ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

07 novembre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 58


L’EXPO ha chiuso i battenti, ma non Campogrande, che prima di dedicarsi al prossimo MITO si sofferma ancora sugli inni nazionali (Vietnam, questa volta).

Poi programma tutto sovietico, diretto da Stanislav Kochanovsky, che torna dopo nemmeno un mese sul podio dell’Auditorium, rimpiazzando l’originariamente designato Aziz Shokhakimov (che in compenso è appena stato nominato Direttore Principale Ospite de laVERDI).

Dapprima per supportare il rampante Yuri Revich (anche per lui un ritorno qui dopo due anni) nel Concerto di Aram Khachaturian, azero-armeno di Georgia, presto trasferitosi a Mosca - proprio come il suo conterraneo Stalin - e pienamente e convintamente integratosi nell’establishment musicale dell’URSS, scalandone la piramide fino al top. A parte una fugace e tardiva (1948) accusa di formalismo mossagli da un ormai moribondo Ždanov - accusa presto rientrata più a causa della scomparsa del censore che per merito della deliberatamente ipocrita autocritica del musicista – il nostro potè poi girare il mondo in lungo e in largo a spese del regime per farne l’apologia.

Il concerto qui eseguito è del 1940, periodo in cui il patto Molotov-Ribbentrop aveva illuso Stalin e compari di poter continuare indisturbati il consolidamento del loro potere assoluto, fatto di purghe e fucilazioni per i dissidenti e di premi in natura per gli artisti vessilliferi del regime. Regime che – attraverso l’Unione dei Compositori Sovietici, del cui comitato organizzativo Khachaturian era allora vice-presidente! - aveva fatto sorgere a Ruza (100Km a ovest di Mosca) una specie di villaggio del riposo e della creatività per musicisti, dove il nostro trascorse proprio l’estate del ‘40 con la moglie Nina incinta e dove compose di getto il concerto per violino, poi sostanziosamente rivisto dall’amico e dedicatario Oistrakh, che lo tenne quasi subito a battesimo a Mosca e di cui ecco un’esecuzione con l’Autore sul podio.

Oistrakh, oltre a fornire apprezzati consigli a Khachaturian sulla parte solistica, scrisse anche, per l’iniziale Allegro con fermezza, una sua cadenza (che si ascolta nella registrazione citata, da 8’06”) più brillante e classica nel contenuto di quella originale (che si può ascoltare invece da Haik Kazazyan, da 7’56”). 

Khachaturian si attiene scrupolosamente alla struttura classica: tre movimenti (due veloci ad incastonare quello lento) e impiego della forma-sonata nel primo e del Rondo nel finale; praticamente… fine ‘700! Certo, i temi sono tutt’altro che sinfonici, ispirati come sono a melodie popolari vagamente orientaleggianti, che il compositore aveva assimilato nelle sue terre caucasiche; ma sono magistralmente elaborati e danno al brano quella brillantezza che ne ha garantito il successo fin dalla prima esecuzione.
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Seguiamo la citata interpretazione di Oistrakh. Non ci sono accidenti in chiave, ma l’Allegro con fermezza (che occupa quasi il 40% dell’intera durata) è in RE minore, introdotto da 9 robuste battute orchestrali, dopo le quali (15”) il solista espone il primo tema, di sapore maschio e nervoso, suddiviso in due sezioni, subito rimbeccato dall’orchestra; tema poi ripetuto (1’03”) un’ottava più in alto e ancora sviluppato con il concorso orchestrale. Una transizione lenta (1’51”) conduce al secondo gruppo di temi (2’12”, Poco meno mosso) più elegiaco, vagamente ambientato sulla dominante LA e caratterizzato da un secondo motivo (3’27”) quasi lamentoso. Una breve cadenza (3’54”) conduce al corposo sviluppo, introdotto ancora rumorosamente (4’09”) dall’orchestra, dove il solista ripropone assai variati i temi principali, dialogando con l’orchestra fino ad adagiarsi su trilli di FA acuto. Qui (7’40”) violino e clarinetto si rimbeccano un veloce motivo di biscrome che scende e risale di un’ottava per sfociare (8’06”) nella lunga cadenza principale del solista. Dopo la quale(10’45”) ecco la ricapitolazione dei temi, nelle stesse tonalità dell’esposizione, ma con qualche variante: il primo (10’54”) e poi (12’00”) il secondo. Infine ecco (13’51”) una veloce coda conclusiva, basata sul primo tema.

Il centrale Andante sostenuto è permeato di… Caucaso: le lunghe melodie del solista sono un omaggio ai canti dei bardi armeni (gli ashug). La macro-struttura è di pseudo-rondo: A-B-A-B-A-B, dove sia A che B vengono però continuamente variati e sviluppati. È il fagotto ad introdurre l’embrione del motivo A (14’56”) intercalato dal clarinetto, prima dell’entrata del solista (16’21”) con il tema B, una lunga emozionante melopea. Dopo una breve parentesi orchestrale (18’16”) il solista riprende (18’27”) il tema A, che sviluppa ampiamente e al quale fa seguire (19’24”) il tema B, anch’esso sviluppato con un’accelerazione (20’10”) ad Allegretto, che l’orchestra ulteriormente accentua con un movimentato Allegro (20’30”) che introduce, tornando ad Andante (20’58”) il tema A, variato e ripreso successivamente con nuove variazioni (22’13”) dal solista. Altro siparietto orchestrale (24’02”) con cadenza del fagotto sul tema A e alcuni strappi con intervento dei piatti, quindi (24’34”) il solista riespone B all’ottava inferiore rispetto alle altre due entrate, contrappuntato dal clarinetto. A 25’22” l’orchestra interviene a completare B con una perorazione grandiosa, che porta (26’06”) alla coda conclusiva del solista.

