ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

12 giugno, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 38


Per l’ultimo concerto della regular-season de laVERDI la Direttora Xian aveva pensato di mandarci un suo connazionale, no… che dico: due cinesi addirittura (non ce ne fossero abbastanza a Milano, stra-smile!) e avrebbero fatto persino tre, includendo nel novero anche uno degli autori in programma!

Invece qualcosa è andato storto e così non c’è il tre, ma solo il due: poiché sul podio, in vece di Yu Long è tornato dopo tre anni Darrel Ang, che è orientale sì, ma non cinese, provenendo dalla città dei… topi (smile!)

Concerto imperniato su Beethoven, con intermezzo appunto cinese. Apre la serata l’Ouverture dell’Egmont, mirabile sintesi del dramma goethiano centrato sulla figura dell’eroe e patriota olandese: trascinante davvero l’esecuzione, dal taglio propriamente eroico, dell’orchestra guidata ieri dalla spalla vonDellingshausen.
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Qigang Chen è un cinese francesizzato e di lui ascoltiamo un brano che di fatto è una Fantasia per violoncello e orchestra, titolato Reflet d’un temps disparu, che Yo-yo-ma interpretò per prima nel 1998, suonato qui dal suo connazionale (però australianizzato) Li-Wei Qin.

Tutto il brano, assolutamente diatonico (non per nulla ha quel titolo!) anche se ricco di sonorità… moderne, si basa su un tema originale cinese, molto cantabile, che si muove fra tonica e dominante e viene esposto subito (sul SOLb) dal violoncello, per poi dare spazio a squarci quasi impressionisti e quindi a sfrenato virtuosismo solistico. Il tema viene poi reiterato da altri strumenti in diverse tonalità e varianti; quindi viene ripreso dal solista, sulla tonica FA, e poi trasportato ancora su altre toniche: DO, SI, MI, ancora DO, FA, MI, MIb, LAb, fino a spegnersi, quasi frantumandosi, sul LA naturale.

Un pezzo che dimostra come oggi si possa ancora far musica godibile con il toolbox dei classici e dei romantici. Qin lo interpreta con grande ispirazione, poi ci concede anche un paio di bis, dal moderno all’antico. 
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Si chiude con la Settima, che l’orchestra conosce a memoria, forse e senza forse più del direttore (smile!): ne esce un’esecuzione vibrante e – nell’Allegretto – ricca di pathos, che si merita nutriti applausi da un pubblico, purtroppo, di pochi intimi.
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Quest’anno laVERDI non si ferma mai: dopo i 38 concerti della stagione principale, dalla prossima settimana parte una serie di 12 concerti estivi che si chiuderà il 3 settembre. Poi il 13 settembre appuntamento ormai tradizionale alla Scala con Bignamini; e lo stesso Bignamini aprirà il 17 la serie di 14 concerti che si protrarrà fino a fine anno, coprendo di fatto la parte autunnale della stagione 15-16.

08 giugno, 2015

A Torino il Faust di Noseda-Poda

 

Ieri il Regio ha ospitato la terza del Faust di Gounod, nell’allestimento curato da Stefano Poda con la concertazione di Gianandrea Noseda. Evidentemente la berlinese disfatta (peraltro onorevole) dei bianconeri di fronte al Messistofele argentino non deve aver pesato molto sulle propensioni melodrammatiche dei torinesi, inducendoli a lasciare pochi spazi vuoti nel loro grande anfiteatro. Oppure è il caldo infernale che gli ha consigliato un pomeriggio con l’aria condizionata compresa nel prezzo del biglietto.   

Si sa che Faust fu a più riprese rivisto e corretto dall’Autore, che era sempre disponibile ai più prosaici compromessi pur di avere le sue opere eseguite. E così non ci si deve scandalizzare più di tanto per tagli o varianti apportate per la messinscena di turno. Nel nostro caso Noseda, in combutta con Poda (per sua stessa ammissione in un’intervista a Susanna Franchi, trasmessa mercoledì da Radio3 in un intervallo della diretta) ha preso le seguenti decisioni (o si è preso le relative libertà…): ha tagliato (ma lo si fa spessissimo, quanto proditoriamente) l’aria di Siebel del quart’atto (Si le bonheur) e il Baccanale di Walpurgis (che non è nemmeno di mano di Gounod, ma di un tale wagneriano a nome Ludwig Alexander Balthasar Schindelmeißer e viene talora eseguito nella versione tedesca dell’opera); sempre in Walpurgis ha invece ripescato - e discutibilmente, poiché furono un cedimento alle stupide esigenze de l’Opéra - due dei sette ballabili (1 e 7) su richiesta specifica di Poda, tagliando quindi il canto bacchico. Ancora su sollecitazione del regista ha spostato alla fine dell’atto (IV) la scena nel Duomo, in pratica ripristinando la sequenza di scene dell’originale di Goethe, che Gounod aveva mutato non senza ottime ragioni. Insomma, la solita costruzione del meccano, più o meno plausibile, tanto per conferire caratteristiche di uniqueness (nel caso specifico: di jamais vu) alla produzione…  

