ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

08 agosto, 2015

Guerre stellari?


Un famoso sito italiano di melomani è oggetto da qualche settimana di micidiali attacchi informatici che ne bloccano la fruibilità.

Do un microscopico contributo all’esercizio dei diritti di espressione riportando l’indirizzo della pagina facebook dove è possibile – in attesa che tutto torni alla normalità, inclusa l’individuazione e punizione dei responsabili degli attacchi – reperire i contenuti del sito.


Qui il messaggio dei titolari del sito che riassume le recenti vicende:


A parte ogni considerazione nel merito, trovo assai onesta la puntualizzazione contenuta nel messaggio:

cercare di capire se siamo stati presi dentro qualcosa più grande di noi oppure siamo davvero oggetto di tanta sofisticata volontà di distruggere un sito di opera.

Arriva il ROF XXXVI

 

Lunedì 10 agosto apre l’edizione n°36 del RossiniOpera Festival.

 

In proposito, ecco qualche notazione statistica. La Gazza ladra è alla sua quinta apparizione al ROF, che inaugurò nel 1980 e dove è poi tornata nel 1981, 1989 e 2007 (quest’ultimo allestimento, dovuto a Damiano Michieletto, viene ripreso nell’occasione). Anche L’inganno felice ebbe l’onore di aprire le edizioni del Festival, tornandovi poi nel 1994 (e in quello stesso allestimento di Vick torna anche quest’anno). La Gazzetta vanta presenze più recenti, che risalgono al 2001 e al 2005 (allestite da Dario Fo).

 

Più in generale: l’opera maggiormente gettonata del ROF resta La scala di seta, con 6 apparizioni fra il 1988 e il 2011. Il Festival ha ospitato fino ad oggi 38 opere rossiniane: se si escludono i centoni (o pastiche che dir si voglia) Ivanhoé e Robert Bruce e Ugo, Re d’Italia (rimasta nel catalogo solo per la cronaca, essendo andata perduta), dell’intera produzione teatrale del Gioachino in pratica rimane ancora ineseguita al ROF soltanto Eduardo e Cristina. Dalla prima del 1980, 27 delle 36 edizioni hanno presentato almeno una nuova opera. Ciò non è avvenuto per 9 edizioni, che hanno presentato solo opere già comparse in annate precedenti: 1989, 1994, 2003, 2005, 2007, 2008, 2009, 2013 e 2015.

 

È pacifico che ormai (salvo una futura eventuale proposta di Eduardo) il ROF ha perso la sua originaria caratteristica di palestra impiegata per portare in vetrina opere rossiniane dimenticate e/o criticamente editate – cioè rimesse-a-nuovo - dai musicologi (Cagli, Gossett, Zedda e altri 36 collaboratori) per assumere esclusivamente un ruolo più simile a quello che svolge Bayreuth in casa-Wagner, particolarmente dal 1951, quando si passò dalla concezione sacrale-museale del Festival a quella votata alla proposta di nuove interpretazioni (musicali e registiche) dei drammi wagneriani. Con la differenza che Bayreuth (che oltretutto si ostina a disconoscere le tre opere della produzione pre-Holländer) ha soltanto 7 ingredienti per confezionare la minestra del suo Festival, mentre Pesaro ad oggi ne dispone di ben 38!

 

La tabellina che segue riporta (aggiornati al 2015) i dati relativi alle esecuzioni dei diversi titoli al ROF (la colonna più a destra indica il numero di catalogo dell’opera):



Come in tutti i processi (non solo economici) anche qui assistiamo – come teorizzò il vecchio e troppo frettolosamente sepolto Karl Marx - ad una mutazione quantitativa che alla fine ne induce una – ben più radicale – di natura qualitativa. Il pubblico che negli anni ‘80 arrivava in agosto da ogni angolo del pianeta nella piccola Pesaro, lo faceva perché lì e solo lì si potevano gustare delle primizie rossiniane introvabili a LosAngeles, Berlino, Sidney e in ogni altro posto al mondo. Era un pubblico tutto sommato elitario, formato da rossiniani sfegatati e da operatori interessati a riproporre a casa loro o in disco ciò che la Pesaro-ROF metteva via via a disposizione. Mentre la Pesaro-città viceversa – parole di patron Mariotti - più che supportarlo, il Festival lo sopportava

Oggi, proprio grazie all’opera dei musicologi della Fondazione, a Casa Ricordi e alla straordinaria produttività del ROF, parecchie delle opere rossiniane un tempo sconosciute, o dimenticate o bistrattate, sono comodamente fruibili in-loco a LosAngeles, Berlino, Sidney e in moltissimi altri teatri del globo, per non parlare della spettacolare e capillare diffusione di immagini e suoni rossiniani garantita dalle incisioni, dal web e dal tube!

E allora come si fa per invogliare pubblico da tutto il mondo (ancora nel 2014 gli stranieri rappresentavano ben i 2/3 delle presenze!) a continuare a recarsi nella piccola Pesaro? È questa una sfida non da poco, che Mariotti&C hanno del resto cominciato ad affrontare da qualche anno, con risultati per ora – almeno a sentir loro – incoraggianti. E si basa sull’idea – ecco il parallelo con Bayreuth post-1951 - di offrire sempre nuove interpretazioni (che significa: cast, direttori, regìe) dei titoli rossiniani che ormai, proprio grazie ai successi di 35 anni di ROF, non posseggono più i tratti dell’assoluta novità. In questa logica si inserisce il nuovo allestimento che caratterizza una delle tre opere in programma quest’anno.

Per il resto, il progressivo e fatale svuotarsi del serbatoio delle novità, in aggiunta a fattori esogeni legati alla perdurante crisi economica, hanno fatto sì che le risorse disponibili (alla Fondazione Rossini ma soprattutto al Festival) abbiano subito negli ultimi anni tagli consistenti. Stando a Mariotti, oggi il Festival dispone di un budget che è poco più del 50% di quello di cui disponeva 10-15 anni fa, e con quello deve comunque garantire un’offerta dignitosa; non solo, ma anche giustificarsi economicamente: non a caso viene attribuita un’enfasi crescente al cosiddetto indotto del ROF sull’economia locale, calcolato dagli esperti ricercatori dell’Università di Urbino in termini di € di fatturato incrementale delle strutture commerciali dell’area per ogni investito nella realizzazione del Festival. Numeri che sembrerebbero giustificarne ampiamente – quanto meno sul venale fronte del business – tanto l’oggi che il domani.

A proposito di mutazioni, proprio con il 2015 si chiude il ciclo del venerabile Alberto Zedda quale Direttore artistico: dal 2016 il suo posto verrà preso da Ernesto Palacio (Zedda rimarrà tuttavia responsabile dell’Accademia). È stato nel frattempo anche annunciato il programma del ROF-37, che comprenderà Donna del lago, Turco e Ciro (ma le sorprese - sotto forma di variazioni - come ben sappiamo qui sono all’ordine del giorno…)

Adesso, poche note sui tre titoli in programma da lunedi, in ordine cronologico di composizione.
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L’Inganno felice è una farsa rappresentata per la prima volta a Venezia mercoledì 8 gennaio 1812. Rossini, ventenne, è qui alla sua quarta esperienza compositiva, ma solo alla terza teatrale (dopo Cambiale ed Equivoco) poichè la sua prima opera, Demetrio e Polibio, verrà rappresentata (a Roma) solo nel maggio successivo, subito dopo un’altra farsa veneziana (La scala di seta).

