ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

29 giugno, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°24


Torna dopo un paio di turni l‘italiana di adozione Angela Hewitt per proporci un monumento del pianismo ottocentesco, il Primo Concerto di Brahms. Sul podio un Direttore – il nordico Hannu Lintu - che fa spesso coppia con lei (e domani tutti, Orchestra compresa, si trasferiranno in Umbria dove saranno protagonisti del Festival del Trasimeno, presentando questo stesso programma). 

Programma che presenta due opere di altrettanti (c’è mancato poco!) mariti di tale Clara Wieck. Entrambe in RE minore ed entrambe caratterizzate da una gestazione assai più laboriosa di quella dell’elefante, che ha il record (con quasi 2 anni) fra i mammiferi.

Brahms cominciò la sua nel 1852 con un una Sonata per due (!) pianoforti, che poi si accorse essere troppo poco... rumorosa, così pensò di trasformarla in Sinfonia, che però gli parve ancor più velleitaria, e così più di 7 anni dopo potè a fatica presentare il suo Concerto ad Hannover, poi a Lipsia dove ricevette una sonora disapprovazione. Erano tempi in cui spopolava un tale Liszt, il cui primo concerto, del 1855, sta proprio agli antipodi di quello di Brahms. A cominciare dalla concisione, 25 minuti al massimo, mentre Brahms supera abbondantemente il doppio, neanche fosse una sinfonia di Mahler (e infatti il concerto doveva essere appunto una sinfonia...) Poi l’ungherese dà spazio al virtuosismo più strepitoso (sic) laddove il burbero amburghese ci rifila una mappazza tutta cerebrale, ecco.

Non so se sia un fatto di bioritmi (che salgono e scendono) ma la prestazione della Hewitt non mi ha per nulla entusiasmato: per lei i mostruosi passaggi in doppia ottava del primo movimento devono essere stati un calvario, tanto che il miglior solista lì è risultato essere... il corno di Ceccarelli! Appena meglio l’Adagio, ma poi anche il Rondo non mi è parso proprio impeccabile.

Alla fine lei si è pure presa parecchi brava! e non sarò certo io a toglierglieli. Domanda: come mai non ha concessso un bis?
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Accanto a Brahms nessuno poteva star meglio di... Schumann, del quale si è eseguita la Quarta Sinfonia. L'allampanato Lintu – gesto ampio e sobrio - ci dà dentro con le dinamiche (decibel a volontà) e non ci risparmia nemmeno un da-capo, così ottenendo dai ragazzi un’esecuzione di quelle che impediscono agli spettatori di appisolarsi, ed è già un bel merito. Alla fine tutti si godono ovazioni e applausi ritmati, da parte di una sala per la verità piuttosto spopolata.

25 giugno, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°23


Tocca ad uno dei tre Direttori Principali Ospiti, l'orsacchiotto uzbeko Aziz Shokhakimov, condurre i ragazzi de laVERDI nel concerto di questa settimana, interamente dedicato a Mendelssohn.

Del quale ascoltiamo subito il celeberrimo Concerto per violino, interpretato dal non ancora 40enne serbo Stefan Milenkovich, ex-bambino-prodigio cresciuto anche in Italia e ora americanizzato.

Non si scopre di certo qui la sua straordinaria tecnica, come la sua grande amabilità, dimostrata al termine di un’esecuzione strepitosa, con simpatiche battute ad intercalare non un bis ma addirittura un tris! Tre tappe perfettamente consequenziali: da Mendelssohn non si può che andare a Bach (Allemanda dalla Partita 2); poi ancora Bach (Preludio dalla Partita 1); e da qui, per simpatia, alla Ossessione di Ysaÿe!
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Seconda parte occupata dall’intero (ehm... quasi) corpo delle musiche di scena composte nel 1842 da Mendelssohn per la versione tedesca dello shakespeare-iano Sogno di una notte d’estate (titolo assai appropriato all'attualità... brexit, dico!) Alla famosa Ouverture, che il 17enne di Lipsia aveva composto 16 anni prima, furono aggiunti 13 numeri, che accompagnano alcune delle scene principali del dramma. Di questi, 8 hanno caratteri di numero chiuso (strumentale e con eventuali voci, n° 1-3-5-7-9-11-12-13) mentre gli altri 5 sono costituiti da successioni di brani, spesso brevi o brevissimi, e servono da riempitivo musicale per alcune scene del dramma. Qui vengono eseguiti, dopo l’Ouverture, i numeri 1-3-5-7-9-10(solo la marcia funebre)-11-13.

Se interessa un’esecuzione integrale, la si può seguire con André Previn alla guida della London Symphony.

Mendelssohn, dopo l’Ouverture (in MI maggiore) che è abbastanza lunga (11-13 minuti) non compose alcunchè per l’intero primo atto, che introduce i personaggi umani della vicenda: Teseo e Ippolita, futuri sposi; Egeo, che ha un diavolo per capello (sua figlia Ermia vuol sposare Lisandro invece di Demetrio); Elena, innamorata respinta da Demetrio; una compagnia di artigiani ateniesi che intende allestire uno spettacolo teatrale in onore di Teseo-Ippolita.

A chiusura dell’Atto I ecco invece lo Scherzo (N°1, SOL minore, 12’30”) al termine del quale compare il folletto Puck, che subito all’inizio dell’Atto II incontra una fatina. I due si scambiano notizie sui rispettivi sovrani (Oberon e Titania) che sono però in lite, contendendosi il possesso di un fanciullo indiano. Il N°2 (inizialmente in SOL minore, 17’23”) fa da sfondo al loro incontro. Poi ecco arrivare (17’57”) i cortei di Oberon e Titania, accompagnati da una marcetta in MI minore. Qui abbiamo il battibecco Titania-Oberon a proposito del piccolo indiano e Titania se ne va. In SI minore (19’22”) la musica accompagna ora Oberon che si fa aiutare da Puck a mettere in atto la sua magìa per sottomettere Titania.

