ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

21 aprile, 2016

La cena degli obbrobri (di Martone)

 

Arrivato il mio turno in abbonamento (sennò, lo dico subito, al Piermarini stavolta non mi ci vedevano proprio, chè avrei dato il mio modesto contributo al computo degli innumerevoli posti vuoti in sala) eccomi a riferire della ripresa alla Scala, dopo nemmeno 92 anni (!) dell’ultima opera verista di Umberto Giordano: La cena delle beffe.  

Questa musica è di quelle che non ti fan venire la pelle d’oca, non ti sbudellano e non ti fanno piangere (nè ridere, per la verità). Insomma, entra dall’orecchio sinistro per uscire dal destro senza averti lasciato int-’a-capa tracce indelebili. Ma anche senza aver fatto danni cerebrali irreparabili, e di ciò va dato atto al compositore.

Carlo Rizzi per la verità non ci prova nemmeno ad aggiungere del sale, o pepe, o melassa agli ingredienti previsti dalla ricetta, e quindi raggiunge in pieno il risultato di cui sopra. Con l’aggravante di appiattire il tutto sul forte, salvo pochi squarci di... fortissimo.   

Il cast vocale è per definizione alle prime armi con quest’opera (gli specialisti di essa sono in pensione da tempo...) e quindi i cantanti fanno ciò che possono (e anche vogliono, a giudicare dai risultati) sicuri che nessuno potrà smentirli opponendo esempi di attualità. Anche loro sembrano seguire le orme del Direttore, e così di espressione, sensibilità e simili bazzecole non se ne parla proprio (salverei solo Alaimo, che peraltro non ha una voce proprio adattissima al ruolo di Neri e infatti mi dà l’impressione di scurirla artificiosamente). Insomma, tutti quanti concorrono a rendere abbastanza insopportabile una musica che è già di per sé indigeribile.
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Ho intitolato la mia cronaca scrivendo di obbrobri del regista. E non a caso, poichè davvero Mario Martone (recidivo oltretutto, vedi lo sfigato Oberto di 3 anni fa) ha equivocato totalmente la natura del soggetto. Quindi: se lo ha fatto in buona fede, merita di tornare a studiare per bene il libretto di Sem Benelli e di restituirci il maltolto; in caso contrario, sarebbe passibile di denuncia per adulterazione e contraffazione di prodotti preziosi o artistici (o pseudo- nella fattispecie) come chi smercia Lacoste, o Rolex, o VanGogh, o financo Fiat farlocche, ecco.

Il problema non è – al solito – il diritto del regista alla trasposizione geo-temporale del soggetto. Il che è tollerabile e financo apprezzabile, a patto però che del soggetto vengano conservate le fondamentali caratteristiche, e non soltanto la sottile epidermide che lo ricopre.

E di che tratta il testo di Benelli? Di una storia maturata sullo sfondo della rivalità fra rampolli di famiglie-bene; che ha come moventi il tasso di virilità e il possesso esclusivo o condiviso di qualche femmina dai costumi più o meno facili; rivalità che degrada dal piano poco più che goliardico a quello cruento, provocando gelosie, picche e ripicche, scherzi-da-prete e sentimenti di vendetta sempre più parossistici, fino a degenerare nel delitto e nel sangue. Quindi, gli effetti possono anche essere drammaticamente estremi, ma la causa che li ha generati è semplicemente risibile, proprio come per futili motivi di campanilismo si ingenerano spesso faide sanguinose fra contrapposte tifoserie.

Orbene, cos’ha a che fare tutto ciò con la criminalità organizzata? I mafiosi (a Manhattan come a Corleone) si dividono forse in cosche per contendersi qualche zoccola? O per stabilire chi ce l’ha più lungo? Ecco la domanda capitale da porre al regista, che in linea di principio nessuno potrebbe censurare per aver spostato di 700 anni in avanti e di 6.500Km a occidente il teatro della vicenda. Solo che lui non l’ha fatto per mettervi al centro una faida fra bande di giovinastri del Bronx (col che ci si sarebbe limitati a compiangere l’insulsaggine della trovata, visto che The warriors l’hanno già inventato altri) ma per lucrare sulla presunta pregnanza dell’ambientazione nel mondo del padrino, cosa che farebbe per definizione di un regista un genio! Mamma mia... E pensare che allora la soluzione di più profonda attualità era qui, a portata di mano, e proprio a Firenze! Bastava guardare un pochino dentro e fuori il giglio magico o a casa di Denis (tera-smile!)