L’Inganno è la seconda delle 5 farse che Rossini compose per il Teatro SanMoisè in poco più di 2 anni (dicembre 1810, Cambiale – gennaio 1813, Bruschino) e che rappresentavano fino ad allora più della metà della sua produzione (in tutto 9 titoli). Due mesi dopo L’Inganno, Rossini presenterà a Ferrara il suo Ciro, un’opera seria che doterà – guarda un po’ – della stessa Sinfonia (dai tratti che anticipano certo Schubert…) della farsa veneziana, inaugurando con ciò la lunga serie dei suoi auto-imprestiti e la sua propensione a svincolare i contenuti musicali dai soggetti delle opere.

Per la verità, se guardiamo da vicino il testo di Giuseppe Foppa dobbiamo concludere che l’attributo di farsa non vada per nulla inteso nel senso di pezzo comico o leggero, ma semplicemente di opera breve, dalla struttura semplice e concisa (atto unico con 8 numeri musicali in tutto, Sinfonia esclusa). In effetti, il testo presenta risvolti assai drammatici, e il lieto fine è l’unico squarcio consolante di tutta la vicenda. Più che un dramma giocoso (come venne caratterizzato) è una classica pièce au sauvetage, dove la sfortunata protagonista viene miracolosamente restituita all’affetto del nobile marito dopo aver rischiato di fare una brutta fine per la seconda volta nella vita e per mano del medesimo sbifido individuo, finalmente e doverosamente tratto in catene. Insomma, qualcosa di vagamente simile (nel suo piccolo) al Fidelio, che a nessuno verrebbe in mente di catalogare come farsa solo perché alla fine due coniugi vi si riuniscono felicemente mentre un tiranno viene castigato come si merita…

In rete è possibile ascoltare almeno due edizioni complete dell’opera: una diretta da Marcello Viotti nel lontano 1992 e l’altra più recente (2010) di Marc Minkowski.  
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La Gazzetta, unica opera buffa composta per Napoli (debutto al Teatro dei Fiorentini, giovedì 26 settembre del 1816, poco più di due mesi prima dell’Otello) si avvale di un libretto a dir poco strampalato di Giuseppe Palomba. A differenza dell’originale che lo ispirò (un mirabile testo di Goldoni) esso è un insipido minestrone infarcito di gratuiti equivoci, imbrogli e travestimenti che – manco a dirlo - si salva esclusivamente grazie alla straordinaria verve della musica del Gioachino. Che già si manifesta dalla Sinfonia, uno dei gioiellini rossiniani, la cui fama fu ulteriormente illustrata dal suo totale re-impiego, 4 mesi più tardi, per la romana Cenerentola.

A sua volta la sinfonia recupera il secondo tema dal Torvaldo, dato a Roma meno di un anno prima, nel dicembre del 1815. E, a proposito di riciclaggi, chissà quale fu il nesso causa-effetto che determinò – nel testo – l’invenzione della scena del ballo con i travestimenti da turchi e – nella musica – gli auto-imprestiti rossiniani dal Turco in Italia.  Ma l’imprestito più famoso è quello… mancato, poiché lo si ritrova nel libretto, ma non nella musica. Dunque, a metà del primo atto era d’uso collocare un concertato (o un quintetto, come in questo caso) che creasse un climax intermedio, prima del finale. Nella Gazzetta è il momento in cui si sciolgono, alla presenza di Pomponio, gli equivoci Filippo-Lisetta e Alberto-Doralice, e dove tutti manifestano stupore e incredulità, chiudendo il quintetto con l’impiego quasi alla lettera dei versi che si odono alla fine del primo atto del Barbiere, di soli 7 mesi più anziano:

Mi par d’esser con la testa
in un’orrida fucina,
ove cresce e mai non resta
un continuo susurrar.
Alternando questo e quello
pesantissimo martello,
che coi colpi d’ogni intorno
fanno l’aria rimbombar.

Per ragioni insondabili – la più gettonata è quella della necessità di stringere i tempi, già ampi, dell’atto primo – Rossini non musicò il quintetto, che viene direttamente cassato oppure – come fece Dario Fo nella sua regìa al ROF – semplicemente recitato con accompagnamento di altra musica rossiniana. Ebbene, nel 2011, a quasi 200 anni di distanza, si è ritrovato a Palermo un manoscritto di Rossini che l’esperto Philip Gossett non ha esitato a riconoscere come il quintetto mancante all’appello. Si tratta di un brano tripartito la cui ultima sezione, sui citati versi del Barbiere, ne ripropone sostanzialmente anche la musica. Qui lo si può seguire nella prima esecuzione assoluta, avvenuta in USA nel 2013 proprio sotto la supervisione di Gossett. Il quale ha successivamente retro-fittato (come barbaramente direbbero gli informatici) il quintetto nella sua edizione critica del 2001 (Ricordi) che è stata impiegata per la prima volta a Liegi nel 2014 in questa edizione dell’Opera (a partire da 47’00”). Qui il sestetto del Barbiere incorporato nel quintetto della Gazzetta. Ecco, il ROF non ha voluto fare uno sgarbo a Gossett (che nel 2006 ha, diciamo così, divorziato dalla Fondazione Rossini) e ha deciso di incorporare il ritrovato quintetto nell’edizione 2015; staremo a vedere sentire.

Aspettiamo anche con interesse di vedere il nuovo allestimento di Marco Carniti.
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La Gazza ladra (che debuttò sabato 31 maggio del 1817 alla Scala) fu un’opera totalmente nuova, cui Rossini dedicò la massima cura, scrivendone ex-novo tutte le note, a partire dalla famosissima Sinfonia, che non è un brano avulso dal contesto, ma nella quale compaiono almeno due motivi che si udiranno nell’atto secondo: il crescendo che segue il secondo tema (SOL maggiore) il quale sostiene il coro-concertato (Udiste, vi seguo) dopo l’aria del Podestà (In odio e furore); e poi il primo tema (in MI minore) che supporta il duetto Pippo-Ninetta (A mio nome deh consegna).

In rete è disponibile una registrazione del 2007, dalla quale è possibile farsi un’idea del premiato spettacolo di Damiano Michieletto (il cast 2015 è invece totalmente rinnovato, così come la compagine strumentale, il coro e il concertatore). Forse più storicamente interessante è la registrazione del 1989, introdotta da una splendida Simona Marchini.
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Appuntamenti su Radio3 il 10-11-12 (ore 20) per le tre prime del cartellone principale.


02 agosto, 2015

Da Wagner a Rossini

 

Archiviato (dal mio punto di vista e senza troppi rimpianti) il Festival wagneriano, sta arrivando l’ora (10 agosto) di quello rossiniano: un virtuale trasferimento dalla verde collina di Franconia alle calde sabbie dell’Adriatico.