Il N°3 (Atto II, Scena II) è un Canto con coro (19’38”): le fatine di Titania (due soprani e il coro femminile) espongono due strofe (in LA minore) e due ritornelli (in LA maggiore). Il N°4 consiste di due coppie di sequenze (MI minore, SI minore) che accompagnano (24’03”) Oberon che opera la magìa su Titania, poi l’arrivo di Ermia e Lisandro, quindi Puck (24’30”) che opera la magìa su Lisandro (invece che su Demetrio) e infine (24’48”) l’arrivo di Elena e Demetrio, cui segue il risveglio di Lisandro che si innamora di Elena.

Il N°5 (LA minore e DO maggiore, 24’55”) è un brano agitato che si suona in chiusura dell’Atto II, quando Ermia si perde nel bosco. Si chiude (27’24”) con un passaggio in LA maggiore che accompagna l’allegro ingresso in scena (Atto III) degli artigiani che discutono dello spettacolo da allestire. Il N°6 (28’26”) è un lungo susseguirsi di spezzoni musicali che devono sottolineare le complicate vicende dell’intero terzo atto: Puck che si prende gioco di Bottom (facendogli una testa d’asino) e Titania che si sveglia (29’34”, i quattro accordi dell’Ouverture distortamente armonizzati) innamorandosi dell’asino, con i folletti che esultano (29’58”). Poi Puck (31’00”) che torna da Oberon, e i due che vedono arrivare Ermia e Demetrio, al che Puck confessa di aver fatto la magìa all’uomo sbagliato. Quindi i battibecchi di Elena con Ermia, Demetrio e Lisandro, il mancato duello fra i due ateniesi, e infine Puck che fa la magìa su Lisandro, per farlo tornare innamorato di Ermia. E qui abbiamo, in chiusura di Atto III (33’38”) il famoso Notturno (N°7, MI maggiore) che accompagna i due amanti addormentati, ma prelude anche al sonno di Titania e Bottom-asino all’inizio dell’Atto IV.

Il N°8 (MI maggiore e minore) fa da sfondo (40’54”) all’inizio dell’Atto IV: Oberon ha ottenuto il fanciullo indiano ed ora sveglia Titania dall’incantesimo, riappacificandosi con lei. Da qui niente musica fino a fine atto (arrivo di Teseo e riconciliazione generale di Egeo con Ermia-Lisandro ed Elena-Demetrio) e i preparativi dello spettacolo degli artigiani.

La celeberrima Marcia nuziale (N°9, DO maggiore) viene suonata alla fine dell’Atto IV (43’08”) così introducendo l’atto conclusivo in Atene. Il N°10 (DO maggiore, minore e MIb maggiore, 48’17”) contiene poche battute per sottolineare l’inizio della rappresentazione e successivamente (48’51”) la marcia funebre per Piramo e Tisbe, amanti suicidi.

Il N°11 (SI maggiore) è la Danza dei clown (Bergomask) che chiude (49’50”) lo spettacolo degli artigiani. Il N°12 (DO maggiore, coda della marcia nuziale) accompagna Teseo e Ippolita in corteo (51’31”); poi (MI minore, i folletti) ecco Puck che anticipa l’arrivo dei cortei di Oberon e Titania. Sono le fate (N°13, finale, SOL minore e MI maggiore) a chiudere lo spettacolo (52’33”) prima del ritorno dei quattro accordi del motto che aveva aperto l’Ouverture.
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L’esuberante (e pure esilarante) Shokhakimov, che nell’intervallo ha smesso il frac per vestire un blusone leggero, ha diretto con molta gigionaggine e pochissima leggerezza, il che non è l’ideale per ricreare l’atmosfera romantica ed eterea di questa partitura. Eccellente la prestazione del coro rosa (10 soprano e 10 mezzo) di Erina Gambarini, che ha ben supportato le due fatine Nina Almark e Mariachiara Cavinato.

Alla fine un successone per tutti, in un Auditorium piacevolmente affollato.

16 giugno, 2016

LaVERDI 2016 – Concerto n°22 - Gala Rossini


Ancora Jader Bignamini in Auditorium per una serata tutta rossiniana. Il nostro comincia così ad immergersi nel mondo anche canoro del pesarese (fino ad oggi si era cimentato più che altro in alcune importanti sinfonie) in vista del suo esordio al ROF il prossimo agosto, con le quattro recite del Ciro in Babilonia, alla testa dell’Orchestra di... Mariotti.    
    
Il programma alternava sinfonie e numeri da quattro opere: Tell, Cenerentola, Barbiere e Semiramide.

Dopo la Sinfonia, aperta dal suono cupo e profondo del violoncello di Tobia Scarpolini, e che l’Orchestra ha eseguito, come altre volte in passato, con grande sensibilità, è toccato ad Alberto Gazale rompere il ghiaccio del canto, con Sois immobile, che Tell canta poco prima di centrare con millimetrica precisione il pomo che lo sbifido Gessler ha depositato sul capino del figlioletto Jemmy. Il baritono veronese sfoggia il suo vocione, tanto potente quanto non perfettamente gestito (alle mie orecchie), cosa che confermerà nel seguito della serata. 

Più che apprezzabile la prova della Cenerentola Chiara Amarù, che sfoggia grande agilità nei virtuosismi di cui imbelletta Nacqui all’affanno e gradita sorpresa quella di Levy Strauss (!) Segkapane, un simpatico negretto che viene dalla terra di Mandela e che mi pare promettere benissimo (sarà anche lui all’esordio al prossimo ROF nel Turco). Lui si è ben portato in Sì, ritrovarla io giuro e insieme hanno duettato poi in Un soave non so che.

Poi il Barbiere, con l’inflazionata Sinfonia e i due pezzi forti: il Factotum, dove Gazale sfoggia autorevole presenza scenica, non però accompagnata da altrettanta qualità canora (emissione piuttosto sguaiata) e la Voce poco fa della Amarù, assai più convincente. Dopo il duetto dei suddetti (Dunque io son) un’aria desueta di Almaviva (Cessa di più resistere) che consente a Segkapane di confermare le sue ottime doti.