Il finale è un Rondo Allegro vivace con il ritornello in RE maggiore. La macro-struttura è A-B-A-C-A-B-A’, più Introduzione e Coda. È l’orchestra (27’13”) ad aprirlo con una spettacolare fanfara introduttiva. Il ritornello A (il cui tema è vagamente mutuato dal secondo del movimento iniziale) viene esposto dal solista a 27’49” ed è seguito da un breve controsoggetto. Nuova esposizione di A (28’13”) seguita da una sua seconda sezione (28’23”) che attacca in minore per poi riproporre il tema in maggiore. L’episodio B (28’34”) presenta un tema dolce, esposto dal solista con interventi dell’orchestra (28’54” e 29’18”) che sfociano nella riproposizione delle due sezioni di A (29’29” e 29’41”). Una nuova fanfara (29’58”) orchestrale porta all’episodio principale (il più lungo) caratterizzato dall’agogica cantabile appassionato: a 30’10” il solista ne espone una prima sezione, seguita, dopo un intervento dei corni (30’11”) da una seconda e quindi, dopo altro intervento orchestrale (32’31”) da una terza assai virtuosistica (32’57”). L’orchestra (34’07”) e il solista (34’23”) preparano il ritorno di A (34’28” e 34’37”) seguito subito (34’50”) da B. Ancora l’orchestra (35’13”) introduce l’ultima apparizione di A (35’18”) qui virante a minore. A 36’06” ecco la virtuosistica coda, chiusa dalla fanfara che aveva introdotto il finale.        
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Revich ci mette tutto l’impegno per trasmetterci la vitalità del concerto. Peccato che (forse causa penuria di prove) l’intesa con Kochanovsky non sia stata perfetta: non tanto sugli attacchi, ma sul peso degli strumenti dell’orchestra, che hanno spesso e volentieri coperto (per eccesso di volume) il suono pur gagliardo del violino solista. 

Quanto alla cadenza, Revich ha deciso di mettere tutti d’accordo creandone una sua personale, che parte da quella di Khachaturian e poi mutua qualcosa da Oistrakh e un po’ anche da… lui medesimo! In ogni caso il successo è garantito e le chiamate del pubblico vengono ricompensate con un Bach assai spigliatamente proposto.
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Infine la Quinta di Shostakovich, che torna in Auditorium dopo 17 mesi (allora diretta da Xian). Opera che andrebbe apostrofata come Sinfonia ipocrita: ciò a voler prestar fede alle dichiarazioni pubbliche e private dell’Autore; le prime di aperte scuse per i passati errori (la Lady) e di apologia del regime staliniano (la realizzazione dell'uomo); le seconde che smentiscono clamorosamente le prime (Il giubilo è forzato, è frutto di costrizione) denunciando la mancanza di libertà che quel regime imponeva a sudditi e compositori.

Ovviamente basta ignorare del tutto sia le une che le altre esternazioni per poter godere di questa musica, una sinfonia tardo-romantica composta quasi a metà del ‘900, e chi se ne importa. Allo Höhepunkt del Largo c’è sempre da rabbrividire a quel passaggio dal SOLb maggiore al FA maggiore dove i violoncelli – sul tremolo degli altri archi e il tappeto di semicrome dei clarinetti - espongono un motivo davvero sbudellante (anticipato poco prima dall’oboe e poi dal flauto e ripreso in armonici dall’arpa alla fine):



Inutile dire che l’Orchestra ha splendidamente suonato, facendo fare un bella - ma tutto sommato anche meritata - figura al giovane Kochanovsky!

04 novembre, 2015

laVERDI annuncia la stagione 2016 – alla faccia di Nastasi


Mancano ancora gli ultimi 7 dei 64 concerti della lunghissima (causa EXPO) stagione 14-15 e laVERDI ha annunciato, nella bellissima sede del MAC, la stagione 2016, che coprirà quindi l’anno solare, da gennaio a dicembre.

La stagione principale consta dei tradizionali 38 concerti e vedrà parecchie interessanti presenze. Cito, per tutte, quella di Jader Bignamini, che ascolteremo in 6 concerti, perché il Maestro cremonese, cresciuto come strumentista nell’orchestra di cui è Direttore Associato, sta ormai prendendo il largo in fatto di repertorio: che spazierà da Prokofiev (Romeo) a Wagner (tre preludi) a Shostakovich, Ciajkovski, Stravinski, Rossini (un gala) e Dvorak, oltre alla ripresa del Requiem verdiano e ad un nuovo approccio a Brahms (la prima).