 

Il che mi dà lo spunto per qualche considerazione sui rapporti e i reciproci apprezzamenti (veri o presunti tali) fra questi due compositori che – nel giro di 50 anni – produssero le due più epocali svolte nella storia del teatro musicale.

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È opinione diffusa che Rossini avesse scarsissima considerazione di Wagner, e al proposito circolano da sempre aneddoti di ogni tipo. Al musicista Michele Carafa (Caraffa) wagneriano convinto, si narra che Rossini fece servire a cena una portata di pesce guarnito con diverse salse, ma dove mancava proprio… il pesce: spiegando che chi apprezzava la musica di Wagner (tutto contorno e niente melodia) avrebbe dovuto quindi apprezzare la sola salsa senza il pesce. Sappiamo peraltro (da quanto riferito da Wagner stesso nella terza delle sue Censuren - Eine Erinnerung an Rossini – vergata in occasione della morte di Rossini e da quanto dettagliatamente riferito da Edmond Michotte, testimone oculare) che in occasione dell’incontro che i due musicisti ebbero a Parigi nel 1860 (quando Wagner era là per preparare Tannhäuser) l’anziano maestro italiano smentì categoricamente ogni malignità che gli era stata attribuita nei suoi riguardi dai giornali, cui dichiarò di aver chiesto formali smentite di queste dicerie.

Un’altra citazione rossiniana che si legge ovunque riguarda Lohengrin: Rossini avrebbe affermato che per giudicare compiutamente l’opera fosse necessario almeno un secondo ascolto, che lui però… si sarebbe ben guardato dal fare. Ora sappiamo benissimo che, Rossini vivente, di Lohengrin a Parigi si eseguirono soltanto pochi brani antologici (la prima rappresentazione si ebbe nel 1877…) il che rende assai poco verosimile quella battuta. Così come altre, del tipo: Wagner ha qualche momento buono e interi quarti d’ora insopportabili; oppure: finalmente riesco a capire qualcosa di questo Tannhäuser (ma la partitura è capovolta…); e così via.

Quel che è certo è che Rossini non poteva condividere la visione wagneriana sul futuro dell’opera (sono figlio del mio tempo…) ma nemmeno si può escludere che la giudicasse con un minimo di tolleranza e senza farci guerre di religione.
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E Wagner, cosa pensava di Rossini?

Beh, che Wagner non avesse in simpatia l’establishment culturale e musicale del suo tempo è assodato. Ed è noto come avesse aspramente criticato - particolarmente in Oper und Drama - lo sviluppo del teatro musicale e dell’opera così come maturato negli anni di massimo fulgore di Rossini. Nel capitolo L’Opera e la natura della musica Wagner dedica pagine e pagine a Rossini, analizzandone l’approccio compositivo: in primo luogo il ruolo preminente destinato proprio alla melodia, tanto genialmente ispirata da profumare i fiori finti delle sue opere facendoli apparire come veri! Certo, Wagner si scaglia contro quella che considera un’autentica degenerazione dell’arte musicale, ma riconosce a Rossini una specie di stato di necessità, che lo aveva portato ad assecondare le tendenze di mercato: che privilegiavano i cantanti, le voci, i gorgheggi, sacrificando ad essi – pura forma – la sostanza dei contenuti del dramma per musica.  

Ma è significativo notare come il citato capitolo si apra con queste precise parole: dieser große Künstler war Joachimo Rossini, questo grande artista fu Rossini. Il che ci fa pensare che di lui Wagner avesse un’alta considerazione (così come di Bellini, del resto; al contrario di Donizetti, che Wagner detestava probabilmente per aver dovuto sbarcare il lunario trascrivendone per trombetta alcune arie). Interessante notare il trattamento riservato (sempre nel citato Oper und Drama) a Giacomo Meyerbeer, accreditato di capacità musicali pari a zero! Evidentemente per lui non valeva la giustificazione delle esigenze di mercato! (Poi, per dimostrare che i suoi non erano ciechi pregiudizi, Wagner fa una lode sperticata del passaggio in SOLb maggiore – Tu l’as dit – di Raoul-Valentine dal quarto atto di Les Huguenots, che forse gli ispirerà qualcosa nel Tristan…)  

Ci sono poi le controverse citazioni che Wagner fa di motivi rossiniani nei Meistersinger. La prima riguarda Beckmesser, che i sostenitori (Gutman, Zelinsky, Millington, Leeson, Nicholson, Brach, etc.) della tesi secondo cui l’anti-semitismo sarebbe organicamente connaturato alle opere di Wagner, definiscono come rappresentante della razza semitica, individuo artisticamente inferiore che però cerca di conquistare Eva con tutti i mezzi, anche illeciti, a spese del puro ariano Stolzing. Orbene, dato che a lui Wagner mette in bocca una parodistica citazione della serenata di Lindoro dal Barbiere, ne deriverebbe il facile e offensivo parallelo: Rossini=Beckmesser=verme. Ma basterà ascoltare come quel motivo viene da Wagner magistralmente sviluppato per rendersi conto dell’assurdità di tale parallelo.


Poi è soprattutto la citazione del motivo Di tanti palpiti dal Tancredi ad essere presa di mira. Vediamo come e perché. Il presupposto filosofico è l’astio razionale che Wagner avrebbe nutrito per l’arte degenerata (rappresentata principalmente dagli ebrei Mendelssohn e Meyerbeer, ma anche dall’imperante opera italiana) che avrebbe minacciato di inquinamento la pura Arte tedesca.  

Orbene, nel terzo atto dei Meistersinger Wagner mette in scena l’arrivo delle diverse corporazioni di Norimberga presso la spianata sulla Pegniz dove si celebrerà la festa di SanGiovanni (che includerà anche la tenzone canora): ciascuna corporazione marcia fra uno sventolio di bandiere e stendardi, cantando le lodi delle proprie professionalità e i meriti acquisiti in passato presso la città e il popolo. Dopo che per primi sono sfilati i calzolai (la corporazione di Hans Sachs) ecco arrivare i sarti illustrando i meriti di un loro rappresentante che – tempo addietro - nientemeno aveva salvato Norimberga da un assedio nemico, mettendo in fuga gli assedianti con un curioso quanto geniale stratagemma: cucendosi addosso una pelle di caprone ed esibendosi in corse e salti sulle mura della città. Al che il nemico, disgustato dalla prospettiva di dover affrontare non esseri umani ma mandrie di cornuti, aveva deciso fosse meglio lasciar perdere l’assedio… (evabbè)

È qui che Wagner cita, in modo parodistico, i famosi palpiti dal Tancredi. Ed ecco che diventa facile sostenere che la citazione, fatta nel contesto di una storia di assedio della città tedesca, in realtà rappresenterebbe, secondo Wagner, l’assedio che la cultura straniera (qui quella italiana, impersonata da Rossini) starebbe portando a quella tedesco-luterana. Da ciò i successivi incitamenti di Sachs a difendere l’arte tedesca da queste minacce, e la profezia che essa, se onorata e custodita dal popolo, avrebbe potuto sopravvivere anche al tracollo del Sacro Romano Impero.