Il programma ufficiale si chiude alla grande con l’imponente sinfonia di Semiramide, che consente all’Orchestra di esibire il suo stato di grazia.

Ma non potevano mancare dei graditi supplementi: ecco quindi due altre perle dal Barbiere, prima il duetto All’idea di quel metallo e poi il terzetto Presto, presto, che chiudono in bellezza suscitando ovazioni dal un pubblico assai folto e divertito.

11 giugno, 2016

Iván Fischer e la sua Budapest incantano Ravenna


Ieri il Ravenna Festival ha ospitato nel palazzone De Andrè (occupato peraltro a non più del 70% della capienza) una delle Orchestre europee che più si son messe in luce negli ultimi anni, la Budapest Festival Orchestra, guidata da uno dei suoi fondatori, Iván Fischer (famiglia di direttori, come il fratello Adam).

Il programma – lo stesso offerto appena la sera precedente al Marinsky di SanPietroburgo! cambiava solo il solista – spaziava dalla Russia (occidentalizzata) di Stravinski alla Boemia di Dvořák, passando per l’Ungheria di Liszt.

Concerto aperto dalle musiche per il balletto Jeu de cartes del 1936, tre mani a poker (Stravinski andava pazzo per quel gioco) dove i danzatori impersonano appunto le carte: fra essi c’è una specie di dittatore (il joker) che vince le prime due mani, ma viene detronizzato in quella decisiva da una scalareale di cuori. La musica, che contiene numerosi richiami e citazioni (ad esempio al Pipistrello, all’ottava beethoveniana, al Barbiere...) si fa apprezzare ovviamente anche senza i danzatori, qui grazie alla bravura dei singoli (ottoni e strumentini) e dell’orchestra (la straordinaria compattezza degli archi).

Orchestra che Fischer ha schierato alla tedesca (violini secondi al proscenio) dislocando però i contrabbassi (4, poi 6 per Dvořák) proprio in alto, alle spalle di tutti, insieme a grancassa e timpani, dietro le (sole) due file di fiati. Scelta forse dettata dalla particolare (e certo non straordinaria) acustica di un palazzo dello sport.

Poi un altro magiaro, il bravissimo 48enne Dénes Várjon ha interpretato il Secondo concerto (se proprio lo si vuol chiamare così...) di Liszt, sfoderando grande tecnica nei passaggi più protervi della partitura, ma anche grande sensibilità di tocco nelle liquide cascate di note che costellano l’opera. Un paio di (mi è parso di percepire) note false non intaccano l’eccellenza della sua prestazione, accolta calorosamente (con speciali applausi per la violoncellista Monika Leskovar) e seguita dallo schumanniano Von fremden Ländern und Menschen.

Ecco infine (ma ci saranno altre... fini) l’Ottava del boemo. Qui l’orchestra deve proprio trovarsi a casa: il pacchetto dei violoncelli è straordinario, splendido il flauto della Gabriella Pivon e impeccabile la tromba di Zsolt Czegledi, per citare solo i principali artefici della trascinante esecuzione.

Fischer non si nega a un bis, e ci riserva – a dimostrazione che la sua orchestra è proprio una famiglia (il che da solo spiega l’eccellenza dei risultati) - una sorpresa davvero impensabile: il nutrito gruppo in quota rosa si trasforma in uno splendido coro per proporci, con l’accompagnamento degli archi dei maschietti, Hoře (Dolore) un duetto dall’op.38, sempre di Dvořák. 

Ma non è ancora finita: da ultimo il saluto e la buonanotte con le Danze rumene di Bartók.

10 giugno, 2016

LaVERDI 2016 – Concerto n°21


Nell’intervallo prima delle ultime 4 rappresentazioni della Traviata-Valentino romana Jader Bignamini ha trovato il tempo per un paio di capatine sul podio dell’Auditorium. La prima lo vede dirigervi un concerto tutto russo, aperto da Romeo&Giulietta, ultima versione del 1880, che torna spesso qui in Auditorium (l’abbiamo ascoltata da Grazioli, Ceccato e due volte da Xian negli ultimi 5 anni). Bignamini ne dà una lettura vibrante, dal misterioso corale di Lorenzo, alla scatenata gazzarra fra le fazioni, al sognante e strappalacrime tema dell’amore fra i due giovinetti, scaldando da subito l’entusiasmo del (pur non oceanico) pubblico.  
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Ecco poi Shostakovich con il suo strambo Concerto per pianoforte e orchestra d’archi e interventi della tromba. Lo interpreta Angela Hewitt (che va verso i 60, ma non li dimostra proprio!) supportata al meglio dall’impertinente trombetta di Alex Caruana, il quale è alla terza esecuzione di quest’opera con laVERDI, dopo quelle del 2011 e di meno di un anno fa.  

La Hewitt ci dà per ora un antipasto di quella che sarà la portata principale del suo soggiorno milanese: il monumentale Primo di Brahms che lei affronterà in Auditorium il 28 p.v. Nell’attesa, dopo aver ricevuto con Caruana i meritati applausi, ci propina anche il suo Ravel. Arrivederci quindi a fra qualche settimana, dopodichè lei se ne andrà, trascinandosi via l’intera orchestra, in Umbria per accudire una sua creatura che compie 10 anni
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Chiusura con un pezzo davvero forte, la Patetica per eccellenza. Bignamini ce ne ha mostrato tutte le meraviglie e i ragazzi lo hanno assecondato alla grande. Personalmente ho avvertito solo un eccesso di foga nella rincorsa finale dell’Allegro molto vivace, dove il fracasso ha finito per coprire i dettagli (ma ha provocato uno spontaneo applauso anticipato, dopo il perentorio ta-ta-ta/tà della chiusa). Da incorniciare le ultime 8 battute del finale di celli e bassi, che esalano in pppp, fino proprio a morire, la triade di SI minore.

