ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

23 gennaio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 18


Dopo aver diretto la Nona a Capodanno, Oleg Caetani torna – con il braccio sinistro al collo! - sul podio dell’Auditorium per un concerto che accosta due brani quasi sconosciuti ad un ormai inflazionato Ciajkovski: i primi due sono contemporanei come epoca ma non potrebbero essere più lontani come impostazione, il terzo è la pretenziosamente tragica Quarta del russo.

Si apre con uno dei tanti autori tardo romantici, Max Bruch, di cui si esegue però un brano assai poco presente nei cartelloni sinfonici: il Concerto per clarinetto, viola e orchestra. Occasione per laVERDI per mettere in mostra le qualità di due prime parti – ed entrambe femminili! - dei rispettivi ruoli: Raffaella Ciapponi e Miho Yamagishi.

Il concerto (la parte di clarinetto, scritta da Bruch per il figlio, è sostituibile da una per violino) è dell’anno di grazia 1911. In quell’epoca il Mahler morente aveva già completato la Nona e il Lied e Strauss aveva già alle spalle cosucce quali Elektra e Salome; Schönberg si era da tempo incamminato sulla strada atonale e Stravinski da parte sua era ormai arrivato alla ribalta; non parliamo poi di Debussy. Non meraviglia quindi che almeno una buona parte del pubblico di allora abbia strabuzzato gli occhi le orecchie di fronte ad un pezzo che in quel momento sapeva di minestra riscaldata o di carne ammuffita; o anche di ciofeca invece che di profumato caffè.  

In realtà il problema sta nel… manico, come dimostra l’immortalità della musica antidiluviana (nel 1948!) uscita dalla penna di Strauss: e di manico, purtroppo per lui, Bruch ne aveva evidentemente pochino. Però, se in assoluto non ci sarebbe molto da salvare di questo brano, deboluccio nella forma e miserello nei contenuti melodici, va riconosciuto che non è poi peggiore di tanta altra musica di quel genere, che solo per avere 30-40 anni di più veniva 100 anni orsono e viene ancor oggi considerata con maggiore indulgenza.

Prendiamola quindi con… relativistica filosofia e intanto approfittiamone per fare i complimenti alle due simpatiche interpreti, che vi hanno profuso tutto il loro virtuosismo e la loro sensibilità.        

Sicuramente allineato con le tendenze del suo tempo fu invece Rudi Stephan, compositore tedesco coetaneo di… mia nonna (smile!) e purtroppo morto a soli 28 anni (come mio nonno, ahilui) nella Grande Guerra, sul fronte orientale, a Tarnopol. Di lui ascoltiamo Musik für Orchester, un brano che – tutto al contrario di quello di Bruch – si cala perfettamente in quel periodo storico (1912) in cui da un lato vennero a maturazione i germi dell’atonalità (che avrebbero poi portato alla dodecafonia) e dall’altro (ad ovest del Reno) imperava l’impressionismo di Debussy ed avanzavano prepotentemente le nuove tendenze della musica tonale, di cui si faceva interprete Stravinski.

La serietà programmatica dell’opera è testimoniata dall’approccio squisitamente sinfonico di Stephan. Che scolpisce subito un tema (a) dal sapore tristaniano; poi un altro (b) e quindi un terzo (c) impiegato in una fuga:

Questi tre temi principali vengono ripresi e sviluppati con grande maestrìa e con intelligenti variazioni di strumentazione e sonorità. Nella sezione fugata emerge anche una robusta preparazione di Stephan nel trattamento contrappuntistico (ad esempio il tema c elaborato per inversione). Il brano chiude in un vibrante DO maggiore con due sferzate orchestrali costruite sul tema a.

Insomma, un lavoro interessante e intelligente che Caetani, che ha l’indubbio merito di aver tolto dalla polvere la figura e l’opera di Stephan, ha diretto con estrema cura del dettaglio, guadagnandosi quindi un meritato successo personale.

Ha chiuso il concerto la Quarta di Ciajkovski, uno dei pezzi ormai entrati nel sangue dell’orchestra. Che Caetani, a dispetto della menomazione che gli ha (si spera momentaneamente) impedito l’uso del braccio sinistro, ha guidato con grande autorevolezza, trascinando i ragazzi ad una prestazione maiuscola.

Unico neo della serata… il pubblico, composto dai soli (anche se tanti) aficionados.

19 gennaio, 2015

L’inconsueto dittico torinese

 

Ieri pomeriggio il Regio torinese ha ospitato la seconda dello strano dittico Granados-Puccini. Teatro con vasti spazi vuoti, segno che questa proposta non deve aver convinto del tutto. E devo dire che all’atto pratico ha convinto poco anche il pubblico presente, che alla fine ha applaudito calorosamente, ma per non più di 5 minuti e di 3 chiamate del cast al proscenio, per poi incappottarsi e uscire al freddo.

Goyescas. Comincio dalla regìa: De Rosa non ha fatto il  miracolo (obiettivamente solo un miracolo potrebbe rendere teatralmente accattivante un simile soggetto). Così il regista ha trasformato i primi due quadri in un ininterrotto balletto moderno – avvalendosi della pregevole prestazione dei ragazzi del Balletto Civile – e poi all’inizio del terzo ci ha fornito una mirabile sintesi dei due quadri più famosi di Goya: la Maja vestida che, tramite disinvolto spogliarello, si trasforma sul posto in Maja desnuda!

Infine, tanto per far qualcosa di originale, fa combattere Fernando con un’arma impropria costituita da un paio di lunghe corna posticce di becco (evidente allusione allo status del capitano!) con le quali corna peraltro l’infilzato ammazza l’infilzante: e così anche lo sbifido torero si ha il fatto suo, e la smetterà per sempre di insidiare le Carmen Rosario di passaggio.