Insomma: citandone un motivo musicale del Tancredi in modo tendenzioso se non addirittura calunnioso, Wagner avrebbe offeso e dileggiato Rossini come un pericoloso nemico dell’arte germanica. Ma sarà proprio così?

Proviamo ad analizzare un po’ più da vicino lo scenario, dando un’occhiata all’unica fonte certa, autentica e inoppugnabile di cui disponiamo: la partitura (testo e musica di Wagner). Ecco cosa ci troviamo precisamente nel momento in cui i sarti cantano l’inizio della loro storiella: nove battute, che possiamo suddividere in due parti uguali. Nelle prime 4 e mezza c’è il ricordo dei giorni tragici dell’assedio, nelle successive 4 e mezza l’anticipazione dello scampato pericolo, grazie al coraggio e all’inventiva del sarto:



L’entrata dei sarti si accompagna ad una repentina modulazione: dal DO maggiore precedente (con i festosi squilli di tromba) si passa al LA minore, poiché il coro deve raccontare il pericolo mortale vissuto dalla città assediata (sono le prime 4 battute e mezza). Poi abbiamo la transizione verso il consolatorio e allegro ricordo dell’impresa del sarto che occupa, tornando a DO maggiore, le successive 4 battute, contenenti appunto la citazione - la tonalità originale è FA - dei palpiti.

Ergo: la melodia rossiniana è impiegata qui da Wagner per supportare l’epinicio dei sarti per il loro valoroso collega, non già la minaccia portata dagli assedianti, che è stata evocata con il LA minore precedente, che nulla ha a che fare con Tancredi. Ed è quindi una citazione del tutto positiva, un vero e proprio omaggio al compositore italiano di cui Wagner – lo abbiamo già appurato - apprezzava il genio, pur criticandone l’involuzione delle forme musicali. Altro che considerarlo un… assediante! Anche il tono allegro e scanzonato della citazione (i tre ein Schneider che devono essere cantati quasi… belando, in omaggio al travestimento del sarto) non è certo irriguardoso né offensivo nei confronti di Rossini, ma simpaticamente appropriato ad evocare un’impresa dai contenuti più spassosi che drammatici (e del resto non fu proprio Rossini il campione dell’impiego della medesima musica per supportare il serio e il giocoso?)

In ogni caso la prova definitiva l’abbiamo chiedendoci: chi è Tancredi? Guarda caso un patriota, precisamente come l’anonimo quanto bizzarro sarto di Norimberga! (O vogliamo concludere che l’eroe di Wagner fosse in realtà una macchietta da avanspettacolo? E che quindi tutti i Meister siano una farsesca presa in giro, predica finale di Sachs inclusa?)
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Tornando a Pesaro, i tre titoli principali (per 4 recite cadauno) dell’Edizione n°36 del ROF (dedicata significativamente alla memoria di Luca Ronconi) sono Gazza ladra, Gazzetta e Inganno felice. Cartellone assai diverso da quello prospettato un anno addietro in chiusura del n°35 che prevedeva - oltre a Gazzetta - Donna del Lago e Adelaide di Borgogna (della serie: mica siamo a Bayreuth!) In compenso è un programma arricchito dal ritorno (dopo un ventennio e più: 1992 e 1995) della Messa di Gloria (più Pianto d’Armonia e Morte di Didone, con due giganti rossiniani di nome Pratt e Florez!) e chiuso (sabato 22, con diffusione in piazza) da una ripresa dello Stabat Mater (più Danze dal Tell) con Mariotti, come nel 2010.  


Quanto agli allestimenti, la novità è La Gazzetta (regìa di Marco Carniti e concertazione di Enrique Mazzola) mentre La Gazza ladra riprende la fortunata produzione targata Michieletto del 2007 e L’inganno felice quella ancor più stagionata di Vick del 1994.

 

Radio3, continuando una ormai lunghissima tradizione, irradierà in diretta - il 10, 11 e 12, sempre alle ore 20 - le prime delle tre opere del cartellone principale. 

26 luglio, 2015

Da Bayreuth nessuna sorpresa


Il tanto atteso e pubblicizzato debutto della nuova coppia-padrona del festival è stato tutt’altro che un evento epocale. A giudicare dall’ascolto radiofonico, la prestazione musicale mi è parsa di livello appena dignitoso, ad essere indulgenti. Certo, con Wagner e il Tristan non si può non emozionarsi, ci mancherebbe!


Ma Thielemann è Thielemann, nel bene e anche nel male; lui evidentemente si ritiene un wagneriano meglio di Wagner tanto da permettersi di correggere le partiture del genio di Lipsia con una serie di indicazioni agogiche (dei rallentando, soprattutto) che sono tanto gratuite quanto di facile effetto. Del cast mi hanno personalmente convinto due comprimari: Iain Paterson che è un Kurwenal davvero autorevole come non capita spesso di sentire e Christa Mayer, un’ottima Brangäne. Stephen Gould si è ben difeso, ma mi è parso continuamente tirare il freno a mano, forse temendo di rompersi al primo serio sforzo. Chi mi ha francamente deluso è stata Evelyn Herlitzius, discreta solo quando deve cantare a mezza voce (Liebestod compreso) ma che appena deve forzare un po’ verso gli acuti ha la voce che si sbianca e metallizza in modo davvero sgradevole: le rinunciatarie (o protestate) Westbroeck e Kampe avrebbero avuto poche difficoltà a far meglio (per il 2016 già si parla di Petra Lang!) Georg Zeppenfeld è un Marke discreto, ma per me gli manca quella profondità di voce e tono (tipo il Talvela dei bei tempi, per dire…) Persino il marinaio, che ha il gravoso compito di aprire (a cappella) il dramma ha esibito una voce quasi ridicola, degna di Mime.

Se si aggiunge che anche la messinscena di Kathi non pare aver sollevato entusiasmi (almeno a dar retta al parere dell’inviato RAI, Marco Maugeri, solitamente aperto e ben disposto rispetto alle innovazioni registiche) si deve concludere che la montagna (anzi no: la collina verde) ha partorito un topolino. Che va ad aggiungersi alla colonia di Neuenfels, che proprio oggi aprirà il suo ultimo ciclo di vita lassù.

Ecco, con questo lungo e sofferto scritto la chiudo lì sull’edizione 2015. Vado a mettere i piedi a mollo nel brodo di quello stagno che chiamano Adriatico.

23 luglio, 2015

Bayreuth 2015: debutta la coppia Christian-und-Kathi

  



Sì, una specie di Tristan-und-Isolde, della cui nuova produzione – la grande novità di quest’anno - i due saranno i principali artefici, a partire da sabato 25 luglio. (Qualche maligno potrebbe anche proporre un parallelo con la famigerata coppia Winifred Wagner - Heinz Tietjen di hitleriana memoria!)


Lei come premio riceverà, proprio alla chiusura dell’edizione 104 del Festival, l’esclusiva della Direzione di questo circo-barnum, essendosi finalmente sbarazzata (grazie al determinante aiuto del Kapellmeister, si mormora) della sorellastra Eva con la quale aveva dovuto dividere il posto dal lontano 2009. Lui - smaltita la delusione per la mancata chiamata dai Berliner - da semplice preparatore musicale del Festival ne diventa Musikdirektor.