Dopo questo trionfo e come prologo al suo prossimo esordio al ROF, Bignamini si cimenterà fra pochi giorni in una specie di kermesse rossiniana.   

08 giugno, 2016

L’argenteo cavaliere ci riprova alla Scala

 

Ieri sera alla Scala seconda recita del redivivo Der Rosenkavalier, che a più di un secolo di distanza evidentemente continua a non convincere i milanesi (e non). Per carità, ora nessuno ha l’ardire – come accadde in quel lontano mercoledi 1° marzo del 1911 - di fischiare la musica del bavarese, accusandola di lesa maestà al nobile melodramma italico, perchè intrisa di eccessivo walzerismo viennese... O di irridere il testo del raffinato Hofmannsthal, che nella traduzione italiana doveva perdere parecchio dell’appeal che ha nella lingua originale, con tutte le sfumature del dialetto austriaco (che noi non crucchi ci perdiamo comunque anche ascoltando il tedesco). No, la disaffezione oggi si misura in numero di poltrone e di intere file di palchi andate deserte: una cosa, questa sì, al limite dello scandalo.

La nuova (per la Scala) produzione viene – tramite l’intermediario Pereira - da Salzburg ed è firmata dall’oggi 81enne Harry Kupfer. L’ambientazione – cosa che ormai supera il limite dell’abuso – è nella Vienna degli autori, non in quella di 150 anni prima. Quindi nei locali settecenteschi (su fondali di foto della Vienna novecentesca) lo scenografo Hans Schavernoch ci mostra – cito solo due esempi - un fonografo a manovella e una bellissima automobile (quella di Strauss doveva proprio essere così) e i costumi di Yan Tax sono pure da primo novecento, però con qualche tocco... vintage, come il taglio degli abiti di Octavian. (Delle scene c’è da elogiare la piattaforma che scorre da destra a sinistra e viceversa, assai efficace nel creare di volta in volta gli ambienti in cui si snoda la vicenda, mostrandoci anche ciò che avviene fuori scena, tipo l’ingaggio di Valzacchi-Annina da parte di Octavian). Naturalmente è un’ambientazione che deve fare i conti con la parrucca, e in particolare con quella di Ochs, oggetto fondamentale nel testo, poichè determina nientemeno che lo sviluppo della scena tragicomica del terz’atto: come sempre, anche qui il regista deve ricorrere al volgare parrucchino (perso e poi recuperato dal buzzurro di Lerchenau) che trasforma un’invenzione invero raffinata di Hofmannsthal in una gag da avanspettacolo. Come una gag diventa il duello Octavian-Ochs dell’atto secondo, con il nobilastro campagnolo ferito da una spada passatagli al volo dal ragazzo per invitarlo a combattere... O come la torma di ragazzini sedicenti-figli-illegittimi che nell’atto finale circondano Ochs, ben più numerosi dei 4 (quattro) previsti dal libretto. Tutte trovate abbastanza stantie – simili a quelle del precedente allestimento visto qui, a firma di Herbert Wernike, che avevo personalmente criticato assai a suo tempo - che non mi pare proprio valorizzino l’opera, ecco.   

Detto ciò, va comunque riconosciuto al vecchio Kupfer di averci presentato con grande equilibrio lo scenario socio-psico-esistenziale che caratterizza questo capolavoro: ci troviamo tutta l’apologia del regno di Maria Theresia, dal quale era nata l’Austria in cui vivevano (pieni di fama e... quattrini) gli autori, ma al contempo la meditazione sull’eterno fluire del tempo e sulla necessità di accettazione dei mutamenti che esso comporta per gli esseri umani. Tutto è un mistero, un grande mistero, ed esistiamo per questo, (sospirando) per sopportarlo. E nel “come” (con molta calma) sta la vera differenza. E parlo dei mutamenti a livello privato, come a livello pubblico: il futuro di Marie Theres’ come quello della nobiltà illuminata che lei impersona; quello della nobiltà retriva (Ochs); quello dell’emergente borghesia produttiva (Faninal); e infine quello dei giovani eredi (Octavian-Sophie). E al proposito la scena finale (indipendentemente dal mezzo di trasporto) è resa da Kupfer con perfetta aderenza allo spirito dell’opera.
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A Krassimira Stoyanova va indiscutibilmente la rosa d’argento della serata. Un’interpretazione magistrale (grazie anche a Kupfer, certo) e una prestazione vocale di eccellenza, per potenza di suono coniugata con mirabile espressività.

Il travesti è Sophie Koch, che (per me) ha iniziato malissimo, per poi però ritrovarsi e fare una dignitosa figura in particolare nelle prove finali (terzetto e duetto) dove la sua voce (mi) è parsa trovare il giusto grado di morbidezza. Meglio di lei l’altra Sophie (il personaggio): quella di Christiane Karg, che ha sciorinato un bella voce squillante e appropriatissima alla figura della figlia-di-papà, caratterizzata al contempo da ingenuità e slanci battaglieri.

Günther Groissböck è finalmente un Ochs appropriato anche anagraficamente: ha solo pochi anni più del (probabile) 35enne bue che viene dalla campagna a nord di Vienna e che troppo spesso viene cervelloticamente presentato come un vecchio lurido e bavoso. Quanto alla prestazione vocale, mi è parsa più che apprezzabile, a partire dal timbro piuttosto baritonale, anche qui adatto ad impersonare un tipaccio esuberante e non un vecchio mezzo rincoglionito. Qualche decibel in più di volume non avrebbe guastato, tuttavia si son potuti (a fatica) udire anche i MI gravi (e persino l’impossibile DO sotto il rigo, proprio nel momento in cui si accommiata dalla Marescialla nel primo atto, mich tiefst beschämt).


