ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

08 dicembre, 2015

È arrivata la Giovanna!


Ecco, è già passato un altro SantAmbrogio, il terzo consecutivo a mettere al centro dell’attenzione dei melomani (e dei pettegoli) un’esponente del gentil sesso: dopo Violetta (la donna redenta) e Leonore (la donna salvatrice) è ora la volta di Giovanna, emblema della compromissione fra Religione e Politica.

Ecco, insieme al rapporto conflittuale padre-figlia (una costante nella produzione verdiana) questo a me pare il nocciolo fondamentale del libretto di Temistocle Solera, e non è escluso che fosse proprio questa tematica ad attirare l’interesse del mangiapreti Verdi. Andando assai al di là del testo ispiratore di Schiller, Solera fa scomodare la mamma (immacolata) di Gesù per indirizzare le sorti della guerra dei 100 anni. Ma per sottolineare come tutte le parti in causa strumentalizzino la Religione per i propri interessi, ecco che addirittura la Vergine fa il doppio gioco! Ordinando in sogno al Re di Francia – ma che bella figura il neoguelfo Solera fa fare ad un sovrano! - di regalare il suo trono agli invasori albionici, e contemporaneamente ispirando le gesta patriottiche anti-albione della pulzella.

Altro elemento, diciamo così, di critica socio-religiosa è la figura di Giacomo, che impersona il bigottismo del popolino, credulone perchè (non per sua colpa) ignorante: un padre snaturato che, insieme a se medesimo, vende la figlia al nemico - dopo averla umiliata con un barbaro processo in piazza - come castigo per sue supposte colpe di impurità. Ma è un padre che… rinsavisce giusto in tempo per consentire alla figlia di tornare a combattere e vincere, col che Solera fa anche passare il concetto che le guerre alla fin fine non sono i sovrani e i potenti a vincerle, ma le umili persone del popolo, che per loro si sacrificano sui campi di battaglia.     

Come detto, il soggetto del lavoro di Verdi è il frutto di ben due manipolazioni: quella che Friedrich Schiller operò, disinvoltamente quanto deliberatamente, sulla realtà storica al momento di stendere il suo dramma Die Jungfrau von Orleans. Eine romantische Tragödie; e quella operata da Solera sul testo di Schiller, fonte dichiarata del libretto. I principali oggetti di tali manipolazioni sono assai schematicamente riassunti nella tabella che segue. Che a mio avviso conferma la mirabile abilità del nostro librettista nel creare una drammaturgia perfettamente tagliata sulle caratteristiche e le esigenze espressive di questo Verdi, che sarà ancora acerbo fin che si vuole, ma che (parlo per me) è nondimeno entusiasmante:

storia
Schiller
Solera
Giovanna: la famiglia
3 fratelli – 1 sorella
2 sorelle
figlia unica?
Giovanna: la chiamata divina
Arcangelo Michele, Santa Caterina, Santa Margherita
Vergine Maria
Vergine Maria
Giovanna: ruolo e azioni belliche
motivazione delle truppe – suggerimenti di strategia ai comandanti – pietà per le vittime delle battaglie  
partecipazione attiva agli scontri – foga sanguinaria - nessuna pietà per chi si arrende (Montgomery)   
visione di battaglie cruente - evocazione delle sue imprese da parte degli inglesi sconfitti
Giovanna: inizio della parabola discendente
dopo l’incoronazione di Carlo VII a Reims, comincia a considerare conclusa la sua missione
incontra un cavaliere nero, che le consiglia di abbandonare le armi, avendo compiuto la sua missione di portare Carlo sul trono
prima dell’incoronazione di Carlo VII a Reims, comincia a considerare conclusa la sua missione e pensa di ritirarsi in campagna
Giovanna: vita sentimentale e amori
nulla
ha un pretendente che lei ignora - in battaglia si innamora (alla maniera di Isolde con Tristan!) di Lionel, ufficiale inglese, poi prova senso di colpa 
si innamora di Re Carlo, poi prova senso di colpa
Giovanna: la prigionia
catturata dai borgognoni e riscattata su cauzione (raccolta aumentando le tasse in… Normandia!) dagli inglesi, che la fanno prigioniera di guerra
accusata dal padre di un patto col diavolo, per ottenere onori materiali, viene esiliata - catturata dai soldati di Isabella (madre ma avversaria di Carlo) e consegnata agli inglesi – rifiuta di sposare Lionel
accusata dal padre di un patto col diavolo, per ottenere l’amore del Re  – consegnata dal padre agli inglesi e da questi imprigionata
Giovanna: la morte
condannata dopo processo per eresia – arsa sul rogo
liberatasi da sola dalla prigione inglese - morta in battaglia dopo aver salvato Carlo
liberata dal padre dalla prigione inglese - morta in battaglia dopo aver salvato Carlo
Re Carlo
accettazione dello status-quo con gli inglesi
accettazione dello status-quo con gli inglesi
la Vergine lo ammonisce a deporre le armi
amante di Agnès Sorel
amante di Agnès Sorel
innamorato di Giovanna
padre di Giovanna
Jacques d’Arc
Thibaut d’Arc
Giacomo
inizialmente contrario ai propositi guerreschi della figlia – si riconcilia con lei dopo i successi militari
accusa la figlia di stregoneria, provocandone indirettamente la cattura da parte di Isabella
sospetta che la figlia abbia venduto l’anima al diavolo e promette agli inglesi di consegnargliela – la accusa di impurità – la consegna agli inglesi – poi la riabilita e la libera

