ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

17 maggio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.35


È sempre Zhang Xian ad occupare il podio con un programma che affianca al Beethoven più classico un Wagner un po’ meno conosciuto.  

È l’Ouverture del Tannhäuser ad aprire la serata; un ideale prolungamento del concerto di un paio di settimane fa, dedicato quasi esclusivamente a preludi e ouverture di opere di Wagner. Dopo un attacco un po’ problematico (forse il pianissimo che Xian ha chiesto a clarinetti, corni e fagotti – rispetto al piano scritto in partitura - non ha garantito un buon amalgama dei suoni) tutto è andato per il meglio e l’orchestra ha confermato di cavarsela più che bene anche su terreni che non le sono proprio consueti. 

I cinque Wesendonk-Lieder furono composti da un Wagner infatuato dell’autrice dei testi, Mathilde, di cui era ospite a Zurigo dopo la precipitosa fuga da Dresda, inseguito da un mandato di cattura e dal rischio di una sentenza capitale (!)

È quindi il periodo in cui, a fronte della vicenda personale, si sviluppano nella testa e nell’anima di Wagner i germi che porteranno rapidamente, anzi tumultuosamente, alla nascita di quel fenomenale organismo che prenderà il nome di Tristan und Isolde.

E fu leggendo i versi del Tristan alla giovane e bella moglie del tycoon della seta (Otto) che questa ebbe l’ispirazione per le cinque poesie che successivamente Wagner musicò per voce femminile e pianoforte. Tranne Träume, trascritto dallo stesso Wagner, l’orchestrazione dei Lieder fu opera di Felix Mottl, ardente wagneriano.

Due dei Lieder (Im Treibhaus e Träume) recano la dicitura originale di Wagner Studie zu Tristan und Isolde, ed in effetti contengono riferimenti inconfondibili a passi del dramma che Wagner stava componendo all’epoca. Ma in realtà in tutti i Lieder spuntano qua e là motivi, o brevi frasi, o incisi, o magari atmosfere che ritroviamo non solo nel Tristan, ma anche in altre opere wagneriane.

Così in Der Engel fa capolino la chiusa dell’esortazione di Brangäne a Isolde, nella prima scena del Tristan e, proprio in chiusura, un inciso (col caratteristico gruppetto) preso dalla seconda scena del Rheingold, precisamente dalla chiusa del canto di Loge (So weit Leben und Weben) che richiama il motivo di Freia.  

In Stehe still!, alla fine della prima strofa troviamo un accordo che viene dal baccanale del Tannhäuser (Naht euch dem Strande!) e poi altre atmosfere tipiche del celebre duetto del Tristan. 

Im Treibhaus è programmaticamente un assaggio dell’apertura del terz’atto di Tristan, presentandone entrambi i motivi principali. Ma, ad esempio, le parole Unsre Heimat ist nicht hier! richiamano da vicino l’Olandese…

Olandese che un po’ fa anche capolino nel breve Schmerzen.

Infine, Träume è in pratica un assaggio del grande duetto del second’atto di Tristan. Però ci ascoltiamo anche il motivo dell’Oro del Reno, ma non come Wagner lo aveva già composto per il Rheingold, bensì nella variante Ruhe, du Gott che Brünnhilde canterà in Götterdämmerung.

Ad interpretare questi canti è stata la bella (e si direbbe anche in dolce attesa) Carina Vinke, già apprezzata qui ai primi di marzo nella Terza mahleriana. Impeccabile l’orchestra, nell’insieme e nelle parti solistiche (Greci, Santaniello, Giacomazzi) che impreziosiscono questa partitura.

Ha chiuso la Settima beethoveniana, opera ammirata da Wagner come e forse più della stessa nona. Xian l’ha affrontata ancora con il suo proverbiale cipiglio (cassando i da-capo per renderla ulteriormente asciutta) e i ragazzi non sono stati da meno, sia nei momenti più intimistici (da manuale i pianissimo dell’Allegretto) che in quelli orgiastici, massimamente nel finale, davvero entusiasmante.

Dopo una settimana di pausa, tornerà Aldo Ceccato con il suo Dvorak (e anche parecchio del suo principale mentore…)

10 maggio, 2013

L’Orchestraverdi si festeggia


Quel vecchio marpione che risponde al nome di Luigi Corbani si è persino fatto prendere da un attacco di magone, mentre ricordava un giorno di 20 anni fa quando, con Vladimir Delman e 5 altri incondicionales, diede vita a quella che oggi è una realtà ormai di livello internazionale: l’Orchestra Sinfonica di Milano Giuseppe Verdi (per gli amici… laVerdi).