Naturalmente non mancano nello spettacolo arditissime trovate, perchè bisogna pur ricordare al gentile pubblico (bue) che questa è un’opera verista, e cosa c’è di più verista del porno? Così ci sorbiamo la Cintia che si fa un solitaire eccitata dagli amplessi di Ginevra con Giannetto e poi la medesima Ginevra che accenna un - siamo a Manhattan, eh! - blowjob (in slang: fellatio) per farsi perdonare da Neri il suo tradimento. Evabbè... 

Non parliamo poi del rispetto che Martone dimostra per la musica. Giudicandola (e qui non ha tutti i torti) insignificante, si permette però di irriderla, facendo fermare l’intera orchestra, prima del celestiale accordo di SIb maggiore che si ode al calar del sipario, per propinarci una ben assestata salva di colpi di mitraglietta esplosi dalla santarellina Lisabetta, trasformatasi nella circostanza in vendicatrice dei torti subiti da tutte le femmine dell’universo. Evvai! Così quando metterà in scena Parsifal (ma speriamo... mai) farà entrare Kundry nella sala del Gral, armata di kalashnikov, per compiervi una carneficina (o questo finale l’ha già inventato qualcun altro?)

20 aprile, 2016

laVERDI fa teatro con Michieletto

 

Ieri sera il Piccolo Teatro di Milano – a 60 anni di distanza dalle storiche rappresentazioni di Strehler – ha tenuto a battesimo la prima delle ben 44 recite di Die Dreigroschenoper (L’opera da tre soldi, presentata nella traduzione italiana di Roberto Menin) di Brecht-Weill e messa in scena da Damiano Michieletto. In buca elementi dell’Orchestraverdi e sul podio uno dei suoi Direttori quasi stabili, Giuseppe Grazioli.

Teatro affollatissimo (con balconata presa d’assalto da adolescenti, il che è un gran bel segno) e a lungo plaudente per l’intera compagnia, interpreti, musicisti e regia.

Sul piano musicale la dozzina di strumentisti (fiati, tastiere e percussioni) de laVERDI sotto la direzione di Grazioli ha svolto efficacemente il suo compito di supporto alle canzoni e ballate che costellano questo particolare Singspiel, dove le parti recitate hanno un peso preponderante su quelle musicate. E forse per questa ragione, dato che il corposo testo di Brecht è stato impiegato in larghissima misura (pochi i tagli o le variazioni) si è deciso di impiegare più attori-cantanti che cantanti-attori. Di conseguenza sarebbe ingeneroso mettersi a giudicare gli interpreti sotto il piano puramente musicale. L’importante è che tutti abbiano fatto del loro meglio per rendere godibilissimo lo spettacolo. Mi limito a citare un nome per tutti: l’impareggiabile Peachum di Peppe Servillo.

Michieletto – che viene dal teatro di prosa, conviene ricordarlo – ha impiegato la sua fantasia per dare all’opera un tocco di attualità, prendendosi quindi qualche libertà rispetto al testo originale.

Le scene di Paolo Fantin hanno come base costante l’aula-bunker di un tribunale (il processo a Mackie) dentro la quale vengono rivissute le vicende dell’opera come fossero deposizioni di testimoni: la cosa può forse rischiare di apparire monotona tanto che, per movimentare la scena, le varie suppellettili (scranno del giudice, tribunetta della giuria popolare e banchetti degli imputati) sono montate su rotelle per poter essere facilmente spostate quà e là. Efficaci i costumi di Carla Teti e le luci di Alessandro Carletti. Chiara Vecchi è responsabile delle coreografie che movimentano alcune scene dell’opera.

Dicevo delle libertà che si è preso Michieletto, intese a dare qualche tocco di contemporaneità alla storia, di per sé sempre attuale, di Brecht. Cito come esempio la scena - terzo atto, invero di grandissimo impatto - dei mendicanti di Peachum che vengono presentati come moderni migranti naufraghi a cui poi vengono a mancare anche i giubbetti arancione di galleggiamento, facendoli colare a picco. E soprattutto il finale, dove il regista è quasi più brechtiano di Brecht: presentandoci la mancata esecuzione capitale di Mackie come effetto della corruzione dei magistrati (con una gran nuvola di banconote sparate fuori dalla classica 24ore-da-mazzette) prima ancora che dall’insperata grazia concessa dalla corona britannica. Ma nel complesso mi sentirei di giudicare l’allestimento fra il buono e l’ottimo.

In conclusione, una proposta che fa onore al teatro che fu dei grandi Giorgio Strehler e Paolo Grassi.

18 aprile, 2016

Revival caselliano a Torino. 3

 

Ieri pomeriggio al Regio torinese seconda de La donna serpente di Alfredo Casella. Teatro piacevolmente affollato, con buona presenza di ragazzi, che già avevano mostrato interesse per l’altra favola in musica programmata a inizio anno, La piccola volpe astuta.    