La prima, vista ieri sera (malamente, managgia alla RAI) in TV, mi permette di fare una stringata considerazione sull’allestimento di Moshe Leiser e Patrice Caurier. I quali hanno sintetizzato il loro Konzept con la definizione Immaginario eroico ed estasi isterica. In sostanza i registi hanno scoperto che un medico, nientedopodomanichè maestro di Freud, tale Jean-Martin Charcot, che si occupava di matti&affini, aveva cominciato a studiare, proprio negli anni in cui Verdi componeva la Giovanna, i comportamenti di persone (soprattutto donne, guarda caso) isteriche ed epilettiche. Ecco, la loro Giovanna è una delle pazienti matte-da-legare del dottor Charcot, una che sogna di far massacri ISIS-like in nome della Madonna! E quindi il padre fa precisamente il suo civico dovere a denunciarla alle autorità e all’opinione pubblica, prima che la fuori-di-melonera possa far troppi danni! Oh, più attuale di così, parbleu

Non si capisce però come mai, visto che anche il reuccio Carlo ha le visioni della Madonna, non ci venga mostrato pure lui nelle vesti di un matto (no, per la verità le vesti erano proprio da matto, ecco); ed anche Giacomo, diciamola tutta, tanto tanto equilibrato non sembrerebbe (i suoi atti dimostrano il disordine della mente). Insomma, i registi avrebbero potuto sviluppare meglio il loro concetto e presentarci direttamente una gabbia-di-matti (quella dove in realtà andrebbero rinchiusi loro, stra-smile!) 
                                                        
Leggo che anche il real-timer Amfortas ha trovato ridicolo l’allestimento. 
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Sul fronte musicale, attestato che ciò che è portato alle nostre orecchie da diavolerie tecnologiche assortite, di originale e genuino ha poco o nulla, mi sentirei – salvo smentirmi, se sarà il caso, dopo l’ascolto nature – di parlare di prestazione complessiva più che onorevole, naturalmente con alti e bassi che non mancano mai, per definizione. Fra i primi metterei sant’Anna, che mi è parsa proprio a suo agio nella parte (quella vera, non la matta!) anche se nel concertato di fine atto III mi ha dato l’impressione di essere affaticata (e mi pare si sia anche risparmiata un paio di frasi) e sanFrancesco, che mi azzardo a definire il miglior tenore (oggi, quasi) in circolazione: voce sempre ben impostata e grande cura dell’espressione. Fra i secondi colloco il povero Devid Cecconi, cui va doverosamente accordata l’attenuante di essere stato catapultato in scena quasi a sua insaputa, causa il perdurante forfait di Alvarez, già mancato sia alla generale che alla prima-giovani. 

Proprio al centro collocherei Riccardo II, che mi sembra abbia tenuto una prudente equidistanza fra gli opposti eccessi nell’impiego di armi più o meno improprie, tipiche di questo Verdi d’assalto: la vanga (nei diversi a tutta forza e negli accompagnamenti da banda del pignataro) e il cesello (nei momenti di introspezione e di intimità). Certo, detta così potrebbe significare un complimento (mirabile equilibrio) o una stroncatura (né carne, né pesce): personalmente cercherò di sciogliere il dubbio dopo l’ascolto dal vivo… E con Chailly metto anche il coro (di Casoni) che è un autentico personaggio di primo piano in quest’opera, e che spero migliori ancora con le prossime recite.