Anche le altre iniziative sono confermate, ad eccezione, per ora, della stagione de laVERDI BAROCCA. E qui entra in ballo tale Salvo Nastasi: che sarebbe l’autore materiale del crimine perpetrato nei confronti de laVERDI, consistente nel suo declassamento istituzionale con conseguente dimezzamento dei fondi pubblici (da due a un milione) che impedisce – per ora – alla Fondazione di garantire anche la stagione barocca.

Il D.G. Corbani non è stato tenero con Nastasi (simpaticamente apostrofato come malvagio). A precisa domanda su quale sia il movente che spinge le pubbliche istituzioni a penalizzare regolarmente (fin dalla sua nascita) l’Orchestraverdi, Corbani ha usato toni politically-correct, dicendosi semplicemente stupito che in Italia iniziative che dovrebbero essere benemerite (come questa) vengono invece boicottate alla grande.

Ciò che Corbani non dice esplicitamente lo scrivo allora io: perchè laVERDI, a differenza di (quasi) tutte le altre fondazioni lirico-sinfoniche italiane, non ha mai accettato, non accetta e (speriamo!) mai accetterà di trasformarsi in un carrozzone inefficiente ma assai funzionale alle razzìe di politici e politicanti di ogni risma (i vari Nastasi e i loro mandanti, appunto); di diventare uno dei tanti orti e orticelli funzionali al voto-di-scambio e alla distribuzione di privilegi e prebende.

Se alla testa della Verdi, invece di Corbani-Cervetti-Jais ci fosse gente prona al potente di turno e disposta ad ogni compromesso, state pur certi che di milioni non ne riceverebbe 2 ma 10: che però, invece che in cultura, finirebbero in colture di ogni specie di clientelismo, sprechi e inefficienze.

E allora, che Dio ci conservi laVERDI contro tutti i Nastasi. E siccome anche Dio può non bastare, tocca a tutti coloro che hanno a cuore la cultura far sentire la propria voce (e il proprio portafoglio!) a sostegno di questa realtà unica nel desolante panorama nazionale. 

Wozzeck in Scala per i soliti quattro gatti

 

Ieri Wozzeck è arrivato alla terza recita. Per fortuna non siamo più alle clamorose contestazioni del 1952, ma viene il sospetto che la ragione risieda nel fatto che i potenziali contestatori oggi si guardano bene dal venire a teatro. Dico, le vendite dei biglietti sono aperte dal 30 maggio (!) ed ancora è possibile acquistare – cosa inaudita - posti di loggione, che normalmente vanno esauriti in pochi minuti! Deprimente davvero lo spettacolo della sala semivuota…  

Purtroppo siamo sempre lì: ancora a distanza di quasi un secolo, certa musica – allora rivoluzionaria – non ha sfondato, quali ne siano le ragioni, e rimane appannaggio di una ristretta cerchia di melomani che almeno si sforzano un po’ di capirla, non dico di andarne entusiasti. Sono le poche decine di spettatori che ieri sera hanno prolungato di 5 minuti, non di più, la già breve presenza in teatro per applaudire l’intera compagnia. Per il resto del pubblico, quello dedito alla fruizione passiva, questa rimane una musica largamente incomprensibile e quindi di scarsissimo appeal… e poi c’era ancora tutto il secondo tempo della Juve da godersi!

Ingo Metzmacher torna dopo l’esperienza positiva (per lui e i soliti pochi intimi) di Soldaten dello scorso gennaio; direzione precisa la sua, salvo che gli si deve essere incantata la manopola del volume sul fondo-scala: forse sarà colpa delle voci a scartamento ridotto (Wozzeck e Marie esclusi) ma sta di fatto che i suoni dalla buca hanno spesso e volentieri coperto alla grande le emissioni dal palco.

Nel ruolo del protagonista Michael Volle, unico con la Merbeth a farsi udire, ma unico anche a convincere pienamente sul lato interpretativo, Sprechgesang in particolare.

Wolfgang Ablinger-Sperrhacke impersona - come nel 2008, unico superstite di quell’edizione scaligera - Hauptmann, un ruolo musicalmente modellato su quello del wagneriano Mime, di cui non a caso il tenore è interprete di spicco (lo fu anche nel Rheingold di Cassiers-Barenboim del 2010). Fatico a ricordare la sua prestazione del 2008, ma temo che i 7 anni trascorsi stiano pesando assai sulle sue spalle. Il Doktor è un onesto Alain Coulombe, che però fatica (causa Direttore?) a far passare tutta la sua prosopopea di aspirante al Nobel. Roberto Saccà si cala nell’uniforme del Tambourmajor, e tutto sommato ne esce con merito, a dispetto del suo non essere un Heldentenor. Michael Laurenz è un dignitoso Andres, che pare addirittura intonato nel cantare la sua canzoncina nella seconda scena!

La protagonista è Ricarda Merbeth, con Volle l’unica a passare sopra i fracassi orchestrali: però il pathos che dovrebbe caratterizzare Marie mi è parso assai smunto. Margret è impersonata da Marie-Ange Todorovitch: direi senza infamia e senza lode, il suo Lied del terz’atto non è stato proprio entusiasmante.