E per mettere subito in chiaro chi comanda in fatto di suoni e voci, l’autoritario Christian ha già licenziato non una, ma ben due Isolde (poi l’ufficialità vuole si sia trattato di spontanee rinunce delle cantanti): dapprima è toccato ad Eva-Maria Westbroek e poi è stata la volta di Anja Kampe. Così il personaggio della selvaggia Irlands Kind sarà interpretato da Evelyn Herlitzius, non nuova nel ruolo, che peraltro non è certo un suo cavallo di battaglia.     

Navigando nel sito del Festival, ho notato un particolare che mi sembra – potrei sbagliare – un’assoluta novità: si ipoteca già il 2016! Nel senso che le statistiche del Festival (che di norma dovrebbero comprendere la corrente edizione, non anche le future!) già includono invece anche il 2016 per molti (non tutti, attenzione!) i protagonisti – sonori e non – dei titoli. Per dire, Stephen Gould è già consuntivato come Tristan anche per l’anno prossimo, mentre invece la Herlitzius risulta assumere il ruolo di Isolde limitatamente al 2015. Un caso interessante riguarda il Ring, per il quale il regista Castorf è già accreditato anche dell’edizione 2016, mentre Kirill Petrenko è fermo al 2015: mica ci sarà sotto qualcosa con Thielemann per via della preferenza data dai Berliner al russo, che per di più se la spassa con la Kampe, dal medesimo Thielemann protestata per il ruolo di Isolde?... Sì, tutti sanno che certi contratti si stipulano con anni e anni di anticipo (così come vengono disdetti anche senza preavviso, come ben sappiamo dalle vicende scaligere) ma altra cosa è indicare già oggi la presenza 2016 nel curriculum bayreuthiano di un tenore (o di un costumista, per dire): fossi nei citati a futura memoria mi procurerei da qualche immigrato napoletano una montagna di amuleti scaccia-sfiga!

Per chi, nonostante le svendite last-minute, si ostina a non pianificare il pellegrinaggio alla verde collina, c’è sempre la radio: mamma RAI (Radio3) ci delizierà con Tristan (25, 16:00) Lohengrin (26, 16:00) e Holländer (31, 18:00) risparmiandoci ancora il Ring petrolifero di Castorf.

Ma al Ring ci pensa, come sempre, momia Radio Clasica, che ci eviterà di perdere la pregevole – ne sarei certo – esecuzione di Petrenko (27-28-30-1).
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Dunque, Tristan! Sempre spulciando il sito del Festival, si scopre una significativa pagina bianca al link intitolato Inszenierung, dove per gli altri titoli si trovano invece note (più o meno interessanti) sui diversi allestimenti. Domanda: perché? Segreto industriale della Kathi che non vuole sbilanciarsi nemmeno di un millimetro, per sorprenderci (anzi no, sorprendere chi vorrà anche vedere, oltre che ascoltare) sabato prossimo? Oppure il Konzept della pronipotina terribile è così complicato che non lo si può presentare in 50 righe? Oppure il palco resterà vuoto come la pagina web e anche i cantanti saranno giù a cuocere nella fossa? Vedremo (anzi: vedranno). 


Come sua abitudine, Wagner prese lo spunto per il suo Tristan dai racconti medievali (primo fra tutti quello di Gottfried von Straßburg) per poi liberamente piegarli alle proprie concezioni estetiche e filosofiche. Ecco quindi che quelle farraginose e improbabili storie diventano, nella sua penna, autentici capolavori dove la componente psicologica prende quasi sempre il sopravvento. Non per nulla si parla di Wagner come del Freud ante-litteram.

Tristan si può benissimo interpretare come dramma che nasce dal conflitto quasi insanabile fra due personalità tanto forti da preferire l’auto-annullamento piuttosto che svelare per prime i propri sentimenti: nel nostro caso un maschilismo e un femminismo a dir poco autodistruttivi. E il primo atto della Handlung non fa che sviluppare questo assunto; poi ci penserà il filtro magico a garantire l’esistenza dei due atti successivi.    

Il big-bang dal quale prende inizio e sviluppo il dramma è un ben preciso e fatale momento: l’istante dello sguardo. Quello che i due si scambiano quando lei, dopo averne curato la ferita, ha riconosciuto nel sedicente Tantris il nemico Tristan, l’uccisore del suo promesso sposo (Morold). Così, invece di ucciderlo, fulminata dallo sguardo di lui, lascia cadere la spada e lo risparmia: ciò facendo gli rivela implicitamente il suo amore, ma la sua presunzione (di donna intellettualmente emancipata) e insieme il suo subconscio (di donna tout-court) le impediscono di abbassarsi ad esternargli il suo sentimento, e le impongono di attendere che sia Tristan a fare il primo passo.

Tristan non solo si rende conto di essersi, a sua volta e in quel preciso momento, innamorato (orrore, per un cavaliere della sua statura!) e sa perfettamente - o almeno così crede il suo maschilista subconscio - di aver fatto colpo, con quello sguardo, su Isolde; ma la sua presunzione (di maschio superiore) gli impedisce di abbassarsi ad esternarle il suo sentimento, e gli impone di aspettare che sia lei a cadergli ai piedi.

Ecco il cuore del dramma: entrambi aspettano che sia l’altro(a) a cedere per primo(a). Una situazione di stallo, un autentico surplace; e quindi un equilibrio instabile, che non può diventare normalità, ma che dovrà essere rotto, inevitabilmente e traumaticamente.

Infatti, siccome nessuno dei due è disposto a cedere, la nevrosi che si crea all’interno delle rispettive psiche e quindi fra le loro persone, sale fino al parossismo. Entrambi perdono letteralmente la testa (in linguaggio scientifico: schizofrenia acuta) e mettono in atto sconsiderati propositi di distruzione dell’altro(a), in un’assurda e freudiana escalation, che culmina con il gesto di suprema, speculare presunzione: l’assunzione del filtro di morte.

E per l’appunto il filtro libera finalmente entrambi dalla schiavitù delle convenzioni (i vacui e presuntuosi vaneggiamenti, i rispettivi Träume, di Ehre e Schmach) e così può finalmente entrare in campo e in scena una cosa, straordinaria ma indescrivibile perchè oscura (misterioso, altero...) che quelle stesse convenzioni (di cui anche noi spettatori siamo schiavi) chiamano irrispettosamente: amore.

Nel primo atto, Wagner ci fa di Tristan e Isolde due ritratti - per certi aspetti - simili, o speculari (sono entrambi affetti da acuta schizofrenia) ma per altri assai diversi; in particolare:
- Isolde racconta apertamente e senza pudore i suoi sentimenti: a Brangäne e a tutti noi, ma non a Tristan; a quest’ultimo racconta più che altro storie inverosimili, o come minimo provocatorie;
- Tristan invece, i suoi sentimenti non li racconta proprio a nessuno (nè a Kurwenal, nè a noi, nè tanto meno ad Isolde).

