ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

24 settembre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°27


Dopo un paio di concerti dal taglio ultra-tradizionale, eccone uno invero fuori dagli schemi. È anch’esso, come il precedente, focalizzato su un singolo autore russo, Shostakovich, di cui presenta opere piuttosto desuete, dirette per di più da un solista di viola che da non molto si sta dedicando anche alle cure del podio, il 38enne Maxim Rysanov: un ragazzone dal fisico di attore, che dirige con... i pugni (sempre meglio che con i piedi, stra-smile!)

Programma che, già abbastanza smilzo in origine, si è poi ulteriormente rattrappito con la scomparsa (non dal libricino di sala) della Jazz-Suite-1.

La prima parte del concerto è occupata dalla Suite dalle musiche dal film del 1955 The Gadfly (Il tafano) approntata (in 12 numeri) dall’amico del compositore Levon Atovmian. Il film, che presenta la storia di un irredentista-carbonaro italiano dell’800, fu tratto da un romanzo di pari titolo della scrittrice irlandese Ethel Lilian Voynich. Costei era figlia di un matematico-filosofo che senza saperlo è diventato responsabile nientemeno che del fantastico sviluppo dell’informatica, grazie al quale oggi possiamo con internet goderci anche la musica di Shostakovich (qui la ascoltiamo diretta da Fedoseyev) senza andare in discoteca o in auditorium, o addirittura guardarci il film originale. Chi era costui? George Boole! Però, resi a Boole i suoi algebrici meriti, ascoltare musica dal vivo è sempre un’altra cosa, diciamo la verità.

I tre brani dell’originale programma avevano qualche vaga relazione fra loro: la Suite for Variety Stage Orchestra (che incorpora diverse musiche preesistenti) presenta come secondo brano (Danza-1) il terzo numero (Festa popolare) della Gadfly, riorchestrato; inoltre il Valzer-2 sembra proprio una derivazione aggiornata e abbellita di quello che apre la Jazz Suite 1. Scomparsa la quale, Rysanov ha però trovato modo per chiarirci il primo dei due legami. Come? Saltando a piè pari la Danza-1 e chiudendo (apparentemente) con soli 7 degli 8 numeri della Suite. Dopodichè si è girato verso la sala spiegando l’arcano, e attaccando, appunto, il numero prima saltato, che ha così chiuso con i dovuti fracassi il concerto.

Insomma, un programma francamente discutibile, la cui esecuzione è però stata gratificata di calorosi applausi da parte di un pubblico di pochi irriducibili...

23 settembre, 2016

A Firenze si aspetta Semiramide. (1)


Fra pochi giorni l’OF metterà in scena (impresa quanto mai ardua!) la rossiniana Semiramide, nell’allestimento del compianto Ronconi presentato nel 2011 a Napoli. E fu proprio in occasione del trasferimento da Napoli verso Parigi e l’Europa, in compagnia della sua Isabella, che Rossini, di passaggio in laguna, dedicò alla città che lo aveva fatto conoscere al mondo la sua opera forse più grande (quanto meno... fino all’arrivo del Tell); opera presentata in prima lunedì 3 febbraio 1823 alla Fenice.

Fu anche l’addio di Rossini al librettista Gaetano Rossi (che gli aveva fornito, sempre a Venezia, 13 e 10 anni addietro) i testi della Cambiale e del Tancredi (due trionfi!) E proprio come Tancredi, anche Semiramide fu ispirata da un’opera di Voltaire del 1748, Sémiramis, tragedia in 5 atti, 1682 versi in rima baciata.


Dramma e... melodramma! A volte si scambiano i ruoli. Cosa c’è di più melodrammatico di un moribondo tenore che, prima di tirare definitivamente le cuoia, si mette a cantare l’aria più strappalacrime dell’intera opera? Avete presente – tanto per citare solo Wagner e Verdi – Siegfried e Otello? Bene, qui succede che nella tragedia di Voltaire la povera (si fa per dire...) Semiramide, già mezza dissanguata per sbaglio da ben due stilettate del pargoletto, dopo aver scoperto l’identità del suo uccisore si produca in un nobile indirizzo per riconoscere la propria antica colpa, dichiararsi meritevole della punizione estrema inflittale e infine congiungere in matrimonio il ritrovato figlio e l’amata Azema, nelle cui mani consegnare il futuro di Babilonia. Rossi-Rossini? Niente, Semiramide trafitta fa appena in tempo ad esalare un Oh dio! e più non emette suono. Tutto assai poco melodrammatico, ammettiamolo. (Per le rappresentazioni parigine del 1825 Rossini rimaneggiò il finale per renderlo più vicino a Voltaire, ma fu un’idea ben presto abbandonata.)

Le deviazioni di Rossi rispetto al dramma di Voltaire non si riducono a questo (del resto lui già aveva manipolato il finale del Tancrède, poi ripristinato per Ferrara dal Lechi) e, almeno a prima vista, pare inspiegabile come un soggetto così mirabilmente strutturato come quello del grande letterato francese si sia potuto trasformare, nelle mani di Rossi(Rossini) in un libretto mediocre, salvato solo dalle sontuose note del pesarese.