Rudolf Johann Schasching è il pazzo, che Flimm tiene sempre in scena, affidandogli anche l’incarico di dare al bimbo la ferale notizia (Dein Mutter ist tot). Andreas Hörl e Modestas Sedlevicius sono discreti interpreti dei due garzoni, insieme all’altro accademico Sascha Kramer (soldato). Il bimbo di Marie e Wozzeck è Tito Comoglio. Cori (grandi e piccoli) di Casoni su livelli di onestà professionale.
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Lo spettacolo di Jürgen Flimm (oggi ripreso da Giovanna Maresta) fa sempre la sua dignitosa figura a quasi 20 anni di distanza e la potrebbe fare ancora nel 2037, se la Scala nel frattempo non sarà stata venduta (more-Smeraldo) ad un Oscar di passaggio che ne faccia un luogo di happening, più accogliente e divertente di quanto non sia oggi, per i turisti orientali.

30 ottobre, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 57


Il prezzemolo Campogrande (che rimugina l’Inno ceco infilandoci Dvorak) fa da antipasto (alquanto inappropriato, mi permetto di dire) al Requiem verdiano – ormai diventato uno degli appuntamenti fissi di ogni stagione de laVERDI - che Jader Bignamini torna a dirigere in Auditorium a un anno giusto di distanza.

Come sempre impeccabile l’Orchestra, che ha supportato egregiamente la lettura più sinfonica che melodrammatica (il che personalmente ritengo cosa apprezzabile) di Bignamini. E sempre di alto livello la prestazione del Coro di Erina Gambarini, nelle grandi perorazioni come nei pianissimo al limite dell’udibile.

Così-così i quatto solisti: apprezzabili le due voci femminili, Maria José Montiel in particolare, ma anche Susanna Branchini, che dev’essere arrivata all’ultimo momento per sostituire la titolare Sara Rossi Daldoss. Meno convincenti i maschi: Danilo Formaggia esibisce una voce spesso ingolata, mentre quella di Enrico Iori sopra il DO tende a sbiancarsi.

In ogni caso l’Auditorium (non proprio affollatissimo, devo dire) ha tributato lunghi e meritati applausi a tutta la compagnia.

28 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 4. È peggio la tosse o la pipì?

 

Atto I, scena IV: Wozzeck arriva dal Doktor, per il quale fa da cavia in cambio di pochi soldi che regolarmente versa a quella… ehm… madre di suo figlio, a nome Marie.

 

Nel (frammentario) originale di Georg Büchner del 1836-7 – che Berg conobbe nella ricostruzione di Karl Emil Franzos, imprecisa persino nel nome, in realtà Woyzeck - uno dei compiti della cavia è riempire una provetta con la sua urina, che il Doktor analizzerà per formulare le sue teorie che dovrebbero (secondo lui) garantirgli il Premio Nobel. Capita però che Woyzeck, invece di tenere la pipì per farla poi nella provetta del Doktor, la faccia contro un muro per strada, osservato dalla finestra dello studio dal medesimo scienziato, che quindi lo rimprovera aspramente:

 

DOKTOR:
Ich hab's gesehn, Woyzeck; er hat auf die Straß gepißt, an die Wand gepißt, wie ein Hund. –
Und doch drei Groschen täglich und die Kost!
Woyzeck, das ist schlecht; die Welt wird schlecht, sehr schlecht!

DOTTORE:

Ho visto, Woyzeck; lei ha pisciato per strada, ha pisciato contro un muro, come un cane. –

E ancora le dò tre soldi ogni giorno più il vitto!
Woyzeck, ciò è male; il mondo diventa cattivo, molto cattivo!

Nello stendere il suo libretto – operazione che comportò la ristrutturazione delle scene e numerosi tagli - Berg cambiò le carte in tavola toilette (!) e mise in bocca al Doktor un rimprovero a prima vista (e anche a...seconda) inverosimile e strampalato:

DOKTOR:
Ich habs gesehn, Wozzeck , Er hat wieder gehustet, auf der Straße gehuset, gebellt wie ein Hund!
Geb’ ich Ihm dafür alle Tage drei Groschen?
Wozzeck! Das ist schlecht! Die Welt ist schlecht, sehr schlecht!
DOTTORE:
Ho visto, Wozzeck, che ha di nuovo tossito, ha tossito nella strada, abbaiando come un cane!
È per questo che le do ogni giorno tre soldi?
Wozzeck! È male questo! Il mondo è cattivo, molto cattivo!

Ed altri riferimenti all’orinare presenti nella scena vennero da Berg sostituiti con il tossire. Gli esegeti si sono ovviamente scervellati per trovare le ragioni di questa bizzarra modifica all’originale (il quale è assolutamente coerente e verosimile, date le circostanze) che Berg apportò per proporci in cambio qualcosa di banale e pochissimo plausibile. Si è ad esempio spiegato che Berg soffriva d’asma e che quindi, identificandosi con il protagonista del suo dramma, lo abbia voluto contagiare con la sua patologia. O che dietro ci fossero contorte ragioni legate all’antisemitismo (ricordiamo che Berg non era ebreo). Mah… 

 

In ogni caso c’è chi non si rassegna, e ripropone (con quanta autorevolezza non saprei dire) la pipì al posto della tosse: lo fece Maderna nel film del 1970 (a 26’19”) poi Carlos Kleiber (qui a 1’02”) quindi anche Claudio Abbado (a Vienna, a 24’34”) oltre alla premiata coppia Chéreau-Barenboim (e magari altri ancora…)  


