ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

08 dicembre, 2013

Ancora due cosette sulla Traviata scaligera

 

Come si è ben visto – anzi, udito – i dissensi finali hanno colpito principalmente (ma non solo) la regìa di Cerniakov. Il quale ha seguito l’ormai classico – e quasi sempre deleterio – processo che ha come obiettivo quello di impiegare l’opera in questione per rappresentare (in funzione pseudo-maieutica) scenari e problemi di attualità. Nella fattispecie, come deve aver ragionato il regista russo?

 

1. Verdi (con Piave) intendeva mettere in scena uno spaccato di certa società degli anni 1850, contemporanea quindi a lui e al suo pubblico;

2. vivendo noi negli anni 2000, bisogna trovare qualcosa che rappresenti aspetti e comportamenti radicati nella nostra società, che è oggettivamente diversa da quella di 150 anni orsono;

3. una di queste caratteristiche – ormai lo abbiamo imparato a memoria, da Freud sui libri e da Strindberg, per dire, a teatro – è la nevrosi (indotta in tutti noi da questa nostra società alienante) che impedisce agli esseri umani di vivere compiutamente e in modo spontaneo e… umano anche il rapporto più importante: l’amore;

4. e quindi Violetta e Alfredo il loro amore lo devono vivere in uno stato di perenne isteria, che porta lei nientemeno che alla morte e lui a vedere quella morte come un’autentica liberazione da un incubo.

 

Noto di passaggio che il regista non si deve essere fatto tradurre bene in russo il testo dell’aria di esordio dell’atto secondo, che ci racconta del tipo di ménage Violetta-Alfredo più e meglio di un’intera raccolta di Racconti di Liala… Forse questo ha portato il regista ad immaginare che i bollenti spiriti fossero riferiti ad un minestrone di verdura, che infatti Alfredo si mette solertemente a cucinare (smile!)

 

Se qualcuno obietta che il soggetto di Cerniakov sarà pur interessante ed attuale quanto si vuole, ma non ha nemmeno un capello in comune con quello di Verdi-Piave, la risposta è già bell’e pronta: chi se ne frega! qui si fa teatro, amico, mica siamo al museo!

 

Beh, a qualcuno invece pare che gliene freghi parecchio, a giudicare dai buh di ieri sera. Di cui val la pena anche di interpretare il senso, essendo stati apparentemente… schizofrenici (proprio come questa Violetta, smile!) Allora: alle prime uscite singole tutti gli interpreti (con una sola eccezione) hanno ricevuto soltanto consensi, da quelli trionfali alla Damrau fino a quelli moderati, andati persino a Lucic. L’eccezione è stato Beczala, accolto da un mix di applausi e buh. Poi i buh son diventati un fiume alla comparsa di Gatti, cui evidentemente non si sono perdonati certi elastici nei tempi e magari  - forse contagiato dal regista - un approccio più consono a Berg che a Verdi. Infine sono diventati appunto un oceano per il regista. Dopodiché però hanno continuato ad imperversare anche sui singoli, alle uscite successive. Perché mai? Ecco, a me pare che questi ultimi fossero dissensi espressi verso gli interpreti in quanto complici – convinti o meno – del risultato complessivamente negativo della serata. Come dire: cara Diana, tu avrai anche cantato benissimo, ma la tua Violetta in complesso ci ha deluso, e poco conta che la colpa sia del regista, perché in scena c’eri comunque tu.        

 

Radio3, in una specie di fuori-onda al termine della trasmissione, ha captato il pistolotto di addio di Lissner (questo era il suo ultimo SantAmbrogio, e meno male, aggiungo io…) alle masse scaligere. Indirizzo concluso con la ripetizione del suo ritornello ormai trito e ritrito: la missione della Scala non è far divertire il pubblico, ma farlo riflettere!

 

Beh, in linea di principio si potrebbe anche concordare, ma a condizione che il pubblico sia portato a meditare sui contenuti che Mozart, Wagner, Verdi ci hanno trasmesso nei loro capolavori. Meno, se veniamo costretti a sorbirci i contenuti dei vari genialoidi sponsorizzati da Lissner: Carsen, Guth e Cerniakov; che per farsi belli, ricchi e famosi loro (e far salire l’ingaggio del soprintendente!) non esitano a sequestrare, per poi riconsegnarceli dovutamente adulterati, quei capolavori del teatro musicale.

 

Amen.


Ah, dimenticavo che ce n’è anche per Gatti. Tutti ricordano come reagì al fiasco del SantAmbrogio 2008: richiesto di commentare i fischi piovutigli addosso, rispose un filino piccato (prima di sbattere la porta) che non ne aveva udito alcuno!

Ieri sera, intervistato da Pedone di Radio3 dietro le quinte, e con il frac ancora inzuppato di buh, il nostro ha serenamente ammesso che le contestazioni erano la legittima manifestazione di libero pensiero. Ohibò, due Gatti e due misure? Mah, credo che la spiegazione non sia poi così difficile: quel Don Carlo rappresentava per lui una specie di esame di ammissione al concorso per un posto di Direttore musicale alla Scala, e la bruciante bocciatura doveva parecchio rodergli dentro. A 5 anni di distanza il nostro si deve essere messo il cuore in pace, quanto meno accettando il fatto che la prossima opportunità gli verrà offerta quando avrà raggiunto l’età che ha oggi Riccardo Chailly (smile!) Ecco perché, almeno per un po’ di tempo, può permettersi di fare il signore…


Ri-amen.

07 dicembre, 2013

Alla Scala una Traviata… isterica


Sì, isterica sulla scena (la prossima, per contrappasso, avrà la personalità di barbie) e – alla fine – in loggione.

 

La regìa, che si può abbastanza bene giudicare anche dalla TV, mi è parsa di una puerilità disarmante. E non certo per la sfoglia e i cetrioli…

 

Le voci è un po’ difficile apprezzarle quando si sente un suono che arriva da un microfono posto sull’ugola del/della cantante. Comunque la Damrau mi è parsa all’altezza (salvo che nel MIb opzionale) mentre Beczala è partito discretamente, ma alla fine mi pareva in difficoltà anche sui SOLb (non parliamo di come ha fatto il DO all’attacco della ripresa di Oh mio rimorso). Lucic meno peggio dell’immaginabile, anche se Gatti non mi pare l’abbia aiutato, con tempi francamente troppo celeri. La Zampieri-Wanna mondiale!



In loggione c’erano evidentemente quelli che Alberto Mattioli chiama amichevolmente, e anche un po’ grillescamente, care salme… Per ripicca, han fatto loro il funerale al regista (smile!)