Avec Voltaire tout-se-tient: lì abbiamo la coppia di peccatori-criminali (Semiramide-Assur) che si contendono il potere con tutti i mezzi; e la coppia di giovani puliti (Arsace-Azema) che – senza esser mossi dalla minima bramosia di potere – coronano il loro sogno d’amore dopo aver attraversato terribili momenti e ricevono in dono dal destino proprio quel potere che mai era stato fra i loro obiettivi. Una specie di Siegfried-Brünnhilde (del 1848) ante-litteram. In sostanza, un duplice lieto-fine: sul piano pubblico (Ninia che sale sul trono di suo padre, finalmente liberato dall’ingombrante presenza di una spietata uxoricida e del suo bieco sodale) e su quello privato, poichè Arsace può vivere felice e contento con la sua Azema in virtù dell’amore che li unisce e non, come sarebbe accaduto in assenza dell’uccisione di Nino, in forza di una decisione imposta a due infanti ancora in culla! E poi abbiamo tanto di morale-della-favola che il severo ed austero sacerdote Oroe ci propina in chiusura della tragedia: i criminali – soprattutto se potenti - possono magari sfuggire alla giustizia umana, ma non a quella divina. E l’intero svolgimento dei fatti e dei comportamenti di Oroe (ed anche dell’Ombra di Nino) altro non è, a ben vedere, se non una sistematica e quasi scientifica trama divina volta a punire Semiramide e Assur per il loro efferato crimine; non solo, ma a fare in modo che a punire la madre sia proprio il figlio! (quanto ad Assur, per lui basta ed avanza la giustizia umana...)

In Rossi-Rossini - sembra paradossale per un melodramma – la coppia di amorosi (Arsace-Azema) viene invece separata in modo e circostanze a dir poco grotteschi e la conclusione dell’opera ci propone un prosaico e per nulla poetico trionfo della pura ragion-di-stato, perseguita quasi con protervia da un Oroe rappresentante massimo della religione-di-stato. Cosicchè il lieto-fine conserva solamente il risvolto pubblico, chè sul piano privato (leggi: dei sentimenti) il povero Arsace ridivenuto Ninia resta lì tristemente - da solo e senza la persona amata - a (non) godersi il trono: una vita letteralmente rovinata!

Può anche darsi che questo stravolgimento del soggetto sia stato deliberatamente messo in atto da librettista e musicista per manifestare una qualche (più o meno plausibile) critica della società loro contemporanea: una critica alla corsa al potere fine a se stesso, al clima di perenne instabilità (alla faccia di Metternich) dell’Europa di quel tempo, alle lotte sotterranee fra pretendenti a troni e cancellerie. Sta di fatto che ciò che ne è uscito fuori è – sul piano artistico-estetico – un soggetto abbastanza risibile. E non perchè infedele rispetto al riferimento originale: ciò non sarebbe per nulla condannabile e tantomeno illegittimo, tutt’altro, come dimostrano tanti esempi di opere musicali (ciò vale oggi anche per quelle cinematografiche) che dall’infedeltà al modello originale hanno tratto solo vantaggi. Un titolo su tutti: Carmen, che Meilhac-Halévy-Bizet trasformarono da crudo soggetto verista (impensabile da proporsi all’Opéra-comique) in una commedia - anzi quasi un’operetta per più di metà del suo svolgimento - con finale tragico. No, la debolezza del libretto di Rossi sta nella sua farraginosità, conseguente a scelte (magari obbligate, come si vedrà tra poco) che hanno introdotto elementi estranei, fuorvianti e destabilizzanti nel coerente impianto voltairiano.   

Ora, atteso che Rossi e Rossini non fossero gli ultimi arrivati, resta da individuare una plausibile ragione che spieghi i loro interventi decisamente peggiorativi sul testo di Voltaire. Per me esiste una spiegazione squisitamente pratica, attinente a quello che possiamo definire il capitolato tecnico del melodramma ed in particolare alla composizione del cast degli interpreti. Proviamo ad esaminare i personaggi della tragedia voltairiana: vi troviamo la protagonista (Semiramide) che per Rossini non poteva che essere un soprano drammatico (e lui ne aveva sottomano... ehm... sotto le lenzuola... l’esemplare più famoso!); poi abbiamo l’alter-ego di Tancredi, quell’Arsace che perciò viene canonicamente e senza alcuna esitazione affidato al contralto en-travesti. Quindi Azema, la fanciulla contesa fra Arsace e il cattivone Assur (il quale sarà necessariamente un basso): lei sarà, come deciso da librettista e compositore, un mezzosoprano piuttosto leggero (ma alcune edizioni la indicano come soprano); quindi ancora il cupo sacerdote (Oroe) che pure un basso dovrà essere, così come la voce cavernosa dell’Ombra di Nino. Gli altri personaggi di Voltaire (Mitrane, Otane e Cédar) sono dei comprimari, tanto che gli ultimi due vengono bellamente ignorati dal libretto, mentre il primo, che canta in tutto pochi versi, sarà un tenore. Fine del menu.

Ohibò, ma qui ci manca qualcosa, anzi qualcuno di essenziale: il primo tenore, l’amoroso, perbacco! E come si può proporre un’opera che non preveda un ruolo così necessario e insostituibile, ruolo da gratificare come minimo di un paio di arie di quelle toste, oltre che di duetti e terzetti? Ecco quale dev’essere stato lo scoglio, a prima vista insormontabile, per la coppia Rossi-Rossini. E per superare tale scoglio non c’era che una strada: inventare di sana pianta un nuovo personaggio cui affidare la parte del primo tenore! Ma dato che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, ecco che questa decisione ha necessariamente indotto tutta una serie di ulteriori interventi e rabberciamenti del plot, con nefaste conseguenze anche sulla sua valenza e consistenza estetica.

Così ecco arrivare direttamente dal Gange un Re indiano, tale Idreno, che inspiegabilmente (o no, forse no...) invece di concorrere per la mano dell’attempata vedova Regina, si innamora fulmineamente e perdutamente della giovane gnocca Azema, diventandone addirittura il terzo pretendente, dopo il pipistrello Assur e l’eroico Arsace. Questo quadrilatero sentimentale (scenario piuttosto inconsueto, diciamolo pure: mezzosoprano contesa da basso, tenore e contralto!) c’entra con il soggetto dell’opera come i classici cavoli a merenda, salvo servire al Gioachino come pretesto per propinarci qualche minuto (anzi, quarti d’ora!) di grande musica, ecco.

