ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

31 luglio, 2014

Bayreuth: l’ultima stagione di mickey-Lohengrin


Accade abbastanza raramente che il primo ciclo (dei 4, normalmente in programma lungo il Festival) del Ring venga per così dire interrotto dalla programmazione di altre opere. Quest’anno accade nuovamente dopo 4 stagioni: come nel 2010 fu Parsifal ad insinuarsi tra Walküre e Siegfried, quest’anno è il figlioletto Lohengrin a disturbare la continuità fra Siegfried e Götterdämmerung. (Nel 2006 ci fu un’azione di fuoco amico, con un Rheingold re-infilatosi fra le ultime due giornate.)

Eccoci quindi al capolinea del capolavoro di Neuenfels, quello che verrà ricordato soprattutto per la toponomastica dell’ambientazione (smile!)

Stessa squadra del 2013 con la sola, ma importante, sostituzione della protagonista femminile: alla Dasch, mamma per la seconda volta, è subentrata come Elsa l’italiana (di Meran!) Edith Haller, che torna dopo 4 anni a Bayreuth, dopo avervi imperversato dal 2006 al 2010 in diversi ruoli di un certo spicco nel Ring diretto da Thielemann: Gutrune, Freia e da ultimo Sieglinde (più una Valchiria e una Norna). Direi che la sua prestazione sia da catalogare nella serie delle oneste e innocue.

Chi pensa che il tempo appesantisca e scurisca la voce viene clamorosamente smentito da Klaus Florian Vogt: la sua vocina di anno in anno sembra volgere sempre più verso quella di un efebo evanescente, Bocelli al confronto è un autentico Heldentenor! Chissà, magari ciò è coerente con la vision del regista, che in effetti fa di Lohengrin un povero ingenuo irresponsabile e invertebrato. A me invece fa ridere, e ciò – trattandosi di Wagner e non del Donizetti dell’Elisir o del Rossini della Scala di seta – equivale praticamente ad un sacrilegio.

Per il resto, si salvano (per così dire) i due cattivi Petra Lang e Thomas J.Mayer e… l’olandese-coreano Samuel Youn. Come sempre, sono orchestra e coro (più il Kapellmeister Andris Nelsons) a tenere a galla il baraccone.

30 luglio, 2014

Bayreuth: Siegfried… invecchia


Rispetto al 2013 – se si esclude la sostituzione di Alberich (ieri Martin Winkler, oggi Oleg Bryjak, che ce la mette tutta per non farlo troppo rimpiangere) – questo Siegfried è parecchio… invecchiato. Ma al contrario della classica gallina, col passar degli anni il capponcello Lance Ryan produce un brodo sempre più indigesto; se aggiungiamo che Wolfgang Koch e Catherine Foster ancora non si sono operati alle corde vocali (e quindi i loro Wotan e Brünnhilde sono da caricatura) abbiamo un quadro invero desolante. A poco servono le prestazioni dignitose (non più) del Mime di Burkhard Ulrich, della Erda di Nadine Weissmann, del Fafner di Sorin Coliban e dell’Uccellino di Mirella Hagen per sollevare il livello invero modesto della recita.

Petrenko tiene sempre tempi spediti (qui 75-70-80 minuti): la sua è una direzione che raggiunge discrete altezze quando di mezzo c’è solo l’orchestra (sempre eccellente) di Bayreuth (vedi il Prologo dell’atto terzo, davvero emozionante); per il resto, con questo cast, è frustrante ricerca di cavar sangue dalle rape. Credo proprio che i consistenti buh finali non fossero indirizzati soltanto al regista…

28 luglio, 2014

Bayreuth: un filino meglio


Come già accadde lo scorso anno, Die Walküre ha un po’ risollevato il livello qualitativo di questo Ring, che di sicuro pochi ricorderanno come… memorabile.  

In particolare è il primo atto ad aver(mi) pienamente convinto: il trio Botha-Kampe-Petrenko ne ha dato un’interpretazione degnissima, cui il nuovo (rispetto al 2013) Hunding di Kwangchul Youn ha aggiunto un tocco di serietà fin eccessiva. L’entusiasmante finale è stata una vera perla, come raramente capita di ascoltare, con la semiminima conclusiva che Petrenko ha mirabilmente inchiodato nella prima metà della battuta e non enfaticamente tenuto (nella seconda) come usa fare la maggior parte dei Kapellmeister. Bravo!