06 dicembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°12

 

Un Direttore di casa a laVerdi, Oleg Caetani, torna a dirigere in Auditorium un concerto assai impegnativo, con Schubert e Shostakovich. A proposito di quest’ultimo, prima del concerto si è tenuta una conferenza di presentazione del recente lavoro del venerabile Piero Rattalino, cui è intervenuto l’autore in persona, accompagnato dallo stesso Caetani (che per discendenza da Igor Markevitch è un profondo conoscitore della musica, ma anche della realtà russa) e dai professori Malcovati e Beacco; ha introdotto, e con gran cognizione di causa, il Presidente della Fondazione, Gianni Cervetti, che la passata militanza politica aveva condotto più volte in quel di Mosca, dove (a fine anni ’50) aveva anche avuto modo di incontrare un paio di volte lo stesso Shostakovich. Tutti (più o meno) concordi nel convenire con la tesi che sorregge il libro di Rattalino, secondo cui la figura del controverso compositore vada oggi vista in un’ottica depurata da ogni opposto pregiudizio di parte (né eroico anti-stalinista, né ipocrita doppiogiochista).
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Di Schubert ascoltiamo la Sinfonia in DO maggiore, catalogata come sesta, ma amichevolmente chiamata piccola, per distinguerla da quel mostro, sempre in DO, che va sotto il nome di grande.

Schubert, sommo liederista e camerista, difficilmente sarebbe passato alla storia solo grazie alle sue sinfonie. La cui debolezza principale – oltre al fatto di essere, almeno le prime 6, lavoretti scolastici di uno che era poco più che un ragazzino - si annida sempre nel primo movimento, quello che, da Haydn in poi, e massimamente con Beethoven, dà l’impronta a tutto il lavoro. E il primo tempo deve essere in forma-sonata; e la forma-sonata richiede la presenza di (come minimo) due temi, il maschio (eroico) e la femmina (contemplativa, elegiaca) che devono prima presentarsi, poi provare a convivere, confrontarsi, magari pure affrontarsi e scontrarsi, per poi concludere la pace in cui il secondo tema entra nella casa del primo (proprio come una moglie entra, tradizionalmente, in quella del marito).

Ebbene, al giovane Schubert sinfonista mancava proprio la capacità non di inventare dei temi (e ci mancherebbe!) ma di trovare temi con le caratteristiche richieste dalle regole del gioco. Nei primi tempi delle sue sinfonie i due temi sono quasi sempre neutri (né completamente eroici, né completamente elegiaci: né-carne-né-pesce, si potrebbe malignamente insinuare) e quindi il compositore fatica assai a creare le condizioni per farli muovere e vivere all’interno della forma canonica. 

Questo limite si manifesta puntualmente anche nella sesta sinfonia, che si apre con ben 30 battute di un pretenzioso Adagio (proprio à la Haydn) ad introdurre l’immancabile Allegro. Che però soffre della mancanza di stacco, di conflittualità (potremmo dire) fra i due temi, cui non basta certo differenziarsi per la tonalità (DO-SOL) per creare quell’atmosfera particolare che è l’essenza dei primi tempi di sinfonia.

Nei movimenti centrali (Andante e Scherzo) la vena melodica di Schubert va a nozze e cava fuori due cammei di tutto rispetto. Il Finale è ancora una volta assai ricco (pur se monotono la sua parte): un chiaro preludio a quello della futura grande.

Meritoria in ogni caso l’esecuzione dei ragazzi, giustamente in formazione un po’ ridotta negli archi, nel rispetto della tradizione e dell’originaria destinazione (piccole sale private) dell’opera.
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La seconda parte del concerto è occupata come detto da Shostakovich e dalla sua Ottava Sinfonia, composta, come la settima, in piena guerra (1943) e dedicata a Evgeny Mravinsky. L’organico orchestrale è proprio tardo romantico, ipertrofico in particolare negli archi (64, la tipica struttura straussiana, anche se nella 7, poi nella 13 ne sono prescritti fino a 80-84!) Qui ne abbiamo meno di 50 (la dotazione è questa…) ma direi che bastano ed avanzano a produrre il richiesto volume di suono. Caetani li schiera con le viole al proscenio, probabilmente in forza del risalto di cui la sezione gode nella partitura di Shostakovich.

Del quale di solito si suol descrivere la musica (e le sinfonie, in particolare) come fosse tutta una serie di episodi della vita di un artista (parafrasando Berlioz…): in questo caso non un artista (come l’ipersensibile francese) alle prese con problemi sentimental-psicologici e conseguenti  visioni mistico-infernali, ma (anche secondo la visione che ce ne dà Rattalino) un artista-patriota che se la doveva vedere tutti i santi giorni con fastidiosi pipistrelli, quali Stalin e Ždanov.
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Fra la settima (sinfonia trionfalistica, retorica - e non del tutto sincera, ad onor del vero - composta mentre si era in piena guerra e con i nazisti ormai alle porte di Leningrado) e l’ottava (sinfonia invece di ambientazione abbastanza cupa, composta però mentre la guerra si avviava pur lentamente alla vittoriosa conclusione, dopo l’impresa di Stalingrado - che infatti aveva dato il nome all’opera) c’è in effetti una distanza abissale, come se il compositore volesse qui meditare sulle disgrazie dell’umanità, di tutta, vincitori e vinti. È curioso come il primo tema dell’Adagio, che si alza nei violini, sia una reminiscenza – in chiave mesta e su ritmo da marcia funebre – di quello spigliato e baldanzoso che evocava l’incedere dell’armata nazista, nel primo movimento della settima:

Ecco, è come se qui si si cantasse una specie di requiem per le vittime di tutte le guerre. Ma chissà che non ci sia anche un po’ di pessimismo sul futuro, e magari una larvata denuncia del regime sovietico che si avviava (a guerra vinta) a diventare ancora più totalitario ed oppressivo di quanto già non fosse.

Il secondo scenario tematico, Poco più mosso (difficile qui parlare di strutture classiche, anche se qualche connessione con la forma-sonata è vagamente riconoscibile) è in tempo prevalente di 5/4, un ritmo quindi sghembo, ma non certo come lo era l’Allegro con grazia della patetica: qui pare di assistere ad un incedere strascicato e scomposto di armate in rotta, o al procedere di un’esistenza che ha perso la sua normalità.

La ripresa dell’Adagio, che è una sorta di sviluppo, porta gradatamente, con interventi del tamburo militare, ad un climax (in cui par fare capolino persino… Fratelli d’Italia!) che introduce una sezione in Allegro non troppo, nella quale si stagliano per due volte sette battute in cui i corni emettono, su ripetute terzine e in zona acuta, lamenti disperati e strazianti. Il tutto sfocia in un Allegro marziale, spiritato, quasi isterico, che porta un nuovo climax caratterizzato (col ritorno in Adagio, per una specie di ricapitolazione) da cinque scrosci a piena orchestra dove nell’intervallo fra i due ultimi compare negli ottoni una citazione dal ciajkovskiano Manfred (che risentiremo anche nel finale):

Qui segue una lunga melopea del corno inglese, sul tremolo dei soli archi e con un breve e momentaneo supporto di oboi e clarinetti: sono 50 battute di vero e proprio lamento, come un accompagnare morti al cimitero, seguite dal mesto incedere degli archi, che riaprono la sezione in 5/4, questa volta interrotta da uno spettrale squillo di trombetta (con sordina) che conduce – riprendendo il motivo dell’introduzione - alla cadenza conclusiva del primo movimento. La quale si adagia, abbastanza sorprendentemente, dopo tanta tristezza e tanti lutti, su un sereno e forse ottimista DO maggiore, illuminato dal SOL della tromba, non più imbavagliata dalla sordina.