È accaduto stamattina, nella sontuosa cornice della Sala Alessi di Palazzo Marino, stipata all’inverosimile, dove è stata presentata la stagione 13-14 della Fondazione. A fare gli onori di casa il Presidente Gianni Cervetti (lui invece di commuoversi se la ride sotto i baffi) che ha cominciato dando i… numeri (e che numeri!) della stagione che si sta ormai ultimando: 546 eventi, di cui 206 concerti in sede e 55 in Regione, Italia, Estero, per un totale di 215.000 spettatori; attività di education e formazione; 4.500 abbonati e il record di sottoscrizioni del 5 per mille (1700 contribuenti per quasi 100.000€)… insomma un vero e proprio servizio pubblico che oggi, dopo anni e anni di stenti e difficoltà legati all’indifferenza delle pubbliche istituzioni, sembra avviato ad un’esistenza dignitosa, se non proprio agiata.

La stessa ospitalità fornita dal Comune (ma ci voleva la giunta di sinistra!) per l’evento di oggi è un segno tangibile del riconoscimento che la città di Milano finalmente tributa a questa realtà ormai non più ignorabile, alla quale hanno portato il saluto e il ringraziamento della cittadinanza due rappresentanti della Giunta: Filippo Del Corno, guarda caso un musicista, oggi Assessore alla Cultura, e  Franco D’Alfonso, Assessore al Turismo. Del Corno ha voluto ricordare la tradizione culturale delle amministrazioni milanesi dell’immediato dopoguerra che, accanto al pane, si adoperarono per non far mancare ai milanesi la musica. D’Alfonso ha ricordato la recente collaborazione fra Comune e Fondazione nell’ambito delle iniziative culturali estive (il 75% della popolazione milanese nel 2012 è rimasta in città ad agosto!) rivolte a turisti e residenti. Entrambi hanno auspicato che tale collaborazione possa dare grandi frutti in occasione di Expo-2015, che è ormai alle porte.

Sul fronte organizzativo, due importanti novità: Gaetano D’Espinosa (ormai più che una promessa, cui verranno affidati 4 dei 38 concerti) diventa Direttore Principale Ospite; e Fabio Vacchi è nominato Compositore in residenza: per celebrare la nomina, ha ideato una composizione (sarà eseguita il prossimo marzo) per recitante-canto-orchestra intitolata Veronica Franco (celebre cortigiana, ma anche letterata della Repubblica Veneta) e dedicata ai temi dell’emancipazione femminile.

Due grandi e attesi ritorni impreziosiranno la prossima stagione: Riccardo Chailly, che lasciò l’Orchestra in modo non propriamente… idilliaco nel 2005 (ma ne rimase e ne è tuttora Direttore Onorario) fa la sua rimpatriata con un autentico behemoth della letteratura musicale del tardoromanticismo: l’Ottava di Mahler! Che non potendo trovare sufficiente spazio di manovra in Auditorium verrà presentata a Milano Congressi, in serata unica, sabato 23 novembre. Vladimir Jurowski (che si fece le ossa con l’Orchestra quando era un illustre sconosciuto) torna a fine gennaio per la Sesta di Mahler.

Zhang Xian e Ruben Jais hanno presentato i contenuti principali della stagione, che si aprirà con il tradizionale Concerto fuori-abbonamento alla Scala, domenica 15 settembre. Ma dieci giorni prima laVerdi sarà ospite nientemeno che della giornata 72 dei celeberrimi PROMS, nella sterminata Royal Albert Hall, con un programma di arie verdiane completato dal ciajkovskiano Manfred.

Mercoledi 13 novembre, 20° anniversario del primo concerto in assoluto tenuto da laVerdi (al Conservatorio) nel 1993 sotto la bacchetta di Delman, verrà presentato lo stesso identico programma: Serenata di Ciajkovski e Fantastica di Berlioz.

In ricordo di Rudolf Barshai, per anni Direttore Ospite, a marzo verrà eseguita la sua ricostruzione integrale della Decima di Mahler.

A proposito di Mahler, oltre ad un Titan-mit-Blumine (con Axelrod) avremo tutte le sinfonie pari: alle citate sesta, ottava e decima si aggiungeranno la Seconda (a gennaio, sempre con Axelrod, che prima concluderà il ciclo sinfonico di Brahms con la Prima e la Terza) e la Quarta (Caetani, a maggio).

Il venerabile Helmuth Rilling (cha ha di recente ceduto il passo come fac-totum dei suoi complessi a Stoccarda) tornerà qui ai primi di novembre, con Mozart.

Un altro ottuagenario, Aldo Ceccato, festeggerà il compleanno il prossimo febbraio con un programma tutto-ciajkovskiano, oltre a continuare la serie dedicata al suo amatissimo Dvorak.  

Il 2014 è il 150° anniversario della nascita di Richard Strauss, che viene onorato in 4 concerti. Interessante quello diretto da Giuseppe Grazioli a maggio, con le musiche del Rosenkavalier abbinate alle immagini di un film muto del 1925.

