Non aggiungo altro per non incappare nel reato di vilipendio di cadavere, ecco.
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Che dire, al tirar delle somme? Un’occasione sprecata.

01 ottobre, 2016

La Scala si fa un bel giro di vite

 

La Scala sta ospitando una delle opere più affascinanti di Benjamin Britten: The turn of the screw, arrivata ieri alla quinta delle sette rappresentazioni. Come personalmente io vedo i tratti fondamentali dell’opera, anche in relazione al racconto ispiratore di James, ho già avuto modo di esprimerlo anni fa, in occasione di un allestimento veneziano, e a quel commento rimando le falangi (?!) dei curiosi.

Parto dalla prima scena del second’atto (occupata dall’incontro fra i due fantasmi e chiusa dalla sconfortata confessione dell’Istitutrice) che ha il suo culmine nella famosa esternazione di Quint (poi di Jessel e quindi di entrambi): The ceremony of innocence is drowned:
   

Non viene per nulla da James, ma è un verso preso di peso da una poesia di William Butler Yeats del 1919 (The second coming, Il Secondo Avvento) scritta subito dopo la Grande Guerra e la Rivoluzione d’Ottobre, che erano stati eventi di inaudita ferocia (il primo) e di violenta sovversione (il secondo):

William Butler Yeats - 1919
Turning and turning in the widening gyre 
The falcon cannot hear the falconer;
Things fall apart; the centre cannot hold;
Mere anarchy is loosed upon the world,
The blood-dimmed tide is loosed, and everywhere
The ceremony of innocence is drowned;
The best lack all convictions, while the worst
Are full of passionate intensity.

Girando e girando nella spirale che si allarga
il falco non può udire il falconiere;
le cose cadono a pezzi; il centro non può reggere;
pura anarchia dilaga sul mondo,
l’onda intorbidata di sangue dilaga, e ovunque     
il rito dell’innocenza viene sommerso;
nei migliori manca ogni fede, mentre i peggiori
sono colmi di fervente ardore.

Yeats ci vedeva il prevalere dei peggiori istinti bestiali (oggi si incarnano nell’ISIS, per dire) sui sani principii (l’innocenza) che dovrebbero governare le civiltà umane. Nel libretto della Piper il concetto (evidentemente condiviso e magari suggerito da quell’anti-militarista-obiettore-di-coscienza che rispondeva al nome di Britten) viene trasportato a livello privato: i fantasmi Quint&Jessel sono i peggiori, ma dotati di spietata decisione, mentre i migliori (l’Istitutrice) hanno perso ogni fiducia nel bene (Persa nel mio labirinto, non vedo alcuna verità, su di me incombono solamente le pareti nebbiose del male, confessa la poveretta).  

Questo rapporto di sopraffazione dei cattivi sulla buona viene dal regista Kasper Holten proposto lungo l’intero corso della storia, ma smaccatamente mostrato all’inizio del second’atto, proprio nella scena in cui si proclama che il rito dell’innocenza viene sommerso. L’Istitutrice, che già di suo è preda di oniriche visioni da incubo, si ritrova ai suoi fianchi, nel letto, i due fantasmi che, appunto, la sommergono con le loro tentazioni.

È questo certamente il momento-clou della messinscena di Holten, tutta incentrata sulle turbe psichiche dell’Istitutrice, che diventa paradossalmente la cattiva della situazione, facendo prima ammattire Flora e spingendo poi Miles al suicidio: a proposito l’ultima scena mi è parsa davvero... spropositata, con il ragazzo che urla Peter Quint, you devil! proprio abbaiando contro l’Istitutrice, per poi correre a buttarsi dal secondo piano per sfracellarsi al suolo, dove verrà raccolto in una pozza di sangue dalla povera schizofrenica... Mah!

Avendo dato la priorità alla schizofrenia dell’Istitutrice, vengono fatalmente messi in secondo piano gli aspetti che verosimilmente stavano più a cuore a Britten: non è un mistero che il compositore fosse particolarmente e in primo luogo interessato a presentarci la problematica legata ai rapporti fra adulti e adolescenti (con annesse implicazioni omosessual-pedofile); problematica assai più scabrosa di quella legata alla labilità psichica di una donna chiaramente impreparata ad affrontare certi compiti e quindi facilmente suggestionabile. Insomma: nel soggetto di Piper-Britten il piccolo Miles deve essere stato vittima delle vessazioni materiali di un adulto maschio vivo (poco importa che poi torni o no da morto...) e non delle paranoie di una donnicciuola bigotta e inesperta di tutto (massimamente di sesso). Non altrimenti si spiega come Miles, assai prima dell’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato cacciato dalla scuola a causa di suoi comportamenti irriferibili, ma chiaramente spiegabili soltanto con la frequentazione di cattive compagnie... E che il rapporto Flora-Jessel, pur esso preesistente all’arrivo dell’Istitutrice, fosse stato tutt’altro che limpido ce lo confermano le parole della governante quando narra dei vaneggiamenti onirici della piccola, e si convince a portarla via da quella casa.