A questo punto Shostakovich infila non uno, ma due consecutivi Scherzi, assai diversi fra loro quanto a spirito e ambientazione. Il primo (Allegretto, REb, 4/4) sembra una parodia della felicità, o la danza di un ubriaco che cerca di rimuovere scomodi ricordi, o il tentativo di mascherare, dietro una facciata di allegrezza, problemi e disgrazie. È caratterizzato da insistenti ripetizioni di un inciso anapestico (doppia croma + semiminima) su cui si inseriscono gli svolazzi degli strumentini. Il ritmo pare rallentare e, passando a LA minore, abbiamo un siparietto dominato da impertinenti guizzi dei due ottavini, supportati da fagotti e controfagotto e poi dal clarinetto piccolo (in MIb). Si ripetono, ma assai variate, le due sezioni in REb e LA, nella seconda delle quali subentra un’atmosfera marziale, con interventi di tamburino e percussioni, prima della cadenza conclusiva, ancora in REb, dove tornano a spiccare i due ottavini. L’anapesto conclusivo è affidato ai timpani, che preparano l’accordo finale di REb in fff dell’intera orchestra.

Il secondo Scherzo  (Allegro non troppo, 2/2, MI minore) è uno dei tipici moti-perpetui di Shostakovich, dove si evocano atmosfere da industria pesante (magli che incessantemente pestano lingotti d’acciaio rovente) o da locomotive sbuffanti lanciate in corse forsennate. Il ritmo è sempre scandito da semiminime (prescritte a tutti gli strumenti in marcatissimo) a partire dalle viole, che aprono il movimento:

Questo pedale ostinato, su cui si innestano di tanto in tanto gli schianti degli altri archi e gli urli dei legni, contagia poi i violini primi, quindi i secondi, per poi trasferirsi ai fiati; successivamente si fraziona, con le prime due semiminime negli archi in pizzicato e le seconde nei fiati, creando un effetto stereofonico; quindi torna nei soli archi, con le scansioni (una sul terzo tempo della battuta) dei fiati. Poi riprende la configurazione iniziale, diminuendo l’intensità, adesso nei soli archi bassi, che ben presto (all’ingresso delle percussioni) muta con le semiminime alternate fra gli ottoni, mentre la tromba esplode spiritate volate in su e in giù, inframmezzate da svolazzi degli strumentini e dalle folate delle terzine degli archi. Torna l’ostinato iniziale, che si sviluppa con un impressionante crescendo fino a provocare un autentico terremoto in tutta l’orchestra, un fracasso infernale in cui spiccano le tremende mazzate dei timpani. Il tutto chiuso da un prolungato rullo di tamburino che introduce senza soluzione di continuità il…

Largo (4/4, SOL# minore). Dopo due colossali accordi a tutta orchestra viene esposto il tema principale, una lunghissima frase che partendo dal grave sembra non riuscire a spiccare il volo; poi si innalza, ma a fatica, con puntate verso l’alto seguite da ricadute. La cosa si ripete fino all’ingresso del corno, che espone un nuovo motivo lamentoso, subito seguito dall’ottavino solo che sembra portare echi di mondi lontani, imitato poi dal flauto. Ora l’atmosfera sembra addolcirsi, il tremolo dei legni introduce i clarinetti che riprendono il motivo prima esposto dall’ottavino. E sono i clarinetti (anche quello basso) ad accompagnare gli archi nella sognante cadenza finale che porta (ancora senza alcuna cesura) al conclusivo…

Allegretto (3/4, DO maggiore). OK, sarà pure un maggiore un po’ offuscato e corrusco, però qui siamo nel pieno solco di una tradizione che (tralasciando opere meno famose di Mendelssohn, Bruckner, Dvorak, Saint-Saëns e Prokofiev) dalla quinta di Beethoven passa attraverso la prima di Brahms, la seconda di Ciajkovski e l’ottava di Bruckner!  

È il primo fagotto ad esporre il tema conduttore, che ci riporta vagamente all’incipit della quinta. Gli subentrano gli archi, interrotti dall’impertinente irruzione del primo, poi del secondo flauto, che sembrano fischiettare il loro motivo. Adesso tocca al violoncello solo cantare una melodia intrisa di malinconia, che sfocia nel ritorno del primo tema negli oboi. Tocca poi ai violini l’esposizione di un nuovo motivo, in realtà mutuato dal tema principale; quindi gli archi bassi introducono una sezione caratterizzata da un vivace contrappunto fra archi e fiati, dopodiché ancora gli archi riprendono il tema principale, contrappuntati poi dai legni (oboi, corno inglese e clarinetti).

Adesso inizia una sezione più mossa (Allegro) con interventi degli ottoni (trombe in particolare) che porta ad un progressivo crescendo culminante, come era accaduto nel primo movimento, in alcuni colossali quanto sinistri schianti di tutta l’orchestra, al termine dei quali riudiamo in trombe e tromboni quell’inciso che ricordava il Manfred. Ancora pesanti accordi portano (Adagio) alla conclusione di questo squarcio cupo ed enfatico. Qui entra in scena il clarinetto basso, che espone uno dei motivi già uditi, durante il quale abbiamo un’improvvisa irruzione del primo violino che apre la strada al ritorno del violoncello per riesporre il suo tema cantabile.

Tornano i fagotti, con una cadenza che introduce il primo tema, subito raggiunti dagli archi. Ci si avvia alla conclusione, con una coda dove si fa sentire l’ottavino, con il suo melisma intriso di malinconia. Sono gli archi soli a chiudere, esalando serenamente la triade di DO maggiore.    
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Ora, l’ottava non sarà forse un capolavoro (ammesso che troviamo autentici capolavori in tutta la produzione del buon Dimitri) ma di sicuro presenta aspetti assolutamente interessanti, anche se magari piuttosto nascosti e non facili a discernersi di primo acchito. 

Per i curiosi: c’è anche chi si è divertito a descrivere nei minimi dettagli ciò che questa musica (gli) dice, proponendone una versione… romanzata, buona magari per farci un’azione scenica (?!)

Invece io sono personalmente più che soddisfatto di come Caetani e laVerdi ce l’hanno proposta, meritandosi convinti applausi dal loro (iersera ahinoi scarsino, ma affezionato ed osannante) pubblico. Che all’uscita benedice la compressione adiabatica dell’aria, arcano fenomeno fisico che, dal gelo imperante fino a metà giornata, ha portato in un batter d'occhio la temperatura sopra i 10°…

02 dicembre, 2013

Alla Fenice un’africana un filino… impoverita


Ieri la Fenice ha ospitato l’ultima delle sei rappresentazioni de L’Africaine di Giacomo Meyerbeer. Segnalo che MediciTV ha mandato in onda in diretta la recita del 29 (primo cast) e che – per qualche tempo ancora, quanto non è dato capire – la mette meritoriamente a disposizione sul suo sito-web.