05 dicembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°62


Programma russo questa settimana (più Campogrande, in Thailandia). A dirigerlo non è, come da remoto annuncio, Wayne Marshall, ma Stanislav Kochanovsky, che pare diventato il tappabuchi-principe (devo dire che se la cava sempre assai bene) de laVERDI.

Il primo brano vede protagonista Nicola Benedetti: chi mai direbbe trattarsi di un’avvenente ragazza 28enne? No, tranquilli, non è un maschietto che ha cambiato sesso: il nome – per noi italiani impensabile per una femmina – si spiega col semplice fatto che lei non è italiana, ma scozzese (sia pure di padre toscano). Lassù Nicola è femmina, il maschio è Nicholas, e allo stesso modo Andrea è nome femminile, essendo Andrew il maschile.

Chiarito il piacevole equivoco, parliamo del Concerto per violino di quel simpatico alcolizzato che rispondeva al nome di Aleksandr Konstantinovich Glazunov. Concerto composto nel 1904 ed eseguito nel 1905 a SanPietroburgo, proprio a ruota di quello del suo dirimpettaio di Helsinki, Jean Sibelius, giusto per inquadrarlo storicamente e pure geograficamente. Ma mentre il finlandese (che pure non lesinava corpose libagioni di… spirito) si era attenuto alla struttura più tradizionale, limitandosi a qualche bizzarra trovata in fatto di acrobazie tonali, il russo costruì il suo concerto con un’ardita operazione di incastro. Nel bel mezzo del primo movimento, dopo la canonica esposizione dei due temi, invece di far seguire lo sviluppo e il resto, cosa ci combina? Infila una sezione tematicamente del tutto nuova, quasi fosse un secondo tempo, conclusa la quale riprende lo sviluppo dei primi due temi, poi li ricapitola, ci aggiunge una cadenza e da qui attacca il rondo conclusivo!

Beh, c’è da riconoscere che i fumi dell’alcol a volte danno frutti strani, ma interessanti. Seguiamone una storica esecuzione di David Oistrakh.
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Su terzine ribattute di clarinetti e fagotti (triade di LA minore) il solista apre subito esponendo il primo tema, Moderato, 4/4:


È una lunga e languida melodia con inflessioni orientaleggianti, che a 53” (animato) assume un carattere momentaneamente più brioso (tutto in terzine) per poi sfociare (1’11”) in un ponte a mo’ di cadenza, dove le folate ascendenti del violino si alternano ad interventi più pesanti dei legni e in cui (1’45”) pare di riconoscere Ciajkovski nell’introduzione del suo concerto per violino. È in effetti l’introduzione al secondo tema (2’04”) tranquillo, in FA maggiore (relativa della sottodominante minore della tonalità d’impianto):


Il tema si sviluppa con inflessioni in minore (2’36”) poi torna al maggiore e viene seguito (3’12”) da una coda che si anima con un serrato dialogo fra il solista e l’orchestra, culminante (3’44”) in un secco accordo di FA maggiore, dove possiamo collocare la chiusura dell’esposizione. Ora inizia un progressivo calando, che porta (4’18”) ad un ponte (tranquillo) di 6 battute, che parrebbe proprio essere la preparazione ad una sezione di sviluppo. Ma qualcosa ci dice che non sarà così: la tonalità infatti è passata chissà come a REb maggiore!

(video2)

Ed infatti, sorpresa-sorpresa, ecco apparire un nuovo tema, anzi un’intera sezione in Andante, col tempo che muta a 3/4, quasi fosse un secondo movimento del concerto:

 
Tema invero dolce e sognante, ancora à-la-Ciajkovski, sviluppato anche in corda doppia, che (1’33”) vira, attraverso un’enarmonia LAb-SOL#, al LA maggiore, da cui modula ulteriormente, con il solista impegnato in grandi virtuosismi (da 1’49”) sullo sfondo di ampie folate dell’arpa. Si torna a REb maggiore (2’20”) dove il solista riprende la melodia portandola alla sua conclusione, con un pizzicato sulla dominante LAb.  