Peccato che il tenore-inventato-di-sana-pianta ben presto diventi un intruso piuttosto ingombrante da gestire: che fine gli facciamo fare? devono essersi chiesti Rossi e Rossini. Annegato mentre si prende un bagno nell’Eufrate? (ma come, uno che viene dal Gange dev’essere un nuotatore provetto...); ammazzato per sbaglio (al posto di Arsace) dal cattivone Assur? (ma quanti omicidi fortuiti devono accadere in una sola opera?) O rispedito d’urgenza in India a fronte di un sms del suo vicerè? 

La soluzione trovata ha davvero del grottesco: e si materializza quando Semiramide annuncia il suo prossimo matrimonio (inconsapevolmente, ancora, incestuoso) con Arsace (che ha la metà degli anni della mammina e comprensibilmente stravede solo per Azema). Ecco che allora Idreno si sente in diritto (essendo nel frattempo anche Assur finito in fuori-gioco) di prendersi lui la bella gnocca. La quale, pora tapina, dopo aver in un primo tempo maledetto persino Semiramide per averle rubato il suo amatissimo Arsace, e mentre i cori già celebrano la felicità della loro unione, pare sottomettersi neanche troppo di malavoglia all’indiano. Ma come fare per renderci più plausibile questo suo non-rifiuto, che fa di lei, ai nostri occhi, una donna piuttosto volubile e leggera (quando invece, in Voltaire, lei vive solo per il suo Arsace)? Ecco: il librettista aveva già preparato per tempo il terreno, facendoci capire come Idreno non stesse poi troppo antipatico alla bella Azema, se è vero che, a fronte della di lui dichiarazione d’amore, lei ci aveva confessato che l’indiano occupava chiaramente la seconda posizione nel suo cuore (!?)

In ogni caso, da lì in poi (non siamo nemmeno a metà del second’atto e mancano ancora più di 50 minuti di musica!) mezzosoprano e tenore (che si è appena esibito in una cabaletta con coro in LA maggiore e magari – se ce la fa – si è pure inventato un paio di DO# sovracuti) svaniscono letteralmente nel nulla, spediti a forza chissà dove in luna di miele. Passi per Idreno, che il suo contributo sindacale all’opera lo ha già doverosamente e ampiamente versato, ma l’uscita di scena, con lui, di Azema si porta dietro altre conseguenze negative (ma anche positive, va detto) e stupide incongruenze.

Fra le prime, ovviamente, è la caduta del ruolo importante che Azema ha nel 4° e 5° atto di Voltaire, dove è lei a spiare e smascherare Assur agli occhi di Semiramide. Rossi qui peraltro inventa la mirabile scena delle visioni e degli incubi che assalgono Assur alla vista della tomba di Nino. Sparisce però (e ciò è di incalcolabile gravità) anche il fondamentale incontro fra Azema e Arsace, che avrebbe potuto ispirare a Rossini nientemeno che un drammaticissimo duetto fra due innamorati travolti da avvenimenti più grandi di loro (Rossi-Rossini decisero quindi di introdurne ex-novo un altro, pure straordinario, ma fra una coppia di... attempati rancorosi: quello Semiramide-Assur che apre il second’atto.) In quell’incontro Azema rimprovera Arsace per la sua decisione di accettare la mano di Semiramide, il che ha convinto la giovane della fatuità dei sentimenti dell’amato. Che lei provoca, invitandolo a sacrificarla per adempiere al suo compito. E allora ecco che abbiamo un colpo di scena, quando Arsace le confessa che in ogni caso loro due non potrebbero rimanere uniti: voci segrete dal tempio (evidentemente... Oroe) gli hanno rivelato che Ninia vive e sta ritornando in Babilonia! E a Ninia, fin dalla culla, è destinata proprio Azema, che quindi mai potrà essere sposa di Arsace, il quale dovrà invece servire il suo sovrano.

Ora, cosa risponde qui Azema a questa sensazionale rivelazione? Bene, che Ninia arrivi, si palesi a me e a sua madre... ma anche dimostrasse per me lo stesso amore tuo, mai potrebbe estorcere dalla mia anima un’abiura! Piuttosto, io financo calpesterei lo scettro che fosse posto ai miei piedi! Perchè, Arsace, io vivo solo per te, e se tu tradisci il nostro amore, sarai per me l’unico colpevole qui dentro! ...  Accipicchia! Una determinazione assoluta, che fa di Azema una donna di principi e sentimenti inossidabili, laddove nel libretto di Rossi, come abbiamo visto, la sua figura degrada a quella di una povera donnicciuola sballottata dai marosi del destino, e quindi liquidata anzitempo e senza misericordia...

La cassazione della suddetta scena ha provocato poi nel libretto di Rossi un’evidente (per quanto veniale) falla: quando Oroe, prima di rivelargli la sua vera identità, incorona Arsace con il serto di Nino, Arsace lo rifiuta mostrando di sapere che Ninia esiste... particolare a noi noto in Voltaire, ma qui del tutto gratuito ed inspiegabile, essendo appunto mancata in precedenza la scena con Azema.

A proposito di rivelazioni, in Voltaire troviamo una sequenza assai articolata, che Rossi semplifica molto, sempre a causa della prematura liquidazione di Azema: dapprima (1) quella già segnalata di Arsace ad Azema (Ninia vive); poi (2) quella di Oroe ad Arsace (Ninia sei tu); quindi (3) quella di Arsace a Semiramide (sono tuo figlio) e infine (4) quella di Semiramide ad Azema (Arsace è Ninia). In Rossi rimangono forzatamente soltanto la (2) e la (3). Ma soprattutto la sparizione di Azema lascia il povero Arsace-Ninia con un pugno di mosche, a fronteggiare da solo i grattacapi del trono: come finale mi pare proprio miserello.