Il direttore russo tiene in generale tempi rapidi (61–85–64 minuti) ma non ci fa mancare nulla dei dettagli e dei pregi della partitura. Qualche piccola libertà nell’agogica fa parte (non da oggi) del… patrimonio dei direttori, grandi e piccoli.

L’ingresso in scena, dal second’atto,  degli altri tre protagonisti (due dei quali purtroppo dovremo incontrare anche nelle giornate successive) ha poi nettamente abbassato il livello qualitativo della recita: Wolfgang Koch e Catherine Foster (parliamoci chiaro) non dovrebbero cantare nei panni di Wotan e Brünnhilde! Le note le faranno anche (beh, insomma, la Foster ha abbastanza calato un paio di DO nei suoi Hojotoho…) ma è proprio la caratteristica fisica della loro voce a fare a pugni con le esigenze minime dei ruoli. Lui ha fatto varie volte Alberich, che probabilmente gli calza meglio; lei invece fa Brünnhilde praticamente ovunque e quindi devo essere io a sbagliarmi (smile!) Quanto a Claudia Mahnke, è anche qui (come nel Rheingold) una Fricka piuttosto incolore, poi non si riscatta molto travestendosi da valchiria (Waltraute). 

Insomma, suonatori sugli alti standard di Bayreuth e compagnia di canto male assortita: anche questo pare divenuto uno standard – negativo – sulla verde collina.

27 luglio, 2014

Bayreuth: riecco il Ring oleoso di Castorf


Con Das Rheingold si è aperto oggi il ciclo del Ring.

Tre le novità di quest’anno, a livello interpreti: Alberich è il kazako Oleg Bryjan, che la direzione del festival ha chiamato a sorpresa a sostituire Martin Winkler, provocando le ire del regista Frank Castorf, che pare voglia adire le vie legali per lavare l’onta. A me Winkler non era dispiaciuto, e lo stesso mi sento di dire di Bryjan, che mi è parso passabilmente sicuro ed efficace. Poi c’è un nuovo Donner, Markus Eiche, il discutibile Wolfram di due giorni orsono: il suo Hedà-Hedò (poco altro ha da cantare) non ha certo brillato. Infine il gigante buono (Fasolt) è Wilhelm Schwinghammer, che continua anche a fare Re Heinrich nel Lohengrin-topolino: prestazione direi sufficiente.

Il resto del cast è quello dello scorso anno, cioè… piuttosto deficitario, a cominciare dal Wotan di Wolfgang Koch, che non ha proprio la voce adatta per quel ruolo.  

Petrenko ha tenuto tempi assai spediti (2h 18’ sono praticamente un record) chissà, forse per non mettere ulteriormente in difficoltà l’armata brancaleone che calcava il palcoscenico (oltre che il pubblico in via di liquefazione).

Alla fine (è parso) solo applausi: quindi anche Castorf è stato metabolizzato! 

Come ha sentenziato José Luis Pérez de Arteaga, il simpatico quanto enciclopedico commentatore di Radio Clásica: da qui nessuno passerà alla storia!  

26 luglio, 2014

Bayreuth: l’Olandese svolazza


Rispetto ai due precedenti cicli (12 e 13) dove solo Thielemann (con orchestra e coro) aveva tenuto a galla il barcone, oggi mi è parso che le cose siano andate un filino meglio. Forse gli interpreti confermati dal 2013 hanno fatto esperienza, fatto sta che ne è uscito un Holländer più che dignitoso, fermo restando che stiamo giudicando da un ascolto dal morto (smile!)

In particolare non mi sono dispiaciuti la Senta della Merbeth e il protagonista Youn (Samuel, che ricordiamo fu chiamato all’ultimo momento due anni fa a sostituire il collega tatuato a svastiche). L’unica novità del 2014 era l’altro Youn (il più famoso Kwangchul) il quale ha una tecnica invidiabile, ma forse è troppo abituato a ruoli seri (il Langravio di ieri, o Fasolt o Gurnemanz o il mozartiano Commendatore) oppure truci (dopodomani farà Hunding) e quindi ha tirato fuori un Daland fin troppo austero, mentre sappiamo che il navigatore-trafficone norvegese è un gran paraculo dai principi etici quanto meno discutibili. 