Qui ecco la seconda sorpresa, con il ritorno (Tempo I, 4/4) alla fine dell’esposizione dei due primi temi, che ora – 3’53”, la tonalità vira nuovamente a LA - vengono sottoposti a sviluppo, dalla sola orchestra. Così si ascolta il primo tema (fagotto e viole) e subito dopo (4’13”) il secondo, tuttora in FA (in flauto e oboe).

A 4’53” irrompe gagliardamente (più animato) il solista, che si imbarca in una specie di spiritato scherzo, culminante (5’18”, pesante) in quella che possiamo considerare la ricapitolazione: preceduta da un paio di batti-e-ribatti fra intera orchestra e solista in corda doppia sul primo tema (un tono sopra) e con il solista che poi (5’32”) lo ripresenta in LA, ma assai variato ed impreziosito di virtuosismi; poi (6’59”) ecco tornare il secondo, questa volta canonicamente in DO maggiore.

Si arriva ora, sempre come prescrivono le regole non scritte del concerto solistico, alla cadenza, introdotta (8’08”) da due accordi a piena orchestra. La prima parte (dove riconosciamo il secondo tema, poi il primo) viene chiusa a 9’20” da sette accordi in pizzicato.

(video3)

La seconda parte della cadenza (più sostenuto) ripropone il primo tema virtuosisticamente esposto in corda doppia dalla voce superiore, mentre quella inferiore crea un tappeto di velocissime biscrome. A 1’18” la cadenza si conclude con il rientro molto discreto dell’orchestra (archi bassi e corni, poi timpani) e il solista che attacca in DO maggiore con altre biscrome.

La tonalità poi modula fino a sboccare, sul MI sovracuto del violino, al LA maggiore con cui una smaccata fanfara di trombe (1’42”) irrompe come il proverbiale elefante in cristalleria, attaccando l’Allegro conclusivo (un Rondo sui generis, in 6/8) con l’esposizione del ritornello A, subito ripreso dal solista in corda doppia:

Ancora l’orchestra con il controsoggetto del tema, imitata subito dal violino, che poi riesegue soggetto e controsoggetto un’ottava sopra e con piglio squisitamente virtuosistico. A 2’26” è la sola orchestra a riproporre due volte il tema del ritornello.

Ecco poi il primo episodio (B): un bel tema cantabile che il solista espone (2’38”) sulla dominante di MI maggiore:
 
Torna a 3’34” il ritornello A in LA maggiore nella sola orchestra (due ripetizioni senza controsoggetto). A 3’45” abbiamo l’episodio C nel violino, tonalità RE maggiore:

 
È una saltellante melodia di sapore vagamente contadino, interrotta a 4’09” dall’orchestra che ne ripropone una variante, seguita (4’20”) dal ritorno del violino. A 4’30” ecco un cullante motivo di semiminime puntate nel solista, appoggiato da accordi dell’arpa e sul quale si innestano pregevoli interventi di corno e legni, finchè si giunge (4’49”) alla ripresa del ritornello A, ma assai variato e in DO maggiore, nel solista. Lo riprende l’orchestra, poi ancora il violino, ma modulando bruscamente (5’06”) a LA maggiore, quindi ancora a RE maggiore, poi a SI maggiore, fino a tornare al LA, dove (5’22”, più animato) il solista con una serie di quintine prepara il ritorno del ritornello A (5’30”) che viene eseguito poi nella sua interezza dall'ottavino e dai campanelli, col solista che batte il ritmo in pizzicato (quasi guitarra, sic):



Il tutto fa quasi l’effetto dell’incantesimo del fuoco 

A 5’52” riecco il tema A nel violino, sempre in LA, che inizia calmo (tempo mutato in 3/4) per poi presentare una continua accelerazione. A 6’26” si torna a LA maggiore per il gran finale (tempo 6/8): tre scambi di… cortesie fra orchestra e solista, poi (6’40”, sempre animando) il tempo passa a 2/4 (per tutti tranne che per il solista, che continua con le sue terzine in 6/8) e si accelera continuamente fino alla cadenza conclusiva (7’02”) dove anche il solista si allinea al tempo di 2/4 per gli ultimi battibecchi con l’orchestra che concludono il concerto, con il penultimo accordo del solista che impegna tutte le 4 corde del violino (dal basso: LA-MI-DO#-LA).
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La bella McBenedetti – presentatasi in un elegantissimo lungo nero, con ampia vista sul… ehm, lato-b (zona superiore, cosa credete!) – sciorina tutta la sua gran tecnica. Se posso farle un appunto, ma qui è questione di gusti, mi è parsa eccessivamente metronomica, ad esempio nel finale, dove un maggiore stacco dei tempi nei due episodi centrali non avrebbe guastato.