E a proposito di finale, ben diversamente strutturate (a vantaggio, toujours, di Voltaire) sono le due scene-madri che hanno come teatro l’inaccessibile tomba di Nino. Partiamo dal francese: Semiramide, avvertita da Azema che Assur si prepara a violare la tomba per farci secco Arsace, comprende che questo è il momento che l’Ombra di Nino ha scelto per chiamarla a sè, giù nel sottosuolo. Quindi si arma e scende, per proteggere Ninia da Assur. Azema da parte sua cerca di dissuadere Ninia dall’impresa, temendo che lui finisca vittima di Assur, ma ciò ancor più convince il giovane a scendere nella tomba per punire l’omicida di suo padre. Orbene, noi veniamo a sapere – a cose fatte – che Assur non ha fatto in tempo a penetrare laggiù: lo certifica Otane (guardia del corpo di Semiramide) che lo ha arrestato (su mandato di cattura della Regina) proprio mentre cercava di inoltrarsi nel luogo proibito. Ergo giù nella catacomba immersa nell’oscurità si trovavano soltanto Ninia e Semiramide! E quindi l’uccisione, per quanto involontaria, della madre da parte del figlio era l’unico possibile esito della vicenda, come precisamente programmato dalla volontà divina, di cui Ninia doveva essere l’inconsapevole esecutore. Chapeau, monsieur Voltaire!

Il finale di Rossi, ahinoi, sa invece quasi di farsa (o di commedia, tipo la scena notturna nel giardino delle Nozze mozartiane). Nella catacomba inaccessibile sono infatti penetrati: uno stuolo di Magi, che si nascondono sotto le volte; Semiramide, in difesa del figlio; Assur, per far secco Arsace (ancora non sa essere Ninia) e poi Ninia stesso e Oroe! Quindi abbiamo una vera e propria pantomima, con tre personaggi che si aggirano alla cieca (par di vederli: chi avanzando, chi rinculando, chi ruotando su se stesso) alla ricerca dell’avversario da infilzare e nel frattempo trovano modo di cantare un ultimo – strepitoso, dobbiamo dirlo - terzetto (!) Finchè il supremo volere degli dei deve essere, per così dire, pilotato dal Sommo Sacerdote, che ordina il fuoco! a Ninia proprio quando vede la madre pararsi davanti al figlio! Beh, vien quasi da sorridere...

Ma a noi sta bene così, e del resto proprio Voltaire era il primo a riconoscere che il teatro musicale si può permettere qualunque bizzarria, poichè lì ciò che conta è la musica, il resto è accessorio. E Rossini ciò ben sapeva da sempre, e quindi anche quando scrisse le sue mirabili note su un improbabile testo come quello del Rossi.  
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(1. continua)

22 settembre, 2016

Un Flauto accademico alla Scala

 

Ieri sera al Piermarini terz’ultima delle dieci recite della mozartiana Zauberflöte, una specie di saggio di fine anno per le voci dell’Accademia scaligera.

Se si dovesse giudicare con il metro dell’assoluto, il voto sarebbe irrimediabilmente negativo (ma spesso capita che lo sia anche per produzioni da SantAmbrogio...); se viceversa si applica il principio di relatività ristretta (!) allora le cose cambiano assai e tutto diventa più che accettabile.

Peter Stein monta uno spettacolo simpatico e godibile, che non può non piacere ai ragazzini (e a tutti coloro che si sentono tali anche a 70 anni suonati!) e che scommetterei sia abbastanza vicino a quello che montò quel vecchio marpione di Schikaneder in un remoto venerdi 30 settembre 1791. (Certo, chi si aspetterebbe intellettualoidi ambientazioni in P2, P3 o Pvattelapesca, sarà rimasto deluso, amen...)

Adam Fischer - che conosce la partitura a memoria e quindi al posto del leggio fa sistemare il... carillon di Papageno – cava il meglio possibile dall’accademica orchestra (spesso i più grandi fanno assai peggio) e tiene in pugno i cantanti ovviando anche alle loro inevitabili incertezze.    

Cantanti che sono le speranze di domani e che proprio per questo non sono le certezze di ieri (lapalisse insegna). Martin Piskorski è un Tamino... verdiano, ma portamento e prestanza scenica promettono assai; Till Von Orlowsky fa un Papageno quasi perfetto sulla scena (comprese un paio di posizioni... ehm... kamasutriche con la Papagena gnocca!) e non demerita nemmeno sul lato vocale. Fatma Said è una Pamina un po’ pigolante, ma tutto sommato efficace. Un po’ sotto la media l’Astrifiammante di Yasmin Özkan, che non solo fa fatica sui FA, ma fatica assai a padroneggiare i virtuosismi delle sue due arie. Il basso Martin Summer è un Sarastro scenicamente apprezzabile: quanto alla voce, peccato che scarseggi proprio nei... bassi! Tutti gli altri (coro incluso) su un piano di onesta abnegazione, con una punta di merito per i tre fanciulli dei Wiltener Sangerknaben.

Pubblico assai folto e prodigo di applausi per tutti: a volte i saggi di fine anno divertono di più di tante paludate prime.

16 settembre, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°26


La stagione principale 2016 (che chiuderà a dicembre) riprende in Auditorium, dopo la visita alla Scala, con un programma monografico incentrato su Ciajkovski e sempre con Xian sul podio.