Già in ciò possiamo forse individuare un tratto che oggi si definirebbe maschilista nel carattere di Tristan, ma in realtà di Wagner medesimo. (Ne avremo una chiara conferma al momento dell’assunzione del filtro: Isolde la programmerà come atto congiunto e unificante, mentre Tristan la compirà smaccatamente da solo, come manifestazione di superiorità.)

Dunque, Tristan e Isolde, al primo sguardo, si sono innamorati. O meglio: nelle rispettive psiche è scoccata una scintilla, il big-bang appunto, si è prodotta la classica oscillazione brusca, tipica dei sismografi allorquando rilevano un - vicino o lontano - terremoto.

Che Isolde sia innamorata ce lo dice - ma proprio esplicitamente - lei stessa, all’inizio della Scena II: Mir erkoren, mir verloren, hehr und heil, kühn und feig! Todgeweihtes Haupt! Todgeweihtes Herz! Non c’è dubbio che si tratti di una straordinaria dichiarazione d’amore. Però si tratta di un amore impossibile, quello di una donna per un uomo votato - ragione e sentimento - alla morte! Uno - crede lei - per il quale l’amore è una categoria sconosciuta, che non trova posto nella sua Heldenleben (per questo, oltre che kühn - ardito - è anche feig - vile!) Ma essendo lei prigioniera della sua stessa presunzione, oltre che delle convenzioni, si guarda bene dal muovere il primo passo verso l’amato.

Tantris, guarito da Isolde, torna come Tristan a casa di Re Marke, in Cornovaglia, ma quella scintilla, scoccata nella sua psiche al momento dello sguardo, ha ormai fatto divampare un incendio che lo sta consumando insopportabilmente. Come ammetterà nell’Atto II, in fondo al cuore (...bis in des Herzens tiefsten Schrein) la ama, ma contemporaneamente il suo subconscio comincia ad odiarla, come responsabile di avergli creato questa condizione, per lui innaturale: ma come! un puro eroe che si è fatto irretire da una donna? Per di più così superbamente fiera (...so rühmlich schien und hehr...) che gli pare irraggiungibile, a meno che lui non si abbassi ad abdicare all’intero suo sistema di valori. E questo è ancora nulla: la donna in realtà ha anche in mano la sua vita, e non una, ma due volte addirittura: per avergli risparmiato una sicura morte (la spada lasciata cadere) e poi per averlo curato e rimesso in salute. 


Questa doppiezza di sentimenti (schizofrenia amore-odio) ingenera in Tristan l’idea di un folle disegno: far sì che lei sia costretta ad essergli vicina, così da minacciarla con un’alternativa secca: la prospettiva di rodersi nell’ansia per il resto dei suoi giorni, o cedere e dichiararsi a lui. Domanda: perché mai Tristan obbliga un riluttante Re Marke, addirittura minacciando di abbandonarlo, ad accettare Isolde in moglie? Nella sua lunga esternazione del second’atto, dopo la scoperta del flagrante adulterio, il sovrano ricorda come si fosse fieramente opposto all’idea del matrimonio ed avesse infine ceduto alle pressioni quasi ricattatorie del popolo sobillato da Tristan, che aveva poi preteso di essere lui stesso a recapitargli Isolde, andandola a prelevare in Irlanda. E tutto ciò per trovarsi ora tradito proprio dal suo delfino e proprio con la moglie! Il Re, oltre e più che addolorato, è incredulo e stupito (…warum mir diese Hölle?) dal comportamento di Tristan.

Il quale comportamento non è certo determinato dal codice cavalleresco, bensì dalla tremenda frustrazione (e relativa dissociazione) che lacera la sua psiche! E già dal viaggio di ritorno dall’Irlanda, sulla nave ammiraglia che ci appare all’alzarsi del sipario, Tristan mette in atto il suo piano: restare a portata di sguardo di Isolde, e contemporaneamente ignorarla. Costringerla ad uno psicologico e logorante braccio di ferro, da cui lei esca comunque piegata: o rassegnandosi a subire una perenne sofferenza, o cedendogli finalmente (nel qual caso a Tristan basterebbe dare un semplice comando alla ciurma: virare a dritta di 90°, e volgere la prua a sud, invece che ad est!)

Che Tristan in cuor suo aspetti quest’ultimo evento risulta inequivocabilmente chiaro dal suo trasalire (auffahrend) e dalla sua emozionata esclamazione (Was ist? Isolde?) all’annuncio fattogli da Kurwenal dell’arrivo del messaggio recato da Brangäne. Ma subito si ricompone (Er fasst sich schnell...) e per ora continua a tirare la corda, rifiutandosi di far visita alla principessa, con la scusa di dover reggere il timone.

Isolde, dal canto suo, è ormai convinta, dal comportamento tenuto da Tristan, che egli per davvero la consideri nulla più che un articolo da regalo (per Marke). Lo ama, ma contemporaneamente comincia ad odiarlo - e non solo per la sua indifferenza, ma anche per la sua ingratitudine - e a meditare sull’insostenibilità del suo proprio futuro: dover sopportare la vicinanza dell’uomo amato senza poterlo avere (Ungeminnt den hehrsten Mann stets mir nah zu sehen, wie könnt ich die Qual bestehen?)

Analizziamo un attimo lo stato in cui si trova la sua psiche: lei si è innamorata dell’uomo che le ha appena ucciso il promesso sposo, quindi subisce già per questo una gigantesca costrizione psichica, con annesso senso di colpa; per di più, l’uomo di cui si è innamorata la ignora bellamente (frustrazione...) Insomma: lei ama perdutamente un tale che le ha distrutto la felicità passata e contemporaneamente le prepara l’infelicità futura! Davvero una condizione insostenibile. 
Come si vede, il disegno di Tristan parrebbe concretizzarsi…

Ma lei, fra la scelta tra eterna infelicità con Marke e resa incondizionata a Tristan, decide per la terza opzione: farla finita... Da sola? Fosse così, le basterebbe tracannare il filtro di morte dall’ampolla che lei stessa ha chiaramente contrassegnato. No, evidentemente anche Tristan deve morire, per pagare la sua colpa, il suo peccato di presunzione, di ingratitudine, di indifferenza e di superbia; affinchè - almeno nella morte - i loro destini si possano finalmente incontrare. Il problema di Isolde, a questo punto, è: come creare l’occasione per il mortale brindisi con lui?

Quando Kurwenal la sollecita a prepararsi per essere accompagnata da Tristan verso Marke, è lei a trasalire e rabbrividire: il viaggio sta per concludersi, e l’occasione rischia di sfumare! E allora trova un pretesto - la riconciliazione dovutale per una colpa non espiata - per incontrare Tristan prima dello sbarco. E fa preparare a Brangäne il filtro di morte, per Tristan e per sè.

Tristan - anche per lui ormai il tempo stringe - adesso dimentica il pretesto del timone e si presenta ad Isolde, ma con atteggiamento formale, scruta le intenzioni della donna (segretamente spera ancora e sempre nel miracolo?) risponde con frasi fatte alle di lei rimostranze riguardo l’etichetta, domanda quale sia il motivo per cui Isolde chiede riconciliazione.