La positiva impressione suscitata (per quanto mi riguarda, perlomeno) dalla visione in TV della prima di giovedi scorso è stata confermata in pieno. A partire dall’allestimento di Arturo Cirillo, che ha optato per scene (di Dario Gessati) assai stilizzate e minimaliste, quindi poco rispettose, se si vuole, delle favolistiche didascalie del librettista Lodovici, ma concentrando i caratteri fiabeschi del soggetto nei bellissimi costumi di Gianluca Falaschi e nelle luci assai efficaci di Giuseppe Calabrò.

A proposito di costumi, intelligente è aver rivestito le quattro maschere con quelli della tradizione veneziana (Pantalone, Brighella, Truffaldino e Tartaglia) anche se Lodovici, per accentuare l’ambientazione caucasica del racconto di Gozzi ne ha islamizzato i nomi in Pantul, Albrigor, Alditruf e Tartagil (i primi due in Gozzi parlano in dialetto veneto, oltretutto...)        

Cirillo opta per una totale glasnost (trasparenza) consistente nel mettere in mostra, davanti agli occhi dello spettatore, anche scene o personaggi che il libretto prescriverebbe di celare agli sguardi del pubblico. Ciò accade in special modo nell’atto conclusivo, a partire proprio dall’inizio, preludio strumentale e aria di Miranda (la leopardiana Vaghe stelle dell’Orsa): che si dovrebbero ascoltare a sipario chiuso e nella più totale oscurità, per evidenti ragioni di ambientazione (l’impenetrabile dimora di un rettile) e per non dover mostrare un serpente che canta! Invece Cirillo fa esibire durante il preludio la bravissima e sinuosa danzatrice Vilma Trevisan e poi ci mostra Carmela Remigio che canta la sua struggente aria mirabilmente abbigliata con uno dei costumi di Falaschi.

Più avanti, mentre si prepara la tenzone fra Re Altidor e i tre mostri, è previsto un breve siparietto di cui sono protagonisti il Re delle fate (Demogorgon, padre di Miranda) e il mago Geonca (protettore di Altidor). Il libretto prevede espressamente che i due non si vedano, ma cantino stando dietro le quinte; non solo, ma la loro voce dovrebbe arrivare in sala attraverso forti altoparlanti elettrodinamici (da qui l’indicazione: duetto degli altoparlanti!) È una più o meno voluta imitazione del vocione di Fafner che nel Siegfried si deve udire attraverso un megafono, per dare l’impressione di cavernosità e lontananza delle voci. Ecco, Cirillo fa invece entrare sul palco i due personaggi e li fa cantare al naturale, senza megafoni di sorta.

Infine, anche l’ingresso di Togrul con i due figlioletti di Altidor dovrebbe avvenire dopo che la voce del Visir si è udita da dietro le quinte: qui invece lui canta dopo essere ben entrato in scena. Beh, non mi sentirei francamente di censurare più di tanto queste scelte del regista (che ci ha anche risparmiato il passaggio della distruzione del sepolcro del serpente-Miranda e della sua riduzione in cenere).

Casella ha infarcito l’opera di passaggi puramente strumentali - formalmente motivati dalla necessità di coprire complicati cambi di scena - ma che a lui risultavano oltremodo congeniali, date le sue attitudini di musicista puro. Qualche esempio: il lungo interludio che separa il Prologo dall’inizio dell’Atto I (e che ha quasi una funzione di ouverture) dovrebbe permettere di sostituire la lussureggiante scenografia iniziale del mondo delle Fate con quella orrida e selvaggia del deserto in cui troveremo Albrigor e Alditruf. Oppure, nell’Atto I, la scena del sonno di Altidor, con la bellissima berceuse. O ancora, nell’Atto II, la transizione verso la scena IV (a Teflis) con la marcia delle amazzoni. Ecco, avendo Cirillo di fatto eliminato la necessità di complicati cambi di scena, ha avuto l’idea vincente di riempire gli spazi puramente sonori della partitura con le coreografie di Riccardo Olivier e i quattro danzatori della Fattoria Vittadini, più 10 mimi impiegati in funzione di... fate-maschio (= fati!) in ciò rifacendosi alla tradizione dell’opera barocca, tanto cara al compositore.

A proposito di mimi, Intelligente (e didascalico) anche l’impiego di due di loro in veste di marionette manovrate dalle due maschere per rappresentare i travestimenti Pantul-Checsaia e Togrul-Altamuc nella quarta scena dell’Atto I. Simpatica anche la resa dell’inizio della scena magica (terza dell’Atto I) dove Togrul e Tartagil invece che calare dall’alto in groppa a due grosse libellule arrivano su due trabiccoli multicolori spinti da due mimi.
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Ma il tutto è assai funzionale alla narrazione musicale di Casella, della quale si fanno carico Gianandrea Noseda, gli orchestrali e le voci. Il Maestro sciorina la sua grande dimestichezza con la musica di Casella e non lascia mai cadere la tensione (perdonabile qualche eccesso di decibel) e mette benissimo in risalto tutte le scoppiettanti idee musicali che costellano la partitura, benissimo assecondato da un’Orchestra in stato di grazia.