Da parte sua Poda ha però messo su uno spettacolo intelligente, limitando le stranezze a pochi dettagli tutto sommato innocui. Scena perennemente occupata da un gigantesco anello: 10m e più di diametro, 2m di altezza e 50cm di spessore; un martinetto fissato al centro della piattaforma rotante e al bordo superiore dell’anello consente di inclinare questo da angolo zero (quindi adagiato sulla piattaforma e creante un ambiente chiuso) a 90°, facendolo agire da sfondo (più o meno) aperto della scena. Dentro o sotto l’anello troviamo nel primo atto una catasta di libri e riviste (tutta la scienza, enciclopedica quanto non gratificante, del Dottore); che viene coperta nel secondo atto da oggetti di esiguo valore scientifico, ma di alto contenuto esistenziale: bacco (teste di vitello), tabacco (no, questo mancava) e venere (rosse scarpe da donna con tacco 13) tutta roba portata lì da studenti e borghesi in perenne caciara godereccia. Poi ci troviamo una sfera con scritte in tedesco dal Faust autentico e poco più. A proposito di Faust autentico, Méphistophélès alla fine del second’atto s’infila una tunica con l’eloquente scritta Man hat Gewalt, so hat man Recht (Faust II, atto V, Palast). Nell’atto IV sull’anello cala un coperchio con intagliata una enorme croce che poi, con l’anello alzato in verticale e retro-illuminato, crea un grande effetto con la silhouette di Méphistophélès che vi si staglia mentre maledice Marguerite. Nel finale, dopo che l’anello è servito come gabbia per la prigione della protagonista, ne compare un altro sullo sfondo, mentre l’opera si chiude. Insomma, c’è un po’ anche di signore degi anelli (smile!)

Altri simboli da ricordare sono una serie di clessidre che all’inizio circondano la piattaforma, ad indicare a Faust e a noi che tutti si invecchia senza scampo: due clessidre vengono anche recapitate al protagonista e al diavolo tentatore proprio alla fine, da un gruppo di bianchi angioletti, come a dire: credevate di aver raggiunto l’immortalità, fregando il tempo, ma adesso ve lo dovete risorbire, ecco.

Nell’atto III tutti i 4 protagonisti sono a piedi nudi: no, per la verità in un primo momento Marthe ha scarpe con tacco a spillo, poiché ci appare come una classica segretaria un po’ racchia che però vuol far colpo sul capufficio, e infatti subito il diavolaccio le mette le mani sulle tette… e così anche lei si leva le scarpe! Prima però avevamo apprezzato il mazzolino di fiori di Siebel, che per Poda è un cappotto ricoperto di fioroni dai colori sgargianti; così, per non esser da meno, ecco che Méphistophélès, oltre ai gioielli, porta anche un cappotto tutto tempestato di diamanti (ma sì, come diceva Totò, facciamo vedere che siamo ricchi…) e poi i gioielli mica sono in una cassettina, ma in un autentico comò a doppia anta e cassetti! Come potrebbe la povera Marguerite non cedere di fronte a tanto ben di dio? L’atto si chiude con i due protagonisti in posizione… ehm… avete capito, mentre il diavolo se la ride.

L’atto IV comincia lì dove il terzo è finito, ma con Faust che se la svigna, dopo aver evidentemente compromesso la poveraccia, che si vede costretta a scambiare il cappotto prezioso con uno imbottito di fiori secchi e crisantemi! Tagliato l’intervento del povero Siebel, si passa direttamente al ritorno dei reduci dal fronte (la scena nel duomo è spostata alla fine atto). Uomini e donne che nell’atto II vestivano in sgargiante rosso vivo qui son tutti in profondo… nero: si sa, la guerra esige il suo prezzo in vittime e crea vedove in quantità. La serenata del diavolo viene cantata a una fila di 8 donne incinte di… palloncini gonfiabili, che il nostro fa scoppiare uno dopo l’altro mentre canta alla bella Catherine! Poi fra Valentin e Faust c’è un normalissimo duello alla pistola, e così si perde del tutto il determinante intervento del diavolo a consegnare a Faust una vittoria truccata! Come detto, la scena nel Duomo è spostata a fine atto, proprio seguendo la sequenza originale di Goethe (ma anche la prima idea di Gounod). Cosicchè l’incipit dell’organo qui serve per accompagnare, direi appropriatamente, il funerale del povero Valentin. La cui sorellina, appena da lui maledetta, viene quindi ri-maledetta dal diavolaccio e dai suoi accoliti. Va riconosciuto che questa scena è di grande impatto: come detto, la croce entro la quale si staglia la figura di Méphistophélès è proprio da brividi. Qui il regista aggiunge anche – in penombra - un nudo femminile integrale, immagino a simboleggiare tentazioni, peccati e quant’altro.

Sempre a piedi nudi troviamo Faust e sodale nella scena di Walpurgis, dove compare uno stuolo di danzatori spalmati di cerone bruno (faranno i nubiani nel primo dei due balletti e resteranno lì anche nella scena della prigione, così, per ammortizzarne il costo, smile!) e pure completamente nudi (salvo tanga e perizomi per non dover vietare lo spettacolo ai minori di anni 12, ari-smile!) simulando le orge delle grandi cortigiane antiche. Ho già anticipato della scena finale, con la beatificazione di Marguerite e le clessidre consegnate a Faust e sodale.

Ora però non si deve pensare che a me lo spettacolo sia parso un… avanspettacolo, tutt’altro: a parte questi pochi dettagli che vanno presi tutto sommato con simpatia, devo dire che il risultato complessivo di questa proprosta di Poda sia da giudicare completamente positivo. E così l’ha giudicato il pubblico, che ha acclamato il regista e tutta la sua troupe.

Ma consensi calorosi sono andati anche ai protagonisti della parte musicale (che poi è o dovrebbe essere quella che conta). Applausi a scena aperta dopo le principali arie e – questi son stati i più lunghi, e temo che la cosa sia da considerare con sospetto… – dopo i due balletti di Walpurgis. Alle singole, ovazioni e bravo! a non finire.

Irina Lungu mi aveva fatto una buona impressione già anni fa alla Scala e anche ieri è stata una più che convincente Marguerite, che ha ben sopportato anche l’impervio crescendo finale (Anges purs).

Faust era Charles Castronovo, cui forse manca qualche decibel per essere buono e non solo discreto: ha sfoderato i due acuti (SI nell’atto secondo e DO nel terzo) con grande appropriatezza e senza sguaiataggini, risultando un po’ meno efficace nella parte più bassa della tessitura. Ma è giovane e può solo migliorare ancora.