E poi che i fantasmi (come minimo quello di Quint) non siano soltanto proiezioni della psiche alterata dell’Istitutrice ce lo conferma un indizio assai scoperto: dalla sommaria descrizione che l’Istitutrice medesima fa della persona comparsale davanti già due volte (e mai vista prima) Mrs.Grose decifra senza alcuna esitazione l’identità di Peter Quint! Dopodichè vuota il sacco su una serie di fatti e comportamenti riprovevoli di cui lei stessa era stata testimone, protagonisti Quint e Jessel.

Ecco quindi che un aspetto fondamentale del soggetto originale qui viene messo in secondo piano, poichè continuamente schermato dalla presenza ingombrante e soffocante dell’Istitutrice e della sua psiche malata: ne è chiaro esempio la scena finale del primo atto, al centro della quale vi è proprio l’Istitutrice, che pare quasi telecomandarla (o magari immaginarla in sogno) invece di sopraggiungere solo a cose fatte (gli abboccamenti fra i due fantasmi e i due fanciulli). 

Insomma, una lettura, quella del regista danese, a mio modo di vedere troppo sbilanciata sul versante freudiano, che rappresenta una parte, ma non il tutto del racconto di James e ancor meno centrale (per quanto rilevante) è nel libretto dell’opera.

Vanno apprezzate le scene, con la suddivisione dello spazio in celle di dimensioni diverse: due grandi, sovrapposte, che occupano il centro e il lato sinistro del palco, e traslano in verticale per scoprire o far scomparire un sotterraneo (ambientazione del lago) che comunica con il salone del maniero attraverso una scala a chiocciola; e tre piccole sovrapposte e fisse sul lato destro, che rappresentano le camere dei due piccoli e della governante. Così diventa efficace mostrare al pubblico anche quei personaggi (i fantasmi) che spesso devono essere invisibili agli altri protagonisti. Inoltre, la chiusura alla vista, ottenuta con pareti mobili, consente al regista di zoomare quando necessario su una sola (o alcune) delle celle.

Costumi e luci contribuiscono a creare efficacemente le ambientazioni delle diverse scene: certo, gli aspetti (pur non trascurabili, anche perchè magistralmente sottolineati dalla musica) legati alla natura (il tramonto, il lago...) vengono qui totalmente ignorati, in un bianco&nero permanente e soffocante. Qualche eccesso, come il già citato suicidio di Miles, e un manichino (? della governante?) che pende impiccato dal soffitto durante il Prologo si potevano evitare, credo.
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Ottime notizie sul fronte dei suoni, dove i magnifici 13 strumentisti della Scala, tutti di fatto dei solisti in questa partitura da camera, si meritano un encomio per l’accuratezza della loro esecuzione. Christoph Eschenbach li ha guidati con la sua proverbiale e maniacale attenzione ad ogni dettaglio: molto opportuna quindi la loro apparizione finale sul palcoscenico, a prendersi i meritati applausi insieme ai protagonisti vocali, tutti indistintamente da lodare, grandi e soprattutto piccoli!   
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Ultima nota (dolente): pubblico scarso e smagritosi ulteriormente all’intervallo; captati qua e là commenti irriferibili sull’inclusione di questo titolo nel programma in abbonamento. Che dire? In questi casi torna sempre e invariabilmente la nostalgia per la cara Piccola Scala (ambiente semplicemente perfetto per questo tipo di rappresentazioni) e la rabbia per la fine che le è toccata... amen.  

30 settembre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°28


Ancora e sempre Russia (non sovietica, però...) in Auditorium, con il gradito doppio ritorno del sempre più convincente Stanislav Kochanovsky e della russo-tedesca Lilya Zilberstein in un programma tutto dedicato a Rachmaninov.