Perché invece non accettare la spiegazione più ovvia e immediata, che cioè Berg si sia fatto prendere da una specie di pudore (e magari dal timore della censura…) nel presentare nella sua opera - pur zeppa di bassezze materiali e morali - un gesto comunemente considerato osceno e indecente? Certo, oggi le cose sono cambiate e noi, mentre raccogliamo diligentemente (e con le mani) le deiezioni dei nostri cagnolini, assistiamo con fatalistica indifferenza alle pisciate di cristiani (o islamici, fa lo stesso) sui muri delle nostre strade. Ma io ricordo benissimo (dalla mia infanzia) come gli atti di… bio-dumping fossero considerati cose sporche e inconfessabili. Nel profondo sud delle valli bresciane circolava – non molti anni dopo la fine della guerra – una barzelletta che aveva per protagonisti due adolescenti: dopo un vespro domenicale si infrascano in un bosco e lei (le femmine sono sempre più precoci dei maschietti, si sa) di punto in bianco sbotta (cerco di scrivere in dialèt bresà): Giani, fòm le bröte robe? E lui, dopo un attimo di perplessità e di sconcerto, concorda entusiasta: Sé dài, cagòm! 

Evabbè, se proprio la spiegazione legata al pudore (o alla censura) non convince, allora non resta che concludere che neanche l’atonalità consentì a Berg di inventare il Leitmotif della pipì

(4. fine)

27 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 3. Metodi di analisi tematica


Poche opere come Wozzeck hanno suscitato l’interesse di musicologi ed analisti. A cominciare da Willi Reich, intimo di Berg, che già nel 1927 pubblicò una Guida all’opera. Per finire con i più (relativamente) recenti lavori di Perle, Schmalfeldt, Hall, Morell, Nagel, Jarman e Forte… tanto per citarne alcuni.

Che fra musica e matematica esistano intime connessioni lo aveva già scoperto tale Pitagora e le relazioni fra i suoni sono ormai da secoli rappresentate da numeri, rapporti, frazioni, radici dodicesime di 2 e così via. L’impiego sempre crescente, nella musica occidentale, della scala cromatica (cioè di tutte le 12 note della tastiera) ha portato ad un indebolimento della tonalità, fino al totale rifiuto di essa da parte dalla Seconda Scuola di Vienna (Schönberg, Berg, Webern): si è arrivati quindi alla atonalità e poi alla serialità. La mancanza di centri di gravitazione tonale ha reso assai complicata, oltre che la comprensione da parte del nostro orecchio (abituato da secoli alla tonalità) anche l’analisi musicale delle composizioni. Mentre con la musica tonale i contenuti di temi, motivi, incisi sono in gran parte afferrabili ad orecchio (caso mai si ricorrerà a strumenti e metodi tipo Schenker per sviscerare l’intima struttura del discorso musicale) con l’atonalità l’impresa diventa assai ardua anche per orecchi ad essa allenati.

A proposito di allenamento, la teoria darwiniana di Schönberg secondo cui i pronipotini della gente del suo tempo (cioè noi e i nostri figli) avrebbero tranquillamente canticchiato e fischiettato motivi atonali mi pare proprio – ad un secolo ormai di distanza – aver fatto ampiamente cilecca: insomma, la tonalità sembra proprio dura da estirpare dal nostro DNA.

Lo prova il fatto che per costruire strumenti e metodi di analisi musicale di composizioni atonali si è dovuti ricorrere alla matematica. Uno dei campioni di questa disciplina è stato l’americano Allen Forte (recentemente scomparso) inventore di un metodo di analisi musicale mutuato dalle teorie matematiche sugli insiemi, metodo che consiste nel catalogare successioni elementari di suoni e poi censire quelle presenti in un brano musicale al fine di individuarne eventuali ricorrenze (e quindi relazioni) all’interno del brano medesimo. Insomma, uno strumento para-scientifico che aiuta l’analista nel procurarsi informazioni sulla struttura tematica di un brano o di un’intera opera.  

È chiaro che se si parla di strumenti matematici con i quali effettuare elaborazioni sulle note, allora queste non potranno più essere chiamate DO-RE-MI-FA… né A-B-C-D… ma invece: 0-1-2-3-4-5-6-7-8-9-10-11, dove 0 è la nota base, 1 la nota un semitono sopra… fino a 11, la nota 11 semitoni sopra quella base (esempio: se DO è la nota base, valore 0, allora MI diventa 4, SOL diventa 7 e SI diventa 11).  

Però per semplificarsi la vita ecco che il metodo prevede alcune convenzioni che già fanno arricciare il naso. Ad esempio, la nota che sta un’ottava sopra quella base, che dovrebbe rappresentarsi con 12, invece assume il valore 0 e così via per i successivi valori 13, 14, etc.: insomma tutti gli insiemi di note comprendono solo valori fra 0 e 11, non di più (cioè si opera sempre all’interno di una sola ottava). Quindi il metodo considera equivalenti, ad esempio, l’intervallo di seconda (0-2) e quello di nona (0-14). Ma noi sappiamo – dalla vecchia e cara musica tonale – che un intervallo di nona ha sull’orecchio un effetto straordinariamente diverso da uno di seconda!