Il Méphistophélès di Ildar Abdrazakov ha mostrato grande presenza scenica e apprezzabile vocalità: cioè ha sempre cantato e mai vociferato o schiamazzato. Personalmente ho gradito di più (palloncini a parte…) la serenata del quarto atto che non il vitello del secondo.

Valentin era Vasilij Ladjuk e convintamente gli assegno un bel voto, su tutta la linea: nella cavatina del second’atto, come nella scena del duello e della morte-con-maledizione del quarto. Bella voce, bene impostata, quasi da baritenore, direi appropriata per il personaggio.

Il Siebel di Ketevan Kemoklidze ha un solo demerito, ma da attribuire alla coppia Noseda-Poda: non aver potuto cantare l’aria del quart’atto! Perché per il resto lei mi è parsa più che efficace in questo ruolo en-travesti, tutt’altro che facile ad interpretarsi come si deve.

Marthe era Samantha Korbey, che qui al Regio non ne perde una (un po’ come Panariello alla Scala, per dire): se l’è cavata discretamente, tenuto conto che la parte non è proprio proibitiva.

Anche il Wagner di Paolo Maria Orecchia ha fatto con onore la sua parte. Sempre all’altezza il coro di Claudio Fenoglio.

Gianadrea Noseda ha ancora una volta guidato i suoi con grande rigore, rispettando quella distaccata nobiltà di scrittura che Verdi rimproverava (credo proprio ingiustamente) a Gounod. Ottima la sua concertazione delle voci e quindi meritate le ovazioni che l’hanno accolto all’uscita. 

Bene, ci fosse stata anche una… coppa, sarebbe stata una giornata irripetibile! 

06 giugno, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 37


Marius Stravinskij torna inaspettatamente sul podio dell’Auditorium per rimpiazzare il venerabile Aldo Ceccato in un concerto (quasi) interamente dedicato a Scriabin. Il quale sembrerebbe un nome che tira poco, a giudicare dagli ampi spazi vuoti dell’Auditorium.   

Ad aprire il programma è però la Russia di Campogrande (omaggio EXPO). Ciò che si riconosce dell’inno è una specie di parodia, forse di quelle che Putin impiegava come colonna sonora per le burlesque che organizzava nella sua dacia per Berlusconi (stra-smile!)

Si comincia a far sul serio con un altro aficionado de laVERDI, Benedetto Lupo, che si presenta a proporci il Concerto op.20. Che a prima vista parrebbe Rachmaninov innestato su Chopin, ma in realtà mostra la spiccata personalità di Scriabin, specie nel centrale Andante. Spesso è l’orchestra a dettare i temi, con il pianoforte che ci arabesca sopra in piena libertà. Lupo dà però il meglio nel conclusivo Allegro moderato, dove c’è più dialogo con l’orchestra: in particolare nella sezione cantabile, interpretata con grande sensibilità. Due bis dello stesso autore suggellano la sua pregevole prestazione.
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La seconda parte del concerto è la Terza sinfonia, sottotitolata Poema divino. In realtà di Sinfonia propriamente detta ha poco o nulla, la struttura essendo assai libera, una cosa fra il poema sinfonico e la fantasia, composta da un’Introduzione e tre episodi indicati come Luttes, Voluptés e Jeu divin.

Il programma filosofico dell’opera, steso dalla compagna del compositore (a posteriori, si noti bene) ci dice trattarsi del faticoso emanciparsi dell’uomo: dall’animalesco essere cavernicolo credulone in dèi antropomorfi, fino al superuomo di stampo nietzschiano, dio di sé medesimo. Evabbè. 

A testimoniare della pretenziosità della Sinfonia basterà citare alcune indicazioni di agogica e di espressione disseminate sulle pagine della partitura: divino, grandioso, mistico, con sconcerto e terrore, misterioso, tragico, più audace, trionfante, con tragico terrore, slancio gioioso, con impeto ed ebbrezza, venato, oppresso, con stanchezza e languore, romantico e leggendario, fiero e sempre più trionfante, mostruoso e terrificante, fosco, trafelato, voluttuoso, con ebbrezza strabocchevole, limpido, in deliquio, slancio divino, affannosamente alato, gioia sublime estatica

Domanda: sono gli stati d’animo che l’esecutore deve assumere mentre suona, o le caratteristiche del suono che deve produrre lo strumento? Beh, sulla seconda ipotesi ci sarebbe da discutere assai (smile!)
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L’Introduzione si apre con il motto che caratterizzerà la Sinfonia, esposto da tutti gli strumenti gravi:

 
Tema che si muove fra gli estremi (REb-LA) di un tritono, tanto per iniziare il discorso dal… diavolo, in attesa di mettersi in marcia verso il soprannaturale. Subito dopo lo suggella la tromba.

L’Introduzione è assai breve e sfuma verso l’Allegro di Luttes, un simulacro di forma-sonata, aperto da un tema agitato dei violini in DO minore, chiaramente derivato dal motto:


Tema che si sviluppa fino a lasciar posto ad una sezione più elegiaca, che sfocia in un altro motivo, di piglio eroico, in Mib maggiore, che tornerà spesso a farsi sentire:


Dopo aver raggiunto il climax, con un passaggio in cui qualcuno vede il Dresden Amen, ecco un nuovo motivo di stampo virile:


che viene successivamente ripreso in forma più mossa e che porta alla riproposizione, due volte, del motto. Qui si chiude quella che possiamo definire l’esposizione.