Meglio sarebbe dire: ai due Rachmaninov. Che sono quasi due compositori diversi, divisi da quel drammatico evento (il clamoroso fiasco proprio della sua Prima Sinfonia, che si ascolta in chiusura del concerto) che gettò Rachmaninov in uno stato di prostrazione tale da sconvolgerne l’esistenza e poi – una volta rimessosi in sesto grazie alle cure di un... medico dei matti – lo portò a riprendere il cammino artistico su una strada praticamente opposta a quella (di apertura e modernità) che aveva cercato di imboccare prima del fattaccio. Una strada tutta rivolta indietro verso l’800, proprio mentre la musica, nel ‘900, imboccava sentieri magari impervi e pericolosi, ma sicuramente innovativi.  

E una delle pietre miliari della sua produzione post-crisi è proprio il famigerato Rach3 che si ascolta in apertura del concerto. Sulla cui sostanza mi ero già dilungato circa tre anni fa in occasione di un’esecuzione di Colli-Temirkanov, e perciò rimando i curiosi a quel commento.

La Zilberstein (qui una sua performance di 13 anni orsono con Frühbeck-DeBurgos agli Arcimboldi-Scala, preceduta da alcune sue interessanti esternazioni) ne dà una lettura proprio carica di quel (tardo)romanticismo che impregna questa partitura, fin dall’attacco dolente del primo tema. Splendidi i virtuosismi della cadenza (la prima e più corposa delle due originali) mentre qualche rara svirgolata nei tremendi passaggi a otto (!) tasti da toccare contemporaneamente non ha intaccato una prestazione di eccellenza, accolta trionfalmente da un pubblico tornato a livelli delle grandi occasioni, dopo la... vacanza della scorsa settimana. Niente bis (ma lei non ne concede spesso) anche perchè la fatica spesa in questo estenuante concerto si leggeva chiaramente sul suo volto.
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Dopo l’intervallo, ecco la sfortunata Prima, sulla quale avevo scritto alcune note nel marzo 2013, a fronte di un’esecuzione di Noseda alla Scala. Sarà pure acerba fin che si vuole, anche velleitaria (ci si sentono Ciajkovski, Scriabin, vi si anticipa persino Mahler) ma è musica davvero diversa, il cui solo peccato (ebbrezza alcolica di Glazunov a parte) fu probabilmente quello di essere fin troppo originale (per l’anno di grazia 1897) se ancor oggi ci appare ostica ed enigmatica da decifrare, ma proprio per questo interessante.

Kochanovsky l’ha diretta con grande profondità, mettendone proprio in risalto tutti i pregi e difetti, senza attenuarne le grossolanità e i momenti di retorica, che però non oscurano un disegno complessivo di tutto rispetto: insomma, siamo di fronte ad un frutto ancora acerbo ma, invece di farlo maturare, purtroppo l’albero si metterà a produrre frutti direttamente... passati, ecco.

Grande prestazione dei ragazzi dell’orchestra (ieri guidati da Dellingshausen) davvero in stato di grazia, in tutte le sezioni. 

26 settembre, 2016

A Firenze si aspetta Semiramide. (2)


Archiviata la questione, più o meno rilevante, concernente il processo di derivazione del libretto di Semiramide dalla Sémiramis di Voltaire, proviamo ad avvicinarci, dalla crosta e relative incrostazioni, alla polpa musicale di quest’opera, che è quanto mai succosa e appetibile.

Ci soccorre l’ascolto di una rappresentazione - praticamente integrale - diretta in quel di Liegi nell’ormai lontano 2001 dal venerabile Alberto Zedda alla testa di Orchestra e Coro dell’Opéra Royal de Wallonie e con una compagnia di canto di tutto rispetto: Darina Takova (Semiramide) – Ewa Podleś (Arsace) – Rockwell Blake (Idreno) – Boris Martinovich (Assur) – Léonard Graus (Oroe) – Laure Delcampe (Azema) – Laurent Koehl (Mitrane) – Roger Joakim (Nino).