Per il 50° dalla morte di Britten ecco una riedizione del War Requiem, che tenne banco due stagioni fa alla Scala, per il concerto inaugurale.

L’integrale dei concerti per pianoforte di Rachmaninov e Beethoven sarà affidata a giovani pianisti italiani (un po’ di sciovinismo non guasta!) a conferma della vocazione promozionale, di nuovi talenti, dell’orchestra.

Come tradizione, ci sarà spazio per alcune prime parti dell’orchestra per esibirsi in qualità di solisti: Andrea Magnani nel Concerto per fagotto di Mozart, Massimiliano Crepaldi nel Concerto per flauto di Gluck e la coppia Luca Santaniello – Gabriele Mugnai nella Concertante di Mozart.

A quella principale (38 concerti, con  ben 21 diverse formule di abbonamento!) si affiancano, come da tradizione ormai, altre stagioni: innanzitutto quella de laVerdi barocca (di Ruben Jais) con 8 concerti e conclusione in bellezza con un Orfeo di Gluck nella versione originale di Vienna del 1762. Poi gli appuntamenti del sabato pomeriggio di Crescendo in musica e quelli della domenica mattina con Grazioli (Made in Italy).

Ma non è ancora tutto, poiché in cantiere ci sono altre iniziative, come i concerti straordinari, quelli fuori sede, le iniziative che coinvolgono i piccoli e i grandi, insomma tutto ciò che fa de laVerdi una vera e propria macchina di produzione di cultura. A dispetto di tutti gli attentati che contro la cultura vengono perpetrati ogni giorno.

Orchestraverdi – concerto n.34


Ancora Zhang Xian in Auditorium con Hindemith e Beethoven.

Paul Hindemith è stato uno dei musicisti più importanti del ‘900, quanto a scienza, dottrina, ricerca e innovazione, ma allo stesso tempo uno dei più controversi e bistrattati, e di certo la scarsa presenza della sua musica nelle sale da concerto non gli rende giustizia. Per la ricorrenza dei 50 anni dalla morte laVerdi ha messo in cartellone due opere in questo concerto e una nel penultimo della stagione.  

Il richiamo alle antiche tradizioni – musicali e non – fu una caratteristica della produzione di Hindemith (Mathis der Maler ne è l'archetipo) che cercò la sua strada all’innovazione rifiutando le rivoluzioni (espressioniste, seriali o neoclassiche) che imperversavano nella prima metà del secolo per rivalutare il contrappunto dei grandi maestri, Bach in testa, e impiegando in modo originale e personalissimo le risorse del sistema tonale e della scala cromatica.
     
Il 51enne Christophe Desjardins interpreta il primo brano in programma (diverso da quello annunciato a suo tempo, che era la Konzertmusik per viola del 1930): Der Schwanendreher, una specie di concerto per viola e orchestra (con gli archi ridotti a soli 4 violoncelli e 3 contrabbassi, per meglio far risaltare lo strumento solista) composto da Hindemith - lui stesso un apprezzato violista - nel 1935 ed eseguito in prima il 14 novembre (era un giovedì) di quell’anno ad Amsterdam, con il compositore alla viola e il grande Willem Mengelberg sul podio.

Il titolo letteralmente significa giratore di cigni, che sarebbe l’addetto alla… rosticceria, quello che fa girare lo spiedo. In questo contesto significa però un suonatore di organetto, di cui gira la manovella che è a forma di collo di cigno.  

A riprova dell’attenzione e dell’amore di Hindemith per la tradizione e per l’arte popolare, i tre movimenti del concerto richiamano esplicitamente quattro antichi Lied tedeschi (presi da una raccolta di Franz Magnus Bohme del 1877, una specie di nuovo Wunderhorn, ma con testi corredati da precisi riferimenti musicali) e nella prefazione alla partitura Hindemith espone una specie di programma (autobiografico?) dell’opera: un menestrello che canta e suona, per un’allegra compagnia, stornelli e canzoni raccolti in lontani paesi e da lui liberamente arricchiti con propri abbellimenti.
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Il primo movimento ha la struttura di un Rondò preceduto da un’introduzione a mo’ di cadenza della viola, dove il tema principale A è quello del Lied Guter Rath für Liebesleute (Buon consiglio per gente innamorata) che tratta della separazione fra due amanti, ed è esposto inizialmente da corni e tromboni, in tre diversi spezzoni, intercalati dalla viola:


Il tema A ritorna due volte, la prima negli strumentini seguiti dagli ottoni, la seconda in chiusura del movimento, ancora negi legni. Il tema B, assai vivace, è di Hindemith, affidato alla viola, che sul tema A invece si limita a contrappuntare l’orchestra, assumendo il ruolo del menestrello che abbellisce il motivo originale del Lied. L’accordo conclusivo è un tonalissimo DO maggiore.