Faninal è Adrian Eröd, che si comporta senza infamia a senza lode: voce non molto penetrante (dovrebbe essere da baritono acuto) che fatica ad arrivare su al loggione. Certamente più udibile (anche troppo...) invece la Silvana Dussmann che impersona la cameriera di casa Faninal, il cui vociferare non è però del tutto inappropriato al personaggio di zitella... accalorata, ecco.

Ora farò indebitamente di ogni erba un fascio, accomunando tutti gli altri numerosi personaggi in un generico apprezzamento per aver dato il loro onesto contributo. Faccio una piccola ma doverosa eccezione per il tenore italiano, che l’italiano di studi Benjamin Bernheim ha impersonato con bella prestanza e sfoderando al meglio gli squillanti SIb e il SI naturale che la particina comporta. Sempre efficace il coro (grandi e piccoli) di Bruno Casoni.

Lascio da ultimo il venerabile Zubin Mehta, capitano di lungo corso su queste rotte straussiane e concertatore sopraffino. Se mi posso permettere un appunto, gli imputerei un filino di rilassatezza nei tempi, che avrei (personalmente, sia chiaro) preferito più spediti e garibaldini. Già l’attacco dei corni (uno dei quali purtroppo non è stato perfetto, ma pazienza...) mi è parso ad orecchio piuttosto al di sotto del metronomo di 60 minime prescritto da Strauss. Ma al grande vecchio si può perdonare questo ed altro, perchè tenere in pugno con consumata maestrìa un oggetto come questo non è da tutti.

Trionfo quindi meritato e... peggio per i disertori.

05 giugno, 2016

Lieber Fritz in Venedig


La Fenice ha ospitato nei giorni scorsi un amico piuttosto riservato (nel senso che si fa vedere in giro abbastanza di rado): trattasi di tale Fritz, animato dalla musica di Pietro Mascagni, che ieri si è accommiatato dopo la quinta ed ultima rappresentazione.

Opera piuttosto singolare: un verismo sui-generis, perlomeno rispetto allo stereotipo classico che vorrebbe per questo genere di opere soggetti sanguigni, se non addirittura crudi e truci. Qui siamo invece alla normale (o quasi) vita di campagna, fra viti e ciliegi, dove due giovani troveranno la felicità dopo qualche vicenda strappalacrime e grazie all’intercessione di un rabbino. L’unico momento drammatico di tutta l’azione (beh, azione si fa per dire...) si riduce alla fuga precipitosa di Fritz dalla campagna verso la città, lasciando con un palmo di naso la poverina Suzel. Qualcuno ha persino parlato di una specie di Elisir d’amore (a ruoli principali invertiti) come dire: una pièce zuccherosa e un po’ patetica, con finale degno di Harmony, ecco.     

Le cronache ci dicono che fosse proprio Mascagni, dopo il clamoroso successo di Cavalleria - che però più d’uno maliziosamente attribuiva in parti uguali alla potenza del libretto e alla musica – a chiedere al suo editore Sonzogno, impaziente di fare altri affari con una nuova opera dell’astro nascente, un soggetto di basso profilo, in modo che, per contrasto, fosse la sua ispirata musica a venire in primo piano. E così ecco che la scelta cadde su L’ami Fritz, un romanzo leggero (ma non banale, attenzione!) in 18 capitoli di Erckmann-Chatrian del 1864, poi ridotto per il teatro nel 1876, dalla quale riduzione il famoso Angelo Zanardini aveva ricavato un libretto, di cui Mascagni irrise a tal punto la poetica da convincere Sonzogno a farne rimuovere le coglionerie (sic) da tale P. Suardon (al secolo il giornalista Nicola Daspuro, anzi D’Aspuro) e infine dai fidati Targioni-Tozzetti&Menasci, onde ricavarne il comunque mediocre libretto dell’opera.



Qualche curiosità sulle differenze di scenario fra il romanzo e il libretto. Il romanzo che indirettamente ispirò Mascagni fu opera di due francesi originari della Lorena: Émile Erckmann, nato a Phalsbourg e Alexandre Chatrian, nato a Soldatenthal (dei due, Erckmann era in effetti l’autore dei romanzi, mentre Chatrian si occupava più che altro della loro... commercializzazione o riduzione per il teatro).

La collocazione geografica della vicenda è abbastanza controversa: è luogo comune parlare di Alsazia (e così sarà infatti nel libretto dell’opera) ma in realtà i nomi delle località citate nel romanzo sono o immaginari o mascherati: la cittadina dove abita Fritz (non citata nell’opera) è Hunebourg, che non esiste come tale (a quel nome corrisponde in effetti un vecchio e isolato castello alsaziano, nei Vosgi) mentre si ritiene, da indizi derivati dal contesto, che si tratti di Landau (o località in quei pressi, come Dahn) che è nel Palatinato meridionale, regione tedesca occupata da Napoleone con tutti i territori tedeschi a sinistra del Reno nel 1797, ma poi tornata tedesca nel 1815 (Congresso di Vienna) con la restituzione di Landau e dintorni al Regno di Baviera. In effetti Fritz (siamo nel 1847) si vanta di essere bavarese e non vede di buon occhio gli imperialisti prussiani che si aggirano dalle sue parti, mentre mostra più simpatia per la Francia (e per i suoi vini, per la verità...)

Anche la descrizione di Bischem, dove Fritz e Suzel ballano alla festa (episodio ignorato dal libretto) corrisponde in realtà alla cittadina di Pirmasens, 30Km circa a ovest di Landau, sempre Palatinato. Nel romanzo troviamo anche la Lauter, fiumiciattolo che scorre nel Palatinato e poi traccia il confine fra lo stesso e l’Alsazia, sfociando nel Reno. Altri due luoghi direttamente connessi con Fritz sono Meisenthal (nell’opera Mésanges, il podere di Fritz, gestito dal padre di Suzel, Hans Christel) e Sonneberg (dove Fritz possiede dei vigneti - oggetto della scommessa con il rabbino David - nell’opera Clairefontaine): a questi nomi corrispondono effettivamente due località della Lorena che però sono (la prima sicuramente) incoerenti con il contesto (Fritz va e torna a piedi in giornata da casa sua a Meisenthal... che però disterebbe almeno 50Km!) Insomma, meglio non fare troppo caso ai riferimenti geografici, oppure pensare che gli autori abbiano consapevolmente voluto mischiare le carte per trasmetterci il concetto che tutta quell’area geografica (Alsazia-Lorena-SudPalatinato) avesse in fondo delle caratteristiche assai simili di civiltà, usi e costumi.