Tornando a Thielemann, sappiamo che lui fa i suoi scarabocchi sulle partiture, a cui resta indefessamente fedele; così anche oggi ha gestito a parer suo i tempi (esempio lampante, la prima parte del terzo atto). Ormai bisogna prenderlo così (lui certo non cambierà le sue abitudini): è il prezzo da pagare per poter godere della sua bravura…  

25 luglio, 2014

Bayreuth apre con una falsa partenza

 

La magica fabbrica di Sebastian Baumgarten (quella che trasforma la merda in burro) è andata in tilt, mettendosi a trasformare il burro in merda (stra-smile!) Così il Tannhäuser inaugurale è stato sospeso poco dopo l’Ouverture.

La causa ufficiale dello stop è stata attribuita alla rottura di due cavi che reggono il gabbiotto dentro il quale i due protagonisti calano dall’alto sulla scena. Una cosa al limite del ridicolo, nel paese dei Krupp! Sul momento si è annunciata un’interruzione di 20-25 minuti, poi diventati quasi 60, prima che si ricominciasse, dall’inizio dell’atto. Pubblico evacuato, non perché ci fossero timori di un crollo del vetusto Festspielhaus, ma perché i 35 gradi di temperatura interna sono davvero duri da sopportare!

A parte la sua lunghezza totale (proprio da… Parsifal) e l’ormai conosciuta demenzialità della messinscena (ampiamente buata alla fine) questa prima del 2014 si è passata nel rispetto degli attuali standard qualitativi di Bayreuth: diciamo assai migliorabili (politically-correct parlando…)

La squadra è stata un poco ritoccata rispetto allo scorso anno, in particolare con il ritorno (dopo il 2012) del sempre impeccabile Kwangchul Youn nel ruolo del Langravio. Cambiato anche il Wolfram, ora impersonato da Markus Eiche, che ha sfoggiato una bella voce, ma a parer mio non si è calato bene nel personaggio, reso con scarso pathos e quasi sempre con un canto stentoreo e scandito, francamente fuori luogo. Nuovo anche Reiner Zaum, un passabile Reinmar.

Della formazione 2013 sono stati confermati il protagonista Torsten Kerl, che non ha demeritato (anche se ha rischiato la stecca sull’Elisabeth del terz’atto) e le due primedonne Camilla Nylund (Elisabeth) e Michelle Breedt (Venus) che meritano, secondo me, giusto la sufficienza. Come pure i tre cantori: Lothar Odinius (Walter), Thomas Jesatko (Biterolf) e Stefan Heibach (Heinrich), tutti senza infamia e senza lode. Katja Stuber è stata per questa intera produzione (2011-2014) nei panni del pastorello: ma non mi sembra che l’esperienza le abbia giovato…

Quanto ad Axel Kober se l’è cavata con dignità, grazie alle qualità di strumentisti e coristi che aveva ai suoi ordini.

22 luglio, 2014

Bayreuth 2014: chi se ne frega?


D’accordo, questo sulla collina verde è un anno di cosiddetta transizione (nessuna nuova produzione, tutta roba vista e anche rivista) però sta arrivando il 25 luglio e pare che non gliene freghi nulla a nessuno.

Meno che a tutti a Radio3, che ha deciso di disertare in blocco (quanto meno le prime, che solitamente irradiava). Ma persino la Bayerischer Rundfunk diluisce le trasmissioni dei 7 titoli in programma (Ring, Holländer, Tannhäuser, Lohengrin) lungo il mese di agosto.