Come per la recente apparizione scaligera, anche qui abbiamo un pezzo breve in apertura, un concerto solistico e una sinfonia. Ma questa volta l’antipasto è proprio di quelli saporiti (o frizzanti, fate voi a seconda del palato) che catturano magneticamente l’attenzione dell’ascoltatore: la Polonaise dal terz’atto dell’Onegin, che attacca con una squillante fanfara (RE) delle trombe ad introdurre il SOL maggiore della polacca, al contempo richiamando all’ordine e zittendo all’istante qualche incallito disturbatore in sala.  
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Poi un ragazzino (ha da poco compiuto i 22!) che risponde al nome di Conrad Tao (cinese... dell’Illinois!) e che già è un affermato pianista, compositore e organizzatore di kermesse e festival musicali (insomma... neanche Mozart!) arriva per proporci un pezzo di cui è facile fare indigestione: il Concerto in SIb minore. Che lui ci fa digerire con un alka-seltzer di Elliott Carter.

A parte le battute, il ragazzo-tuttofare ha indubbiamente una tecnica invidiabile (per quanto, nelle tremende ottave doppie del primo movimento, non sia stato propriamente impeccabile) che è condizione necessaria, ma non sufficiente a farne un interprete di riferimento dei classici. Vedremo in futuro che piega prenderà la sua carriera: certo, di altri Lang-Lang non se ne sentirebbe il bisogno...  
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Infine, altro piatto inflazionato, come la cotoletta alla milanese: la Quinta, che Xian ha già diretto almeno in quattro stagioni con laVERDI e che l’orchestra suona una stagione sì e l’altra... pure. 

Briglie sciolte, fracassi a volontà, tutta l’enfasi possibile e immaginabile sono i connotati salienti di questa ennesima ubriacatura di suoni che trascina le folle all’entusiasmo. Personalmente ho apprezzato, come al solito, l’Andante cantabile... con alcuna licenza.

12 settembre, 2016

laVERDI alla Scala


Per l’ormai tradizionale visita settembrina al Piermarini, laVERDI, guidata dalla sua Direttora Xian, ha scelto un programma tutto russo (e sovietico) dalla classica impaginazione tripartita (breve pezzo orchestrale di antipasto, concerto solistico e sinfonia).

Mi permetto di reiterare un commento già fatto in occasione di un concerto di una passata stagione, a proposito della versione per orchestra (una delle mille prodotte dal compositore) di Vocalise di Rachmaninov: a parte l’esagerata pretesa del nostro di impiegare, oltre ad un consistente pacchetto di archi (26 esecutori) nientemeno che 16-20 violinisti-solisti (dico, ma siamo impazziti?) il pezzo potrebbe servire assai bene come ninna-nanna per mandare tutti a letto, non certo per richiamare l’attenzione di un pubblico ancora occupato in chiacchiere futili e ipocriti convenevoli. Franz von Suppè era maestro nella tecnica di zittire tutti quanti in un battibaleno: basti pensare a come attacca Cavalleria leggera!

Ancora il russo fuoriuscito, con il Rach-2, suonato da quel giovincello (24 anni) rampante che risponde al nome di Luca Buratto. Il quale circa 3 anni orsono, quando era ancora un illustre sconosciuto, si era cimentato – sempre con laVERDI – nel famigerato Rach-3, ottenendo un gran successo. Successo che non è mancato anche ieri sera. Il ragazzo ha un gesto esteriore forse un filino (e goffamente) plateale, ma ciò che conta è il risultato sonoro, che è di tutto rispetto, benchè favorito, nella fattispecie, dal contenuto zuccheroso del concerto, che solletica assai – oltre a quelle dello strumento - le corde dell’ascoltatore più facili a risuonare. Il bis è dedicato nientemeno che alla... nonnina: chissà se è lei che ha dimenticato di togliergli l’imbastitura che chiudeva lo spacco posteriore della sua nuova giacchetta (stra-smile!)  

Si fa finalmente sul serio (musicalmente parlando...) con lo Shostakovich della Quinta. Che vale il prezzo del biglietto anche solo per quello straordinario passaggio dei celli – sul tremolo dei clarinetti e degli archi – al culmine del Largo, che Xian ha fatto eseguire con piglio perfino eccessivo, ma di sbudellante impatto. Chiusa a dir poco entusiasmante, con la Viviana che ha rischiato di... spaccare i timpani (!) il che ha giustificato numerose chiamate e ovazioni (ma niente... bis).

Giovedi riprende la stagione principale in Auditorium: a tutto Ciajkovski!

05 settembre, 2016

Gergiev riporta il Marinsky in vacanza a Rimini

  
Non è la prima volta che la Sagra riminese ospita l’Orchestra del Marinsky guidata dal suo ormai storico capo Valery Gergiev. Ricordo la loro prima ed ormai lontanissima visita (era l’epoca del funerale dell’URSS!) per una strepitosa Sesta di Mahler. Qui Gergiev racconta dei suoi precedenti rapporti con la Sagra, senza risparmiare critiche all’andazzo tutto italiano che caratterizza la musica cosiddetta colta.  

Ieri il programma era tutto patriottico, pur con le due facce del patriottismo: il russo Ciajkovski che guardava all’occidente come ad un modello, e l’ukraino Prokofiev che si era illuso – poveretto! - che il modello fosse invece l’Unione Sovietica di Stalin...
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Si apre con 5 numeri che Gergiev ha estratto dalle prime due Suite di Romeo&Giulietta, ciascuna delle quali comprende 7 numeri, in sequenza difforme da quella dell’azione del balletto dal quale detti numeri sono presi con piccole manipolazioni; chi è interessato ad una tabella di corrispondenza fra numeri delle suite e numeri del balletto la può trovare all’interno di questo mio precedente commento; lo specchietto che segue riassume invece ciò che si è potuto ascoltare ieri:

titolo
suite–n°
balletto–n°-titolo
Montecchi e Capuleti
2 – 1a
     1b
 7 (Il Principe emana l’ordine) +
13 (Danza dei Cavalieri)
Frate Lorenzo
2 - 3
28 (Romeo e Frate Lorenzo)
Maschere
1 - 5
12 (Maschere)
Romeo alla tomba di Giulietta
2 – 7a
     7b
51 (Funerale di Giulietta)
52 (Morte di Giulietta) incipit
Morte di Tebaldo
1 – 7a
     7b
     7c
33 (Tebaldo e Mercuzio lottano) +
35 (Romeo decide di vendicare la morte di Mercuzio) + 36 (Finale Atto II)

Ribadisco una mia convinzione già più volte espressa: si tratta di musica talmente bella che qualunque mix ci si inventi (anche pescando a caso fra i 52 numeri del balletto) il risultato è garantito. Ciò spiega il proliferare di incisioni ed esecuzioni che ciascun Direttore personalizza a suo piacimento.