Altre lodi si merita l’ufficio gestione-immagine-e-promozione-culturale del Teatro: il giorno successivo alla prima il pregevolissimo programma di sala era disponibile in web, ad arricchire il già sterminato archivio online: roba da meritare alla Fondazione un supplemento agli scarsi fondi FUS!

Venendo invece allo spettacolo, arrivano note un poco meno liete: purtroppo – a mio modestissimo avviso – si è trattato di una proposta discutibile, quanto meno poco coraggiosa, nel senso che non si è presentata nemmeno la versione Fétis, che pure sappiamo fu ottenuta attraverso dolorose ferite al corpo dell’opera come lasciato da Meyerbeer, bensì una sua riduzione di cui fatico (io, perlomeno) a cogliere i razionali.

Salvo la solita preoccupazione relativa al timing: dove l’imperativo categorico sembra quello di non superare le tre ore nette di musica, costi quel che costi. Tanto per dare un’idea ed un riferimento ormai consolidato, è lo stesso obiettivo che si era posto l’ormai antica edizione Verrett-Domingo (San Francisco, 1971 e poi 1988). Non a caso parecchi tagli sono presi direttamente da lì, con alcune importanti differenze, che può essere interessante analizzare, se non altro per curiosità.

Nel primo atto qui alla Fenice si rispetta quasi completamente Fétis, di cui si taglia solo l’inizio (e non la quasi totalità, come a San Francisco) del Terzettino (Don Diégo, Inès, Don Pédro) e un paio di passaggi del finale, meno tagliato quindi della versione americana.

Nel secondo atto viene soppressa la strofa centrale (Je vois, dans la grande île) e la seconda entrata di Fille des Rois (Atto II, aria di Nélusko) il che è un autentico scempio musicale, e poco conta che fosse perpetrato anche nella citata edizione californiana. Dalla quale si mutuano anche i due tagli al settimino finale (alla scoperta da parte di Inès del non-tradimento di Vasco e a quella di Vasco delle nozze di Inès con Don Pédro); tagli che gioveranno senza dubbio ai cantanti, meno al pubblico (almeno a quella parte che ne conosce il contenuto…)

Nel terzo atto – quello già massacrato da Fétis! - vengono cassati, come a San Francisco, il coro femminile d’entrata, il quartetto dei marinai, poi l’intervento di Don Pédro e marinai fra i due couplets di Adamastor e infine la parte conclusiva del coro degli Indiani: tutta musica che si fa rispettare, ma anche classici squarci da grand-opéra. Si mantiene invece (quasi) intatto il duo Vasco-Don Pédro, assai più decurtato a San Francisco.

Ma è all’inizio del quarto atto che viene perpetrata l’offesa più grave al concetto stesso di grand-opéra: la solenne e pomposa entrata di sacerdotesse, bramini, amazzoni, giocolieri, guerrieri e, infine, della Regina, viene totalmente rimossa dalla scena (a San Francisco ciò non accadeva). Quanto all’orchestra, a sipario chiuso, nemmeno suona il brevissimo Entr’acte e poi si limita a ripetere (abbastanza noiosamente, direi) le sole prime sezioni in RE minore della Marche indienne, privandoci del trio in RE maggiore all’entrata delle sacerdotesse (con il bel tema affidato alle trombe); poi subito dopo di quello in LA maggiore; poi ancora del primo (adesso in SIb) all’entrata dei bramini; e di tutto il resto della musica che dovrebbe accompagnare una scena sfarzosa ed enfatica. Buonanottealsecchio!

Sempre nel quarto si penalizza fortemente – come  a san Francisco – la scena dove Nélusko ha la sua crisi al momento di dover giurare il falso riguardo le nozze Sélika-Vasco; si taglia un po’ meno che in California la prima benedizione del gran sacerdote agli sposi; poi si fanno quasi gli stessi tagli al finale, salvo opportunamente eseguire (parte clamorosamente amputata a San Francisco) il celestiale Remparts de gaze, vero contraltare della marcia nuziale del Lohengrin.

Il quinto atto qui è letteralmente devastato! Non solo viene ignorata la scena iniziale con Inès e Vasco (che a San Francisco avevano meritoriamente ripescato dal cestino di Fétis) ma si butta in discarica, oltre all’Entr’acte, tutto il successivo e drammatico duetto Sélika-Inès. In sostanza viene unito, senza soluzione di continuità, il finale dell’Atto IV alle le prime battute (di Fétis) dell’Atto V, dove Sélika impreca al tradimento di Vasco e ordina a Nélusko di spedire a casa i portoghesi; poi si fa un lungo cambio scena (invece di due, ad onor del vero) e si passa direttamente al finale, con Sélika sul promontorio, nei pressi dell’albero della mancinella. 

Insomma, sono tutte mutilazioni piuttosto deleterie sia per la drammaturgia, sia perché ci privano di fior di musica e di canto. Nel complesso una scelta di fondo piuttosto infelice, sulle cause della quale a noi poveri mortali non resta che farci le solite domande oziose: timore di russate generali in platea e nei palchi? di fughe di massa fra un atto e l’altro? O il problema erano per caso i cantanti, incapaci di arrivare in fondo ad un’esecuzione di dimensioni non dico meyerbeeriane, ma almeno normali (chez-Fétis, per intenderci)? Già il libretto è farraginoso la sua parte; già Fétis ha confuso le idee ripristinando un titolo fuorviante e ha tagliato la partitura col machete; se poi anche il direttore e i cantanti decidono di suonare/cantare soltanto ciò che pare e piace a loro (chissà, forse per evitare… figuracce?) ecco raggiunto il poco esaltante risultato!

Altre domande (sempre di quelle da sesso degli angeli): ma allora, non sarebbe stato preferibile rinunciare del tutto a mettere in cartellone un’opera come questa, e spendere meglio gli scarsi quattrini disponibili? O comunque anche un suo torso, privo di arti, è reputato utile a promuoverne conoscenza e apprezzamento presso il vasto pubblico? Oppure l’obiettivo è di far bella figura proponendo un titolo difficile quanto desueto pur non disponendo di un cast adeguato e allo stesso tempo senza impegnare troppo un pubblico considerato ignorante e irrecuperabile, propinandogli qualche mezz’ora di musica più o meno accattivante, e chi se ne frega di tutto il resto?
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Fatte queste premesse – che gettano una luce non proprio limpida sui protagonisti, facendo insorgere nei loro confronti sospetti di inadeguatezza ai ruoli, che si sarebbe cercato di mascherare cambiando… le carte in tavola – vediamo come se la sono cavata i quattro principali.

La Sélika di Veronica Simeoni merita ai miei occhi un’ampia sufficienza; alle mie orecchie la sufficienza si striminzisce un filino e mi domando come sarebbe… morta (smile!) se prima di aspirare il veleno della mancinella avesse dovuto sostenere il drammatico confronto con Inès (dove, incidentalmente, dovrebbe anche spiegare al perplesso pubblico perché deciderà di fare quella brutta – o bella – fine).