Quanto alle voci, di Giuseppina Piunti si può affermare senza tema di smentita che sia l’interprete ideale della… maja desnuda (è anche meglio del dipinto, non so se mi spiego!) Ecco, se le doti canore fossero pari a quelle del suo sontuoso fisico, lei sarebbe meglio della Callas (smile!) Ma a parte le battute di bassa lega, lei non è la Callas però non è nemmeno l’ultima arrivata, e mi è parsa la più efficace del quartetto di interpreti. Discreto il tenore Andeka Gorrotxategui (Fernando) e oneste le prestazioni di Anna Maria Chiuri (Pepa) e Fabián Veloz (Paquiro). Alejandro Escobar, tenore che nel secondo quadro canta al posto del prescritto soprano, ha pure fatto il suo dovere.

Bene il coro di Fenoglio, mentre Renzetti non mi era piaciuto molto giovedi in radio e ancor meno mi è piaciuto ieri dal vivo: nei primi due quadri ha presentato un ammasso informe di suoni, privo dei tipici chiaroscuri di Granados. Il famoso Intermezzo poi è stato affrontato a passo di lumaca stanca, oltre ad essere privato del suo Höhepunkt, con corni e tromba annegati in un marasma indefinito. Evidentemente fra il Maestro e Granados non ci sono affinità elettive (oppure è mancata un’accurata preparazione).
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SuorAngelicaQui De Rosa cerca di dire qualcosa di suo, e quindi inventa l’ambientazione in un ospedale psichiatrico (femminile, in omaggio al sesso unico dell’opera) gestito da religiose, che per la verità sembrano assai poco caritatevoli nei confronti delle povere ricoverate, trattate proprio come nei più famigerati istituti fatti chiudere a suo tempo da Basaglia.

Ora, che la religiosità di Puccini fosse tutta particolare, è ampiamente acclarato, però l’opera è tutto tranne che una parodia o una denuncia della religiosità: persino le suore del convento di sua sorella apprezzarono il soggetto e la musica del Maestro. Non credo apprezzerebbero oggi questa messinscena.

La cui conclusione poi mi pare proprio tradire lo spirito dell’opera, dove la protagonista rimane sola con la sua tragedia, dalla quale tenta di uscire con l’aiuto della natura, rappresentata da fiori ed erbe tanto amorevolmente coltivati. Invece De Rosa fa ammattire pure Angelica, che in preda ad un raptus mette violentemente a soqquadro l’armadietto dei medicinali in cerca del veleno con cui suicidarsi. Poi, invece di essere consolata dal finale miracolo con l’apparizione del figlio, ecco che riceve da una matta il suo bambolotto, mentre un’altra la scuote ripetutamente per accertarsi che sia proprio morta. Mah… qui l’unico consenso lo darei alle ragazze del Balletto Civile, che impersonano le dementi.

Sul piano musicale le cose sono andate decisamente meglio (tutto è relativo…) La protagonista principale, Amarilli Nizza, ha mostrato di sapersi calare assai bene in questa parte che alterna toni dimessi e riflessivi a scatti di passione, amor materno che arriva al sacrificio, ma anche ribellione contro i pregiudizi della società. A lei è andato il maggior consenso del pubblico.

Anna Maria Chiuri è stata una Principessa un po’ più efficace della Pepa spagnola. Personalmente ho però apprezzato di più la sua prestazione attoriale che non quella vocale. Anche con lei peraltro il pubblico è stato assai generoso, così come con la Badessa Maria Di Mauro.  

Tutte le altre protagoniste hanno parti di portata quantitativamente limitata: accumunerei tutte in un giudizio discreto, con una particolare citazione per la Genovieffa di Damiana Mizzi.

Anche qui bene il coro di Fenoglio e quello dei piccoli del Conservatorio; bene anche Renzetti, che con Puccini evidentemente ha una consuetudine antica e quindi una conoscenza approfondita delle sue partiture.
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Come detto, una proposta non del tutto convincente nel suo insieme (meglio, se ben ricordo, era andata la coppia Puccini-Zemlinsky della scorsa stagione): aspettiamo in futuro il Tabarro accoppiato a… ?   

17 gennaio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 17


Programma di musiche dall’est-europeo per questa puntata della stagione de laVERDI: ed in particolare dalla Boemia  - il Centro ceco di Milano ha patrocinato la serata - con un terzetto di compositori formato da un sandwich in cui due (tardo) romantici imprigionano un (relativamente) moderno.   

L’impaginazione del concerto, di taglio assolutamente tradizionale (brillante brano di apertura + concerto solistico + sinfonia) ci fa viaggiare da Smetana (anni ’70 dell’800) a Martinů (metà del ‘900) per poi retrocedere alla fine dell’800 con Dvořák. E la circolarità del percorso non fa che sottolineare la continuità di una tradizione musicale che – invece di farsi corrompere dalle più drastiche innovazioni del ‘900 – ha saputo mantenere la propria identità, pur non chiudendosi in se stessa: se Smetana fu il pioniere della scuola nazionale boema, Dvořák e Martinů vi si mantennero fedeli pur non rinunciando – Martinů in particolar modo - a confrontarsi con tutto ciò che si muoveva nell’occidente europeo e americano.

Sul podio torna dopo anni un nipotino di Salonen, il 35enne Pietari Inkinen che in questi ultimi anni ha cercato (e trovato) fortuna assai lontano da casa (Nuova Zelanda, Australia, Giappone) e che tornerà prossimamente in Europa: guarda caso, proprio a Praga! Così deve aver cominciato l’ambientazione ceca studiando per bene i tre autori in programma qui in Auditorium. La sua impronta già si è sentita nella Moldava, affrontata con verve pari all’attenzione ai dettagli e ai mille colori della partitura più famosa del ciclo Má Vlast, aperta dai mirabili rigagnoli delle due sorgenti del fiume evocati dal duo di flauto Crepaldi-Petrella.