Inizia ora uno sviluppo del primo tema dell’Allegro, innalzato di una quinta, a SOL minore. Conseguentemente innalzato a SIb maggiore anche il secondo tema eroico. Si arriva poi ad una sezione drammatica, dove il primo tema riappare assai dilatato, negli ottoni, sezione che porta ad un tremendo schianto dell’orchestra. Ora il primo violino espone una melodia implorante, in LAb:

 
Motivo che viene sviluppato portando infine ad una nuova grandiosa perorazione del motto. Inizia adesso una lenta transizione che porta a chiudere lo sviluppo e alla ripresa del primo tema nel DO minore canonico. Dopo che esso è stato adeguatamente sviluppato, tornano anche il secondo e il terzo motivo, fino alla ricomparsa truculenta del motto. Qui però non si chiude ancora, ma pare di avere un nuovo sviluppo, con il primo tema che torna in SOL minore; arriviamo invece ad un’oasi bucolica, con il violino solo che canta una nuova melodia mentre gli strumentini imitano il cinguettare di uccelli…

Un improvviso irrompere di una nuova cellula, che sembra venire direttamente dalla quarta di Ciajkovski, ci porta finalmente alla conclusione dell’episodio, con la proterva reiterazione del motto e un successivo rarefarsi dell’atmosfera.

Attacca quindi il secondo episodio, Voluptés, in MI maggiore, con l’esposizione da parte dei flauti del suo primo e principale tema, che è chiaramente mutuato da quello del violino della precedente sezione:


Il quale viene sviluppato in modo assai ampio, in tutte le sezioni dell’orchestra. Si arriva quindi ad un nuovo squarcio bucolico, con trilli e svolazzi degli strumentini, dove è il violino solista a riesporre languidamente il tema, in SI maggiore. Un crescendo orchestrale ispessisce il colore della scena, ma senza turbarla. Ancora il violino riprende la sua melopea, poi si continua quasi all’infinito con abbandoni degli archi e pesanti interventi degli ottoni, finchè irrompe la trombetta ad attaccare il Jeu divin:

Per tutta la prima parte, in DO, abbiamo un continuo abbandonarsi a languidi motivi, quasi una melodia infinita senza precise connotazioni tematiche, con gli ottoni e la tromba ad intervenire con i loro richiami (la tromba insiste sull’inciso con cui aveva risposto al motto, nell’Introduzione).

Ecco però una sorpresa: riappare in MI minore il tema della Lutte, subito zittito da poderosi interventi dei fiati, che portano ad un nuovo ritorno: quello – enorme, soprattutto nelle trombe – del tema delle Voluptés.

Come tutti ormai si aspettano, è la ricomparsa del motto a condurre alla retorica, enfatica e pretenziosa conclusione.
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Devo dire che l’attacco iniziale (tromboni e tuba in particolare) non mi ha soddisfatto: tutto in legato, quando invece sono chiare le forchettine indicanti il marcato. Però in seguito le cose sono assai migliorate e complessivamente la prestazione di tutti è stata di buon livello: acclamato giustamente Alessandro Caruana che, soprattutto nell’ultima sezione deve davvero spomparsi fino all’esaurimento.

Stravinskij, probabilmente arrivato con poco preavviso, ma sempre con l’aplombe da funzionario di banca, ha fatto del suo meglio per renderci il meno indigesto possibile questo velleitario intruglio: e il pubblico ha speso i suoi applausi di stima per lui e per i ragazzi, non credo per il compositore…

30 maggio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 36


Ancora Zhang Xian sul podio dell’Auditorium per un concerto questa volta monopolizzato da Shostakovich.

Curiosamente la proposta è costituita da due componenti estratte da altrettanti programmi di stagioni passate: si tratta dell’Op.35 (Concerto per pianoforte e tromba) che fu presentata nell’ottobre 2011, con lo stesso solista alla tromba, il mitico Alessandro Caruana; e della Decima sinfonia, eseguita da D’Espinosa nel settembre 2012, guarda caso insieme ad un altro concerto per tromba, ancora con Caruana.

Dapprima è la bravissima – e pure bella, il che non guasta mai… - Mariangela Vacatello a proporci (con l’impertinente supporto di Caruana) il Primo concerto, che lei interpreta in modo convincente, sia nelle pagine più esilaranti e parodistiche, che in quelle (vedasi il Lento) più introverse ed elegiache. 

Calorosissima l’accoglienza di un Auditorium ancora assai affollato, e così lei non ci concede un bis ma un… tris! Dapprima con la campanella, poi con Chopin; infine ci saluta con un brano che, di questi tempi, sa di nobile messaggio ecumenico: il celeberrimo Von fremden Ländern und Menschen, che apre le schumanniane Kinderszenen.
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Zhang Xian può finalmente porre riparo alla sua (giustificabilissima, causa fiocco-azzurro) defezione del 2012 dirigendo la Decima, passata alla storia come la sinfonia di Stalin (smile!)

L’Orchestra è una delle più titolate al mondo in questo repertorio e non si smentisce, con una spettacolare dimostrazione di potenza e precisione al contempo, in tutte le sezioni, dagli ottoni alle percussioni, dagli strumentini ai fagotti e ovviamente al pacchetto degli archi: Xian credo non faccia altro che assecondarla al meglio, e il risultato è davvero eccellente, salutato da lunghi e ritmati applausi.   

29 maggio, 2015

Torna alla Scala la Lucia yankee


 

A poco più di un anno di distanza è tornata in Scala (e ci resterà per altre 5 recite, fino all’11 giugno) la donizettiana Lucia di provenienza MET. Sullo spettacolo quindi non avrei da cambiare idea, né da aggiungere altro a quel poco dichiarato a suo tempo.

Sul piano del cast, la continuità col passato è garantita dal solo Vittorio Grigolo, che anche ier sera è stato accolto come un marziano, anche se a me non è parso aver fatto molti passi avanti in questi 15 mesi: eccessive forzature dei suoni in alto e scarsa efficacia nei passaggi più intimistici.

Accolta da grande esultanza Diana Damrau, che effettivamente è stata una Lucia convincente, e non solo nella famosa scena della pazzia: qualche difficoltà nelle note gravi non ha offuscato una prestazione di alto livello, sia sotto il profilo della tecnica che sotto quello del portamento drammatico.