Vasco de Gama era Gregory Kunde, gran professionista, che ha come al solito fornito una prestazione di tutto rispetto, anche se non la definirei superlativa. Comunque nella famosa grand air ha dato il meglio, accolto da un’autentica ovazione, mentre nel duetto con Sélika (che per sua fortuna è l’ultima parte che canta, poi rientra in camerino un atto – qui mezzo atto - prima degli altri…) ha ben mascherato qualche appannamento. Il trionfo finale è anche alla carriera, oltre i meriti della serata.   

Jessica Pratt ha impersonato Inès senza infamia e senza lode; si è pure risparmiata - seguendo abbastanza disciplinatamente (e direi giudiziosamente) lo spartito - quello svolazzo tanto sovracuto quanto gratuito che alla prima aveva esibito (dicono) in chiusura della romanza di esordio.

Anche sul Nélusko di Angelo Veccia pesano i… tagli che gli sono stati concessi (o che si è fatto concedere per cavarsela?) Bella voce, calda e passante, per una prova discreta (ma è come correre i 110-ostacoli con sole 7 barriere su 10…)

Degli altri direi abbastanza bene del Don Pédro di Luca dall’Amico e dei due… porporati: il cattolico Mattia Denti e il braminico Ruben Amoretti, tutti bassi, come si vede.

Il resto della compagnia (Don Alvar di Emanuele Giannino, Don Diégo di Davide Ruberti e la Anna diAnna Bordignon) ha onestamente fatto il suo dovere.

Bene invece il coro di Claudio Marino Moretti e l’orchestra, che il concertatore Emmanuel Villaume ha guidato in modo pulito, diciamo con una sana routine.
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L’allestimento (di stampo abbastanza tradizionale) di Leo Muscato, con scene di Massimo Checchetto e costumi di Carlos Tieppo ha avuto il merito di non complicare una trama che già Scribe ha reso farraginosa la sua parte (anche perché a complicarla ci hanno pensato i responsabili della parte musicale…) Peraltro ciò che si è visto credo abbia poco a che fare con il grand-opéra, o al massimo ne è un modellino tipo rivarossi, inclusi i filmetti pretenziosi e puerilmente didascalici che introducevano i vari atti.

Morale: ci dobbiamo accontentare?

30 novembre, 2013

Orchestraverdi – Concerto n°11

 

Indisposto il titolare Ivor Bolton, è stato chiamato Damian Iorio a dirigere i ragazzi de laVerdi (reduci dalla storica ottava mahleriana e guidati da Nicolai Freiherr von Dellingshausen) in un concerto ultra-tradizionale, sia come impaginazione che come contenuti.  

Si apre con la Ouverture zu den Hebriden (Fingals Höhle) composta dal giovane Mendelssohn dopo una gita alle Ebridi, in particolare a Staffa, dove si trova la celebre grotta marina che dal ‘700 ha preso il nome dall’eroe scozzese Fionn mac Cumhaill (per gli amici… Fingal):


L’Ouverture, canonicamente in forma-sonata, è tutta pervasa da atmosfere ossianiche, che si ritroveranno anche nel movimento iniziale della sinfonia scozzese, concepita, guarda caso, nello stesso periodo, anche se completata anni e anni più tardi.

Bravi i ragazzi – gli archi soprattutto - a trasmetterci queste sensazioni di mistero, fra folate di vento e squarci di sole sul desolato paesaggio nordico.
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Poi arriva una bella gnocca spagnola (smile! ma è brava quanto attraente!) a nome Leticia Muñoz Moreno per deliziarci con quello che è forse il più fischiettato (insieme a quello di Ciajkovski) dei Concerti per violino: l’op. 64 del compositore amburghese.


Qualche problema di concentrazione, prima di attaccare, grazie a rumori molesti, fra cui l’immancabile suoneria di un portatile, poi però questa ragazza col fisico da modella si scatena in un’interpretazione tutta nervi e spigoli, nel primo movimento. Quindi il centrale Andante è esposto con grande ispirazione, certo la parte migliore del concerto; nel  finale, la 28enne spagnola fa sfoggio di gran tecnica e trascina il pubblico ad applausi ritmati. E dopo Mendelssohn, il bis non poteva essere che Bach.
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Chiude Beethoven con la Pastorale. Iorio si fa recapitare sul leggio la partitura edizione Bärenreiter (quella di Jonathan Del Mar) ma francamente mi è impossibile dire se anche le parti degli orchestrali fossero coerenti con quella; del resto le peculiarità di questa edizione sono dettagli piuttosto (o del tutto) difficili da cogliere ad un ascolto dal vivo.

In ogni caso, un’esecuzione di tutto rispetto assai apprezzata dal foltissimo pubblico (molti i giovanissimi, forse tifosi della bella Leticia…) illustrato anche dalla presenza della neo-senatrice-a-vita Elena Cattaneo

Quindi – tenuto anche conto del repentino cambio di… podio - gran successo per Iorio e i ragazzi.

23 novembre, 2013

Orchestraverdi – ogni traguardo è possibile

 

Le due serate al MiCo con la sinfonia dei mille hanno consacrato laVerdi come un’Istituzione cui nessun traguardo ormai è precluso.

Non parlo soltanto dell’aspetto strettamente musicale (di livello più che accettabile, anche se non c’è bisogno di essere dei pedanti per trovare più di un difettuccio alle due esecuzioni) ma anche di quello, come dire, organizzativo.

Aver saputo immaginare, preparare, costruire e poi realizzare e governare un evento come questo è segno di altissima professionalità e di grande potenza di fuoco. Tanto per restare in campo nazionale, l’analoga impresa di due anni fa del MiTo (con replica a Rimini) era stata resa possibile dalla cooperazione di addirittura quattro diverse Istituzioni (RAI, Regio e Conservatorio di Torino e Maggio Musicale) oltre naturalmente al supporto delle risorse del festival.

Il successo di pubblico poi è stato davvero clamoroso: dopo il pienone della prova aperta del 20, altrettanti tutto-esaurito hanno caratterizzato le due serate del 21 e 23, dove si è riempita come un uovo una vera e propria piazza d’armi da oltre 3000 posti! 

Non sto ad entrare in dettagli capziosi su singoli aspetti delle prestazioni (come detto più di un appunto si potrebbe muovere a suonatori e, soprattutto, cantanti) ma mi limito a testimoniare la mia totale soddisfazione per aver potuto provare emozioni che solo un ascolto (e visione!) dal vivo di quest’opera può regalare.

A laVerdi dico soltanto: grazie, grazie, grazie!

22 novembre, 2013

Venezia ospita una indo-africana (3)


Si è già accennato al fatto che la stesura della versione dell’Africaine divenuta celebre in tutto il mondo - fin dalla prima di venerdi 28 aprile 1865 - si deve a François-Joseph Fétis, che ne ricevette l’incarico dalla vedova del compositore, Minna (toh, finalmente scopriamo l’unica cosa che avevano in comune Meyerbeer e Wagner: il nome della moglie!) e dalla direzione dell’Opéra, che vantava i diritti sul lavoro. Fétis apportò al materiale prodotto da Meyerbeer una serie di modifiche, alterazioni e tagli da lui giustificati con le più svariate ragioni, legate ad altrettante supposte necessità emerse durante la lunga e travagliata fase di messa-in-scena dell’opera. Lo spartito per voce e pianoforte di Fétis è stato pubblicato in diverse edizioni e lingue, che si differenziano di poco fra loro.