Per lei comunque un gran successo, che ci ricambia con uno dei bis più inflazionati: la sarabanda dalla seconda partita di Bach, che lei esegue con grande ispirazione.
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C’è forse un legame sotterraneo fra Glazunov e la Seconda sinfonia di Rachmaninov: la quale sarebbe probabilmente tutta diversa, se non fosse accaduto che la Prima (assai più innovativa, devo dire) venisse pesantemente contestata al suo esordio (César Cui arrivò a sentenziare che avrebbe potuto trovare gradimento soltanto all’inferno…) riducendo il Rach in uno stato di tale prostrazione da fargli rischiare la salute. E che c’entra con tutto ciò Glazunov? C’entra perché fu lui, salito sul podio verosimilmente inzuppato di vodka, a far fallire miseramente quella prova del giovane e promettente Sergei!

Il quale, ricominciando a vivere e comporre dopo anni di robuste cure di natura psicanalitica, decise verosimilmente di percorrere – sul piano artistico – strade più sicure e meno perigliose di quella imboccata in precedenza. Così la Seconda resta abbondantemente anacronistica, rispetto agli sviluppi coevi (si pensi a Mahler…) Personalmente su di essa mi sono espresso piuttosto negativamente – per usare una formula farmacologica: mi pare contenga 5 minuti di principio attivo e 45 di eccipiente - in occasione di una performance di Pappano alla Scala; il quale Pappano (avrà ragione lui!) si dice invece innamorato di quest’opera (e lo si vede bene qui).
  
Quando ascolto musica di questo genere mi verrebbe voglia di non applaudire (pensando che mi veda l’autore); ma dato che chi mi vede sono i ragazzi, che devono comunque fare una fatica d’inferno (il direttore un po’ meno…) ecco che – loro, non l’autore – meritano un encomio solenne. Però una sinfonia come questa, fossi Jais, la programmerei una volta ogni 20 anni, ecco.

01 dicembre, 2015

È in arrivo la Giovanna


Facciamo un… prologo in terra per SantAmbrogio. Cominciando dalle constatazioni più angosciose, tipo: Mattarella non viene! Anche Renzi non viene? (avrà mica passato il suo ingresso a Verdini, hahaha!) Pisapia viene solo perché obbligato (ma sarà per l’ultima volta, non vede l’ora di defilarsi, così dal 2016 ci dovremo sorbire… chi: Salaexpo o un grillino? o lo zio di Salvini?) Grasso e Boldrini non-parvenues. Trussardi, senza patente, poveretto, proverà ad arrivare in monopattino, fendendo la solita barriera di no-global, ma anche di no-giovanna (pare siano più incarogniti dei no-global) che accerchierà il gran teatro. Valeria Marini si dichiarerà stupita e delusa per la mancanza del rogo, Vittorio Sgarbi sentenzierà che quel pirla di Chailly festeggia il primo SantAmbrogio nel suo sospirato posto al sole con l’opera più brutta di Verdi. Che invece verrà santificata, su RAI5, da Michele Dall’Ongaro (o chi per lui, visto che lui adesso ha un’altra santa cui pensare, una certa… Cecilia). Insomma, c’è di che passare notti insonni, o imprecare, come faranno gli sfigati che potranno assistere solo all’ultima delle 8 recite, il 2 gennaio, dove invece di sant’Anna si dovranno sorbire – allo stesso prezzo! - tale Grimaldi.        

Veniamo ora al sodo, per chi voglia fare un po’ di compiti a casa e non restare sorpreso come la Marini (!) Dato che la Giovanna si rappresenta mediamente con frequenza… secolare, mi sono permesso di compiere un’operazione banditesca, scannerizzando (mi scuso in anticipo della pessima qualità) per pubblicarlo piratescamente, il capitolo che riguarda l’opera nel primo volume del sommo Julian Budden (pronto a rimuoverlo immediatamente dalla rete se raggiunto da intimazioni dei detentori di qualsivoglia diritto). I verdiani (non verdini, occhio!) più convinti e fedeli l’avranno di sicuro già messo a portata di mano (magari sul comodino) ma forse c’è qualche sprovveduto, ops! sprovvisto (del tomo) che troverà il regalino utile per prepararsi all’avventura del 7/12.