Gabriele Viviani è un Enrico dignitoso, ma non trascendentale. Meglio Alexander Tsymbalyuk, ben calatosi nella parte non facile di Raimondo. Gli altri due componenti del famoso sestetto di fine atto II (Juan Josè de León, Arturo, e Chiara Isotton, Alisa) hanno fatto onestamente la loro parte. Il Normanno Edoardo Milletti ha faticato assai a farsi udire, causa il combinato disposto Ranzani-Casoni 

A proposito dei quali dirò che il Coro ha offerto una prestazione degna della sua fama, travolgendo – nei passaggi d’insieme – anche le voci soliste. Ranzani ha diretto a memoria e, a mio modesto avviso, forse ha talora scambiato la partitura della Lucia per quella di… Attila (smile!)  

Pubblico una volta tanto abbastanza folto (sarà l’effetto-EXPO?) e unanime nel giudizio categoricamente positivo (proprio come si fosse al MET!) per questo spettacolo.
       

25 maggio, 2015

Il Britten fiorentino, riveduto e corretto

 

Ieri pomeriggio seconda recita di The turn of the screw di Benjamin Britten al Maggio Musicale, Teatro Goldoni, un ritrovo discreto – tipo club londinese - per pochi (ma buoni?) intimi.

Comincio dalla parte musicale, che a mio modesto avviso è stata quella più convincente: innanzitutto per la prova dei 13 solisti (proprio così) dell’Orchestra del Maggio, guidati dal violino di Yehezkel Yerushalmi e diretti con gran cura dei dettagli da Jonathan Webb. Tutti insieme (compresa l’arpa traslocata in palco di proscenio) hanno reso al meglio le atmosfere ora idilliache, molto più spesso sinistre, che caratterizzano l’opera. Certamente favoriti anche dalle dimensioni raccolte della buca e del teatro.

Fra le voci direi bene o benissimo tutte quelle femminili, che potrei ordinare in classifica mettendo in testa l’Istitutrice Sara Hershkowitz, seguita dalla Miss Jessel di Yana Kleyn, dalla Flora di Rebecca Leggett e dalla Mrs. Grose di Gabriella Sborgi. I maschietti (si fa per dire) nel cast sono due: benissimo il piccolo Miles, al secolo Theo Lally e più che dignitoso (con quache riserva) John Daszak, sdoppiatosi come consuetudine fra Prologo e Quint.

Per tutti un’accoglienza calorosa, concretizzatasi in parecchie chiamate al proscenio.
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Più articolato il mio giudizio sullo spettacolo, che ha proposto cose interessanti accanto ad altre francamente discutibili.

Come nel recente Flauto di Bologna, anche qui si è fatto uso – da parte del regista Benedetto Sicca – di immagini tridimensionali proiettate su uno schermo rettangolare collocato proprio al centro della scena, a far da parete ad una torre stilizzata (sulla sommità della quale apparivano di volta in volta personaggi del dramma, e non solo Quint). Però, a differenza di Bologna, dove si è impiegata una tecnologia piuttosto antiquata (anaglifo, quella che contempla l’uso degli occhialini con le due lenti colorate (blu e rosso, per semplificare) a Firenze Marco Farace (responsabile delle elaborazioni video) ha fatto uso della tecnologia basata sulla polarizzazione e sulle lenti polarizzate, tecnologia obiettivamente più efficace, oltre che meno disturbante per la visione di tutto il resto di ciò che sta in scena (che poi è la parte più importante dello spettacolo).

Peraltro anche qui ciò che viene proiettato in 3D ha pertinenza ed efficacia piuttosto discutibile rispetto ai contenuti dell’opera: il treno che porta l’Istitutrice a Bly, il cigno (o i cigni) di cui vedremo la (eccessiva) rilevanza attribuitagli dal regista, corpi o volti o scritte più o meno efficaci a sottolineare l’azione che si svolge sul palcoscenico.

Le scene di Maria Paola Di Francesco sono assai spartane e in sostanza abbiamo il palcoscenico suddiviso in tre sezioni: in basso, la parte anteriore è sempre vuota e lì vi si muovono i personaggi in primo piano; nella parte posteriore, separata dalla torre-schermo e da altri pannelli, vediamo ciò che contemporaneamente accade altrove, rispetto all’azione in primo piano; la parte alta (la sommità della torre) serve come detto per farvi apparire Quint (come da libretto) ma anche Jessel e l’Istitutrice. In più anche un paio di palchi vengono impiegati per farvi comparire i due fantasmi.

I costumi di Marco Piemontese dovrebbero ricalcare quelli dell’epoca del racconto, ottocento avanzato. Efficaci e sempre discrete le luci di Marco Giusti.
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L’interpretazione di Sicca, come detto, è per me caratterizzata da luci ed ombre. In generale il regista si è attenuto al libretto (insomma, non ha inventato un’altra storia, ecco, salvo per il finale, come vedremo) ed anzi il suo è spesso un approccio fin troppo didascalico, il che non è detto sia un bene. Gratuito anche se efficace il mezzo spogliarello del Prologo, che entra in camicia bianca (su pantaloni neri) e poi si toglie la camicia per indossarne una nera (quella da fantasma di Quint) passatagli da… Miles. Poi, i due fantasmi compaiono a fianco dei ragazzi già alla scena V (dove si dovrebbe manifestare solo Quint); nel retroscena si vedono sempre (fin troppo) azioni che dovrebbero soltanto essere immaginate, sulla base dei dialoghi (ad esempio, nella scena VII del primo atto, con Flora e Isitutrice presso il laghetto, si vede sullo sfondo Quint intrattenersi con Miles); peggio accade nella corrispondente scena, sempre al lago, del second’atto, dove arriva anche Quint recando in braccio Miles (!)    