Sul fronte voci, un encomio si merita subito il coro di Claudio Fenoglio, impegnato a pieno organico in passaggi di notevole difficoltà ed effetto (Atto III) ma anche a piccoli gruppi in scene di grande lirismo (ad esempio: le Nutrici...)

Tutto il cast mi è parso offrire una prestazione rimarchevole, a partire dalla protagonista Carmela Remigio, perfettamente calatasi nella parte di Miranda: prestazione che ha avuto ovviamente il suo apice nella difficile quanto commovente aria del serpente.

Accanto a lei, ottimo Piero Pretti, voce squillante e sempre ben intonata, capace di sovrastare anche i fracassi orchestrali, ma efficace anche nelle tante espressioni di puro lirismo che caratterizzano la parte.

Le due guerriere Armilla e Canzade sono splendidamente impersonate da Erika Grimaldi, che ha esibito una bellissima voce da soprano drammatico, e da Anna Maria Chiuri, autorevole in tutta la non facile tessitura. Metterei appena un filino sotto la prestazione di Francesca Sassu (la sbifida fata Farzana) che ha esibito qualche urlo di troppo sugli acuti.

Bravi tutti i quattro interpreti delle maschere, Francesco Marsiglia, Marco Filippo Romano, Fabrizio Paesano e Roberto de Candia. A quest’ultimo darei la palma di primus-inter-pares... Ottimo mi è parso Fabrizio Beggi, in specie nelle accorate esternazioni verso i due pargoletti di Miranda. Sebastian Catana ed Emilio Marcucci hanno avuto, come detto, il privilegio di cantare al naturale e senza amplificazione, il che gli ha consentito di esibire voci robuste e ben adatte ai ruoli (Demogorgon e Geonca).

Ma bene hanno operato anche tutti gli altri interpreti minori, dando il loro valido contributo alla notevole resa complessiva dello spettacolo.    
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Interessante la mostra allestita nel foyer Toro del Teatro, che ripercorre la vita di Casella attraverso preziosi reperti fotografici e testuali che testimoniano dell’apprezzamento che l’intero mondo musicale della prima metà del ‘900 mostrò per questo musicista autenticamente europeo. Apprezzabile anche l’iniziativa del teatro di allegare (senza sovrapprezzo) al programma di sala un doppio CD con interpretazioni caselliane di Noseda (le 3 sinfonie e frammenti sinfonici da La donna serpente) con i suoi ex- della BBC Philharmonic. Insomma, direi che questo revival di Casella sia da applaudire – come ha fatto ieri il pubblico - senza condizioni.

(3. fine)

16 aprile, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°14, o della biodiversità


Italia, Francia, Argentina, tribunali, vini e... Mozart! Questo è il bizzarro melting-pot che ci riserva il programma di questa settimana (una ripresa della prima dello scorso giugno) di genere per così dire... operettistico.

Partiamo dall’alcol, visto che il titolo del pezzo in programma (Barbatelle) ci indirizza verso vigneti e relativi prodotti e derivati. E non a caso, datosi che l’autore del libretto – figlio di una precedente pièce teatrale - è Giancarlo Cignozzi, uno che di vino se ne intende assai, avendo curato e impiantato vigneti in quel di Montalcino da più di 40 anni, con la benedizione del grande Luigi Veronelli, alla cui memoria il lavoro è dedicato. Il soggetto dell’operetta è la guerra del vino, fra l’imperialista bordolese (cabernet-sauvignon) e gli altri vitigni che (in Francia come in Italia) rivendicano, appunto, la loro biodiversità. Guerra senza esclusione di colpi, con impiego di armi di distruzione di massa (Eskà, o mal dell’esca, un fungo che distrugge i vitigni, e che l’imperialismo bordolese minaccia di impiegare contro i ribelli) o un’autentica Mata Hari (Malvy, nella fattispecie una seducente malvasia nera di cui i ribelli si servono per destabilizzare dall’interno il potere imperialista).

Veniamo alla geografia: a musicare il testo dell’italianissimo Cignozzi è Luis Bacalov, argentino come il regista Carlos Branca e la responsabile artistica Marina Rivera. Quanto ai tribunali, sia Cignozzi che Branca sono avvocati con evidenti propensioni teatrali.