Un pianista boemo, Pavel Kaspar (tastiera 1) ha fatto poi coppia con il nostro Roberto Prosseda (tastiera 2) nel Concerto per due pianoforti di Martinů, del 1943: opera raramente eseguita, a dispetto della sua obiettiva bellezza, proprio perché richiede due pianisti di grande livello tecnico, date le difficoltà che presenta. E non a caso entrambi i solisti hanno suonato con lo spartito sul leggio dello strumento. Merito de laVERDI avere in repertorio questo pezzo, già eseguito nel 2011 con Wayne Marshall e la coppia Micallef-Inanga.

Kaspar e Prosseda hanno risposto alle ripetute chiamate con un bis alquanto particolare: la trascrizione per due pianoforti, opera di Debussy, del quinto dei sei Studi in forma di canone per il pedal-piano (pianoforte con pedaliera) di Robert Schumann (qui da 2’57” a 5’12”): evidente, nella scelta, lo zampino di Prosseda, che ultimamente si sta proprio interessando a quello strano tipo di pianoforte, in particolare incidendone le opere di Gounod. 

Ha chiuso la serata l’Ottava di Dvořák, una sinfonia magari un po’ pretenziosa, con momenti di eccessiva prosopopea nei due tempi esterni ma con grandi slanci lirici nei due tempi interni, dove più emerge l’autentico spirito boemo dell’opera. Inkinen anche qui ha sfoggiato sensibilità e misura, guidando un’orchestra in grande forma in tutte le sezioni, ma con gli splendidi violoncelli capeggiati da Scarpolini che si meritano una menzione particolare.

16 gennaio, 2015

A Torino la prima volta di Goyescas

 

Il Regio torinese ha deciso di spacchettare il trittico pucciniano e di proporlo in tre rate e in stagioni successive (ed anche a ritroso, rispetto alla sequenza originale) abbinandone di volta in volta un’opera ad altra composizione breve. Così, dopo quello della scorsa stagione - costituito da Schicchi e Tragedia fiorentina – ecco quest’anno un altro strano quanto inedito dittico: Puccini abbinato stavolta a Granados.

Ieri sera è andata in onda la prima, trasmessa da Radio3.

I labili legami che collegano le due opere si riducono alla quasi contemporaneità delle rispettive prime rappresentazioni (1916 Goyescas, 1918 SuorAngelica) e al Teatro che le ospitò: il MET. Dal punto di vista dei contenuti (triangoli amorosi e sangue) ci sarebbe assai più affinità fra Goyescas e Tabarro, caso mai…
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Goyescas ebbe in realtà una genesi assai complessa: nacque nel 1910-1911 come una suite di 6 pezzi per pianoforte, ispirati più o meno direttamente a dipinti di Goya. Ad essi si aggiunse poi, nel 1914, un settimo brano (El Pelele): qui si possono ascoltare nell’interpretazione di Alicia DeLarrocha.

1. Los requiebros (apprezzamenti galanti) si ispira alla 5a delle 80 acqueforti della collana Los Caprichos del pittore aragonese, intitolata Tal para qual:


2. Coloquio en la reja (Conversazione attraverso la grata);

3. El fandango de candil (Fandango della lucerna);

4. Quejas, o La Maja y el Ruiseñor (Lamento, o La fanciulla e l’usignolo);

5. El Amor y la muerte (Balada) (Ballata di amore e morte) ispirato alla 10a acquaforte dei Caprichos, di pari titolo:


6. Epilogo: Serenata del espectro (Epilogo: Serenata dello spettro);

7. El Pelele: Escena Goyesca (Il fantoccio) ispirato al dipinto su cartone (m. 2,67x1,60) di pari titolo, modello per un arazzo per Carlo IV all’Escorial (1792):


La suite pianistica non ha propriamente una trama, tuttavia i sei brani originali – dai loro titoli - evocano scene e situazioni di vita: si va dal corteggiamento al colloquio, al ballo, alle pene di una ragazza, alla fine tragica di un amore e al ritorno dello spettro del morto. Ecco, con un poco di ulteriore immaginazione e di riordino della sequenza, e impiegando anche il settimo brano (El Pelele) oltre a spezzoni di un paio di sue Tonadillas, Granados impaginò nel 1914 la sua opera breve, che fu poi testualizzata (con un processo inverso a quello solito dove è un testo ad essere musicato) da Fernando Periquet che ne perfezionò il soggetto popolar-verista (una specie di Cavalleria, o di Pagliacci in sedicesimo). La cui struttura prevede tre quadri per un totale di dieci scene ed ha un finale di tipo trasfigurazione, che rese inservibile, perché con esso incompatibile, il sesto brano della suite (lo spettro).

Sommariamente abbiamo quindi la seguente corrispondenza fra l’Opera e la Suite (in realtà i motivi si intersecano maggiormente):

opera
suite & al
quadro 1
scena 1
scena 2
scena 3
scena 4

brano 7
brano 1

brano 7
quadro 2
scena 5
scena 6
scena 7

brano 3
tonadillas
quadro 3
scena 8
scena 9
scena 10

brano 4
brano 2
brano 5

Possiamo seguire l’opera in questa esecuzione in forma di concerto a Barcellona.  

Dopo una breve introduzione strumentale, eccoci al Quadro primo, ambientato in una spianata alberata di Madrid, dove nella scena iniziale (1’48”) ragazzi e ragazze (majas e majos) se la spassano allegramente. In particolare le femmine si divertono facendo volteggiare in aria un pupazzo (El Pelele) e non per nulla la musica che udiamo in sottofondo richiama precisamente il N°7 della suite pianistica:

 
A 4’24” fa il suo ingresso uno dei protagonisti, Paquiro, che ha fama di sciupafemmine (manco a dirlo è… un torero) e subito si dà a dispensare galanti apprezzamenti alle ragazze, guardato invece con una certa diffidenza dai maschi. Si odono ora i campanelli di un calesse che si avvicina: è la donna di Paquiro, Pepa.   