Per tutta risposta, Isolde si inventa una nuova, inverosimile spiegazione al comportamento da lei tenuto con Tantris. A Brangäne aveva raccontato una prima verità: di non aver ucciso Tantris perchè intenerita dalla sua misera condizione... A Tristan racconta invece di averlo risparmiato e rimesso in sesto perchè lui potesse poi essere vittima di un legittimo vendicatore di Morold (!?) Vendicatore che però non può esistere in alcun luogo, essendo ora Tristan da tutti amato...

Al che Tristan, pallido e cupo, offre ad Isolde la sua spada perchè lei stessa possa compiere la vendetta. Ma attenzione: le si rivolge non più con il lei, ma con il tu (!?!) Perchè questo stato d’animo? E perchè questo improvviso mutamento di etichetta? Comincia per caso a sospettare che Isolde non lo ami? Che il suo atteggiamento di allora fosse davvero motivato dal solo, cinico disegno di vendetta? (o da pura carità cristiana, null’altro?) Insomma: un sospetto che ingigantisce la sua frustrazione; sì, poichè se le cose stessero così, allora sarebbe tutto il suo castello di carte a cadere miseramente. E con esso perderebbe di significato la sua propria esistenza: ed allora, tanto vale chiuderla, una volta per tutte! E per di più offrendo a quella stessa donna altera e presuntuosa la spada con cui finirlo, per manifestarle tutta la sua superiorità di maschio…

Isolde rifiuta però la spada adducendo due giustificazioni: (a). Come potrei uccidere il servitore fedele del Re a cui vado sposa? (b). Ciò che non feci tempo addietro (con Tantris) a maggior ragione non potrei fare ora. Ma allora, sta forse per cedere? Per rivelare a Tristan che lei lo ama fin dal primo momento? Al contrario, lei decide di alzare ulteriormente la posta, aggiungendo un particolare di portata capitale: tu, Tristan, mi guardasti fisso negli occhi per valutarmi (come fa un mediatore di vacche che scruta un capo per deciderne il prezzo) e per capire se ero degna di andare in sposa al tuo Re (!?!) Ma davvero Isolde è convinta di una simile ipotesi? Insomma: sta qui confermandoci di aver ormai perso tutte le speranze, oppure sta tentando l’estrema provocazione, per costringere Tristan a cedere?

E infatti, dopo che Isolde rifiuta la spada, Tristan cade in cupa meditazione (...düsterem Brüten). Come mai? Sta forse ancora cercando di capire quali carte stia giocando l’altra? Oppure è per caso anche lui sul punto di cedere? Perdinci, lui sa bene quali fossero (e siano) i suoi sentimenti verso Isolde e che quando le rivolse quello sguardo non era certo per misurarne le qualità esteriori... gli basterebbe una parola per rompere finalmente quel muro di presuntuosa incomunicabilità che li separa!

E invece, finster (cupo) sempre più schiavo della sua nevrosi, decide pervicacemente di continuare nel braccio di ferro, e pronuncia la famosa, criptica frase: ...fass' ich, was sie verschwieg, verschweig ich, was sie nicht fasst.

Che significa? Non significa, per caso (nel suo maschilista subconscio!): io ho capito che tu mi ami, anche se me lo nascondi... mentre tu non capisci che io ti amo, e perciò te lo nascondo (perchè non mi meriti...) ?!?

Ormai il tempo stringe, si sta gettando l’àncora, e Isolde non può che giocare il tutto per tutto: mit leisem Hohne, quasi schernendolo, detta a Tristan il discorsetto di circostanza da fare a Marke, di lì a poco, in occasione della consegna del regalo!

E Tristan, a questo punto - ormai ha la disperata conferma che il futuro rischia di essere insopportabile per lui, quanto e più che per Isolde - beve per primo e da solo. In modo da chiudere (guarire del tutto) un’esistenza divenuta per lui invivibile e contemporaneamente per dare alla donna che non lo ha capito - o che non si è voluta piegare - l’estrema, inequivocabile e sprezzante lezione di superiorità.

E infatti Isolde si sente ancora e nuovamente tradita e disprezzata: per bere a sua volta, deve letteralmente strappargli di mano la coppa.

Insomma: nessuno dei due ha voluto/saputo cedere all’altro(a). Una speculare schizofrenia li ha costretti ad agire contro se stessi e - in definitiva - contro l’Amore!

La tensione psicologica, che si era creata entro ciascuno dei due e fra i due, ha ormai raggiunto il suo apogeo: in realtà siamo arrivati al limite di rottura di quell’instabile equilibrio, al momento in cui il surplace risulta non più prolungabile.

A questo punto il dramma avrebbe anche potuto chiudersi lì, con i due protagonisti a morire, ai lati opposti della scena, ciascuno vittima della propria presunzione, oltre che delle vigenti convenzioni (Ehre e Schmach). Insomma: un tragico atto unico, una Cavalleria Rusticana ante-litteram e sui-generis!

Wagner aveva però ancora da confezionare, per poi somministrarceli, due etti - pardon, due atti - di oppio (amore e morte); e, come farebbe ogni grande mago o stregone, si è servito di un filtro per garantirsi la possibilità del taglio e dello spaccio.    

21 luglio, 2015

Ultime del Moro alla Scala

 

Ieri sera una Scala con parecchi vuoti ha offerto la penultima recita di Otello (quello di Rossini, reso obsoleto - secondo la vulgata – da Verdi) accolto alla prima da feroci contestazioni seguite poi da blande approvazioni.

Sul podio Muhai Tang, un cinese! A dirigere Rossini?! Evidentemente a qualcuno la cosa deve far venire l’orticaria… però, ricordato che quella cinese è una civiltà che poco ha da imparare dalla nostra, io mi limito, nel mio microscopico, a far funzionare la memoria, ricordando una sua eccellente interpretazione di Sheherazade nel non troppo lontano 2010, all’Auditorium con laVERDI, in un concerto tutto russo.

E poi, per quante remore si possano avanzare sulle registrazioni elettroniche, la sua direzione dell’Otello a Zurigo nel 2012 non mi parrebbe proprio da… Alcatraz, tutt’altro! In effetti anche ier sera il 65enne da Shanghai a me personalmente non è per nulla dispiaciuto, avendo fatto suonare l’orchestra in modo apprezzabile e diretto e accompagnato i cantanti con sicurezza: insomma, una più che dignitosa concertazione. Da elogiare in buca il primo corno nella mozartiana (K467) introduzione all’entrata di Desdemona e clarinetto e flauto nell’accompagnamento al salice, con l’arpa peripatetica sul palco.

I tre tenori. Gregory Kunde è un Otello magari un po’ troppo verdizzato, senza tentazioni pericolose (si guarda bene dall’inventare – come fa Osborn a Zurigo - il RE sovracuto nel sento infiammarsi il cor) e ciò non guasta affatto, mettendo meglio in risalto le differenze di carattere con il Rodrigo di Juan Diego Florez, sempre sicuro e convincente in tutta la gamma (RE compreso). Chi ha una bella voce, ma ahilui di portata limitata, è Edgardo Rocha, uno Jago che fatica a farsi udire specie nell’ottava bassa.