Ciò che infatti importa rilevare è come gli autori del romanzo siano francesi e per di più ardenti patrioti (scrissero diversi lavori di argomento nazionale) ma raccontino qui una storia edificante con personaggi tutti tedeschi, in un luogo storicamente più tedesco che francese. Mostrandoci con sapienti pennellate lo spaccato di una società persino fin troppo felice, tutta dedita al lavoro e al conseguente godimento (rendita compresa, vero Fritz?) delle risorse con esso create. E ciò si spiega con la collocazione temporale della scrittura del romanzo e della vicenda in esso narrata: il romanzo è scritto nel 1864 e narra di avvenimenti del 1847 (il periodo nel quale matura l’amore fra il ricco, nullafacente e impenitente scapolo 36enne Fritz Kobus e la timida, casta e romantica 17enne Suzel Christel, figlia di un suo mezzadro). Si tratta di un periodo storico in cui ancora in Francia si aveva dei tedeschi un’immagine positiva (la vecchia, buona Germania, amica della pace). Per chi, come gli autori del Fritz, proveniva proprio dalle zone di confine, prima del 1870 era quasi normale passare nel vicino Palatinato, venire a contatto con quelle popolazioni, apprezzando la quasi idilliaca convivenza fra etnie, lingue e religioni diverse: basti pensare che Fritz è luterano, Suzel anabattista e David (che fa di tutto pur di vederli sposati) è un rabbino! E che lo stesso David e il violinista gitano Iosef (personificazioni di due figure – ebrei e zingari – che diverranno tristemente famose per le persecuzioni di cui saranno vittime nella Germania del 20° secolo) in quella tollerante società sono invece accettati quasi con naturalezza...

Tutto cambiò dopo la sconfitta di Napoleone III a Sedan, la dolorosissima perdita di Alsazia-Lorena e il conseguente insorgere in tutta la Francia, e in particolare nelle regioni annesse dai tedeschi, di sentimenti di revanche contro l’imperialismo d’oltrereno: da allora Erckmann diventò forsennatamente antiprussiano e scrisse solo opere intrise di fazioso patriottismo francese.

Orbene, a che pro tutto questo tormentone? Semplicemente per censurare la cervellotica impostazione del libretto di Daspuro, che colloca invece la vicenda in un generica Alsazia attorno al 1890 (periodo della composizione dell’opera) quando la regione Alsazia-Lorena era da quasi 20 anni annessa alla Germania (tornerà francese dopo la WW1, di nuovo tedesca nel 1940 e ancora francese a fine della WW2). Quindi: una collocazione geografica ma soprattutto temporale che fanno letteralmente a pugni con i contenuti idilliaci della vicenda, divenuti impensabili in quei luoghi e in quel periodo (i rappresentanti della regione al Reichstag erano tutti protestatari, cioè contrari all’annessione). Peraltro il libretto ignora quasi del tutto ogni aspetto politico, etnico, linguistico e religioso presente nel romanzo - salvo il riferimento al ruolo pastorale di David e alle attitudini gitane di Beppe - per insistere principalmente sulla banale componente rosa della vicenda. E a questo punto però l’ambientazione diventa del tutto gratuita, e Alsazia-1890 potrebbe tranquillamente mutare, invento a caso, in Pannonia-1760 o in Molise-1810 o nelle Fiandre-1920... e Fritz mutare in Frigyes, Chicco, Rik, ecco.
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Beh, dopo aver denigrato a sufficienza il libretto (ma mai come Verdi, che lo bollò seccamente come scemo!) veniamo alla musica, che dalla povertà del testo avrebbe dovuto programmaticamente trarre vantaggio! E bisogna dire che da subito lo trasse, se è vero come è vero che la prima di sabato 31 ottobre del 1891 al Costanzi fu un trionfo addirittura superiore a quello di Cavalleria (e più di un critico azzardò il giudizio secondo cui Fritz superava la stessa Cavalleria in contenuti estetici).