La seconda scena si apre appunto con la Pepa che scende dal suo carretto (trainato da cani, precisa la didascalia in versione inglese sullo spartito!) A 6’30” si gode il trionfo tributatole da tutti, e il coro misto (7’14”) ne intona le lodi sul secondo motivo variato del N°1 della suite. A 7’25” Paquiro si accoda alquanto svogliatamente alle lodi generali per la sua donna, che da parte sua gli conferma pieno amore, mentre tutti riprendono le loro acclamazioni per la coppia più bella del mondo. Ma adesso (9’02”) si avvicina un’altra protagonista della nostra storia, che Paquiro riconosce, rivolgendole apprezzamenti sospetti, sul tema principale del N°1:

   
È Rosario, una nobildonna che arriva in portantina (9’26”) ad aprire la terza scena: pare cerchi qualcuno cui ha dato appuntamento, e non si vede. Anche Paquiro (9’35”) si chiede chi Rosario stia cercando e poi, vedendola circospetta, (9’44”) avanza la sua sfacciata proposta: ti ricordi di quel ballo della lucerna? Perché non ci torni anche oggi? Quasi tutta la scena è supportata in sottofondo dai due motivi del N°1 della suite pianistica.

Adesso facciamo conoscenza del quarto ed ultimo protagonista: il capitano Fernando, che si aggirava lì di nascosto (forse proprio per sorprendere la sua amata Rosario in flagrante?) ed ha ascoltato le parole di invito di Paquiro alla sua donna. A 9’53” si mostra e comincia ad esternare i suoi dubbi e così Paquiro ha capito chi era la persona che Rosario aspettava. Fernando (10’05”) riprende il secondo motivo del N°1 confessando i suoi sospetti sul fascino che il torero deve avere sulla sua donna:

 
Adesso le voci dei quattro protagonisti, con un paio di interventi del coro, si sovrappongono esternando i rispettivi stati d’animo: i sospetti di Fernando, la costernazione di Rosario, il desiderio avvampante di Paquiro per la nobildonna e l’intenzione di Pepa di impedire a Rosario di portarle via il suo uomo. Ma è proprio Pepa che sfida il destino, avvertendo Fernando dell’ora in cui si terrà il ballo, al quale il capitano ora impone a Rosario di partecipare, come gesto di sfida verso lei e Paquiro.

14’25” Sul tema del N°7 ritorna El Pelele, contrappuntato dal N°1, a costituire la breve quarta scena che chiude il quadro.

Prima del quadro successivo, ecco (16’04”) il famosissimo Intermezzo, che spesso e volentieri viene eseguito separatamente nei concerti. Composto in vista della prima al MET (in sostituzione di un altro presente nell’edizione originale del 1914) è in tempo 3/4 e inizia con una melodia che richiama vagamente l’attacco della Valse triste di Sibelius. A 18’09”, su un poderoso tremolo di MIb maggiore dei violoncelli, ecco i due corni esplodere l’enfatica frase musicale che è diventata il simbolo dell’opera, subito spalleggiati dalla tromba che ne completa l’arco melodico:

 
Poi un’impennata dei violini dà inizio ad una lenta ed inesorabile discesa verso la conclusione, sul secondo motivo del N°1.

Il Quadro secondo è ambientato al ballo della lucerna e la quinta scena si apre (21’21”) per l’appunto con il caratteristico ritmo di fandango del N°3 della suite pianistica:

Ragazzi e ragazze ballano incessantemente, intonando (22’08”) il tema del N°3:


Ma sono anche in attesa di ospiti di riguardo, che infatti arrivano (23’02”) con Rosario che muore di paura (però, magari in incognito, la nobildonna in quel postaccio aveva già messo piede, vero?) A 23’10” è la sbifida Pepa ad accoglierla con sarcasmo (ah, ecco qui una gran dama che vuol fare esperienze forti…)       

Ora assistiamo a schermaglie verbali fra i convenuti e Fernando, che Paquiro (24’21”) tronca invitando il capitano a verificare se la sua donna desideri ballare; subito incalzato da Pepa, che ancora chiede sarcasticamente cosa ci è venuta a fare lì quella gran dama. La scena si chiude con un ultimo sberleffo di Pepa e degli astanti nei confronti della malcapitata Rosario.

A 25’37” ha inizio la sesta scena, con una citazione letterale della Tonadilla Amor Y odio, sulla quale Paquiro diffida Fernando dall’esser venuto lì con intenzioni diverse dal ballo:


La scena drammaturgicamente aggiunge assai poco a quanto già visto e udito: abbiamo reiterati screzi verbali fra Paquiro e Fernando, mentre Rosario è sempre più agitata e non vede l’ora di andarsene. Gli astanti in coro fanno commenti preoccupati per la piega che sta prendendo la situazione, ed infatti ad un’ennesima spavalderia di Fernando si sfiora la rissa, con la povera Rosario che addirittura sviene.

Paquiro e Fernando (27’55”) approfittano del parapiglia per… accordarsi su ora e luogo del duello che dovrà risolvere il loro contenzioso. Finalmente Fernando e Rosario se ne vanno, mentre Paquiro (28’15”) ordina perentoriamente la ripresa del ballo, per quanto sia deluso per l’allontanamento di Rosario.   

Ballo (fandango) che occupa (29’04”) la parte finale della scena settima, dopo che Pepa e i ragazzi hanno inneggiato alla bella vita. Sopra le voci del coro spicca quella di un soprano solista, che magnifica le doti della vera maja.

A 32’06” abbiamo un nuovo Interludio, che introduce adeguatamente l’atmosfera cupa del quadro conclusivo. Significativamente, è il corno inglese ad esporre una mesta melodia, seguito poi da clarinetto ed oboe. Ora un flauto (35’08”) emette i caratteristici gorgheggi di un usignolo.

Si apre (35’22”) il Quadro terzo nella zona antistante il palazzo di Rosario. L’ottava scena ci mostra la donna che contempla la notte di luna piena ed ascolta il canto dell’usignolo. E il suo canto si snoda sulla stupenda melodia del N°4 della suite pianistica (quella il cui incipit verrà ripreso nel 1940 da Consuelo Velázquez nella famosa canzone Besame mucho):

I fiati soprattutto accompagnano il suo canto e i flauti (37’45”) ricordano nientemeno che il risveglio di… Brünnhilde!