Come esercitazione pratica, si può ricorrere a questa giovanile interpretazione, a Bologna, dello Chailly-di-belle-speranze

29 novembre, 2015

Gran finale dell’Idomeneo in laguna

 

Ieri pomeriggio si sono concluse alla Fenice le recite dell’opera che ha inaugurato la stagione 15-16: Idomeneo. Come al solito pregevolissimo, oltre che puntuale nella disponibilità online, il programma di sala.

Dirò subito che il finale sarebbe magari stato grandissimo se l’opera fosse stata data in forma di concerto! Sì, perché la messinscena ha proprio fatto piangere (o ridere, a seconda dei gusti).
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Si descrive di solito Idomeneo come persona di gran nobiltà d’animo, ma a me pare che nel libretto di Giambattista Varesco (mutuato a sua volta da altre opere, oltre che dalla mitologia) il nostro non ci faccia propriamente una gran figura. Sarà pure un sovrano amato dal suo popolo, sarà pure un valoroso combattente, addirittura una testa di cuoio salito a bordo del cavallone-trappolone in quel di Troia, dove era sbarcato con una flotta di ben 80 navi cretesi. E – riportano le cronache – anche un gran bell’uomo, con il fascino del classico quarantenne in carriera. Insomma, un personaggio giganteggiante nel panorama mitologico dell’antica Grecia.

Però questo colosso d’acciaio mostra di avere i piedi di… cartapesta. Dico, non appena un po’ di maretta sorprende la sua nave di ritorno da Troia e ormai in vista di Creta, il colosso si ca.. sotto e per cercare misericordia dal manovratore-di-marette (tale Poseidon o Nettuno che dir si voglia) cosa gli promette? Di fargli costruire un tempio in ogni città cretese? Di fare in suo onore un pellegrinaggio a piedi fino a Cnosso e Festo e ritorno? Di fargli dono di un tridente d’oro tempestato di perle e diamanti? No, lui fa molto di più, gli promette nientemeno che un sacrificio umano (allora andava di moda). E di chi si tratta? Di se stesso, al fine di salvare i compagni? Di un figlio (stile Agamennone)? Di una nipotina? Toh, della suocera? Di un parente anche lontano? No no, gli promette di immolargli… il primo malcapitato che passa sulla spiaggia! Apperò che coraggio, che spirito di sacrificio! Pare Renzi quando proclama di mettere la mano – di Guerini – sul fuoco!

Beh, che il malcapitato si sia rivelato proprio come il suo unico figlio Idamante, lui se lo è ampiamente meritato e pochi dubbi sussistono che fosse lo stesso protettore-degli-acquari (la didascalia della Pantomima recita: Nettuno riguardandolo con occhio torvo e minaccevole) a combinargli a bella posta quel simpatico incontro (lui stesso se ne capacita imprecando: spietatissimi dei, ma è lui che se l’è voluta!) E a poco serve che, una volta in salvo, si mostri quasi pentito – a frittata fatta! - della sua promessa. E cerchi poi con maldestri sotterfugi persino di disattenderla, attirandosi così le ulteriori ire di Nettuno (sotto forma del famelico mostro). Soltanto quando finalmente accetterà tutte le conseguenze del suo gesto inconsulto e (come Abramo con Isacco) si appresterà a vibrare il colpo mortale sul figlio, solo allora potrà trovare comprensione e perdono dal dio offeso, e comunque a condizione di farsi da parte e cedere il trono.

Per insaporire la trama con un minimo di amori e gelosie assortite, ecco che su Creta convergono da lontani e opposti lidi due donne, che si contenderanno l’amore del futuro sovrano Idamante. Una arriva dal continente, in particolare da Argo-Micene, dopo aver compiuto con il fratellino una simpatica vendetta… facendo secchi la madre e l’amante di costei: trattasi di tale Elettra, figlia di Agamennone. L’altra invece è una nobile prigioniera di guerra: la troiana Ilia, figlia di Priamo, che Idomeneo ha spedito a casa in anticipo su una delle sue 80 navi; guarda caso anche lei fa naufragio, ma Idamante la porta in salvo e così… nasce l’amore, che ovviamente è per Elettra come fumo negli occhi.