E Mozart, che c’entra? Beh, chi ascolta il Singspiel di Bacalov ne sente parecchio, suonato e pure cantato... ma il legame più incredibile con tutto il resto è che Mozart viene diffuso giorno e notte nei vigneti del Paradiso di Frassina di Cignozzi, come antidoto contro... le Eskà!

La storia che si rappresenta (10 cantanti, 6 attori, più 12 coristi della Gambarini) è ovviamente a lieto fine, conseguito dopo non poche peripezie e rischi di conflitto mondiale (!) É un divertissement e non può che concludersi in gloria per tutti. E a benedire interpreti e pubblico è il Teofilo in persona che arriva per attaccare la sua kleine Nachtmusik con cui lo spettacolo chiude in bellezza.

15 aprile, 2016

Revival caselliano a Torino. 2

 

Ieri sera chi non stava seduto su una poltrona del Regio torinese ha avuto la possibilità di vedere (o solo ascoltare) su RAI5 o Radio3 La donna serpente di Alfredo Casella (il cui spunto, come si sa, è il famoso testo gozziano che già aveva ispirato un giovane musicista poi diventato qualcuno: Richard Wagner, con le sue Feen). 

Un’opera il cui soggetto è per Casella poco più che il pretesto per scatenare fantasia e ispirazione musicali; una lunga serie di avvenimenti (naturalistici o magici), di situazioni sorprendenti e di stati d’animo i più diversi (di protagonisti principali e maschere) che il compositore sembra divertirsi ad evocare musicalmente con un approccio neoclassico, lontano dalle seriosità del melodramma tradizionale ottocentesco e lontanissimo dagli eccessi del verismo. Siamo insomma esteticamente più vicini a Händel (il barocco magico) e magari a Mozart (la Zauberflöte) che non a Verdi o a Mascagni.

I numerosi interludi e intermezzi strumentali disseminati nell’opera testimoniano ulteriormente dell’attitudine di Casella verso la musica pura, magari da associare alla danza, più che al canto. E proprio della danza Arturo Cirillo ha fatto ampio uso nel suo allestimento (coreografie di Riccardo Olivier e danzatori della Fattoria Vittadini) per arricchire di contenuti visivi (grazie anche ai colori dei costumi di Gianluca Falaschi e alle luci di Giuseppe Calabrò) la musica di Casella.

Il cast vocale mi è parso all’altezza e Noseda ha mostrato di padroneggiare benissimo questa difficile partitura, il cui oblio a me sembra francamente immeritato e che il Regio ha fatto bene a riproporre (dopodichè sarebbe comunque azzardato attribuirle lo status di capolavoro, che non è di sicuro). Rimando ovviamente una valutazione più approfondita a dopo l’ascolto-visione dal vivo.

(2. continua)

13 aprile, 2016

Revival caselliano a Torino. 1

 

Il Regio torinese ospiterà nei prossimi giorni (prima il 14/4 ore 20, diretta su Radio3 e RAI5) La donna serpente di Alfredo Casella. Dopo la Volpina di Janáček, questa è la seconda delle tre fiabe (seguirà Pollicino di Henze) che il Teatro ha messo nel cartellone 2015-2016. Si tratta di una coproduzione con Valle d’Itria, già presentata a Martinafranca nel 2014, con l’allestimento di Arturo Cirillo.  

Con comprensibile fierezza per aver dato i natali ad una delle principali figure della musica italiana del ‘900, Torino ha per l’occasione organizzato un Festival Casella, che contempla una lunga serie di manifestazioni ed eventi a contorno delle cinque recite dell’opera.

Opera venuta alla luce a cavallo degli anni ’20-’30 dello scorso secolo, quindi coeva – cito solo alcuni titoli - di Lulu (Berg), Da una casa di morti (Janáček), Il Re (Giordano), Arabella (Strauss) e della Lady di Shostakovich. Se si escludono Strauss (ostinatamente rivolto verso il glorioso ‘800) e Giordano (che proprio e solo con la sua ultima opera si distanziò dalla moda verista) gli altri autori erano, ciascuno a modo suo, alla ricerca di vie nuove da battere. Ecco, Casella, in questa che è di fatto la sua prima e principale opera, ha riversato il suo concetto di modernità basato sulla presa di distanza dagli eccessi drammatici che avevano caratterizzato il teatro musicale, a partire dal periodo romantico e giù giù fino al verismo. Così è solo la musica ad occupare tutto lo spazio, nelle sue manifestazioni più diverse e genuine: a ciò risponde perfettamente la scelta del soggetto, una fiaba allo stato puro, priva di qualunque morale, di significati più o meno sotterranei e di riferimenti espliciti o impliciti ai casi della vita.               