Il brano serve proprio come biglietto da vista per gli ex-leningradesi, tutti, maestro in testa, in tenuta... vacanziera (camiciole scure fuori dai pantaloni) con l’unica eccezione del Konzertmeister che, per farsi riconoscere, come non bastasse la sua candida e sferica capigliatura, ha anche indossato camicia bianca e giacca nera.
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Alexander Buzlov ha vinto lo scorso anno il prestigioso Premio Ciajkovski, quindi è quanto meno un astro emergente nel panorama violoncellistico, che nel mondo russo-sovietico ha annoverato stelle di prima grandezza, a cominciare dal sommo Rostropovich. E le Variazioni Rococò sono senza dubbio un test più che arduo, prova ne sia che fu un famoso violoncellista (Wilhelm Fitzenhagen, dedicatario dell’opera e docente, quindi collega di Ciajkovski, al Conservatorio di Mosca) a darle la forma che storicamente è divenuta quella standard.

In anni recenti è però tornata alla ribalta la versione originale (chi fosse interessato ad una breve disamina delle differenze - non piccole, in effetti, che mostrano diversi pro-e-contro - fra le due versioni può dare un’occhiata a quanto scrissi in proposito qualche anno fa) versione che, a giudicare dalla presentazione sul booklet della Sagra, pareva dovesse essere quella scelta anche da Buzlov. Il quale invece è andato sul sicuro, fidandosi più di Fitzenhagen che di Ciajkovski, soprattutto perchè la versione del primo si chiude con la variazione più virtuosistica e trascinante, il che garantisce sempre grandi applausi ed ovazioni. Così è stato anche ieri e così Buzlov - che vi ha sciorinato tutto il suo talento - e l’orchestra, l’hanno ripetuta come bis.
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Il gran finale del concerto era occupato dalla Quinta di Prokofiev (qui gli stessi interpreti di ieri). Sinfonia composta in piena guerra (1944, prima esecuzione sabato 13 gennaio 1945) e carica di significati scoperti e ambigui insieme. Gergiev, che l’ha diretta come ormai sua abitudine con lo... sfarfallìo delle dita, ne ha messo in risalto tutti i minimi dettagli e i suoi lo hanno bellamente assecondato, dai momenti sereni a quelli cupi, a quelli esilaranti.   

Siamo ancora in estate e così per mandarci a nanna ci viene propinato come bis lo Scherzo del mendelssohn-iano Sogno!
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Bene, per quanto mi riguarda finisce qui l’estate romagnol-marchigiana, principiata nell’ormai lontano giugno (a ben pensarci era ancora primavera!) a Ravenna e passata poi per il ferragostano ROF: ora si rientra nella metropoli e (purtroppo per me) non in tempo per godere della visita dei bavaresi con Petrenko-Damrau alla Scala... pazienza, al Piermarini si tornerà la prossima domenica per (speriamo) godere di un’altra visita ormai abituale a inizio settembre, quella de laVERDI!

31 agosto, 2016

La Rotterdam Philharmonic a Rimini


In una Rimini ancora immune dal grande contro-esodo (spiagge e alberghi tuttora in assetto quasi-ferragostano... vuoi vedere che il PIL sta crescendo?) ha aperto ieri i battenti – in una sala di 1500 posti del Palacongressi piacevolmente gremita di pubblico - la stagione concertistica della 67a Sagra Musicale Malatestiana, ospiti (per un ritorno a tre anni di distanza) la prestigiosa Rotterdam Philharmonic, guidata dal suo Direttore Yannick Nézet-Séguin, e la premiata coppia Renaud&Gautier Capuçon.

Essendo giornata di lutto nazionale, a Orchestra accordata e Direttore sul podio viene osservato un minuto di silenzio in memoria delle vittime del terremoto che ancora sta sconvolgendo zone d’Italia non troppo lontane da qui.