La Desdemona di Olga Peretyatko è condizionata dalla… voce del soprano russo, che scarseggia di profondità nei centri e ghermisce gli acuti con qualche approssimazione: ormai ad anni di distanza dai suoi esordi mi pare arduo immaginare che possa salire ulteriormente di livello, il quale rimane discreto e non di più.

Efficace invece suo padre, Roberto Tagliavini, bella voce corposa e penetrante, così come quella dell’Emilia di Annalisa Stroppa: due comprimari davvero all’altezza. Anche Nicola Pamio è un Doge più che dignitoso. Sehoon Moon (con tanto di pizzo lungo e intrecciato, alla mandarino) canta in scena e non dietro le quinte, il che fa perdere parecchio pathos alla sua dantesca esternazione.

I seguaci di Otello e il Coro di Casoni hanno dato il loro valido contributo alla generale buona riuscita della recita sul fronte musicale. E il pubblico ha infatti tributato a tutti calorosi applausi con punte di trionfo per JDF. Allo spegnersi del MIb conclusivo un isolatissimo buh si è udito dalla seconda galleria, immagino indirizzato alla regìa, visto che durante tutta la recita non c’erano stati che applausi, anche ai due ritorni di Tang sul podio. E quindi facciamo un po’ di conti in tasca a Jürgen Flimm.

Dico subito che il regista - qui anche in veste di co-produttore, essendo lui sovrintendente dell’Unter-den-Linden, che affianca la Scala in questa proposta – non ha fatto troppi danni al soggetto originale, e questo è già un merito. Magari ha cercato di re-shakespeare-izzarlo, viste le distanze che il libretto di Berio (mutuato da Ducis) presenta rispetto la tragedia del genio di Stratford.    

O magari di Boito-izzarlo, se prendiamo ad esempio il personaggio di Jago: che in Shakespeare è un genio del male mosso da cieco vittimismo e in Boito il genio del male tout-court, mentre per Ducis-Berio è un poveraccio frustrato in cerca di rivincite. Ecco, Flimm ci presenta il suo Jago come dominus dell’intera vicenda, infatuato di una per lui irraggiungibile Desdemona (che surroga accompagnandosi spesso ad una controfigura della protagonista). La spiegazione esplicita del movente dello sbifido individuo ci viene mostrata all’inizio della scena V del prim’atto, dove lui entra subito dopo che Desdemona ed Emilia dovrebbero essere uscite: qui invece Jago grida la sua maledizione alla donna rovesciandola su un tavolo in un atto quasi di stupro… E Jago fa spesso capolino dalle quinte ad origliare conversazioni, poi quale arbitro dell’incontro di fioretto Otello-Rodrigo (che peraltro si svolge in un ring di boxe) fino a comparire – dopo morto! – alla fine, nel corridoio della platea (sempre accompagnato dalla sua finta-Desdemona) e cantando la parte di Lucio (così si risparmia un quarto tenore, smile!) quasi a pilotare anche la conclusione della vicenda.  

Siccome si rimprovera sempre al libretto la sostituzione – quale prova dell’infedeltà di Desdemona – del fazzoletto con un biglietto galante, ecco che Flimm fa comparire la donna, anziché alla scena IV, già in quella iniziale, dove lei lascia cadere, con malcelata indifferenza, un fazzoletto ai piedi di Otello (?!?)

A queste quasi innocue trovate va aggiunta – nell’atto finale - la comparsa in scena di una gondola (per la verità, la forma è più quella di una piroga indiana) che spiega a noi ignoranti il perché della canzone del gondoliere (cinese, poi! qui siamo davvero avanti con i tempi della globalizzazione…) la quale fungerà anche da letto di morte della protagonista.

Quanto all’ambientazione, si può solo dire che – salvo al finale piombare al suolo dei velari-scena, che mostrano i macchinari del teatro e coro e comparse in abiti moderni – sia collocata in un tempo imprecisato: c’è un po’ di Shakespeare (e dagli!) a giudicare dalle lattughe (o gorgere) che circondano i colli di senatori e nobili, tutti in rigoroso nero-da-cerimonia; ma i cappelli a cilindro ci portano come minimo nell’800, così come gli abiti delle signore. Magari le sedie in plastica da giardino sono ancora un filo più moderne, ma comunque non si sono notati i-pad, smart-phone, beretta-m92, mitragliette a canna corta né sigarette elettroniche, ecco.

Per tirare le somme: magari questa riproposta scaligera dell’Otello rossiniano dopo… secoli meritava qualcosa in più, ma diciamo che poteva andare assai peggio: almeno Rossini lo si è potuto gustare (parlo per me, ovviamente) con una certa soddisfazione. E ciò è un buon antipasto per il ROF-36, che arriva fra poche settimane.     

13 luglio, 2015

Si avvicina Bayreuth 2015

 

Sabato 25 luglio con Tristan-und-Isolde si aprirà l’edizione n°104 del Festival più famoso, ed oggi più contestato, del mondo. Da quel lontano 1876, quando fu inaugurata con i primi tre cicli del Ring, la kermesse wagneriana ha mancato l’annuale appuntamento 36 volte in 140 anni:

1877-1881
1885
1887
1890
1893
1895
1898
1900
1903
1905
1907
1910
1913
1915-1923
1926
1929
1932
1935
1945-1950

Come si vede, da quando fu riaperto dopo la WW2 (1951, affidato ai fratelli Wieland e Wolfgang, nipoti di Richard) il Festival non ha più perso un colpo.

In tutto si conteranno (a fine agosto 2015) 2622 rappresentazioni dei drammi wagneriani. La tabella sottostante mostra come sia Parsifal a guidare la classifica di presenze, per numero di edizioni che lo hanno visto in cartellone e di singole recite.

titolo
stagioni
rappresentazioni
allestimenti
Parsifal
90
519
9
Ring (ciclo)
84
    893
14
    Rheingold

223

    Walküre

223

    Siegfried

222

    Götterdämmerung
  
225

Meistersinger
47
307
11
Tristan
45
226
11
Holländer
38
227
10
Lohengrin
37
230
9
Tannhäuser
35
220
8

Il Ring vanta invece il maggior numero di allestimenti, mentre Tannhäuser è fanalino di coda sotto tutti i rispetti.

Sul fronte dei Direttori quest’anno avremo una new-entry, rappresentata dal quarantenne Alain Altinoglu, chiamato a sostituire Andris Nelsons nell’ultima serie del Rattengrin di Neuenfels. Confermati il neo-berliner Kirill Petrenko nel Ring oleoso e Axel Kober nell’Holländer.

Christian Thielemann, ormai sulla strada di diventare padrone (sul fronte musicale) della verde collina, con i 6 Tristan di quest’anno supererà di slancio il mitico Horst Stein (138 volte sul podio fra il 1969 e il 1986) e affiancherà in seconda posizione, con 142 presenze, Peter Schneider, minacciando ormai da vicino il record (161) detenuto da Daniel Barenboim.