Forte ha poi elencato una lista (successivamente ampliata) di 220 insiemi elementari di note a cui ricondurre, attraverso operazioni di riduzione (trasposizione ed inversione) qualunque successione (o accordo) di note: a ciascuno di essi ha associato un attributo di 6 cifre, ciascuna rappresentante il numero di ricorrenze di ciascun intervallo contenuto nell’insieme (intervalli compresi fra 1 e 6 semitoni, dal DO al FA#, che rappresentano anche – per complemento a 12, inversione - i restanti 6 tipi di intervalli presenti nella scala cromatica). Questo attributo viene impiegato per stabilire la somiglianza o la parentela fra insiemi di note, e quindi scoprire relazioni tematiche nel brano analizzato. Bene, osserviamo nella tabella citata le entrate 24 e 25 (denominate 3-11 e 3-11B, dove 3 è il numero di note nell’insieme, seguito dalla sequenza di posizione in tabella): rappresentano rispettivamente la triade minore (DO-MIb-SOL, in numeri: 0-3-7) e quella maggiore (DO-MI-SOL, ossia 0-4-7): ebbene, il vettore degli intervalli (001110) è lo stesso, dato che in entrambe le triadi sono presenti, una sola volta, gli intervalli di 3, di 4 e 5 semitoni (quest’ultimo rappresenta, come si è visto, anche quello di 7 semitoni DO-SOL). Quindi l’analisi musicale che impiega questo metodo porterebbe ad apparentare l’accordo maggiore e il minore (addirittura nella tabella originale di Forte – dove sono inclusi soltanto insiemi che hanno vettori di intervalli diversi - l’entrata 3-11B non è presente) cosa che nella musica tonale sarebbe una bestemmia! Domanda: e perché mai nella musica atonale diventa invece un fatto accettabile? Risposta maliziosa: perché l’anarchia tende ad eliminare le differenze…

A mo’ di esempio ecco come si presenta il famoso tema di Wozzeck Wir arme Leut sul pentagramma e come si arriva alla sua classificazione secondo la teoria degli insiemi di Forte, al fine di individuarne la posizione nella relativa tabella:


Il processo indicato in figura presenta tutti i passi logici elementari descritti da Forte per ricavare l’ordine normale dell’insieme di note. Nella realtà c’è un sistema assai più sintetico ed immediato per arrivare al risultato.

Ecco quindi che d’ora in poi potremmo far riferimento a quel tema con la sigla 4-19 (che è un po’ come raccontare una barzelletta pronunciandone solo il numero di catalogo!)

Va comunque riconosciuta al metodo di Forte la facilitazione indotta dall’impiego di strumenti matematici (quindi anche… computerizzabili) all’individuazione di caratteristiche tematiche principali o derivate (come i sotto-temi, o sotto-insiemi) con maggior velocità ed accuratezza rispetto ai metodi più empirici. Ad esempio Forte ha potuto mettere in luce una certa (labile?) relazione fra il tema succitato di Wozzeck e gli accordi che chiudono i tre atti: i quali (elemento 8-24 della tabella) hanno un vettore di intervalli dove è massima la presenza dell’intervallo di 4 semitoni, proprietà che presenta anche l’elemento 4-19 del tema di Wozzeck.
  
Mentre George Perle, nella sua citata analisi (condotta con metodi tradizionali) ha individuato 20 Leitmotive (le colonne accanto al nome riportano rispettivamente atto-scena – o interludio – dove il tema appare inizialmente e dove viene ripreso)…

N°1: Hauptmann
N°2: “Wir arme Leut!”
N°3: Canzone popolare (Andreas)
N°4: Allucinazioni di Wozzeck
N°5: Fanfara
N°6: Marcia militare
N°7: Marie madre
N°8: Ninnananna
N°9: Vana attesa di Marie
N°10: Entrata e uscita di Wozzeck
N°11: Timori di Marie
N°12: Doktor
N°13: Tambourmajor e Marie
N°14: Seduzione
N°15: Orecchini
N°16: Marie rimprovera il bimbo
N°17: Rimorso
N°18: Il coltello
N°19: Ländler
N°20: Ubriachezza
I-1
I-1
I-2
I-2
I-3
I-3
I-3
I-3
I-3
I-3
I-3
I-4
I-5
I-5
II-1
II-1
II-1
II-3
II-4
II-4
II-2 / III-4-5  
I-1-2 / II-1 / II-5 / III-4-5
III-5
I-3 / II-4
I-3-4 / I-4 / II-3
I-5 / III-2
I-3-4 / I-4 / II-1 / III-2 / III-5
II-1 / II-1-2 / III-2 / III-3 / III-5
I-4 / II-3 / III-2 / III-5
I-4 / II-3 / II-4 / III-1 / III-4-5
I-3-4 / III-2
II-2 / III-4-5
II-3 / II-4 / II-4-5 / II-5 / III-2 / III-3 / III-4 / III-4-5
II-4 / II-4-5 / III-2
II-1-2 / III-2
III-1 / III-5
III-3 / III-4
II-4 / II-5 / III-2 / III-4
II-5 / III-3
II-5

…Janet Schmalfeldt, impiegando la classificazione di Forte per la sua analisi del Wozzeck ha censito decine di insiemi di note (ne compaiono 31 nella sola 5a variazione nella prima scena del terz’atto!) per mostrare poi attraverso le loro relazioni la complessità del rapporto fra Wozzeck e Marie.