Completano il cast un confidente di Idomeneo, tale Arbace e il Gran Sacerdote di Nettuno, oltre ai cori del popolo cretese, di prigionieri troiani e di marinai al seguito di Elettra. In più si ode la Voce (o meglio il porta-voce) di Nettuno che reca il perdono e consente così il lieto fine (salvo che per Elettra, che toglie il disturbo proprio un attimo prima).  
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Beh, dobbiamo ammettere che il soggetto è deboluccio assai, ma ciò non impedì al Teofilo di costruirci sopra forse il suo più bel lascito per la musica di tutti i tempi.

E questa produzione della Fenice ce lo ha riproposto – sul piano musicale – in modo davvero convincente. A partire dalla splendida prestazione dell’Orchestra, che evidentemente ha risposto al meglio alle sollecitazioni di Jeffrey Tate, praticamente perfetto nel tradurre in suoni quell’autentico scrigno di tesori che è l’immensa partitura mozartiana. E da quella del Coro di Claudio Marino Moretti, che nell’opera ha un ruolo fondamentale, di protagonista attivo, oltre che di testimone (alla greca) degli avvenimenti.

Su un livello più che soddisfacente il cast delle voci, tutte egualmente meritevoli di apprezzamento: a partire dal protagonista, un autorevole Brenden Gunnell, che pur non essendo chiamato ad acuti stratosferici (non va, la sua parte, sopra il SOL) sa ben destreggiarsi con gli impegnativi vocalizzi in cui Mozart lo impegna, culminanti nella famosa Fuor dal mar. Più che discreta la prestazione di Anicio Zorzi Giustiniani, un Arbace cui Mozart affida due arie magari non ispiratissime, ma di discreta difficoltà virtuosistica, che il nostro sa rendere al meglio: voce sottile ma penetrante e intonazione sempre corretta. Completano degnamente la parte maschile della compagnia le figure del Gran Sacerdote (Krystian Adam) e della Voce di Michail Leibundgut, che mi è parso (potrei sbagliare) arrivasse in sala diffusa da amplificatori (in uno con i suoni dei tromboni che la accompagnano).

Sul fronte delle interpreti femminili, benissimo Monica Bacelli, che si districa agevolmente in una parte originariamente scritta per castrato e spesso interpretata da tenori. Bene la Elettra di Michaela Kaune (che magari sforza fin troppo il suo carattere spigoloso) e discreta anche se non trascinante la prova della Ilia di Ekaterina Sadovnikova.

Per tutti grandi applausi finali da parte di un pubblico assai numeroso (anche se non c’era l’esaurito).                 
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Ed ora le note dolenti, legate all’allestimento. Il sudafricano dal nome italico di Alessandro Talevi mette su uno spettacolo tanto velleitario quanto inconsistente e persino travisante lo spirito, oltre che la lettera, di libretto e musica. Ci troviamo riferimenti alla lotta di classe (magari non quella di Marx) fra i cretesi-bene (lascivi, dissoluti e depravati) e quelli che lavorano (i marinai, proletari); poi ai conflitti di cui soffre la nostra civiltà attuale (i migranti, che vengano dall’interno – Argo – o dalla periferia – Troia – trattati come sub-umani); infine ecco le pratiche oggi apostrofate come rottamazione, culminanti nell’ingloriosa e umiliante fine di cui viene gratificato il povero Idomeneo. In compenso, il rottamatore Idamante, ormai in età da… trono, mostra la sua preoccupazione per le sorti del padre stringendo al petto la barchetta-giocattolo avuta in regalo da bambino: ecco un bell’esempio di caratterizzazione dei personaggi! Insomma, un Konzept (come lo chiamano i crucchi) piuttosto deludente.

Le scene di Justin Arienti sono un misto di bambinesca ingenuità e di kitsch che sfiora il ridicolo. Due esempi: il mare fatto di grossolani rulli, e lo studio di Idomeneo, ingombro di statue di Nettuno, modellini di navi, volumi impolverati, fauci di squali, candelieri sullo scrittoio… Da far proprio pena.