A 41’01” ha inizio la nona scena, con Fernando che si avvicina a Rosario, che si appresta a rientrare in casa: i due sono protagonisti di un duetto d’amore per il quale Granados impiega le note del N°2 della suite pianistica:

Fernando indaga i sentimenti della donna, che giura di essergli sempre rimasta fedele. Il capitano insiste con i suoi dubbi e i suoi sospetti, ma Rosario sembra riuscire a convincerlo. A 44’55” Fernando si abbandona ai sentimenti e fra i due pare proprio tornare la serenità, con il loro canto (47’20”) che ha un’estatica progressione quasi tristaniana!

Ma il destino incombe: a 47’53” si odono, nel pizzicato degli archi, i passi di Paquiro, arrivato all’appuntamento per il duello. Fernando se ne avvede e improvvisamente cerca una scusa per lasciare Rosario (48’56”) che presto comprende la ragione dello strano atteggiamento dell’amato. A nulla valgono i suoi tentativi di trattenerlo, e Fernando l’abbandona per raggiungere il rivale.

A 49’12” un drammatico sfogo orchestrale accompagna voci e rumori che provengono da dietro la scena: due urli, di Fernando ferito a morte e di Paquiro, disperato per l’atto appena compiuto.   

A 49’45” sono le note del N°5 della suite pianistica ad introdurre la decima scena, che chiude l’opera:


Rosario soccorre l’amante moribondo (50’45”) le sembra tutto un brutto sogno, chiede a Fernando di guardarla ancora, ma (52’12”) lui sente la morte avvicinarsi: le note meste nel violino (che nel N°5 richiamano un frammento del N°4) accompagnano il suo spirare fra le braccia di Rosario. La quale (52’53”) sembra non accorgersi di nulla, e domanda all’amato perché se ne vuole andare via da lei. Poi (54’22”) realizza con disperazione che tutto è ormai perduto, e non le resta (55’21”) che invocare per due volte Amor! e poi meditare sull’eterno mistero di vita e morte, mentre l’orchestra chiude (a differenza del N°5, che finiva in minore) su un celestiale SOL maggiore.
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Beh, non si può certo parlare qui di capolavoro, al di là della bella musica di Granados: dal punto di vista drammaturgico la sostanza è davvero scarsa, e quasi assente è la scolpitura musicale delle personalità dei protagonisti; il tutto si riduce a quadretti di vita popolare (come in fondo sono i pezzi pianistici da cui l’opera fu derivata). Non è quindi un caso se le (comunque scarse) esecuzioni siano quelle in forma di concerto.

Dall’ascolto radio, mi sentirei di lodare il coro e l’orchestra, mentre non mi sono parsi impeccabili i cantanti. Quanto a Renzetti, ho percepito tempi eccessivamente sostenuti ed enfatici, ma qui è questione di… gusti. 
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Altra… musica con SuorAngelica, sotto ogni punto di vista: soggetto, teatro, suoni. Ed anche esperienza degli interpreti, a cominciare da Renzetti, parso a me assai più a suo agio che non con Granados: equilibrio nei tempi e attenzione alle infinite sfumature di cui questa partitura, solo apparentemente facile, è ricchissima. Voci che, salvo prossima verifica dal vivo, mi son parse sufficientemente all’altezza.

Quanto agli allestimenti, le poche battute percepite dalla Susanna e dalla sua chiacchierata con De Rosa non fanno presagire cose mirabolanti, ma anche qui aspettiamo di toccare con… occhio.

09 gennaio, 2015

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 16


Il 2015 della stagione principale de laVERDI si è aperto nel nome di Nino Rota, di cui lo specialista Giuseppe Grazioli ha offerto Mysterium, la cantata composta più di mezzo secolo fa su commissione della Pro Civitate Christiana di Assisi. L’amico del compositore, Vinci Verginelli scelse - quale testo delle 7 parti - versi delle sacre scritture, in lingua latina. Qui la registrazione della prima del 29 agosto 1962.
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Proprio in quei mesi stava maturando la più acuta crisi di tutto il periodo della cosiddetta guerra fredda, con l’Unione Sovietica che imbottiva di missili il lider-maximo dopo che il mite JFK aveva invano dato seguito alla decisione del predecessore Eisenhower di riconquistare democraticamente l’isola sbarcando presso la baia dei maiali. 

Come dire: dopo mezzo secolo siamo punto e daccapo, con una guerra alle porte: solo che questa è inafferrabile, poiché è strisciante, asimmetrica, sbifida, portata casa per casa da freelance del piano di sotto, magari da quegli stessi ragazzi che ti tengono pulite le scale ogni santo giorno. Una guerra dove soluzioni tipo Hiroshima o Dresda che (per quanto faccia ribrezzo ammetterlo) hanno funzionato, non sono (purtroppo o per fortuna?) applicabili.

E allora, per non cadere in tentazioni pericolose, meglio rifugiarsi in una delle poche oasi di pace che ci rimangono aperte: quella dell’arte e della musica, che nella nostra civiltà hanno saputo affrancarsi da dogmi e integralismi. Come dimostra Mysterium, un’opera che non divide ma affratella, come ben esplicita l’ultimo versetto cantato dalle voci dei fanciulli: Tu che, mediante la varietà di tutte le lingue, hai riuniti i popoli in una sola fede. E come ha ricordato al pubblico Giuseppe Grazioli prima di alzare la bacchetta.
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Sia la scelta, abbastanza libera, dei testi, che la suddivisione in 7 parti ed anche la durata complessiva richiamano – chissà poi se la cosa fu voluta o puramente casuale – la struttura del Requiem brahmsiano, che precede l’opera di Rota di quasi un secolo. Curioso anche che l’ultimo brano di entrambe le opere contenga un richiamo (per quanto diverso nella forma) alla Parola dello Spirito e chiuda sfumando in un’atmosfera di pace e serenità.  