Le considerazioni di Fétis relative ai suoi interventi sono sommariamente riportate nella prefazione alla sua edizione della 2a parte dello spartito, che reca (quasi) tutto ciò (22 brani) che Fétis modificò o espunse rispetto al lavoro di Meyerbeer al momento di predisporre la sua edizione dell’opera: si tratta di considerazioni tutt’altro che peregrine (che sono state in parte condivise anche da chi ha curato la recente messa in scena del Vasco a Chemnitz) anche se la notoria attitudine del professor Fétis a correggere i difetti di altri compositori (a partire da tale Beethoven, di cui ritoccò disinvoltamente le sinfonie!) lascia più di un dubbio riguardo all’effettiva necessità, opportunità e bontà dei suoi interventi.

Per i quali, una delle motivazioni principali addotte riguarda la durata dello spettacolo. Durante le prove del 1865 all’Opéra, lui fece cronometrare un’esecuzione senza tagli, che risultò protrarsi per 4h30’ (intervalli esclusi, ovviamente). Ciò fu giudicato inaccettabile dalla direzione del Teatro e costrinse Fétis ad apportare (di malavoglia, dice lui) i numerosi tagli che la recente versione di Schläder – come presentata a Chemnitz - ha quasi interamente riaperto (tranne il Courons dell’atto II, il secondo couplet di Adamastor del terz’atto, il primo coro delle donne portoghesi e il notturno del quarto e una parte del duetto Sélika-Inès del quinto) durando precisamente 4h11’ (52+47+55+54+43).

Si noti che le rappresentazioni della versione tradizionale di Fétis, anche quando non ulteriormente tagliata (ma tagli più o meno barbari sono immancabilmente all’ordine del giorno…) difficilmente superano le 3 ore. Ad esempio la storica, si può dire, incisione dal vivo di Domingo-Verrett del 1971 a San Francisco nemmeno ci arriva, a toccare le 3 ore (42+37+25+40+34) nonostante riapra il taglio dell’inizio dell’atto V (Inès); e quella, sempre con gli stessi protagonisti, di 17 anni dopo, le supera di poco. Dopodichè si può discutere all’infinito se i tagli (originali di Fétis o praticati dai vari concertatori) siano o meno giustificabili e rendano l’opera più o meno digeribile. Al proposito, stando al sito web del Teatro, tre ore nette durerà anche lo spettacolo alla Fenice, spettacolo la cui struttura (90+30+60) lascerebbe immaginare – prendendo come base l’edizione Domingo-Verrett - una maggior corposità dei primi tre atti e qualche taglio in più negli ultimi due. (Ma staremo a… sentire!)

Vediamo quindi un po’ più in dettaglio come si configura la versione dell’opera edita da Fétis - che ha determinato il successo del lavoro per tutto l’800, prima del declino dovuto anche all’ostracismo nazista - rispetto a quella originariamente predisposta da Meyerbeer.

Al fine di avere dei chiari punti di riferimento, ho predisposto questo documento in cui ho assemblato tutti i testi (disponibili ai comuni mortali) dell’opera, evidenziandone le diverse componenti a seconda dell’origine. La parte in colore nero rappresenta (a meno di piccole discrepanze) il testo che Fétis incluse nella sua edizione per l’Opéra, da allora ed ancor oggi impiegata per le sue rappresentazioni, incluse le prossime (fatti salvi i tagli…) alla Fenice (ma qui ci chiarirà tutto il programma di sala, che sarà certamente ricco e rigoroso, come è costume del teatro veneziano).
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Intanto, un particolare proprio da nulla: il titolo! Fétis cestinò quello nuovo (Vasco de Gama, ou le Cap des tempêtes) e ripristinò quello originale di L’Africaine (nome che peraltro lo stesso Meyerbeer continuava ad usare in privato, per comodità…) La ragione principale essendo che il vasto pubblico aspettava da decenni di vedere in cartellone quel titolo: e chi se ne frega se Sélika, la protagonista del nuovo libretto, non fosse per nulla africana, tantomeno di pelle nera, bensì indiana, in omaggio e in coerenza con la meta dei sogni e dei viaggi del grande Vasco. Del resto abbiamo già visto come lo stesso Scribe avesse dovuto inventarsi un Madagascar indiano per trarsi d’impaccio!

Nell’Atto I – il meno strapazzato fra i cinque - Meyerbeer aveva lasciato due versioni della romanza di apertura di Inès Adieu, mon beau (doux?) rivage, in SOL minore (versi che torneranno a farsi sentire nel terzo e poi, più corposamente, nel quarto atto). Differiscono – solo nella musica, il testo non cambia - nella sezione centrale, 6/8 in SOL maggiore (Pour celle qui m'est chère). Fétis si è limitato a scegliere quella che reputò (direi a giusto titolo) più convincente. Per il resto non ci sono né alterazioni né tagli rispetto al Vasco.

Nell’Atto II Fétis comincia a tagliare: fa aprire la scena da Sélika che si avvicina a Vasco, di cui vengono tagliate le parole pronunciate nel dormiveglia Vogue, vogue, mon beau navire, nella stessa tonalità di MIb maggiore su cui il corno solo apre l’atto con un bellissimo recitativo, che serve proprio ad introdurre quella frase di Vasco, e torna anche poco dopo. Invece, se la frase viene omessa, si passa inopinatamente ed inspiegabilmente dalla sognante introduzione del corno al cupo intervento della schiava. Per questo in alcune edizioni dello spartito – inclusa una in lingua italiana – il frammento di Vasco viene re-incluso.

Fétis taglia anche alcuni versi di Sélika poco dopo (Son front me brûle, hélas!) in cui la schiava ricorda come Vasco avesse venduto i suoi gioielli e le sue armi per acquistarla: in effetti è un riferimento che sarebbe più appropriato al Fernand della stesura del 1843; Vasco più verosimilmente acquistò i due schiavi indiani con fondi… pubblici del Regno di Portogallo, e non di tasca sua.

Fétis sceglie poi una delle due versioni della famosa ninna-nanna di Sélika Sur mes genoux, quella che presenta più passaggi di agilità per il soprano. In effetti le due hanno parecchio in comune: tutta la sezione centrale (in FA e FA# maggiore, da Hélas, mon coeur faiblit…) e quella finale che torna in LA minore (da Il dort en paix…)

Più avanti Fétis taglia qualche battuta a Nélusko e Sélika nella scena del tentato omicidio (da À prix d'or au marché nous lui fûmes vendus); non fa esplicitamente menzione di questo taglio nella sua appendice allo spartito. La ragione sembra comunque evidente: i due schiavi ricordano il momento in cui vennero venduti al mercato e fanno riferimenti assai pertinenti allo scenario del 1843, allorquando erano stati acquistati da Fernand, e sappiamo bene con quali diverse motivazioni rispetto a quelle di Vasco. Il taglio sembra quindi abbastanza plausibile; un po’ meno la riapertura che ne fa Schläder.