A proposito della prima scena del terz’atto lo stesso Forte, in un articolo in cui ne analizza il tema, scova nelle sole battute 7-9 addirittura 12 diversi motivi dal suo catalogo!



Un altro esempio della capacità del metodo di Forte di far emergere relazioni tematiche apparentemente occulte riguarda due motivi di Marie: quello che nella terza scena del primo atto, al passare dei militari guidati dal Tambourmajor, sostiene il canto della donna (Soldaten sind schöne Burschen! con tanto di citazione del mahleriano Revelge) e lo Sprechgesang con cui Marie accoglie Wozzeck all’inizio della scena III dell’atto II (Guten Tag, Franz). A prima vista sembrerebbero non aver nulla in comune, ma l’analisi con il metodo degli insiemi (qui è rappresentato il processo sintetico) rivela invece che hanno la stessa identica origine, l’insieme 4-18.



Acquisito questo dato puramente tecnico, è possibile derivarne delle considerazioni di merito? Per esempio, che inconsciamente Marie continui a pensare al militare che l’ha sedotta, proprio mentre si prepara ad accogliere Wozzeck sapendo di andare incontro ad una scenata di gelosia?

Ma la domanda fondamentale che sorge qui è: Berg era cosciente di tutte queste intricate parentele fra motivi ed ha voluto positivamente sfruttarle, o è il metodo matematico, inventato decenni dopo, che le ha scovate a sua insaputa? (Questa è la principale accusa che i detrattori di Forte, Taruskin in testa, muovono all’impiego del metodo, che potrebbe caso mai servire ad esplorare il comportamento del subconscio del compositore durante l’atto creativo!)   

Resta quindi pacifico che soltanto un adeguato esame del contesto nel quale un tema/motivo è inserito può garantire la plausibilità di relazioni messe in luce da un asettico strumento para-scientifico, onde evitare di trarre conclusioni incoerenti con la (presunta) volontà dell’Autore. Per questo analisi tradizionali (come quella già ricordata di George Perle o quella più recente di Christian Goubault) per me risultano – almeno in prima battuta – più affidabili.

(3. continua)

26 ottobre, 2015

Wozzeck torna alla Scala: 2. Un campionario di forme


Sembra paradossale ma Berg, proprio mentre propugnava (con il maestro Schönberg e il collega Webern) un metodo compositivo che negava ogni diritto di cittadinanza alla tonalità e alle sue regole costituite e consolidatesi in secoli di progresso, decise per il suo Wozzeck di impiegare praticamente tutte le forme che la musica occidentale aveva fatto proprie nel corso di quegli stessi secoli, forme che in buona misura erano legate proprio all’esistenza di centri di gravitazione tonale (basti pensare alla forma-sonata e alle regole che ne definiscono i rapporti di tonalità); ne vedremo l’interminabile lista fra poco. Si noti di passaggio che un approccio analogo terrà Schönberg al momento di codificare il suo metodo dodecafonico, nel quale avranno un ruolo di spicco i trattamenti fiamminghi (la barbarie delle stranezze fiamminghe, come l’aveva definita la Camerata dei Bardi) delle serie musicali. Insomma, a quanto pare l’anarchia allo stato puro non esiste, in musica come in politica!

Interessante la risposta che Berg medesimo (nel suo scritto Il problema dell’Opera) fornisce alla domanda: perché non impiegare sempre il (wagneriano) Durchkomponieren (ossia il seguire la propria ispirazione senza farsi condizionare dalle forme) invece di imbottire la sua opera di Suite, Sinfonie, Passacaglie, Rondò e cose simili (spesso, fra l’altro, di ardua decifrazione anche a tavolino)? Bene, la risposta è di una disarmante ingenuità: perché senza la presenza di quelle forme la sua musica sarebbe apparsa monotona, fino ad annoiare l’ascoltatore!

Ora, le quindici scene rimaste in base a tale selezione e condensazione esigevano una configurazione molto varia, la sola che può garantire l'univocità e l'incisività musicali, e questo vietava la prassi consueta del «musicare da cima a fondo» [durchkomponieren], seguendo semplicemente il contenuto letterario. Una musica assoluta, per quanto ricca nella sua struttura, per quanto appropriata nell'illustrare la vicenda drammatica, non avrebbe potuto impedire che, dopo qualche scena musicata in questa maniera, si avvertisse un senso di monotonia musicale, un senso di sgradevolezza; la serie di una dozzina di interludi - formalmente destinati soltanto a realizzare le conseguenze di una tale scrittura musicalmente illustrativa - non avrebbe fatto altro che acuirlo, portandolo fino alla noia. E la noia è l'ultima cosa da ammettere in teatro!