Grazioli, che oggi è senza rivali come interprete di Rota (cui ha dedicato serie di concerti qui in Auditorium seguite da numerose incisioni e di cui poco più di un anno fa diresse proprio il Mysterium al SanCarlo) ha guidato da par suo solisti e masse orchestrali e corali de laVERDI, facendo emergere tutta la profonda spiritualità del suono e del canto, che percorre quest’opera da cima a fondo. 

Fra gli interpreti ha spiccato il basso Gianluca Buratto, di sicuro il più impegnato (quantitativamente, ma anche qualitativamente) dalla partitura di Rota: bella voce brunita, ha sfoggiato grande autorevolezza e portamento. 

Onorevoli le prestazioni del soprano Elena Xanthoudakis, del contralto Giuseppina Bridelli e del tenore Alessandro Liberatore. Come sempre all’altezza il Coro di Erina Gambarini, sia nelle parti più intimistiche che nelle esplosioni poderose. Così come si è fatto apprezzare il Coro dei piccoli di Maria Teresa Tramontin.

Grande successo in un Auditorium gremito.

20 dicembre, 2014

Orchestraverdi 14-15 – Concerto n° 14


Seconda consecutiva indigestione di Ciajkovski, ancora con Zhang Xian sul podio. Concerto doverosamente dedicato alla memoria - 10 anni dalla scomparsa - di Renata Tebaldi, che è anche al centro di una bella mostra fotografica sulle pareti del bar-foyer dell’Auditorium. In programma ben quattro poemi sinfonici (Ciajkovski li chiamava ouverture-fantasia o semplicemente fantasia) ispirati (direttamente o meno) a Shakespeare.

L’impiego della musica senza parole (e/o senza immagini) per rappresentare contenuti extra-musicali, come sono i testi letterari, inclusi oggetti o concetti o personaggi, è vecchio quanto la musica; e altrettanto vecchie sono le diatribe tra chi sostiene che la musica sia capace di descrivere e chi nega con forza tale prerogativa. Personalmente ho espresso il mio parere (negativo) che non sto a ripetere qui, rimandando i perditempo a questopost di qualche anno fa. 

Ciajkovski - seguendo (in buona compagnia: Dvorak, Franck, Smetana, tanto per citare qualche suo famoso contemporaneo) le orme di Liszt e precorrendo di poco quelle di Strauss, Sibelius e giù giù fino a Respighi – si dedicò assiduamente a questo genere di opera, e i 4 brani inclusi in questo concerto costituiscono il grosso della produzione del nostro.
  
Si comincia con La tempesta, opera abbastanza giovanile (guarda caso invece: l’ultima, o quasi, del bardo) ma forse superiore per ispirazione e struttura anche a lavori successivi e più maturi. In calce alla partitura venne pubblicato un suo succinto programma proposto da Stasov (che forse con questi suggerimenti sperava di attirare Ciajkovski nella ragnatela del Gruppo dei cinque…):
Seguiamone un’esecuzione di Claudio Abbado a Lucerna.
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Lo scenario che Ciajkovski presenta alle nostre orecchie è quello del mare. Siamo in Andante con moto, 3/4 in FA minore. Dopo l’introduzione di un corale statico dei fiati, sono gli archi a muovere le acque, sulle quali udiamo il tema del mare in calma, ampio e maestoso, esposto (30”) dai due corni in unisono:


Da notare la meticolosità con cui Ciajkovski evoca  l’agitarsi, per ora tranquillo, delle onde: tutti gli archi, salvo i bassi, sono divisi in tre, così come pure tre sono i diversi ritmi sui quali suonano (terzine per violini primi e celli, semicrome per violini secondi, crome per le viole, mentre i bassi aprono ogni battuta in sincope). Flauto-oboe e poi clarinetto-fagotto espongono figurazioni mosse (i riflessi del sole sull’acqua? lo svolazzare di gabbiani? o Ariel, lo spirito del vento che per ora sonnecchia?) mentre altri corni e trombe ci fanno udire un inciso marziale, che si ingigantirà fra poco all’arrivo del mago Prospero, padrone dell’isola incantata. Il tema del mare viene reiterato dai corni, anche una terza sotto (dal RE) e poi la sua chiusa (che scala un’intera ottava) viene ripresa in successione dai fiati. Riudiamo le figurazioni mosse, poi ecco un temporaneo ritorno della calma (3’17”) che prelude all’ingresso sulla scena del… padrone.

A 3’36” (Allegro moderato) si presenta infatti Prospero, introdotto da pesanti minime dei violoncelli sulle quali violini e strumentini innestano mulinelli di vento (è Ariel, scalpitante e recalcitrante, ma richiamato all’ordine dal suo padrone) prima che il tema (in LAb maggiore) venga esposto (3’49”) dai legni, con gli archi in pizzicato e i corni a tambureggiarne il ritmo:


Violini, viole e strumentini, con i corni ad incalzare, sembrano proprio evocare l’insofferenza dello spirito eolico davanti al padrone, che infine (4’43”, Andante alla breve) con tutta la sua autorità e prosopopea, marcata da una doppia e solenne esposizione del suo tema negli ottoni in corale, gli ordina di scatenare la tempesta.

Che arriva a 5’24”, in Allegro vivace, annunciata da possenti minime dei fagotti, all’unisono con la tuba, mentre i timpani caricano l’atmosfera di tensione e gli archi cominciano ad evocare il montare delle onde:

Adesso il vento (folate ascendenti dell’ottavino) mette in totale subbuglio anche il mare, il cui tema udiamo ripetutamente (da 5’51”) esposto dei corni, richiesti di suonare con la campana rivolta in alto.

7’00” Ecco una nave (non una qualunque, ma quella per cui tutto l’amba-aradam è stato scatenato da Prospero!) finire in mezzo alla tempesta, squassata e sballottata senza più governo, finchè (da 7’15”) viene irresistibilmente spinta verso l’isola, dove infine (7’27”) si consuma il naufragio! I temi del mare e della tempesta accompagnano i superstiti verso la spiaggia.