Nel 1892 l’opera approdò nel gotha di Vienna: martedi 26 gennaio fu data in tedesco, sotto la bacchetta del venerabile Hans Richter, alla Hofoper; poi in italiano, al Prater, diretta da Mascagni in persona, giovedi 15 settembre. L’ex sovrintendente della Hofoper ricordò il primo avvenimento come greve e il secondo come ispirato: confidò queste sensazioni dopo aver udito una delle prime, se non proprio la prima rappresentazione tedesca (lunedi 16 gennaio 1893, Amburgo) diretta da Gustav Mahler, il quale da parte sua si dichiarò letteralmente entusiasta del lavoro di Mascagni. Lusinghiero era stato a Vienna anche il commento del severo Eduard Hanslick, il di cui complimento per la verità potrebbe pure essere considerato, ehm, imbarazzante; e la cronaca ci dice che lo stesso Mahler, dopo Amburgo, mai più diresse il Fritz, ma solo Cavalleria, il che non esclude quindi un certo... raffreddamento nelle simpatie del boemo verso quell’opera. La cui lenta e progressiva diluizione di comparse nei teatri (alla Fenice la prima si ebbe... non prima del 1944 e la seconda e penultima 10 anni dopo; alla Scala nel dopoguerra abbiamo una sola presenza nella stagione 63-64!) testimonia dello scarso appeal di questa musica, di cui sopravvive, ma in esecuzioni concertistiche, il solo Intermezzo che apre il terz’atto.
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E di esecuzione in forma di concerto si potrebbe parlare a proposito di questa edizione del teatro veneziano, dove regìa, scene e costumi fanno a gara nel non dare valore aggiunto alla musica (così, paradossalmente, si accontenta Mascagni!) Simona Marchini (che con quest’opera ha una relazione particolare, nata a Livorno nel lontano 1991 e ivi rinfocolata nel 2002) pensa più che altro a mettere a loro agio i cantanti, facendoli cantare il più possibile al proscenio, ben rivolti verso il pubblico e bene in vista al direttore. Massimo Checchetto propone precisamente un quadretto (con tanto di corniciona) entro il quale si sviluppa la vicenda: nei due atti esterni siamo in casa di Fritz, un tavolo, uno scrittoio e sul fondo una grande vetrata da cui si scorge (atto primo) un campanile che spunta in mezzo agli alberi sotto un cielo sereno e (atto terzo, Alsazia addio!) un gran mare sotto un cielo plumbeo, che solo alla fine ovviamente si rischiara (hai capito che intuizione!?) Nell’atto centrale siamo ovviamente nella fattoria dove abita Suzel: una gradinata coperta da moquette verde sulla quale incombe di sghimbescio una piccola serra, poi un alberello con ciliegie mature, la pompa dell’acqua e un tavolo rustico. I costumi di Carlos Tieppo sono alsaziani quanto molisani o pannonici, ma comunque i/le sarti/e avran pure faticato a tagliarli e cucirli, quindi si meritano un bravi! Nulla di speciale nelle luci di Fabio Barettin.

Fabrizio Maria Carminati fa un buon lavoro di concertazione (aiutato, come detto, dalla regìa che gli mette i cantanti proprio... in faccia). Ma efficace è anche la sua resa delle mille sfumature (troppe, diceva un tal Giuseppe Verdi!) che costellano la partitura, con i continui cambi di tempo e le ardite (a volte cacofoniche) modulazioni. Ottima l’esecuzione dell’Orchestra, guidata da Robero Baraldi, salito alla fine sul palco a ricevere meritati applausi per la sua prestazione solistica del prim’atto.

Alessandro Scotto di Luzio mi è parso un buon Fritz, bella voce squillante ed efficacia nel rendere l’animo del protagonista, esteriormente spavaldo e cialtrone, ma sotto-sotto romantico e sensibile. Con lui ha fatto coppia una Carmela Remigio che ho trovato un filino al di sotto del suo normale standard: certo, la sua voce è per natura assai appropriata al personaggio, ma ieri ha avuto qualche calata di troppo e un portamento eccessivamente affettato.

Convincente la prestazione di Elia Fabbian (David): voce solida e penetrante, a supporto di una felice espressività. La controfigura (!) di Roberto Baraldi (Beppe) era Teresa Iervolino, che forse non ha cantato come il primo violino ha suonato, ecco... però si merita comunque ampia sufficienza. Hanno degnamente contribuito al successo William Corrò, Alessio Zanetti e Anna Bordignon. Bene al solito (la parte non è peraltro proibitiva) il coro di Claudio Marino Moretti.    

Alla fine un pubblico lungi dall’essere oceanico ha tributato a tutti applausi calorosi, che si sono aggiunti a quelli a scena aperta dopo le arie e l’Intermezzo.
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Ecco, salutato Fritz Kobus, adesso si profila all’orizzonte la minacciosa quanto pagliaccesca figura di un suo coetaneo del secolo precedente, il barone Ochs auf Lerchenau, non so se mi spiego!

04 giugno, 2016

LaVERDI 2016 – Concerto n°20


Questa prima settimana di un giugno piuttosto imbronciato ci porta un concerto diretto dal venerabile Elio Boncompagni, uno che i suoi 83 anni non li dimostra proprio. Il programma è una specie di testa-coda, dato che ci propone – in fatto di sinfonie - l’alfa di Beethoven e l’omega di Schubert. Programma quindi di quelli che attirano normalmente un folto pubblico, e così è stato anche stavolta, a dispetto del ponte patriottico che si chiuderà domenica con la (prima?) sfida per il trono di Milano fra due candidati di destra, uno dei quali si è furbescamente travestito da sinistro, per non essere expo-sto al ludibrio delle folle.

Boncompagni assomiglia un po’, nell’età, nella figura ma anche nell’approccio interpretativo, ad un altro vecchietto ben noto al pubblico de laVERDI: Helmuth Rilling. Sobrietà di gesto, bando ad ogni gigioneria e soprattutto grande fedeltà ai testi, a cominciare dallo scrupolosissimo rispetto di tutti i da-capo (il che nella grande significa per davvero proporre le celestiali lungaggini di schumanniana memoria).

Curiosa invece la dislocazione delle sezioni degli archi sul palco: violini secondi al proscenio sulla destra, ma celli e bassi dalla stessa parte, dietro; viole a sinistra, dove di norma siedono i secondi violini.

Per il canuto ma arzillo vegliardo e per i ragazzi, ieri guidati dalla seconda spalla dell’Orchestra, Nicolai Freiherr von Dellingshausen, un meritatissimo successo.

Chiudo qui in fretta e furia, chè mi aspetta un (piacevole, spero) viaggetto in laguna per salutarvi tale Fritz Kobus prima che... prenda il largo per la luna di miele su uno di quei grattacieli che solcano maestosi la Giudecca. A domani dunque.

30 maggio, 2016

Ancora una fiaba a Torino


Al Regio torinese va in scena in questi giorni l’ultima delle tre fiabe musicali che hanno costellato la stagione 15-16: Pollicino di Hans Werner Henze (che compirebbe quest’anno 90 anni). Dopo la diretta su Radio3 della prima di sabato, ieri pomeriggio è stata la volta della seconda recita, cui ne seguono oggi e domani altre tre in special modo riservate ai piccoli. 