Ma queste in fin dei conti sono sottigliezze di poco conto. C’è invece un’idea che il regista ha messo al centro della sua interpretazione, anzi, propriamente, un simbolo. Ora, nella prima scena del second’atto, quella dove i due fantasmi si ritrovano insieme, Jessel subito rimprovera Quint per averla richiamata dai suoi sogni, e lui risponde: sei tu che hai udito il terribile suono delle ali del cigno selvatico. Frase ad effetto, certamente, ma del tutto isolata: mai più il riferimento al cigno tornerà nel testo della Piper. Bene, questo è invece il simbolo che Sicca mentre al centro della sua concettualizzazione dell’opera.

Già nella seconda scena il cigno ci appare, rappresentato da un origami bianco, nelle mani dell’Istitutrice, che ne fa dono a Miles (mentre non regala nulla a Flora…) D’ora in poi il cigno è protagonista delle animazioni 3D, dove il suo collo si allunga fino a portare il becco dell’animale sul… naso dello spettatore. Poi i cigni diventano due, aggiungendosene uno nero (affibbiato a Jessel, che ne ha uno attaccato al suo vestito, sulla spalla sinistra). I due cigni si vedono anche insieme in alcune animazioni e una grossa piuma cade dall’alto al termine del primo atto.

Ma il colpo di scena (inutile dire che è un’invenzione – peraltro non nuova in assoluto – del regista) arriva alla fine: nella scena VII (al laghetto) l’Istitutrice arriva con in mano l’origami del cigno, poi rimane lì, quasi inebetita e nella scena successiva (l’ultima) avviene il fattaccio: Miles, proprio dopo aver pronunciato la fatidica frase Peter Quint, you devil!, e mentre Quint gli dice addio, riconoscendo di avere fallito, invece di schiattare per colpo apoplettico si getta fra le braccia del fantasma e pure della fantasmessa Jessel, arrivata appositamente sul posto, e con loro se ne va quasi allegramente. La povera Istitutrice pronuncia le sue ultime parole e scimmiotta la canzoncina (Malo) di Miles trastullandosi con l’origami del cigno, mentre tornano pure Mrs.Grose e Flora a portarsela via verso… il manicomio?

Bene, abbiamo capito che Sicca appartiene alla scuola di pensiero che sostiene i fantasmi e le relative conseguenze essere una pura invenzione della mente malata dell’Istitutrice. E quindi, visto l’epilogo, dobbiamo supporre che anche il piccolo Miles sia un fantasma, ecco. E già che ci siamo, perché non anche la stessa Istitutrice? Boh…

Insomma, Sicca falsa smaccatamente il finale per presentarci l‘Istitutrice come colpevole e responsabile di ciò che è accaduto. Ma per insinuarci questo dubbio - che tale dovrebbe restare - bastano ed avanzano il testo di Piper e la musica di Britten, senza bisogno di aggiungervi o mutarci alcunchè.


22 maggio, 2015

Altro giro di vite a Firenze

 

Questa sera nella deliziosa bomboniera del Teatro Goldoni si rappresenta la prima delle 6 recite di The turn of the screw di Benjamin Britten.

Dal sito del Teatro, e in particolare dalla nota e dal video di cui è firmatario-protagonista Benedetto Sicca, responsabile della regìa dell’opera, veniamo a conoscenza di alcuni dettagli interessanti (si fa per dire).

Intanto, leggiamo: Che rapporto c’è tra il defunto Peter Quint e l’altrettanto defunta moglie? Ora, se davvero Sicca deriva dal testo di Britten e dall’originale di James un legame di parentela del genere, deve avere qualche secondo fine…

Subito prima aveva scritto: Perché la Governante lascia sua figlia per andare ad occuparsi di questi due bambini sconosciuti? Sua figlia? Questa è proprio tosta davvero: solo un principiante in lingua inglese può così interpretare la frase dell’istitutrice (The children… the children. Will they be clever? Will they like me? Poor babies, no father, no mother. But I shall love them as I love my own, All my dear ones left at home, so far away - and so different) dove lei si riferisce ai suoi cari e non ad una figlia che non ha, come si evince da tutto il resto del libretto e più ancora dal racconto di James (lei ha 20 anni, è innocente ed inesperta, ultima figlia di un povero parroco di campagna).

Saranno pure dettagli insignificanti, ma danno l’idea di un filino di approssimazione… ecco.

Dal video si apprende invece che, dopo il Flauto bolognese, anche a Firenze si potrà apprezzare al meglio la regìa solo inforcando i classici occhialini bicolore del 3D!

In attesa di permettermi qualche commento, dopo visione in loco, rimando le folle di seguaci del blog ad un mio scritto sul Turn, postato in occasione della pregevole edizione veneziana del 2010.

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 35


La Direttora Zhang Xian fa il suo ritorno – e proprio alla grande! - sul podio dell’Auditorium per dirigere un concerto imperniato su Mozart, ma aperto da Campogrande e chiuso da Prokofiev. Concerto che sulla carta sembrerebbe eccessivamente lungo, ma che in realtà scorre via velocemente e piacevolmente.

Per il ciclo EXPO Variations è il turno dell’Inno nazionale dell’Argentina, che Nicola Campogrande camuffa e nasconde nelle pieghe del suo canovaccio universale. Dove, in omaggio al tema espositivo, nella fattispecie potrebbe pure starci un bel bife de chorizo, ecco.

Poi ecco il cuore mozartiano del programma, aperto dall’Ouverture di Così fan tutte: Xian scalda i motori dell’Orchestra dandone una lettura nervosa e agitata, proprio nello spirito di quest’opera dalla natura indecifrabile.

laVERDI conta due prime parti di clarinetto, che sono casualmente pure marito&moglie: Raffaella Ciapponi e Fausto Ghiazza. Entrambi hanno nel loro repertorio il Concerto per clarinetto, e forse ogniqualvolta viene messo in programma si giocano a dadi chi dei due lo debba interpretare. Quest’anno il sorteggio deve aver favorito ancora Fausto, che credo sia alla sua terza, se non quarta esibizione.