L’opera condivide con La cena delle beffe di Giordano, in programmazione in questi stessi giorni alla Scala e distante le mille miglia sul piano artistico, lo stesso destino: essere finita nel dimenticatoio. Come dimostra il fatto che (in attesa della pubblicazione di un CD-DVD da Martinafranca, o prossimamente dal Regio) l’unica incisione dell’opera apparentemente in circolazione sembrerebbe un riversamento di una rara esecuzione RAI del 1959. Il libretto di Lodovici è a sua volta di difficile reperimento, in rete se ne trova soltanto un esemplare in forma dattiloscritta, evidentemente ancora in abbozzo (il finale in particolare è assai diverso dalla versione definitiva) con correzioni di pugno di Casella! Ho cercato di renderlo passabilmente leggibile e l’ho caricato a questo indirizzo: la qualità è quella che è, di certo il programma di sala del Regio lo riporterà in forma ben migliore, ma per ora, in mancanza di meglio, il documento può servire a chi volesse... fare un po’ di compiti a casa, ecco.

(1. continua)

08 aprile, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°13


Stanislav Kochanovsky ricompare per la quarta volta sul podio de laVERDI, dopo le tre apprezzate presenze degli ultimi mesi del 2015. Anche questa volta ci presenta solo musiche di... casa propria: tre diverse suite da balletti.     

L’impaginazione originale prevedeva una specie di... crescendo di difficoltà: un leggero Ciajkovski, poi un semi-leggero Khachaturian e chiusura in bellezza con il difficile (non pesante, per carità) Stravinski.

Invece la locandina in loco e un foglietto volante nel programma di sala annunciavano che l’ordine era cambiato, portando in apertura il pezzo forte (un po’ come nel concerto precedente). Essendo una modifica dell’ultimo (o penultimo) momento, vien da pensare che sia stata originata non da ripensamenti estetici, ma magari da prosaiche circostanze, del tipo: uno strumentista insostituibile in Petrushka doveva inderogabilmente andarsene alle 21:15 (!?)

Insomma, quale ne sia stata la motivazione, si è partiti con il pezzo non solo più forte, ma anche più impegnativo del programma: Petrushka nulla ha infatti da invidiare - quanto a straordinaria barbarie musicale - al sovversivo Sacre, che sarebbe comparso di lì a poco, ma che era in gestazione proprio negli stessi mesi della marionetta. La versione 1947 cambia qualcosa di quella del 1911, differenziandosene per la più economica strumentazione (chissà, forse le ristrettezze post-belliche...) Ciò si evince dalla sottostante tabella:

1911
2 ottavini
(I anche flauto IV, II anche flauto III)
2 flauti
4 oboi
(IV anche corno inglese)
3 clarinetti in SIb (poi in LA)
clarinetto basso (anche clarinetto IV)
3 fagotti
controfagotto (anche fagotto IV)
4 corni in FA
2 cornette in SIb (poi in LA)
2 trombe in SIb (poi in LA)
(I anche tromba piccola in RE)
3 tromboni
tuba
timpani
cassa
piatti
tam-tam
triangolo
tamburo basco
tamburo militare
tamburino provenzale
campanelli
celesta (2 e 4 mani)
piano
2 arpe
xilofono
quintetto d’archi
1947
ottavino
(anche flauto III)
2 flauti
2 oboi
corno inglese
3 clarinetti in SIb
(III anche clarinetto basso)
2 fagotti
controfagotto
4 corni in FA
aaaaa
3 trombe in DO e SIb
aaaaa
3 tromboni
tuba
timpani
cassa
piatti
tam-tam
triangolo
tamburo basco
aaaaaa
aaaaaa
aaaaaa
celesta
piano
arpa
xilofono
quintetto d’archi

A dir la verità i ragazzi de laVERDI sono talmente gagliardi che l’orchestra sembra proprio quella del 1911, un fantastico insieme che – guidato con mano esperta da... Stanislao, uno del quale è facile predire che farà molta strada – sciorina un’esecuzione a dir poco entusiasmante. I ragazzi sarebbero tutti da elencare per nome e cognome, così scelgo io il loro alfiere nell’esile Carlotta Lusa, che ha splendidamente suonato l’impegnativa parte del pianoforte.
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Dopo la pausa, ecco quindi la Bella addormentata, i 5 brani che compongono la Suite dai 3 atti del balletto. Musica che non si smetterebbe mai di ascoltare, tanto ti droga con la sua impareggiabile vena melodica. Era uno dei pezzi prediletti del venerabile Vladimir, fondatore dell’Orchestra, e ascoltandolo non si può non tornare a ricordarne la straordinaria figura.
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Si chiude con il compatriota di Stalin (un onore! ehm...) Aram Khachaturian e la suite di Masquerade, della quale ho scritto qualche nota a margine di un’esecuzione con Grazioli in Auditorium circa tre anni fa.