Gli aficionados più indefessi restano gli spagnoli di Radio Clasica, che ci proporranno tutte le prime:

25/7 Tannhäuser (16:00)
26/7 Holländer (18:00)
27/7 Rheingold (18:00)
28/7 Walküre (16:00)
30/7 Siegfried (16:00)
31/7 Lohengrin (16:00)
1/8 Götterdämmerung (16:00)

Allora, tanto per ravvivare un po’ questo grigio tran-tran, ecco che scoppia al momento opportuno uno scandaletto giornalistico che vede protagonista l’ultimo genio-dell’anello, al secolo il regista Frank Castorf (quello che ha pensato bene di sostituire all’oro giallo quello nero…)

Il nostro si fa intervistare dallo Spiegel (mica pizza-e-fichi) e spara a zero sulle sorellastre Wagner che tengono le mani sul baraccone: che lui già un anno fa aveva dipinto come un ambiente peggio della sua natia DDR (Stasi inclusa?) quanto a stress e servilismo. Il movente dello sfogo di oggi sarebbe da individuarsi nell’improvviso licenziamento di Martin Winkler (l’Alberich di questa produzione, gradito al regista) e la sua sostituzione con Oleg Bryjak, decisa unilateralmente da Eva Wagner. La cosa pare assumere contorni seri, se è vero che Castorf ha già messo la pratica nelle mani di un avvocato! Domenica sapremo se ci saranno… conseguenze.

Il Conte Ory. E la Contessa? Oryna

 

Un Piermarini scandalosamente semideserto ha accolto ier sera – prima di chiudere per ferie - l’ultima recita del penultimo capolavoro teatrale del sommo Gioachino.

 

Una serata nella più aurea mediocrità, dalla quale sono emersi - a mio modestissimo parere, e non più in alto che col naso – il protagonista Colin Lee (che non ha fatto troppo rimpiangere il forfettario JDF) e due dei comprimari: il Raimbaud di Stéphane Degout e la Ragonde di Marina De Liso.

Gli altri, una frana: a cominciare dalla Aleksandra Kurzak, una gran bella gnocca perfettamente integrata nella pièce di avanspettacolo messa su da Laurent Pelly, ma il cui canto (sguaiatezze negli acuti e totale approssimazione nei virtuosismi) non può esser degno di Rossini (e a ben vedere di alcun altro serio compositore di opere liriche). Del tutto meritata la salva di dissensi che l’ha accolta alla singola finale. Dissensi indirizzati anche al Kapellmeister Donato Renzetti (chiamato a sua volta a rimpiazzare il titolare Stefano Montanari) forse perché in fatto di miracoli non si è dimostrato più efficace di Ory (smile!)

Roberto Tagliavini (Gouverneur), José Maria Lo Monaco (Isolier) e Rosanna Savoia (Alice) sono tutti affetti dalla stessa malattia: quando devono cantare nella cosiddetta ottava bassa fanno la figura del pesce in acquario: e siccome in Rossini ci sono ad ogni piè sospinto passaggi che attraversano il rigo da cima a fondo, il risultato è che la metà del testo risulti inudibile, come succede quando un altoparlante funziona a singhiozzo.

Gli altri e il coro di Casoni su livelli accettabili.

Quanto alla regìa, Pelly ha prodotto una cosa che fatica a raggiungere le altezze del …vecchio Teatro Smeraldo (oggi purtroppo riconvertito a mangiatoia). L’eremita in cui Ory si traveste nel primo atto era una cosa fra Toro Seduto e Ras Kaylù; meglio la suora del second’atto, però che il terzetto finale venga degradato a scena threesome with dp (chiedere spiegazione agli esperti di porno) supera ogni immaginazione.  

Se tanto mi dà tanto, quando gli chiederanno di mettere in scena un’opera di Gluck, lui sceglierà… Ifigonia in Culide (stra-smile!) Che poi il pubblico si diverta con Rossini ridotto al più sbracato degli avanspettacoli non deve fare alcuna meraviglia, visto che nello stesso tempio – e per limitarci a questa stagione – si è usato Verdi come colonna sonora per accompagnare scene di produzione di lasagne e minestroni.

30 giugno, 2014

Altri libertini a Venezia


Dopo il Regio di Torino è la volta della Fenice a cimentarsi con Stravinski. Impresa peraltro non proibitiva, a suo tempo (1951) essendo stato proprio il teatro lagunare a tenere a battesimo l’ultimo ruggito neo-classico dell’orso russo transumato in occidente. Ieri pomeriggio seconda rappresentazione in un teatro assai gremito. Anche qui si è fatto un solo intervallo che – a differenza di Torino - è stato posto fra il secondo e il terzo atto.