Per il resto la scena e, soprattutto, la grande aria di Nélusko (Fille des rois e poi Quand l'amour m'entraîne) rimangono fortunatamente intatti. Invece Fétis taglia la prima parte del recitativo e duo di Sélika e Vasco Le maître a-t-il faim? Qui se ne va un frammento (À Vasco de Gama gloire! À lui l'univers!) abbastanza interessante sia sul piano drammatico che su quello musicale.

Nel grande duo Combien tu m'es chère, dopo che Sélika ha dato a Vasco lezioni di navigazione attorno al Capo, Fétis taglia di netto la strofa (da Près de moi tu resteras pour toujours) che vira abbastanza suggestivamente dal MIb maggiore d’impianto ad un momentaneo SI maggiore, prima del ritornello e della cadenza che chiude il duetto. In questa strofa i due sognano di risalire la costa orientale africana, e da lì esplorare altri territori più lontani, di incontrare nuovi popoli e nuovi climi. Ecco, questo taglio mi risulta francamente incomprensibile, sotto ogni punto di vista.  

Ecco infine l’ultimo taglio in quest’atto (mantenuto anche nella produzione di Chemnitz): il recitativo e arioso di Vasco-Sélika-Nélusko Courons, sortons! Qui Fétis ci dà una duplice spiegazione drammaturgica (permettendosi di correggere Scribe!) La questione sta in questi termini: alla fine del duetto fra Sélika e Vasco, che si chiude con i due emozionati e festanti, dopo che la schiava ha mostrato al navigatore la rotta giusta per doppiare il Capo, Scribe aveva introdotto – lo abbiamo visto nella precedente puntata - una nuova scena, quella dove Vasco torna a disperarsi e poi ode lo scampanìo in lontananza che Nélusko gli spiega come festeggiamento per le nozze di Don Pédro e Inès. Ecco perchè Fétis pensa che ciò rovini, poco dopo, la sorpresa di Vasco all’apprendere da Inès che lei ha sposato proprio Don Pédro.

Secondo poi: questa scenetta abbastanza insulsa (per Fétis, quantomeno, ma personalmente tenderei a condividerne il giudizio) toglierebbe totalmente drammaticità alla successiva entrata di Inès e Don Pédro, che  non troverebbero più Vasco e Sélika in atteggiamento sospetto. E ciò farebbe perdere significato alle prime parole di Don Pédro (visto? li abbiamo beccati in flagrante…) Ecco quindi che tutta la scena viene rimossa, in modo da proporre il seguente colpo di teatro: Don Pédro e Inès che entrano nella prigione e trovano Vasco e Sélika in piena esultanza.

Ecco poi il settimino finale (arrivo di Inès e Don Pédro e tutto ciò che segue) che Fétis – per fortuna, verrebbe da dire – non ha toccato per nulla. Ci sono qui un paio di concertati dove l’ascoltatore dovrebbe poter distinguere almeno 4-5 diverse, a volte contrastanti, espressioni di stati d’animo, cantate da personaggi che sovrappongono le rispettive voci: cosa praticamente impossibile anche a chi conosca il testo a memoria. Ma questo è un difetto (o un pregio?) del melodramma: il finale secondo di Aida ne è altro esempio preclaro.

L’Atto III è proprio nel mirino di Fétis, che ci apporta tagli piuttosto corposi. Dopo i cori delle donne e dei marinai (inclusa la gregoriana implorazione a SanDomenico) si comincia con l’eliminazione del canto del marinaio (Il est franchi, ce cap terrible)  che inneggia al doppiaggio del Capo e prende in giro Nélusko per le sue inavverate premonizioni sull’arrivo di Adamastor; tagliato poi il richiamo al pasto mattutino e infine il rondo bacchico dei marinai (Il faut du vin, du vin, du vin) dove a Scribe era sfuggito il riferimento – coerente nella prima versione del 1843 - alle coste messicane! Il taglio si porta via anche il breve lamento di Inès che riprende quello dell’inizio del primo atto (Adieux rives du Tage) e che crea un evidente contrasto con l’esuberanza dei marinai. Insomma, anche se non indispensabile sul lato della drammaturgia, questo scorcio eliminato da Fétis era invece assolutamente funzionale allo spettacolo, e la musica che lo supporta è tutt’altro che da buttare.

Si passa quindi direttamente al colloquio fra Don Pédro e Don Alvar, ma anche qui Fétis elimina la parte della scena dove il membro del Consiglio confida i suoi sospetti su Nélusko al Comandante (Êtes-vous bien sûr qu’il ne vous trahit pas?): che viceversa nomina lo schiavo come ufficiale di bordo, esecutore di tutte le pene da lui comminate, eccitandone tutta l’aggressività. Si tratta di un passaggio che dovrebbe servire a chiarire le cattive intenzioni dell’indiano.

Intenzioni che comunque Nélusko non tarda a manifestare, riconoscendo che il vascello è vicino ai paraggi dove incrociano i suoi compatrioti e cantando quindi la famosa ballata di Adamastor.

Adesso arriva la nave di Vasco, che sale a bordo. Fétis taglia due parti del duetto della lite fra Don Pédro e Vasco: Généreuse perfidie! (in cui troviamo un cupo accompagnamento del violoncello solo) dove i due si rimpallano la responsabilità della sorte di Inès (Fétis lo fa probabilmente per non… gettare un’ombra sul disinteresse di Vasco); e poi alcune battute da Eh bien! c'est moi qu'indigne en fin tant de bassesse.

Poi, come detto, altri barbari tagli: viene eliminato in pratica l’intero settimino, dove troviamo Sélika che punta il pugnale al cuore di Inès (Ah! qu’à défaut du ciel, l’enfer me soit propice!) Se ne va di conseguenza anche il successivo Qu’on l’entraine à l’instant, dove Don Pédro fa imprigionare Vasco nella stiva e cerca invano di obbligare Nélusko a frustare Sélika, con la conseguente offerta dei due di essere giustiziati insieme. Si tratta di scene assolutamente valide dal punto di vista drammaturgico, come è ad esempio la crisi di Nélusko, tanto spietato con gli stranieri, quanto inorridito al dover castigare la sua Sélika.

In pratica, da poco dopo l’arrivo di Vasco, la lite (abbreviata) con Don Pédro e la decisione di quest’ultimo di farlo fucilare, si salta direttamente e sbrigativamente alla chiusura dell’atto, con l’urto del vascello contro la scogliera e l’arrivo delle orde di indiani che fanno tutti prigionieri, per l’esultanza di Nélusko. Ma anche l’accoglienza dello schiavo ai suoi compatrioti, con annessa presentazione della loro futura regina Sélika e coro finale (Mais ceux-ci, quels sont-ils?) se ne vanno nel cestino di Fétis!

Insomma, il musicologo belga ha veramente massacrato questo atto, buttandone via almeno il 40%! E si tratta di scene tutt’altro che insignificanti e di musica assolutamente degna di essere apprezzata!

L’Atto IV si apre con il solenne ingresso in scena di sacerdotesse, bramini, amazzoni (il corpo di guardia femminile di Sélika), saltimbanchi, guerrieri e infine di Sélika in persona, il che dà modo a Meyerbeer di propinarci quasi 10 minuti di musica retorica e pomposa (pur gradevole!) come era d’obbligo nel GrandOpéra.