Il successo qui lo si ottiene a buon mercato, ecco, e così ci sta pure un bis con la riproposizione dell’indiavolato galop finale, per un pubblico (non da record...) osannante.   
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Ora il bravo Stanislav si prepara per una prova impegnativa in quel di Firenze... ma ci sarà occasione per tornare sull’argomento.

05 aprile, 2016

Chi non beve con me... serpente diventi

 

C’è una specie di (casuale o concordato, non saprei dire) filo rosso che collega di questi tempi Scala e Regio di Torino. Si tratta della riproposta di due titoli piuttosto desueti del novecento (‘20-‘30) italiano: La cena delle beffe di Giordano alla Scala e La donna serpente di Casella a Torino. In entrambi i casi le rappresentazioni in teatro vengono affiancate da iniziative diverse, volte a promuovere vuoi il titolo in programma (Milano, dove è stato proiettato nel Piermarini il film di Blasetti del 1942) o la figura del compositore (Torino, con il Festival-Casella). Ecco, questa necessità di attirare in tutti i modi l’interesse del pubblico rappresenta di per sè un’implicita ammissione del valore non proprio eccelso di quei titoli.

Però con alcune differenze: nel caso di Giordano – operista che deve la sua fama a Chénier e Fedora, venute alla luce quando ancora si era nell’800 -  si tratta di una delle opere decisamente minori, abbarbicata ad un verismo ormai decrepito ed oltretutto zavorrata da un libretto che magari 90 anni fa poteva ancora suscitare entusiasmi, ma che oggi fa francamente ridere...

Invece per Casella le cose stanno in modo un filino diverso: intanto lui non era propriamente un operista, e quindi concepiva la musica come arte pura, e non come supporto sonoro a drammi, men che meno a storie veriste. E il soggetto della sua prima e quasi unica opera fu volutamente individuato in una fiaba, quindi un soggetto fantastico che desse modo al compositore di liberare la sua ispirazione senza condizionamenti di sorta.

Insomma, si tratta di due riproposte che hanno in comune nulla più della data di nascita delle opere: delle quali la prima sostanzialmente guarda all’indietro, laddove la seconda perlomeno cerca di dire qualcosa di nuovo.  
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Domenica 3 aprile la Scala ha quindi ospitato la prima della Cena, ben 92 anni (!) dopo averla tenuta a battesimo con Toscanini. Con una battuta di bassa lega si potrebbe dire che adesso lasciamo volentieri ai nostri pronipoti il piacere di risentirla nel 2108 (stra-smile!) Però è certo che siamo di fronte a qualcosa che è ben lungi dall’essere un capolavoro, e forse non è solo un caso se l’opera è praticamente caduta nell’oblio e se ne esistono soltanto tre edizioni in commercio (DeFabritiis-1955, Bonavolontà-1972 e Sanzogno-1988).

In attesa di assistere dal vivo, così da poter anche apprezzare (o criticare...) la messinscena di Martone, dirò che l’ascolto radiofonico non mi ha propriamente entusiasmato: discreta la prestazione dell’orchestra e la direzione di Rizzi, mentre gli interpreti principali mi son parsi un po’ a disagio, e non è una buona scusante il fatto che tutti fossero inevitabilmente alle prime armi con quest’opera: Marco Berti ha mostrato qualche problema di intonazione ed a volte è parso in difficoltà a sostenere la parte di Giannetto, oggettivamente dura, tutta incardinata sul famigerato passaggio. Non molto meglio si è portato Nicola Alaimo, che ha una voce chiara, adusa a Rossini ma che poco si attaglia ad un personaggio squisitamente verista come Neri. Passabile e non più la Ginevra di Kirstin Lewis, onesti gli altri comprimari.

Insomma, mi pare una proposta francamente discutibile, nulla a che vedere con le due opere del Verdi da galera che l’hanno preceduta nella stagione, meritandosi apprezzamenti quasi unanimi. Quanto alla prestazione complessiva, speriamo che le cose migliorino con qualche replica in più di rodaggio.  

02 aprile, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°12


Zhang Xian torna a guidare laVERDI in un concerto di impaginazione piuttosto insolita: si parte dal romantico Schumann di metà ‘800, poi si sfiora il tardo-romantico Goldmark di fine secolo per chiudere in pieno ‘900 con Malipiero. Credo che chiunque avrebbe precisamente invertito l’ordine dei brani, lasciando per ultimo il cosiddetto piatto forte: così invece si è quasi voluta far toccare con... orecchio l’idea (magari sbagliata, ma diffusa) che la qualità della musica, dopo i fasti ottocenteschi, sia andata progressivamente degradando. Sia detto ciò con tutto il rispetto per Malipiero, sulle cui capacità e sul cui entusiasmo non v‘è da dubitare, ma insomma: al cospetto del grande Robert, ehm. Chissà poi se c’è un nesso causa-effetto fra il programma, diciamo, bizzarro e l’affluenza del pubblico, che non ha riempito per più del 60% le poltrone dell’Auditorium...