8’38” Ora tutto è calma e pace, e l’isola accoglie i naufraghi (qui ci si occuperà solo del più importante di costoro: Ferdinand…) La natura ospitale fa da sfondo al nascere, prima timido, poi irresistibile, di un amore: è Ferdinand a vedere per primo e ad invaghirsi della bella (ma forse infelice, date le circostanze) figlia di Prospero, Miranda, oppure è lei che, accorsa per dare aiuto ai naufraghi, si imbatte nel principe di Napoli e vi trova subito il suo principe azzurro? Mah, questo forse la musica non ce lo chiarisce, sta di fatto che la scena è quella classicamente adatta a costruirci l’immancabile love-theme (senza del quale qualsiasi pezzo musicale di questo tipo perderebbe parecchio senso…) Nella fattispecie si tratta di un caldo tema in SOLb maggiore (Andante con moto, 3/4) esposto inizialmente dai violoncelli abbrunati:


Il tema ha qualche apparente tentennamento (sì, non è proprio un amore che scoppia in modo travolgente, ma un sentimento che cresce e si irrobustisce) ma poi viene ripreso a piena orchestra (da 9’32”, Poco più animato) per lasciar spazio ad un controsoggetto, in Andantino (10’03”):


Motivo che si sviluppa assai, prima di sfociare (10’57”) ancora nel tema principale esposto ora in SIb (Andante mosso) che poi si acqueta per lasciare spazio (11’32”) ad una dolce cadenza dei fiati, subito ripresa dagli archi e che porta lentamente ad un provvisorio epilogo, con il tema principale riproposto sempre in SIb dai corni (12’25”) e quasi cullato dalle terzine dei violini.

Forse è l’amore fra i due giovani ad aver bisogno di qualche… periodo di assestamento, e così ecco che nel racconto musicale si inserisce (12’52”) un siparietto movimentato: si tratta di un alterco fra Ariel e lo sbifido Caliban. L’atmosfera si riscalda parecchio (siamo ora in Allegro animato) e la baruffa fra i due vede protagonisti i fiati (Ariel) e gli archi (Caliban) con picche e ripicche alternate ad autentiche risse sonore, che si protraggono fino ad esplodere in un Allegro vivo, costellato da strappi in ffff (!) finchè i fiati sembrano prendere il sopravvento con ripetuti colpi sotto i quali gli archi rimangono quasi schiacciati e incapaci di muoversi, restando infine come a miagolare su semicrome ribattute, mentre il suono si smorza per fare spazio al ritorno (15’27”) del tema dell’amore, adesso esposto, in LAb, Andante non tanto, con grande nobiltà ed enfasi. Torna anche il secondo motivo (16’27”) che poi sfocia nella riesposizione del primo (16’52”) in forma cadenzante (Allargando) che dà l’impressione di condurre ad un definitivo epilogo dell’episodio amoroso. Ma è proprio una… finta, poiché ecco (18’33”, Allegro molto) un forsennato crescendo di semicrome negli archi portare (18’46”) ad un’autentica apoteosi del tema dell’amore (Andante non tanto, con archi e legni in fffff!)

E non è finita, poiché c’è ancora da… sistemare Prospero: a 19’43” un fragoroso Allegro risoluto dell’intera orchestra ci evoca il mago-duca che, ottenuto il suo scopo, rinuncia alla magia e se ne torna a Milano, seguito dalla fanfara dei corni e dal suo lungo e religioso corale in DO maggiore (20’35”, Andante con moto). Adesso basta? Eh no, poiché Prospero per tornare a casa deve pur rimettersi in mare: ed ecco quindi (21’27”) tornare il tema iniziale, in FA minore nei corni, con gli svolazzi di Ariel, prima del definitivo, lento spegnersi dei suoni, sul FA degli archi in pizzicato e i rintocchi del timpano.
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Ecco poi la più matura Francesca da Rimini (qui Shakespeare non c’entra direttamente, ma trasversalmente, per analogia con la Giulietta). Ciajkovski fece precedere la partitura da un sunto e poi dai versi danteschi che raccontano la storia d’amore e di sangue di cui furono testimoni le mura del castello di Gradara, dove la bella da Polenta e il Bello cognatino suo fecero una bruttissima fine per mano del cornuto Zoctus:


L’opera è macroscopicamente suddivisa in tre sezioni, di cui le due esterne dovrebbero rappresentare lo scenario infernale e quella centrale l’idillio amoroso. In mancanza di indicazioni di dettaglio, sta a ciascuno di noi, guidato dal sommario programma che l’Autore ha proposto, di associare le note a luoghi, fatti, personaggi, concetti, stati d’animo… e quant’altro. (Oppure di ascoltare la musica senza pensare a riferimenti qualsivoglia: a volte conviene!)

Anche qui, proviamo a districarci con l’aiuto di Vladimir Fedoseyev e dei suoi radio-moscoviti.
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La prima sezione si apre con un rabbrividente colpo di tam-tam, sovrapposto ai LAb di fagotti e archi bassi: siamo in un Andante lugubre in 4/4, che possiamo immaginare come un’introduzione, dove incontriamo Virgilio e Dante che si aggirano nell’oltretomba, e poi (33”) cominciano a discendere - insieme a fagotti, tromboni, tuba e archi bassi – verso il secondo girone. A 1’19” un nuovo colpo di tam-tam (Più mosso. Moderato) apre davanti agli occhi dei due pellegrini (e ai nostri) uno scenario, come dire… infernale? Ancora un paio di interventi del tam-tam, sul secondo dei quali (3’05”) sembra di vedere i nostri due umani attoniti e increduli di fronte allo spettacolo che si prospetta alla loro vista.