Lo schema sottostante riassume con un certo dettaglio la struttura dell’opera, suddivisa nei suoi numeri e nelle relative componenti formali. Si noti che tutti i recitativi (che normalmente separano i diversi numeri) sono sempre accompagnati, ed in effetti non si distinguono quasi più, musicalmente, da ciò che si indica come scena (che in un certo senso è l’antesignano della melodia infinita che nel Wagner post-Lohengrin, da parte, diventerà tutto).

atto-n°
forma
personaggi
minutaggio - contenuto
Sinfonia



Introduzione
Allegro vivace
RE maggiore
20”

Andantino
54”
Esposizione
Allegro
1° tema – RE magg.
4’41”


2° tema – LA magg.
6’28”

crescendo (a)
LA maggiore
6’57”

crescendo (b)
7’16”
Ripresa
Allegro
1° tema – RE magg.
8’36”


2° tema – RE magg.
10’24”

crescendo (a)
RE maggiore
10’53”

crescendo (b)
11’11”
Atto I



1. Introduzione
Scena
Oroe
13’08” Sì... Gran Nume

Coro
Popolo
15’56” Belo si celebri

Tempo d'attacco
Idreno–Coro-Assur
19’30” Là dal Gange

Tempo di mezzo
Assur
22’53” La mia fede

Stretta
Assur-Idreno-Oroe
23’30” A quei detti

Coro
Popolo
25’19” Ma di plausi

Quartetto
Oroe-Semiramide-Idreno-Assur
27’21” Di tanti regi

Tempo di mezzo
Assur-Semiramide-Idreno-Oroe-Coro
30’46” Regina, all’ara

Stretta
Tutti
32’16” Trema il tempio
Recitativo

Semiramide-Oroe-Idreno-Assur
36’01” O tu de’ Magi
2. Arsace
Preludio

39’57”
 
Scena
Arsace
42’34” Eccomi alfine

Cantabile
45’31” Ah! quel giorno

Cabaletta
48’01” Oh! come da quel dì
Recitativo

Oroe-Arsace-Assur
52’11” Io t’attendeva
3. Duetto
Tempo d'attacco
Arsace-Assur
56’34” Bella imago

Cantabile
1h00’09” D’un tenero amor

Tempo di mezzo
1h03’08” Io tremar?

Cabaletta
1h04’08” Và, superbo
4. Aria Idreno
Scena
Azema-Idreno
1h07’57” O me felice!

Cantabile
Idreno
1h09’40” Ah dov’è

Cabaletta
1h13’09” E se ancor libero
Recitativo

Azema
1h17’25” Se non avesse
5. Semiramide
Coro
Donne
1h17’52” Serena i vaghi rai

Cantabile
Semiramide-Donne
1h21’33” Bel raggio lusinghier

Cabaletta
"
1h24’45” Dolce pensiero
Recitativo

Semiramide-Mitrane-Arsace
1h28’36” Non viene ancor
6. Duettino
Cantabile
Semiramide-Arsace
1h33’11” Serbami ognor

Cabaletta
Semiramide-Arsace
1h37’27” Alle più care immagini
Recitativo

Assur-Oroe
1h41’30” Oroe dal tempio
7. Finale I
Coro
Popolo
1h43’53” Ergi ormai

Scena
Semiramide - tutti
1h49’15” I vostri voti

Tempo d'attacco
"
1h55’49” L’alto eroe

Marcia funebre
Tutti
1h59’58” Qual mesto gemito

Tempo di mezzo
Semiramide-Assur-Idreno-Arsace-Nino
2h05’13” D’un semidio

Stretta
Tutti
2h08’40” Ah! sconvolta
Atto II



Recitativo

Mitrane-Semiramide-Assur
2h12’10” Alla reggia d’intorno
8. Duetto
Cantabile
Semiramide-Assur
2h16’12” Se la vita ancor

Tempo di mezzo
2h20’13” Quella ricordati

Cabaletta
2h25’41” La forza primiera
9. Ninia
Preludio

2h28’14”  

Coro
Magi-Oroe
2h30’21” In questo augusto

Scena
Arsace-Oroe
2h33’31” Ebben, compiasi omai

Cantabile
Arsace
2h35’33” In sì barbara sciagura

Tempo di mezzo
Oroe-Magi
2h38’39” Su, ti scuoti

Cabaletta
Arsace-Oroe-Magi
2h39’49” Tu ridesti il mio valore

Tempo di mezzo
Arsace
2h40’28” Ah! È mia madre

Cabaletta
Magi
2h41’14” Al gran cimento

"
Arsace-Oroe-Magi
2h41’48” Vendicato il genitore
Recitativo

Mitrane-Azema-Idreno
2h44’50” Calmati principessa
10. Aria Idreno
Cantabile
Idreno
2h46’59” La speranza più soave

Tempo di mezzo
Idreno-Coro
2h49’08” Tu mia sposa

Cabaletta
"
2h51’11” Sì, sperar voglio
Recitativo

Semiramide-Arsace
2h54’52” No, non ti lascio
11. Duetto
Tempo d'attacco
2h57’50” Ebbene... a te

Cantabile
3h03’30” Giorno d’orrore

Tempo di mezzo
3h08’37” Madre, addio

Cabaletta
3h09’34” Tu serena intanto
12. Aria Assur
Preludio

3h13’01”  

Scena
Assur
3h15’50” Il dì già cade

Coro
Satrapi
3h17’37” Ah! La sorte ci tradì

Tempo d’attacco
Assur
3h20’13” Sì, vi sarà vendetta

Cantabile
3h21’33” Deh! ti ferma

Tempo di mezzo
Satrapi-Assur
3h25’00” Ah! Signore! Assur!