Segnalo subito la – come sempre – brillante recensione di Amfortas, che ha seguito la prima di venerdi. E anche il magnifico programma di sala, già scaricabile via web, vero fiore all’occhiello del teatro veneziano.
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Damiano Michieletto con il suo team fisso (scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e luci di Alessandro Carletti) fa ancora il profeta in patria portando a Venezia – però con cast totalmente rinnovato - il suo allestimento già collaudato qualche settimana fa a
Lipsia dove, almeno stando alla stampa locale, ha ottenuto molti consensi e sparute contestazioni. E a proposito di stampa tedesca, è interessante (e torna a tutto suo onore) un’affermazione di Michieletto in risposta all’ultima domanda del Leipzig-Almanach: l’arte non deve insegnare, ma suscitare emozioni. Beh, come risposta a tanti eccessi pseudo-maieutici del Regietheater non c’è male davvero! Ma il rischio è che si predichi bene e poi…

La regìa del suo Rake la definirei superficiale, riscattatasi soltanto nelle due scene finali (quelle oggettivamente più facili da valorizzare e/o più difficili da… rovinare). Vediamo perché.

La prima scena, che almeno inizialmente dovrebbe essere – seriamente e poeticamente! – idilliaca, viene trasformata da Michieletto in una prosaica giornata di week-end in campagna, con tanto di barbecue, dispetti con spruzzi dell’irrigatore e lavaggio di auto. Quest’ultima operazione serve al regista per rappresentare il lavoro alienante (di contabile) proposto a Tom dal futuro suocero, e che il (potenziale, per ora) libertino disprezza nel suo recitativo con aria di sortita. Magari l’autoveicolo può anche evocare il viaggio maledetto di Tom che toccherà diverse tappe per condurlo finalmente alla perdizione, dopodichè si può sorridere dell’ingenuità di portare in scena una vecchia Peugeot 204 degli anni ‘60 (in Inghilterra poi, un’auto francese con guida a sinistra?) come simbolo del viaggiare! Dal che intanto si deduce quale sia il periodo storico in cui Michieletto cala la sua ambientazione; quanto al luogo, effettivamente pare più yankee che british.   

Shadow compare in scena fin da subito e in pratica mai ne uscirà, costituendo una presenza costante e persin troppo asfissiante. Poco giustificate le sue attenzioni (e molestie in piena regola) nei confronti di Anne, forse ai suoi occhi una nemica, in quanto potenzialmente in grado di strappargli dalle grinfie la sua vittima Tom (nulla di tutto ciò si desume, nemmeno lontanamente, dal libretto, manco a dirlo).

L’enorme piscina in cui è ambientata la seconda scena del primo atto (il bordello di Mother-Goose) fa venire in mente LasVegas più che Londra: è riempita di monete d’oro e sopra di essa incombono sette scritte al neon rappresentanti gli altrettanti vizi capitali. Questa scelta è di sicuro impatto, anche se sembrerebbe attribuire surrettiziamente a Tom tutti i vizi possibili e immaginabili (vedremo che non sarà così, ma che ciò provocherà altri problemi). Inoltre è poco appropriata a dipingere un postribolo frequentato da bad-boys (o hooligans violenti, oggidì) dove in definitiva è quasi solo la lussuria ad imperare, contornata magari da accidia e ira: si deve perciò da subito sospettare che questa scena farà da sfondo – via via deteriorandosi - anche a tutte le successive tappe del cammino di Tom. E di volta in volta si accenderanno solo alcune scritte al neon per sottolineare i vizi in quel momento aleggianti sulla scena.