Poi abbiamo la scena del giuramento della nuova Regina e dei suoi sudditi, in qualche modo offuscata da due eventi poco felici: la notizia della giustizia sommaria degli invasori portoghesi maschi (che fa sobbalzare Sélika a proposito di Vasco) e il canto delle portoghesi femmine (subito dopo Quel est ce bruit? con richiamo dell’Adieu mon beau rivage! del primo atto) mandate a morire sotto la mancinella, come ci avverte Nélusko. Peccato che questo canto venga tagliato da Fétis (quel lamento si ripeterà alla fine d’atto) insieme al successivo coro dei sacrificatori Soleil, qui sur nous te lèves brûlant.

A parte che quest’ultimo coro – per quanto enfatico – è musica notevole, il suo taglio crea una gratuita discontinuità drammaturgica: dopo che Nélusko ha spiegato dove vengono condotte le donne, ecco che arriva di punto in bianco la famosa Grand Air di Vasco (O Paradis!) Invece quel coro serviva proprio ad introdurla, oltretutto anticipando versi che i sacrificatori cantano anche dopo l’aria di Vasco. A proposito della quale si è già accennato nella precedente puntata al fatto che Fétis ne cambiò un po’ il testo, introducendovi proprio l’invocazione (O Paradis!) che le diede il titolo.

Vasco è portato davanti ai sacerdoti per l’esecuzione, e Sélika lo salva costringendo (in pratica con un ricatto… sentimentale) Nélusko a testimoniare il falso (il matrimonio da lei contratto con Vasco in Portogallo). E qui Nélusko canta la sua cavatina (L'avoir tant adorée! che in realtà per la prima parte è un concertato con Vasco, Sélika e il coro) in cui manifesta tutto il suo cruccio per la costrizione che subisce, amare la sua regina e dover mentire per consegnarla al rivale straniero!

Il Gran Sacerdote benedice l’unione fra Vasco e Sélika, che restano soli. Qui, prima che si odano di lontano le invocazioni dei sacerdoti a Brahma, Fétis taglia la parte centrale del duetto (il notturno Ô douce Provideance don’t je bénis les soins) che serviva ad introdurre il successivo dialogo fra i due, che porta alla dichiarazione di reciproco amore.

Del finale (Remparts de gaze cachez l’extase) dove vediamo Sélika attorniata dalle sue ancelle che le fanno la toilette da sposa, Fétis pubblica una delle varianti (la più breve) predisposte dall’Autore, che manca fra l’altro dell’inciso di Sélika. Dove risentiamo comunque i lamenti di Inès e delle donne portoghesi ormai morenti sotto la mancinella.

L’Atto V presenta subito un gran taglio, che ci fa perdere grande musica, come l’aria Fleurs nouvelles, arbres nouveaux e il successivo arioso di Inès Ô toi, que j'adore. Ed anche la musica della scena con Vasco. Fètis invece cestina tutto l’Entr’acte, Arioso et scène in cui vediamo Inès arrivare mezza morta per aver respirato il profumo della mancinella e incontrare un Vasco vivamente turbato, per essere poi sorpresa con lui da Sélika in atteggiamento sospetto. Così invece l’atto inizia direttamente con l’entrata di Sélika (con Inès, circondata da soldati) che sorprende Vasco. Qui francamente il taglio di Fétis e l’aggiustamento relativo creano parecche perplessità sulla consistenza della drammaturgia: vediamo perchè.

Alla fine del quarto atto Inès è con le donne portoghesi portate a morire. Ora la troviamo, circondata da soldati, insieme a Sélika. Dobbiamo perciò immaginare (ma ce ne vuole, di immaginazione!) che Inès sia scampata alla strage e in seguito sia stata bloccata dagli uomini di Sélika e consegnata alla regina. Però, che c’entra Vasco? Il poveraccio si trova in quei paraggi a buon diritto e a pieno titolo (ha appena sposato la regina, caspita!) Quindi, perchè Sélika accusa i due portoghesi (che ancora nemmeno si sono incontrati, se dobbiamo prestar fede alla didascalìa) di tresca? Insomma, un saltus difficilmente giustificabile. (Meritoria quindi la decisione presa a suo tempo a SanFrancisco dal duo Domingo-Verrett di riaprire il taglio!)

Poi segue il duetto fra le due donne, quello dove Sélika decide di sacrificarsi, di cui Fétis taglia l’ultima parte (Oui, les transports de cette haine ardente): che è magari pleonastica dal punto di vista drammaturgico, ma ancora una volta è musica che è un autentico crimine buttare.

Qui arriva Nélusko, Sélika gli ordina di accompagnare i due portoghesi alla loro nave e poi di raggiungerlo al promontorio. Nélusko la implora di star lontano dalla mancinella, ma lei è irremovibile.

Nella scena al promontorio, la cavatina (La haine m'abandonne) del perdono a Vasco è purtroppo mutilata della strofa Je t'ai donné mon coeur, di cui Fétis non lascia traccia nemmeno nella sua appendice, e che ritroviamo grazie a Schläder.

Poi abbiamo il recitativo di Sélika in preda all’estasi mortale prodotta dal profumo dei fiori della mancinella (Ô riante couleur! ô fleur vermeille et belle!) dove Sélika vede un cigno che trascina un carro su cui arriva Vasco, cui dovrebbe seguire un’aria della protagonista, di cui Meyerbeer scrisse nientemeno che tre versioni: 1) Ô douce extase, transports heureux; 2) Non, cette ecstase ne trompe pas (questa viene direttamente dalla stesura del 1843!); e infine 3) Vasco, te voilà donc?

Ebbene, Fétis ce le nega tutte e tre! Poi, non contento, taglia anche il meraviglioso coro etereo (Ô céleste séjour).

Così si arriva al finale (Ah! je veille encor! Je suis sur terre) ma anche qui Fétis lo rimaneggia  (magari non senza plausibili ragioni) e chiude con l’appello di Nélusko e la morte di Sélika accompagnata dal solo coro etereo, tagliando le ultime parole (e il sacrificio) di Nélusko e gli avvertimenti del popolo.
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In conclusione, credo sia giusto dare atto al musicologo belga di aver cercato e magari quasi trovato un onesto compromesso fra il rispetto del lavoro di Meyerbeer (che comunque possiamo star certi sarebbe stato parecchio emendato dallo stesso compositore, ne avesse avuto il tempo) e le esigenze almeno comprensibili, se non giustificabili, della messa-in-scena.

In generale mi sentirei di fare il tifo, per il futuro, per l’edizione Schläder che, almeno all’ascolto, mi sembra meglio rispettare l’equilibrio fra le due caratteristiche della partitura: quella legata agli stereotipi del grand-opéra (scenario storico e retorica magniloquenza) e quella più debitrice alla tragedie-lyrique (più intimista e di scavo dei sentimenti). Troppo lunga? Forse sì, ma almeno è merce più genuina (smile!)
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Comunque sia, per ora non ci resta che aspettare Venezia…