Anche i costumi e le acconciature (Manuel Pedretti) sono in linea con tutto il resto: un put-pourri di… stili (!) davvero indecoroso: per dire, Arbace nel second’atto pare… Mefistofele, poi Elettra si prepara a partire con tanto di valigetta di metallo; insomma, trovate gratuite e ridicole. Ci sarebbero anche movimenti coreografici (Nikos Lagousakos) sui quali mi limito a sorvolare. Delle luci di Giuseppe Calabrò mi son rimaste impresse soltanto le due circostanze in cui la luce… si spegne, per far subito posto a scoppi e lampi (che alla prima avevano indotto la direzione del teatro ad emanare un preventivo avvertimento al pubblico, in senso tranquillizzante, stanti i precedenti al Bataclan…)    

Non parliamo delle scene di massa, fra le quali citerei solo quella dei festeggiamenti a fine primo atto, una pantagruelica tavolata gigante con enormi vassoi di spaghetti-allo-scoglio, aragoste, pesce spada e polipone lesso, il tutto annaffiato con abbondante prosecco (resinato?); e quella di fine del second’atto, dove compare un lombricone nero che avvolge nelle sue spire il popolo terrorizzato. Ma come dimenticare l’orripilante sfondo (a sipario chiuso, tutto avviene al proscenio) che accompagna le prime scene dell’atto terzo: tre fili per stendere biancheria, che attraversano in larghezza l’intero palcoscenico, ai quali sono appesi brandelli di indumenti lordi e macchiati di sangue, evidente risultato delle scorribande del lombricone. Mamma mia!
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Ripeto: data in forma di concerto, sarebbe stata un’edizione da incorniciare.  

28 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n°61


Questa settimana è Zhang Xian a dirigere i suoi ragazzi. Programma poliedrico ed interessante (che ha incontrato un discreto interesse nel pubblico, abbastanza folto) aperto dal solito Campogrande, che ormai vediamo più qui in Auditorium di quanto non ne ascoltiamo la voce suadente dalle antenne di Radio3!

Si comincia nientemeno che con il sommo Johann Sebastian e il suo Concerto per due violini (BWV1043) interpretato dalle due prime parti de laVERDI: la spalla Santaniello e la guida dei secondi, Lycia Viganò.

In mancanza dell’autografo, la partitura è stata faticosamente ricostruita impiegando materiale di fonti diverse: siamo attorno al 1720 e ci si sente il Bach certamente influenzato da Vivaldi! Qui una storica esecuzione (1958) di una coppia di autentici mostri del violino: Oistrak-Menhuin.

Ma Santaniello-Viganò non sono da meno e – dopo una falsa partenza dovuta ad un problema di… corda (del violino di lui) - ci offrono un’esecuzione di gran livello: dalle volate in imitazione del Vivace, alla lunga e languida melodia della siciliana centrale, per chiudere con il brillante Allegro. In più, ci fanno ascoltare una cadenza del primo movimento che non si trova in alcuna edizione conosciuta: poiché è stata predisposta da Gabriele Mugnai (la prima viola de laVERDI, che trova anche il tempo per comporre) come ci ha svelato Santaniello al momento del bis.      
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Un salto di mezzo secolo, e siamo a Josephus Haydn, del quale viene proposta la Sinfonia Concertante per quattro strumenti. Anche qui, come quasi 4 anni fa, salgono in mostra altre prime parti dell’Orchestra: il vice-spalla Dellingshausen, il violoncello di Tobia Scarpolini, il primo oboe di Emiliano Greci e il fagotto-principe (unico superstite della ricordata esecuzione) di Andrea Magnani.

Anche loro, dopo l’applauditissima performance, si esibiscono in un bis confezionato ad-hoc, una rivisitazione della Passacaglia di Halvorsen-Händel.
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Chiusura in… Grande (ma non troppo) con Schubert. La Xian vi si era già cimentata con buoni risultati quasi due anni orsono, ma devo dire che ieri non mi ha pienamente convinto: partitura fin troppo prosciugata (l’unico da-capo eseguito è stato il primo – inamovibile – dello scherzo) e piuttosto, come dire, tirata via e con qualche eccessiva libertà in fatto di agogiche (scarti di tempo) e dinamiche (fracassi sopra... i righi). Insomma, non c'erano le celebri lungaggini, e nemmeno erano celestiali. Forse l’attenzione riservata ai due brani che coinvolgevano le prime parti è andata a scapito della preparazione della sinfonia, fatto sta che anche in orchestra non sono mancati alcuni intoppi e persino i tromboni, di solito impeccabili, in un passaggio del finale mi son parsi (spero di sbagliarmi) assai calanti.

Insomma, una serata con molte luci e qualche ombra (capita…)
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Allego uno scritto su Schubert dell’indimenticabile Sergio Sablich, comparso su Musica&Dossier del lontano Dicembre 1987.