C’è anche un labile filo, come dire, stagionale a legare le tre composizioni: le prime due ispirate più o meno precisamente alla primavera e la terza alle quattro stagioni.

Si comincia quindi con la Prima di Schumann, che la Xian, forse per allinearla in durata alle altre due composizioni, comprime al massimo, evitando i ritornelli principali (dei due movimenti esterni, in forma-sonata). In più, mette a fondo scala la manopola del volume e così ne esce una cosa di grande effetto sì, pari però alla grossolanità, il che non rende un buon servigio a Schumann. L’unica nota positiva sono, al solito, i bravissimi ragazzi che non sbagliano un passaggio che è uno. Ma (per me, almeno) non basta.
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Ecco poi Im Frühling di Karl Goldmark, già presentato qui da Bignamini poco più di un anno fa. Con una battuta di bassa lega si potrebbe dire che, volendo proprio proporre un brano primaverile, assai meglio avrebbe figurato, per dire, Frühlingstimmen, che almeno è un gran bel walzer del sommo Johann Strauss. Insomma, qui mi pare che siamo al velleitarismo allo stato puro: una mappazza dolciastra che (almeno a me personalmente) non desta alcun particolare moto dell’animo, ecco.
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Gian Francesco Malipiero era dichiaratamente avverso alle forme classiche, così compose... sinfonie e concerti a profusione! Ma si tratta di veri e propri equivoci programmatici, essendo quasi sempre opere costruite con il metodo del Durchkomponieren, dove in sostanza una nota tira l’altra quasi senza alcun rimando tematico o strutturale, ma giustificata solo dall’ispirazione del momento. Quindi soltanto dei titoli appiccicati dall’esterno ci guidano a cercare riferimenti concreti nella narrativa. Che i quattro movimenti di questa sedicente sinfonia rappresentino le stagioni ce lo dice il sottotitolo dell’opera, altrimenti ciascuno di noi potrebbe pensare a qualunque altro soggetto, o semplicemente... a nulla!

Dopodichè ammettiamo trattarsi di musica che si lascia ascoltare piacevolmente, per carità, solo che alla fine uno si chiede inevitabilmente: ma il concerto finisce così? Insomma, è come se ad un pranzo ti servissero come primo una faraona arrosto e poi, dopo un sorbettino, un’acciuga di falstaffiana memoria, e chiusa lì (!?)

23 marzo, 2016

laVERDI 2016 – Concerto n°11 con il lutto al braccio


Il tradizionale appuntamento di Pasqua con una delle Passioni di Bach cade precisamente la sera di un’autentica giornata di passione per il mondo intero. Ruben Jais, presentatosi al proscenio in maniche di camicia, ha invitato il pubblico che affollava l’Auditorium ad alzarsi e osservare un minuto di raccoglimento in memoria delle vittime del terrorismo.

Fate la musica e non la guerra! È il messaggio che ci viene da Bach. E che la sua musica, come tutta la musica occidentale, debba molto alla scienza di grandi musulmani del passato - Ishaq Al-Kindi, Ibn Sina (Avicenna), Al-Farabi, Safi Al-Din e molti altri ancora – rende se possibile più assurda la guerra che i fondamentalisti sedicenti islamici hanno dichiarato all’umanità intera.
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Il concerto di questa settimana (sarà replicato questa sera stessa in Duomo a Milano e venerdì in Auditorium) è anche l’occasione per ritrovarsi con laBarocca, la creatura di Jais (e Capuano) che purtroppo ha dovuto quest’anno rinunciare alla tradizionale stagione propria in Auditorium per le note vicende legate alla irresponsabile cecità dei nostri politici.

E la (relativamente!) breve, ma cruda e verista Johannes-Passion ha ancora una volta testimoniato del livello qualitativo assoluto degli ensemble di Jais-Capuano, autori di una prestazione davvero eccellente, al cui successo hanno dato il determinante contibuito i solisti di canto, tra i quali mi limiterò a citare il tenore Patrick Grahl, perfetto nel ruolo dell’Evangelista narratore, ma anche in quello di protagonista di due splendide arie.

L’Auditorium, visitato da una folla davvero cosmopolita (qui Bach realizza in concreto il Seid umschlungen, Millionen!) ha lungamente applaudito tutti i protagonisti di questa serata di grande musica e di elevazione dello spirito sopra le miserie della vita.