Ecco, l’associazione di taluni vizi a personaggi diversi da Tom finisce però per togliere enfasi e per sfuocare proprio quelli del protagonista, che dovrebbero essere l’oggetto dell’opera. Che ira, gola, invidia e superbia siano attribuibili a Baba (scena 3 dell’atto secondo) può essere tecnicamente plausibile, ma è del tutto fuorviante nell’economia dell’opera, che è focalizzata sui vizi di Tom! Al quale Tom essi vengono anche attribuiti a sproposito: ad esempio la sua infatuazione per la macchina del pane andrebbe imputata a superbia (diventare famoso e meritare l’amore di Anne) non come fa Michieletto ad avarizia (=avidità) vizio che Tom ha già ampiamente dismesso nella prima scena di quello stesso atto, in cui lui manifesta la sazietà e il disgusto per cibo, gioco e donne, cioè gola, avarizia e lussuria. Un discorso a sé meriterebbe l’accidia: la scritta luminosa si accende nella prima scena del second’atto (dove vediamo Tom schifato dell’esistenza da ricco) e quindi comunica il concetto che tale vizio sia un effetto della sua nuova vita a Londra, quando invece sappiamo benissimo che esso è per lui la madre di tutti i vizi e quindi la causa prima e unica di tutte le sue disavventure! Se si voleva chiarire il concetto allo spettatore sprovveduto, allora quella scritta luminosa doveva essere mostrata già nella prima scena del primo atto!

Veramente debole la seconda scena dell’atto 2, con Baba (alias Conchita Wurst) che assiste a volto (e corpo!) scoperto all’arrivo di Anne, ai preparativi delle nozze e all’incontro di Anne con Tom: come minimo va a farsi benedire la sorpresa dello scoprimento della sua fluente barba!

Ridicola anche la terza scena del second’atto, con canotti, salvagenti e pupazzi di plastica a rappresentare i cimeli di Baba: insomma tutto il personaggio e il mondo della donna barbuta vengono banalizzati e irrisi in modo volgare (e non raffinato, come si dovrebbe e potrebbe fare rispettando il libretto!) Bambinesca anche la parte finale della scena, con la macchina del pane ridotta ad una pila di salvagenti, metafora piuttosto ingenua delle bolle economiche dei nostri giorni, gonfiate artificiosamente.

Di conseguenza anche la prima scena del terz’atto (l’asta) diventa tutta una pagliacciata che finisce per metterne in ombra, annegandoli in una generale caciara, proprio tutti gli aspetti più grotteschi.

Come detto, le ultime due scene, dove si materializza il dramma, sono le meglio riuscite: guarda caso, lì Michieletto segue il testo originale in modo quasi pedestre, senza inventarsi nulla. Tranne il due di spade della scena del cimitero, che magari si giustifica proprio per facilitarne la miglior comprensione da parte dello spettatore italiano. E poi – ultima scena – il mostrare il suicidio di Tom che si soffoca infilandosi in testa un sacchetto di plastica. Invece la bambolina-Venus che il regista mette in braccio a Tom (e gli fa rubare da Shadow) è un’idea coerente con lo spirito (se non la lettera) dell’originale e come tale è da apprezzare.

Nell’Epilogo fanno un poco sorridere le quattro coltellate inferte al povero Shadow (che tanto se ne fa un baffo…) dai quattro protagonisti.

In definitiva, un allestimento con parecchie ombre e qualche luce nel finale. Dal confronto diretto, per me McVicar esce vincitore per 3-1!

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Diego Matheuz ha diretto la pregevole orchestra della Fenice con diligenza e compostezza; devo dire che a Torino Noseda mi aveva dato l’impressione di maggior cura dei dettagli (ma sono proprio impressioni…) Bravissimi anche i membri del Coro di Claudio Marino Moretti, a partire dalle sguaiatezze del bordello per finire al mirabile canto funebre conclusivo.

Fra i protagonisti, su tutti un ottimo Juan Francisco Gatell, che ha proposto in modo assai efficace il personaggio di Tom. Accanto a lui una più che discreta Carmela Remigio, efficace in tutta la gamma, che va dal SI sotto il rigo al DO acuto (nella chiusa della cavatina lo ha esploso come nulla fosse). Le perdonerei la forzatura di altri acuti, con tendenza a vetrosità di emissione. 

Lo sbifido Shadow era Alex Esposito, attore consumato in cui Michieletto ha di sicuro trovato il suo diavolo. Ma anche vocalmente se l’è cavata assai bene (la parte peraltro non è proibitiva).

La Baba di Natasha Petrinsky si è meritata ai miei orecchi una larga sufficienza, che sarebbe diventata ancor più solida se le note dell’ottava bassa (tocca il LA sotto il rigo) fossero risultate più udibili.