Il concerto è aperto da un’autentica primizia: l’Ouverture di un’opera semi-sconosciuta e rarissimamente rappresentata di Josephus Haydn, L’isola disabitata (libretto del Metastasio) composta sul modello di Gluck (recitativi sempre accompagnati). Una specie di variante molto, molto semplificata ed edulcorata del mozartiano Ratto, con il quale ha in comune la presenza di due coppie che sono protagoniste del quartetto che chiude l’opera con un classico lieto fine.
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L’Ouverture (qui eseguita dal venerabile Harnoncourt con i suoi del Concentus) si apre in SOL minore con un’introduzione di 22 battute in tempo Largo di 3/4 e ambientazione cupa; introduzione che chiude adagiandosi sulla dominante RE. Segue (1’33”) un Vivace assai (4/4, sempre SOL minore) dove viene esposto il tema principale. Dopo un breve ponte ecco che, alla battuta 47 (2’05”) il tema viene riproposto, variato e sviluppato, nella tonalità relativa di SIb maggiore, sulla quale entra poi - a battuta 76 (2’41”) - un controsoggetto, sempre in SIb, di sapore più elegiaco. A battuta 95 (3’13) sempre in SIb, udiamo una nuova variante del tema, che dopo un ulteriore sviluppo torna al SOL minore d’impianto che prepara (battuta 132, 4’00”) la ricomparsa del tema nella sua forma originaria, tema che viene ulteriormente sviluppato e sfocia in una cadenza sulla dominante RE. Essa prelude all’attacco in 3/4 di un Allegretto in SOL maggiore, che si configura come un Trio in due sezioni (entrambe ripetute): la prima (battuta 165, 4’44”) e la seconda (battuta 176, 5’15”) più lunga. Il trio si chiude da battuta 197 (6’27”) con una coda che porta (battuta 214, 7’05”) alla ripresa del Vivace assai (4/4) con il tema in SOL minore, che chiude rapidamente l’Ouverture.  
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Pregevole l’esecuzione dei filarmonici olandesi, schierati qui in organico ridotto di fiati (1 flauto, 2 oboi, 1 fagotto, 2 corni) e invece con ampia sezione di archi, che l’imparruccato Haydn certo non aveva a disposizione quel lontano giovedì 6 dicembre 1779, quando l’opera andò per la prima volta in scena in occasione dell’onomastico del suo “patron” Nicholaus Esterházy.
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Ecco poi il Doppio Concerto di Brahms, interpretato dai due Capuçon: Renaud al violino e Gautier al cello (fra i due corrono meno di 6 anni, e il primo ne ha poco più di 40). I due si sono presentati in abbigliamento da perfetti... baristi (smile!): oltretutto nessuno direbbe mai che siano fratelli, tanto diversi sono i loro aspetti esteriori.

Però, accipicchia, hanno dato gran prova di sè, in questo concerto difficile e ostico per chi lo ascolta e ancor più – immagino - per chi lo esegue. Da incorniciare, in particolare, l’Andante centrale, dove i due solisti sono in grande evidenza e dove i due fratelli hanno saputo cavar fuori dai loro strumenti pregevoli sonorità, sempre ben spalleggiati dall’Orchestra, che il Direttore guida con gesto forse un po’ troppo plateale, ma evidentemente efficace.
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Chiusura magniloquente con la tardo-romantica Seconda Sinfonia di quel gran consumatore di alcool che rispondeva al nome di Jan (Jean) Sibelius. Ispirata dalla natura di Rapallo (evidentemente quel mare fa bene alla fantasia dei musicisti, visto il precedente di Wagner che a Lerici inventò il Preludio del Rheingold) è, con la Quinta, la più eseguita del finnico. Sul suo contenuto ho già espresso un personalissimo parere non proprio... edificante in occasione di una sua precedente proposta de laVERDI con Marshall.

I Rotterdamer e Nézet-Séguin fanno di tutto per farcene apprezzare anche il lato poco... apprezzabile, così ne è uscita un’esecuzione vibrante, carica di chiaroscuri e di contrasti, dove i fiati in particolare (tutti eccezionali poi gli ottoni: corni, trombe, tromboni, tuba) hanno recitato la parte del leone.

Ripetute chiamate finchè il Direttore mima una bevuta con successiva dormita per convincere il pubblico che si è fatto tardi ed è ora di rincasare. Quindi, niente bis, ecco.

21 agosto, 2016

ROF-37 Calato il sipario

 

Ieri sera, con l’ultima, applauditissima recita del Ciro, è calato il sipario su questa 37a edizione del ROF: ancora l‘immensa Ewa Podleś sugli scudi, autentica trionfatrice della serata e, direi, di tutto il Festival; successo anche per la Yende, Siragusa e gli altri comprimari, per il coro di Faidutti e per l’orchestra guidata ancora una volta in modo autorevole da Jader Bignamini. Pubblico ancor più straniero del solito: nella piazzetta antistante il teatro e nel piccolo foyer la lingua italiana era in netta minoranza, sovrastata dal tedesco, dall’inglese e da non meglio precisabili idiomi orientali.

Stando a ciò che i responsabili della Fondazione hanno anticipato, e anche da ciò che un frequentatore sporadico come il sottoscritto può testimoniare, quanto meno il successo di pubblico è stato evidente: teatro e arena sempre al tutto esaurito, accoglienza degli spettacoli dal caloroso al trionfale. Pubblico per l’appunto cosmopolita, ma di un cosmopolitismo del tutto diverso, per dire, da quello che si osserva regolarmente in un teatro come La Scala, dove gli stranieri abbondano, ma si scorge lontano un miglio che sono lì per fotografare e farsi fotografare in un tempio della lirica, mica certo perchè interessati allo spettacolo che si programma quella sera, di cui probabilmente nulla sanno e pochissimo gli importa.

No, qui a Pesaro arriva espressamente e da tutti i continenti un pubblico amante della musica, di Rossini in particolare, un pubblico ancora e sempre affezionato a questo Festival che si è storicamente immedesimato nella Rossini-renaissance. Persone che hanno probabilmente vissuto qui a Pesaro momenti esaltanti e che ci tornano regolarmente come vecchi innamorati per riprovare piacevoli sensazioni e rinnovare ricordi passati. Una coppia di teutonici che si trovava con me nello stesso palco confidava di non aver perso nemmeno una delle 37 edizioni del Festival, e di essere fermamente decisa a continuare così per il futuro, nonostante riconoscesse che non ci sono più le voci di una volta (e uscivano nomi quali Valentini, Ricciarelli, Blake, oltre al sommo Abbado...) Ecco, personalmente mi metto volentieri in questa compagnia.   