La composizione risale agli anni ’79-80, quando Henze stava per lasciare la direzione del suo Cantiere internazionale d’arte di Montepulciano, dove sabato 2 agosto 1980 (data per il resto infausta – la strage di Bologna) l’opera andò trionfalmente in scena per la prima volta.

Il soggetto è una libera rivisitazione della celebre fiaba, curata da Giuseppe Di Leva, che in particolare ha pensato (ma forse lo pensò Michele Risso) un nuovo finale, dove una combriccola di 7 coppie di bambini, ormai evidentemente emancipati dopo il loro percorso iniziatico, culminato nella traversata del fiume in piena, se ne va coraggiosamente a scoprire il mondo, invece di tornare a casa da mamma e papà a fare i bamboccioni. Oltre al percorso di iniziazione, non manca nel soggetto qualche riferimento esoterico (tipo flauto magico) visto che in scena abbiamo tre gruppi (bambini, bambine e animali) di sette elementi ciascuno.

E proprio per dare totalmente fiducia ai giovani, l’opera fu realizzata in origine impiegando complessi di musicisti in erba, primo dei quali il Concentus Politianus, allora guidato dall’attuale Direttore artistico del Regio, Gastón Fournier-Facio, che all’epoca fu in pratica l’agente promotore dell’impresa. L’Orchestra prevista dalla partitura – assai diversa da quella del melodramma classico - ha il seguente organico:

 
Qui a Torino è stata in pratica assemblata all’uopo l’Orchestra giovanile “Il Pollicino”, mettendo insieme giovani di ben cinque Conservatori, cui si sono aggiunti alcuni bambini (Compositori in erba) della scuola di Villanova d’Asti. L’organico prevede un notevole rinforzo degli archi, per far fronte alle dimensioni della sala del teatro, assai più ampia di quella del Poliziano di Montepulciano. Per le stesse ragioni il pavimento della buca è sollevato di un buon metro e mezzo rispetto al normale.

Il cast canoro è costituito da 21 voci bianche del Teatro e del Conservatorio torinesi, cui si sono aggiunte le quattro voci adulte (i genitori di Pollicino e i suoi... futuri suoceri!) Tutti guidati da Claudio Fenoglio, per l’occasione sceso in... semi-buca armato di bacchetta con la quale ha guidato i ragazzi con grande autorità e sicurezza.

Insomma, un’iniziativa fatta proprio nel lodevole spirito che animò 37 anni orsono Henze e i suoi collaboratori nella realizzazione dell’originale. E di ciò va reso merito al Regio e in particolare al suo Direttore artistico.  
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Henze e Di Leva hanno strutturato l’opera in un atto unico suddiviso in 12 Scene, precedute da una Sinfonia e inframmezzate da 5 Interludi strumentali, collocati in corrispondenza degli altrettanti mutamenti di ambiente:

scena
ambiente
personaggi



Sinfonia


1
casa
Madre, Padre, Pollicino, 6 Fratelli
2
esterno casa
Madre, Padre, Pollicino
3
esterno casa
Pollicino
4
verso il bosco
Madre, Padre, Pollicino, 6 Fratelli
Interludio I


5
bosco
Pollicino, 6 Fratelli
Interludio II


6
casa
Madre, Padre, 6 Fratelli
7
casa
Madre, Padre, Pollicino, 6 Fratelli
Interludio III


8
bosco
Pollicino, 6 Fratelli
9
bosco
Pollicino, 6 Fratelli, Animali
Interludio IV


10
casa Orco
Orco, Moglie, Pollicino, 6 Fratelli
11
casa Orco
Orco, Moglie, Pollicino, 6 Fratelli, Clotilde, 6 Sorelle
Interludio V


12
fiume
Pollicino, 6 Fratelli, Clotilde, 6 Sorelle

Henze impiega per lo più musica quasi tonale, in specie per accompagnare il canto, mentre si spinge su terreni più impervi in alcune parti dell’accompagnamento (violino e pianoforte) dove troviamo spunti squisitamente espressionistici. Gli interludi ed altri brani puramente strumentali includono una pastorale per chitarra, una marcia, una poliritmia di percussioni (à-la-Stravinski) e una passacaglia con base di 6 battute ripetute 11 volte più la coda.

Dopodichè Henze infila simpaticamente nel suo racconto musicale svariate citazioni, o meglio reminiscenze, da musiche classiche e popolari; fra le più facilmente riconoscibili citerei: nella Scena 10 ‘Na gita a li castelli (So’ meio de la sciampagna li vini de ‘ste vigne... canta l’Orco ubriacone) che Henze doveva conoscere benissimo, avendo casa proprio a Marino! Nella Scena 11 ecco nientemeno che il povero Rigoletto (compresa la tonalità di MI minore!) sul buffo però-però dell’Orco che rientra in camera per mangiarsi qualche bambino. La chiusura della Scena 12 e dell’opera è cantata dai 14 bambini (ormai fattisi adolescenti) su una celebre canzone toscana (qui l’indimenticabile Narciso Parigi).
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L’allestimento di Dieter Kaegi è perfettamente funzionale al soggetto, ma anche all’impostazione originariamente data dagli autori: scene (di Italo Grassi, come i simpatici costumi) assai sobrie, pannelli mobili che chiudono gli ambienti domestici e poi svelano il bosco; proiezioni (di Mauro Matteucci) sul velario al proscenio a supportare gli interludi e luci (di Andrea Anfossi) sempre appropriate ai diversi ambienti in cui si svolge la fiaba. Molto efficaci i movimenti scenici di tutti i grandi e piccini; significativa la finale discesa in buca e risalita in platea dei 21 ragazzi, quasi a conferma della raggiunta emancipazione.

Ecco, ancora una proposta intelligente oltre che interessante del Teatro torinese, che il pubblico (ieri non oceanico, ma piacevolissimamente composto da giovanissimi) ha salutato con grande entusiasmo, distribuendo applausi ed ovazioni indistintamente a tutti i protagonisti di questo eccellente spettacolo.