Cabaletta
Assur-Satrapi
3h26’32” Que’ Numi furenti
Recitativo

Mitrane
3h28’31” Oh nero eccesso!
13. Finale II
Preludio

3h29’34”   

Coro
Magi
3h31’19” Un traditor

Scena
Arsace-Oroe
3h34’42” Qual densa notte

Assur
3h36’14” Fra questi orrori

Semiramide
3h36’49” Già il perfido discese

Preghiera
3h37’46” Al mio pregar

Scena
Arsace-Assur-Semiramide
3h40’50” Dèi! qual sospiro

Terzetto
3h41’21” L’usato ardir

Scena
Oroe-Assur-Arsace-Semiramide
3h43’48” Ninia, ferisci

Coro
Tutti
3h46’37” Vieni Arsace

L’architettura dell’opera – almeno nella sua versione integrale – presenta proporzioni pressochè perfette: dopo la corposa Sinfonia vi si collocano tre colonne portanti: l’Introduzione e i due Finali. Le quali incastonano due gruppi di 5 numeri (per ciascuno dei due atti) articolati per lo più secondo quella che prenderà poi il nome di solita forma: scena, tempo d’attacco, cantabile, tempo di mezzo, cabaletta (si noti: una forma mai stucchevolmente e pedestremente ripetuta, ma di volta in volta adattata allo scenario drammaturgico da sostenere). Abbiamo quindi una macro-struttura così rappresentabile (tempi riferiti sempre alla citata esecuzione di Zedda):



Come si vede, una costruzione dal mirabile equilibrio, che viene fatalmente alterato ogni volta (e capita purtroppo assai spesso) che si praticano alla partitura tagli più o meno barbari e con i più diversi pretesti. 

Rossini, dopo averla sostituita con semplici preludi, nel suo periodo napoletano, ritorna per l’occasione alla sinfonia, e che Sinfonia! È sempre in forma-sonata-senza-sviluppo, ma è un vero e proprio gioiello, e in più presenta almeno quattro motivi che ricompariranno in diverse scene dell’opera, della quale quindi non è una semplice e posticcia introduzione, avulsa dal contesto (vedi quella dell’Aureliano poi disinvoltamente appiccicata ad Elisabetta e quindi al Barbiere) ma una parte assolutamente integrante. L’Andantino dell’Introduzione lo ritroviamo infatti nella scena di Semiramide del Finale I (I vostri voti omai). Il primo tema compare reiteratamente nella prima parte del Finale II; il crescendo(a) torna nella cabaletta del N°9, mentre il crescendo(b) sottolinea il duetto Semiramide-Arsace del primo atto.

Rossini non rinuncia ai suoi tradizionali imprestiti: nella prima aria di Idreno (E se ancor libero) affiora un inciso (Più fida un’anima) che viene dai palpiti del Tancredi; nel recitativo di Assur-Oroe (Oroe dal tempio) fa capolino un motivo che Rossini aveva scritto per la Sinfonia de La Gazzetta (poi riciclata in Cenerentola). Nel coro dei Satrapi (Ah! La sorte ci tradì) par di sentire l’Introduzione a La donna del lago e poi un’anticipazione dell’atmosfera solenne del finale del Tell... e a proposito della Donna, come non avvertire la somiglianza fra il quartetto Di tanti Regi e Oh! Mattutini albori di Elena.

Insomma, sono 3 ore e 3/4 di grande musica, senza un solo attimo di caduta di tensione, che fanno passare in secondo piano le accuse di passatismo barocco (per via delle mirabolanti fioriture del canto) e le critiche di personaggi anche famosi (Stendhal e Bacchelli, per citarne un paio) che trovarono l’opera – bontà loro - sgradevole o addirittura noiosa!
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Domani 27, ore 20, la prima in diretta su Radio3. Più avanti le mie impressioni dal vivo.
(2. continua)