3’33” Ecco (siamo passati a 6/8 Allegro vivo) ora possiamo immaginare che si alzi il turbine che avvolge e trascina con sé i dannati lussuriosi. In orchestra si alternano gli archi, ad evocare le raffiche del vento, e gli strumentini, che ne rappresentano il sibilare, tra le gole del girone. A 4’51” un fortissimo generale ci conduce alla vista dei dannati che roteano sballottati dalla bufera:

Gli ottoni a 5’41” sembrano mostrarci il passaggio dei poveracci, che riprende fortissimo (6’40”) per poi sfumare lentamente, finchè un nuovo colpo di tam-tam (7’50”) pare spostare nuovamente la nostra attenzione su Dante e Virgilio, letteralmente allibiti di fronte a tanto spettacolo.

Ma ecco che un paio dei derelitti volanti si deve essere momentaneamente fermato, accostandosi al bordo del girone: a 8’47” Il clarinetto solo espone una lenta melopea, che introduce la seconda sezione del brano, e precisamente il tema-a dell’amore di Francesca e Paolo, suonato dallo stesso clarinetto (9’19”, Andante cantabile non troppo) su accompagnamento molto discreto degli archi. I quali a 9’55” espongono a loro volta il tema-b, che si sviluppa ulteriormente, arricchendosi di un altro paio di motivi, prima di sfumare verso una breve transizione (11’50”) nel clarinetto accompagnato da violini primi e viole. Un frammento del tema-b si ritroverà come citazione nel quasi contemporaneo Onegin, introduzione dell’aria della lettera di Tatjana:
A 12’03” riudiamo il tema-a in flauto e oboe, poi (12’31”) ecco il tema-b riapparire in violini e violoncelli, con gli strumentini ad abbellirlo di veloci terzine. A 13’25” abbiamo un repentino rarefarsi della melodia, rotto poi dagli svolazzi dei flauti, prima che (14’07”) torni il tema-a nei violoncelli, sempre accompagnato dalle veloci crome dei flauti.

A 15’02” segue una lunga transizione dominata dal corno inglese, poi oboe (poco dopo dal flauto) ed arpa, con successivi interventi di corno e clarinetto; è un’atmosfera carica di tensione, forse il momento in cui sta per scoppiare la passione fra i due amanti: svolazzi ascendenti di semicrome e biscrome dei violini alimentano l’attesa, finchè (17’23”) riecco il tema-a in flauti e oboi, poi (17’43”) ripreso dagli archi, che lo sviluppano fino (18’04”) ad un crescendo generale sfociante a 18’36” nell’esplosione del tema-b in trombe, tromboni e tuba nel pieno orchestrale, tema poi ripreso (19’08”) dagli archi e legni che lo conducono alla conclusione, su uno dei motivi secondari.

A 20’00” compare inaspettatamente una fanfara nei corni (la ritroveremo dopo qualche anno nientemeno che nell’Ouverture 1812!) Sarà mica Gianciotto che fa irruzione con la spada sguainata nella sala dove i due amanti trescano ai suoi danni? Fanfara che si scatena ulteriormente e pone fine all’atto impuro! Un mesto corale (20’23”) evoca le esequie dei due poveri destinati all’inferno.

20’38” Eccoci ormai alla terza e conclusiva sezione (Allegro vivo) con la ripresa del turbine che trascina al suo interno i lussuriosi: sono sempre le sezioni degli archi e dei fiati ad alternarsi nel prefigurare l’arrivo della buriana, che (21’52”) torna a fagocitare nei suoi vortici anche i due poveri amanti romagnoli.

A 22’58”, Poco più mosso, si chiude con un concitato crescendo, culminante in 9 mazzate (è forse Dante che stramazza come corpo morto?) e nel conclusivo MI all’unisono.
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Dopo l’intervallo tocca ad Hamlet, opera della maturità (coeva della Quinta) che verrà poi affiancata (e ne sarà alimento) da musiche di scena per una rappresentazione teatrale della tragedia. Qui l’efficacia evocativa del brano non mi pare proprio così alta, e personalmente condivido in pieno la conclusione che Paul Serotsky ha posto in calce alla sua breve ma fulminante analisi del brano: se il titolo fosse Coriolano, cambierebbe qualcosa? (stra-smile!)

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Chiude Romeo e Giulietta, annunciata - fin dal programma generale della stagione - nella prima versione del 1869. Invece quasi all’ultimo momento si è ripiegato sulla versione definitiva del 1880. Sulle differenze strutturali fra questa e quella originale ho scritto qualcosa mesi fa in occasione di un’esecuzione qui in Auditorium con Ceccato.  

Anche qui noi possiamo apprezzare le capacità evocatrici della musica: sapendo a-priori di che si tratta riusciamo facilmente ad associare il corale a Lorenzo, i fracassi alla faida Montecchi-Capuleti e il languido tema all’amore fra i due sfortunati ragazzi di Verona. Ora, applicando l’argomentazione di Serotsky a proposito dell’Hamlet, domandiamoci: se il titolo fosse Orazi e Curiazi, non potremmo tranquillamente associare il corale a Tullo Ostilio, il fracasso alla faida Roma-Albalonga e il languido tema all’amore fra la Camilla romana e il Curiazio nemico? Ecco, appunto…    
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Torno al concerto, per esprimere una serena critica a queste scelte di confezionare programmi  monopolizzati da uno stesso autore, e per di più (come in questo caso) con opere dello stesso genere: il rischio di saturazione delle capacità… digestive del pubblico diventa assai alto (anche troppo caviale alla fine stanca). Immagino che proprio la consapevolezza del rischio abbia spinto il programmatore del concerto ad introdurvi un elemento di distrazione (in senso buono, come si fa con il classico sorbetto messo tra portate robuste in un pranzo di nozze!) costituito nella fattispecie da letture di brani delle corrispondenti opere letterarie proposte dall’attore Federico Manfredi subito prima di ciascuna esecuzione musicale.

Esecuzione che non ha fatto altro che confermare la compattezza dell’Orchestra e la bravura dei tanti singoli che hanno avuto modo di distinguersi, sotto la bacchetta sempre precisa e senza fronzoli della Xian. Per questo è quanto mai doveroso… 


sostenere laVERDI!