Mah: chi ha detto che il Durchkomponieren debba per forza annoiare? (O è per caso l’atonalità che rischia di annoiare?) E chi o cosa impedirebbe al compositore di introdurre nel discorso musicale costruito con l’atonalità dei cambi di agogica, di dinamica, di ritmo, di timbro (invece che forme codificate) tali da scongiurare il pericolo di monotonia e conseguente noia? In fin dei conti il terzo atto dell’opera (salvo la prima scena) pur camuffato sotto forma di invenzioni, è praticamente Durchkomponieren, ergo dovrebbe annoiarci? Per di più: Berg fa ampio uso dei wagneriani Leit-Motive, che di per sé dovrebbero orientare l’ascoltatore (però siamo sempre lì: riconoscere al volo un motivo atonale è impresa quasi disperata!) E infine: come si spiega allora la sua convinzione che l’opera si debba e si possa apprezzare anche ignorando la presenza di quelle forme? Insomma, quanto c’è in Wozzeck di stucchevole, accademica quanto ininfluente sovrastruttura? 

In realtà è stato giustamente osservato come l’impiego di forme della tradizione può benissimo essere giustificato dal (mascherato?) intento politico di Berg: denunciare le differenze di classe della società dei suoi tempi e le ingiustizie che ne derivano. Non è un caso che le antiche (e antiquate?) forme musicali siano appiccicate ai rappresentanti dell’establishment retrivo, conservatore e sfruttatore (Hauptmann, Doktor e Tambourmajor) mentre ne è del tutto sprovvisto il proletariato povero e sfruttato (Wozzeck, Marie). La Suite che supporta le prediche del Capitano nella prima scena dell’opera sembra appropriata ad evocare – con i suoi diversi numeri del tutto scollegati fra loro – il contenuto strampalato e insensato, oltre che reazionario, di tali prediche. Wozzeck invece alla fine canta un’aria, forma tipica della musica popolare! Gli sproloqui del Dottore sono accompagnati dalla Passacaglia, che esplode in tutta la sua retorica nell’ultima variazione, sulla vanagloriosa prefigurazione dell’immortalità (o di un Premio Nobel?) ormai a portata di mano. Quanto al Militare, la forma del Rondo ben si attaglia ad evocarne l’attitudine alla disciplina e al comando. Insomma, è più che plausibile che il ricorso alle antiche forme abbia motivazioni molteplici e non soltanto… tecnico-musicali. Altra particolarità: lo Sprechgesang (cantare-parlando) è affibbiato ai poveracci, mentre gli sfruttatori (privilegiati!) cantano (o parlano normalmente) e basta.

Sappiamo anche che Berg era maniaco dei numeri e in Wozzeck ne abbiamo più di una testimonianza. A parte la simmetria della macro-struttura (3 atti di 5 scene ciascuno) è eclatante il caso della Passacaglia (scena IV dell’atto I) dove il numero 7 ritorna in modo a dir poco ossessivo: il tema e 14 delle sue 21 variazioni occupano ciascuno 7 battute; tre variazioni (7-10-12) sono in una sola battuta, ma suddivisa in 7 segmenti; 2 variazioni (18 e 21) occupano 14 battute; solo due variazioni (19 e 20) occupano rispettivamente 9 e 18 battute, quindi hanno a che fare con il 3 e non con il fatidico 7! Il quale 7 torna anche nel tema con 7 variazioni (quasi tutte di 7 battute…) della prima scena dell’atto terzo! Insomma, Berg sembra non aver lasciato nulla al caso, impiegando nella composizione di Wozzeck un alto livello di arte combinatoria. Resta da vedere quanto essa sia determinante, o invece ininfluente, come causa del gradimento dell’opera presso il pubblico.

La tabella che si può esplorare a questo link è derivata da molte dello stesso contenuto presenti in diverse esegesi (incluso il libretto del Teatro): ho semplicemente introdotto un livello di dettaglio molto più fine rispetto al normale (riferendomi prevalentemente alla struttura dell’opera come presentata nel testo di George Perle) tralasciando invece i riferimenti al soggetto. Una curiosità: in due sole occasioni, sempre nell’atto III, Berg impiega l’armatura di chiave, tipica della musica tonale: dapprima nella variazione 5 della prima scena (la parabola del piccolo orfanello, FA minore) e poi nella prima parte dell’interludio dopo la quarta scena (morte di Wozzeck, RE minore).

Qualche nota esplicativa sui contenuti della tabella.

Per la scena IV dell’atto I (Passacaglia) nella colonna componente sono indicati gli strumenti cui è affidata in prevalenza l’esposizione del tema di base nelle diverse variazioni. Analogamente, per le scene II, III e IV dell’atto III, la colonna componente reca i riferimenti agli strumenti cui è affidata in prevalenza l’esposizione dell’oggetto dell’invenzione (nota, ritmo e accordo, rispettivamente).

La colonna più a destra reca invece i riferimenti di minutaggio relativi alla pregevole edizione cinematografica dell’opera, datata 1970 e concertata da Bruno Maderna con la Philharmonische Staatsorkester Hamburg. Anche qui l’esame dei tempi ci porta a constatare come spesso e volentieri le forme impiegate da Berg facciano apparizioni fugaci se non addirittura fugacissime (pochi secondi di musica) il che spiega perché la loro presenza sfugga all’orecchio anche degli ascoltatori più attenti e preparati: soltanto la consultazione della partitura consente di individuarle e censirle.   

E a proposito di censimenti, vedremo nella puntata successiva a quali livelli di paranoica complicazione si sia arrivati.

(2. continua)