La Mother Goose Silvia Regazzo e il Sellem Marcello Nardis hanno ben meritato: in particolare il secondo, che ha una parte molto radicata al centro dell’estensione (MI-SOL) ma deve cantare con la voce petulante caratteristica degli imbonitori da strada.

Michael Leibundgut (Trulove) e Matteo Ferrara (guardiano del manicomio) più che onesti nelle loro parti di contorno.

Alla fine il pubblico ha tributato meritati applausi a tutti, per uno spettacolo che evidentemente lo ha divertito ed emozionato.

26 giugno, 2014

Barenboim alla Scala si fa in due per DonGnocchi


Fra una recita e l’altra del… guthiano Così, Daniel Barenboim - del quale si può dire tutto il male, salvo che manchi di umana, sociale e cristiana (!) carità - ha trovato, insieme ai professori della Filarmonica, il modo e il tempo per dedicarsi ad opere di bene: un concerto a beneficio della benemerita Fondazione DonGnocchi.

Concerto che lo ha visto – in un teatro abbastanza gremito - contemporaneamente come Direttore e Interprete. Sul secondo fronte era alla tastiera per suonare il K595, composto circa un anno dopo (inizio 1791) la terza fatica dapontiana. È l’ultimo dei concerti per pianoforte e orchestra e – salvo poche venature d’ombra - sprizza serenità e gioia di vivere da ogni battuta: e pensare che Mozart non arriverà a vedere il 1792…
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Composto per una circostanza particolare e per essere eseguito in una sala d’albergo, ha un organico ridotto all’osso: solo 7 fiati (niente clarinetti e trombe) più gli archi. Numerose sono le auto-citazioni che vi compaiono, come quella di un inciso (che appare a battuta 5) proveniente dal finale della sinfonia Haffner, che a sua volta lo aveva mutuato dal Ratto:


A battuta 13 ecco un motivo che ci ricorda il Finale della Jupiter: sono i violini secondi ad esporlo, armonizzati per terze dai violini primi:


Il tema del Larghetto è una reminiscenza della Sinfonia Linz (finale) e una sua iniziale cellula viene anche riproposta, con diversa scansione ritmica, dal solista nell'Allegro conclusivo:

Il cui tema principale Mozart impiegherà quasi contemporaneamente in una canzone:


Una curiosità, per così dire, editoriale, riguarda un passaggio dell’Allegro iniziale, che nelle partiture storicamente esistenti sul mercato fin dopo la metà del secolo scorso manca di 7 battute (dopo la 46). Si tratta di un passaggio che compare più tardi nello sviluppo e poi proprio alla fine del movimento: pare che nell’esposizione manchi dal manoscritto di Mozart, sostituito però da un appunto che verosimilmente serviva da richiamo. Le sette battute sono state reintegrate nell’edizione critica della NMA (1960) cui oggi (quasi) tutti gli interpreti fanno riferimento:


Si possono ascoltare in questa esecuzione proprio di Barenboim con i Wiener, da 1‘38“ a 1‘52“ del filmato. Una delle mosche bianche che ancora impiega l’edizione non emendata è  Jenö Jandó, qui con András Ligeti da 1’28”.
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Dopo una falsa partenza, dovuta ad intemperanze di qualche cafone in platea prontamente redarguito, l’approccio di Barenboim è assai leggero, quasi compassato: personalmente un poco di freschezza in più non mi sarebbe dispiaciuta, magari nell’Allegro finale. Comunque è sempre un piacere ascoltare questo autentico gioiello della produzione del Teofilo.

E anche il pubblico mostra di apprezzare, con ripetute chiamate del Maestro, che non può esimersi dall’offrirci un bis: le beethoveniane Sei variazioni sull’aria Nel cor più non mi sento da La molinara di Paisiello (qui il grande Kempff).   
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Ecco infine l’inflazionata Quinta di Ciajkovski. Nel primo movimento Barenboim ci vede proprio la marcia pesante del destino che arriva minaccioso, poi l’orizzonte si apre nell’Andante cantabile (grazie al corno di Danilo Stagni) e la Valse è suonata come un minuetto settecentesco. Finale enfatico e retorico quanto basta, e forse più, con i grandiosi fracassi che contraddistinguono l’ostinato prevalere della volontà sul destino cinico e baro. Gran trionfo con innumerevoli chiamate.