E la sua è stata una prestazione davvero superlativa: non soltanto tecnicamente perfetta, ma soprattutto mirabile sul piano dell’espressività e del pathos di cui Fausto ha ricoperto le celestiali note del grande Teofilo. Perfettamente coadiuvato dai suoi colleghi dell’orchestra, con i quali lui era in perenne contatto attraverso… gli occhi della Xian.

Successo strepitoso e ripetute chiamate da parte di un pubblico tornato per l’occasione ad affollare piacevolmente l’Auditorium.      
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Dopo l’intervallo si chiude la scorpacciata di Mozart con la 36ma Sinfonia, cosiddetta di Linz: Xian ne restringe al massimo il brodo, evitando tutti i ritornelli (salvo i due inderogabili del Menuetto) e ciò che ne risulta è un vero e proprio cammeo, un gioiellino da ammirare a bocca aperta, ecco.

Tocca infine a Prokofiev l’ultima parola, con la celeberrima Classica. Ciò che ascoltiamo sembra proprio una sinfonia di Haydn, ma un Haydn che ha buttato la parrucca alle ortiche per poter prendersi finalmente qualche libertà rispetto ai pedanti canoni del suo tempo. Convincente l’interpretazione di Xian e soprattutto strepitosa la prestazione dei ragazzi (guidati da Dellingshausen) che trascinano il pubblico ad un’autentica esaltazione. 

Insomma, una serata di quelle da incorniciare.    

21 maggio, 2015

Il Flauto in 3D a Bologna

 

Ieri  pomeriggio il Comunale di Bologna ha ospitato la quarta delle sette recite della Zauberflöte, in una nuova produzione caratterizzata dall’impiego di tecnologie cinematografiche 3D, con tanto di occhialini bicolori distribuiti al pubblico all’ingresso in sala.

Devo purtroppo dire subito che - ai miei occhi (e un po’ anche alle mie orecchie) - il 3D è apparso come sinonimo di 3Delusioni. A cominciare proprio dalla base tecnologica materiale della ZAPRUDER: personalmente avevo avuto modo di vedere i primi, pioneristici filmati 3D (prima in USA e poi qui da noi) addirittura decine di anni fa e devo dire che erano di qualità e soprattutto di efficacia immensamente superiore a ciò che è stato presentato in questa edizione del Flauto. Immagini a prevalente contenuto di… frasche e con poche e per nulla impressionanti, né aggressive, apparizioni di oggetti e pupazzi assortiti.

Seconda delusione, il carattere generale dell’allestimento della compagnia di Luigi De Angelis e Chiara Lagani: l’impostazione targata Fanny&Alexander ha purtroppo finito per contagiare di infantilismo l’intera proposta, scaduta a livello di una recita scolastica. Scenografia inesistente; costumi di taglio francamente dimesso; eccessiva presenza in scena di frotte di bambini e ragazzi (a proposito di saggio di fine anno); e poi le solite trovate più disturbanti che gradevoli, quali le passeggiate di personaggi lungo i corridoi della platea, come il corteo di fine primo atto, col coro e poi con Sarastro che arrivano dal fondo della sala e costringono il Direttore a girarsi verso il pubblico, dando le spalle all’orchestra… Poco o nulla anche sul piano attoriale, dove i cantanti sembrano lasciati liberi di muoversi (o di star fermi) a loro discrezione.

E infine, terza (solo mezza, per fortuna) delusione anche sul piano strettamente musicale: dove mi sentirei di salvare la coppia Mariotti-Faidutti (e relativi… addetti) che hanno proposto un Mozart di discreto livello. Delle voci darei ampia sufficienza al Papageno di Nicola Ulivieri (peraltro non esente da qualche pecca sulle note più alte); poi al convincente Tamino di Paolo Fanale (bella voce dal piglio eroico e benissimo impostata); e infine a Maria Cristina Schiavo, una Pamina almeno onesta e gradevole. Tutti gli altri francamente al limite della sufficienza: alla Astrifiammante Christina Poulitsi non serve staccare i FA sovracuti, se poi gli arpeggi che li contornano sono approssimativi e dall’intonazione precaria; Mika Kares è un Sarastro imponente soltanto in… altezza (da pivot) ma per il resto gli mancano autorevolezza e corretto portamento; Gianluca Floris è un Monostatos piuttosto vociferante che cantante; e Anna Corvino una Papagena che canta meglio le frasi che richiedono la palese alterazione della voce (da vecchina sdentata) rispetto a quelle che ne caratterizzano la natura di donna piacente. Gli altri (Dame, Sacerdoti, Oratore) senza infamia e senza lode. Quanto ai tre fanculli-genietti qui si è deciso di schierare proprio tre voci bianche: scelta simpatica quanto discutibile.

La buona notizia è che il pubblico, piuttosto folto, direi, ha mostrato di gradire assai, tributando applausi e ovazioni indistintamente a tutti: quindi tutto bene così!


20 maggio, 2015

CO2: miracolosamente illesi

  

Signori miei, con l’anidride carbonica non si scherza: la mia maestra elementare (tale Ortensia, anni ’50 dello scorso secolo!) mi e ci aveva ammonito che restare in un ambiente saturo di CO2 significa la morte certa, non perché CO2 sia un veleno, ma perché si mangia l’ossigeno dell’aria. Per contro, vuoi mettere il piacere che ti dà una dose di anidride carbonica iniettata in una bottiglia d’acqua (o di Coca, o di qualsivoglia altra bibita gasata)?