Certo, i tempi mutano per tutti e anche il ROF ha ormai da anni cominciato a cambiar faccia e pelle: da esclusivo proponente di edizioni critiche delle opere – anche le più sconosciute o bistrattate – del genio pesarese, si va trasformando in una specie di palestra rossiniana dove si sperimentano nuovi allestimenti dei lavori del grande Gioachino, e dove si presentano voci nuove che affiancano e via via sostituiscono quelle più storiche o già affermate. Tutto ciò comporta un evidente rischio di sovraesposizione: allestimenti spesso velleitari quando non letteralmente adulteranti i soggetti originali; e cantanti, pur promettenti, ma con esperienza ancora limitata, le cui prestazioni possono lasciare insoddisfatti i palati più raffinati.

Che dire? È il classico caso del bicchiere: per qualcuno è mezzo vuoto e quindi da buttare; per altri è ancora mezzo pieno e val la pena tenerselo stretto... (io mi schiero in questa seconda fazione).


La prossima edizione è già sbozzata come programma generale: salvo ripensamenti (peraltro assai frequenti qui) verranno proposte tre opere tutte alla seconda apparizione al ROF; tre opere che si collocano simmetricamente all’interno della produzione di Rossini: la giovanile Pietra di paragone (esordio 2002) la baricentrica Torvaldo e Dorliska (esordio 2006) e la matura Siège de Corinthe (esordio 2000). Con la riproposta dello Stabat Mater si chiuderanno verosimilmente i battenti. Arrivederci quindi al ROF-XXXVIII.

20 agosto, 2016

ROF-37 I 20 anni di JDF dalla piazza

 

Per festeggiare i 20 anni dalla sua prima apparizione (edizione XVII, martedi 13 agosto 1996, nel ruolo di Corradino in Matilde di Shabran, poi sostenuto ancora nel 2004 e 2012) il ROF ha voluto festeggiare il suo beniamino Juan Diego Florez con uno speciale concerto all’Adriatic Arena, nel quale il divo peruviano è stato affiancato da altre voci di casa al Festival (Ruth Iniesta e Marina Monzò  sono subentrate all’allergica Olga Peretyatko) e da Orchestra e Coro del Comunale di Bologna, diretti da Christopher Franklin (tornato per l’occasione a Pesaro dove aveva esordito nel 2003) e Andrea Faidutti.

Non essendo io un amante di questo genere di kermesse, di gala, nè di programmi costituiti da antologie o put-pourri di brani di opere diverse, ed essendo ammiratore sì, ma non fan sfegatato del JDF, ho salomonicamente deciso di non acquistare il biglietto, ma allo stesso tempo di curiosare in questa festa. Come? Approfittando della gentile iniziativa – ormai un’abitudine del ROF – di irradiare il concerto in diretta sul maxischermo installato in Piazza del Popolo. Così ho anche potuto rendermi conto di come il pubblico della strada (o della piazza, nella fattispecie) fruisce di questo tipo di spettacolo.

Com’è naturale, l’impaginazione prevedeva arie o numeri delle 10 opere di cui JDF è stato protagonista nei suoi 20 anni a Pesaro, inframmezzate da qualche sinfonia:

   
Date le circostanze, non mi ci provo nemmeno ad entrare nel merito artistico dell’esecuzione. Dirò invece che, prima dell’inizio della seconda parte, Il Sovrintendente Mariotti ha snocciolato la lunga storia del sodalizio fra il cantante e la città, che vanta il merito di avergli aperto la strada al successo, in quel 1996 quando Florez esordì per puro caso (l’improvvisa indisposizione del titolare del ruolo di Corradino) nella fino allora del tutto sconosciuta Matilde. Così la Citta di Pesaro ha deciso di premiarlo insignendolo della Cittadinanza onoraria. Florez ha speso poche parole per ringraziare, ricordando come Pesaro sia divenuta la sua seconda patria, dove lui ha la sua dimora italiana e dove è venuta al mondo sua figlia. Ha ripetuto il breve indirizzo anche in lingua inglese, a beneficio del pubblico che in larga parte viene da fuori d’Italia, poi è corso a prepararsi per la seconda parte del programma, che alla fine è stato gratificato di un autentico trionfo.
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Piazza del Popolo era occupata per più di metà (tutto il lato est) da 1000 sedie che sono state via via prese d’assalto fin da una buona ora prima dell’inizio; chi non ha trovato posto si è appollaiato sul bordo della fontana, altri hanno stazionato nei pressi, magari appoggiati alle proprie biciclette, o seduti sotto il porticato del palazzo del Governo.

Si ascolta quindi un Rossini contrappuntato da una stereofonica polifonia di voci e suoni provenienti da ogni dove: vagiti di infanti e schiamazzi di bambini, latrati di cani e cagnolini di timbri e razze diversi, tonfi di bicchieri e bottigliette di plastica che rotolano sul porfido, crepitio di sacchetti dai quali spuntano patatine, piadine e focacce. Il tutto mentre frotte di ragazzini in bicicletta prendono il perimetro della piazza per un velodromo, e scorrazzano anche sotto il maxi-schermo. E ancora: mezzi dell’Igiene ambientale che operano nelle vie adiacenti la piazza, dentro la quale circola anche il Trenino del giro panoramico della città. E infine: persone che si alzano per andarsi a rifornire di drink, snack e calippi presso un vicino bar. Paradossalmente, chi ha disturbato meno sono stati gli smartphone e similari diavolerie.

Insomma, pare di essere tornati all’ambiente dei teatri del ‘700 e primi ‘800, dove la gente si recava incidentalmente per assistere allo spettacolo, ma in realtà per mangiare, bere e fare salotto (o anche... peggio!)

Evabbe’, mica si può pretendere dalla piazza un religioso silenzio e una compostezza che del resto non si registrano compiutamente nemmeno a teatro... quindi tutto a posto e ancora complimenti e auguri al grande JDF.