La buona notizia di oggi è che lo spettatore che in questi giorni si avventura incoscientemente (o con epico sprezzo del pericolo) dentro le vetuste mura del Piermarini ha ottime possibilità di uscirne illeso (o al massimo con sopportabili conseguenze, nulla di irreparabile, ecco…) soprattutto se sta in loggione o nelle file alte dei palchi. Qualche maggior pericolo lo si corre stando in platea (si sa che la CO2 pesa più dell’aria e si addensa in basso): però se riescono ad uscirne vivi anche gli strumentisti (che stanno ancor più giù) significa che ci si può fidare…    

Insomma, il massimo pericolo che si corre è di sbottare come il mitico Fantozzi alla proiezione della mitica Potemkin… ed è ciò che alcuni del pubblico hanno fatto ieri sera alla seconda, pur mantenendo le imprecazioni a livello di confuso borbottìo e senza ricorrere a plateali vaffa. La maggioranza degli spettatori ha invece applaudito calorosamente tutti, autori e interpreti, probabilmente convinta di aver così dato un decisivo contributo alla lotta contro il surriscaldamento del pianeta. (Però poi tutti via a bordo di mastodontici SUV, tanto si è capito che la Gaia è una mamma di manica larga.)

Sì, perchè questa è un’opera-manifesto, o un’opera-denuncia come la si voglia definire. Io però comincerei con il contestarne proprio il genere, poichè opera mi pare un termine un filino impegnativo: per il solo fatto di essere rappresentata in Scala, non è che qualunque pièce si meriti quel riconoscimento, altrimenti dovremo chiamare opera anche la presentazione della stagione 15-16 che un famoso attore (smile!) farà il prossimo 27/5, ore 17. Quindi d’ora in poi, e per mero e doveroso rispetto per le attività di chi lo ha pensato e soprattutto realizzato, lo chiamerò lavoro.

Personalmente sono convinto che l’ecologia e i problemi connessi con la difesa dell’ambiente siano materia troppo importante e seria per essere trattati in questo modo. Già si deve purtroppo diffidare anche degli esperti veri, che spesso e volentieri prendono clamorose cantonate, figuriamoci se dobbiamo dar retta a librettisti, compositori e registi che giocano a fare gli ecologisti!

Che si tratti di un’operazione di pura facciata se ne rende conto chiunque prenda fra le mani il programma di sala, dove si è toccato il livello record di ipocrisia, facendolo per l’occasione stampare - invece che sulla consueta preziosissima e costosissima carta patinata - su carta (simil-?) riciclata!  

Va dato però atto a tutti gli autori di questo lavoro di aver fatto le cose proprio da – come dicono ad Oxford – paraculi! Ian Burton ha collazionato per il libretto una montagna di dotte citazioni, da Al Gore a James Lovelock, passando per testi più o meno sacri delle più svariate lingue e provenienze; Carsen, che di solito va a nozze quando può de-strutturare i DonGiovanni, le Tosche, le Alcine e le Salome, qui pare quasi sprecato, però ci ha messo il suo genio (e le straordinarie foto del suo amico Edward Burtynsky) per rendere accattivanti le diverse scene del lavoro, soprattutto quelle di massa. E infine il più paraculo di tutti (anche per origine geografica!) è il compositore Battistelli, che ci ha propinato una musica sempre addomesticabile, anche se non strettamente diatonica, senza comunque mai superare il confine oltre il quale lo spettatore medio comincerebbe ad innervosirsi.

La struttura del lavoro è un’altra paraculata: pur non essendolo nella realtà (di fatto è una specie di documentario, avendo un oggetto e non un soggetto) non vi manca nulla degli ingredienti dell’opera di teatro musicale come la conosciamo e la intendiamo da più di 4 secoli: presentando arie, concertati, cori, declamati, semplici parlati, intermezzi strumentali e – immancabile, nemmeno si fosse all’Opéra (o a Broadway?) - il balletto!

Insomma, si tratta di una raffinata mistificazione, e come capita per molte mistificazioni, può pure darsi che abbia un futuro: certo non sul piano, diciamo così, politico-maieutico, poiché scorre e scorrerà come acqua fresca su un cristallo; ma magari su quello teatrale sì, essendo spettacolo che sa catturare l’attenzione e le simpatie del pubblico.  

Sul piano dell’esecuzione musicale, finchè uno non ha accesso alla partitura non può nemmeno dire se direttore, orchestra e cantanti abbiano interpretato a dovere ciò che il compositore ha voluto trasmetterci: si può soltanto immaginare e sperare che in un’occasione come questa (presenza in loco dell’autore) le cose siano state fatte con il massimo della cura. Per il resto mi limito a riconoscere a tutti (i cori di Casoni, in primis) di aver contribuito – come detto – a rendere lo spettacolo piacevole e digeribile.

Ancora un commento di carattere generale: la Scala sarà pure (o vorrebbe essere) un teatro di livello internazionale e cosmopolita; poi c’è l’EXPO e quindi il tasso di turisti stranieri presenti in sala aumenta ulteriormente… però qui si rappresenta la prima mondiale di un lavoro commissionato dalla Scala ad un compositore italiano. Recitarlo nella nostra lingua, no? Poi fatene pure una versione inglese o tedesca o francese o russa o cinese o burkina-fasonica quando e se qualcuno deciderà di rappresentarlo in Paesi diversi. Purtroppo questo è un brutto vizio: Quartett di Francesconi (2011) ispirato da un testo tedesco a sua volta ricavato da uno francese, fu scritto (dall’autore italiano) in inglese; peggio successe per Cuore di cane (2013) scritto in italiano da un italiano e presentato in traduzione… russa! Allora diciamo: abbasso lo sciovinismo, evviva il masochismo!

Chiudo con una battutaccia: siamo sotto elezioni, e il prode Battistelli si è candidato a sindaco del suo paesello, Albano laziale. Speriamo che venga eletto, così trasformerà finalmente in zona pedonale anche la SS7 (alias: la gloriosa via Appia, una delle più trafficate e inquinate superstrade fin dai tempi dell’antica Roma) ma soprattutto non gli resterà più tempo per la composizione (tera-smile!)