Il secondo movimento, lento, che ha la struttura A-B-A preceduta da un’introduzione, ha come base dei temi due Lied intitolati rispettivamente Nun laube, Lindlein laube (Ora cresci, piccolo tiglio, cresci) e Kuckuk (il cuculo). ). Dopo la lunga e struggente introduzione della viola, il primo tema - un corale - ha come soggetto il lamento di chi ha perso l’amato/a:


Il secondo tema (fugato) sempre introdotto dalla viola, racconta le avventure di un cuculo che si infradicia completamente standosene sotto la pioggia, appollaiato su una staccionata:


Il tema è presentato in successione dagli strumentini, sempre contrappuntato dalla viola. Dopo un nuovo intermezzo del solista, torna il primo tema, timidamente, a chiudere il movimento, su un calmo LA.

Il movimento finale è un tema con variazioni sul Lied Der Schwanendreher, che dà anche il titolo al concerto:


In questo caso anche la viola partecipa all’esposizione del tema, oltre che interpretare o contrappuntare le successive 12 variazioni, che impiegano svariati mezzi espressivi, intervenendo sul ritmo e sul metro, o introducendo scale, trilli ed arpeggi.

Particolare importanza ha l’iniziale scaletta discendente, che viene impiegata in modo estensivo e chiude perentoriamente il concerto, scendendo dal SOL al DO.
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Xian dispone i sette archi bassi di fronte al suo podio (violoncelli al centro e contrabbassi a sinistra) e l’arpa alla sua destra. Eccellente l’esecuzione di Desjardins, ben sostenuto dall’Orchestra dalla quale Xian estrae tutti i dettagli di questa interessante partitura. Caloroso successo e bis (sempre Hindemith?)
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Segue poi la Sinfonia Mathis der Maler, che ebbe una gestazione abbastanza insolita: mentre componeva l’opera di pari titolo (che avrà un parto assai difficile nel 1938, all’estero, a causa dei problemi che il compositore ebbe in Germania con il nazismo, con il quale cercò invano di convivere, decidendo infine per l’esilio) ad Hindemith fu richiesta da Wilhelm Furtwängler una composizione strumentale e il nostro ne approfittò per impiegare temi dell’opera (ancora in costruzione) in questa specie di sinfonia in tre movimenti, che ebbe la sua prima a Berlino con la Filarmonica diretta dal… committente, lunedì 12 marzo 1934.  

La predilezione di Hindemith per il pittore cinquecentesco Mathis Nithart (o Gothart) conosciuto come Grünewald, protagonista dell’opera, nacque forse, chissà, dalla propensione che il musicista medesimo aveva per il disegno, testimoniata da una produzione assai ricca (qui allego in proposito un interessante scritto di Marco Vallora, apparso sul numero di gennaio del 1988 della rivista Musica&Dossier) ma sicuramente dall’affinità elettiva che Hindemith trovava con quel pittore tardo-medievale, che aveva fatto della rivendicazione della missione dell’artista in una società sconvolta da fenomeni epocali la sua ragione di vita.

Le tre parti della sinfonia si richiamano a pannelli dell’Altare di Isenheim (a Colmar, Alsazia) dipinti da Mathis fra il 1512 e il 1516. Nell’opera, che è costituita da 7 quadri (ecco qui un’edizione assai… adulterata) i brani si configurano rispettivamente come ouverture e come intermezzi (la terza parte fu composta dapprima per la Sinfonia e poi trasportata, non completamente, nell’Opera).
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La prima parte, in tempo mosso e in una spuria forma-sonata, si intitola Engelkonzert (Concerto di Angeli) e si richiama al dipinto centrale dell’altare – che appare all’apertura dei pannelli esterni - dove sono raffigurati tre angeli che cantano e suonano per la Vergine:



La partitura riporta il riferimento ad un Lied popolare (che già aveva musicato Mahler nella Terza Sinfonia) dal titolo Es sungen drei Engel (Tre Angeli cantarono) esposto dai tromboni:

Nell’opera (sesto quadro) ci farà riferimento Regina (il principale personaggio femminile). Qui fa da introduzione – ripetuto altre due volte in tempo solenne dai corni e poi da tutti i fiati - all’esposizione dei temi di questo primo movimento.

Il primo dei temi, assai spigliato, il cui incipit 10 anni più tardi si ritroverà nel secondo movimento della Quinta di Prokofiev, è esposto inizialmente dai flauti:

Poi è ripreso dall’orchestra, quasi a singhiozzi, a strappi, fino all’entrata di un secondo tema, più cantabile, nei violini:

Motivo poi ripreso dai fiati e sviluppato ancora dagli archi, fino ad una pausa che introduce un nuovo motivo impertinente, nel flauto imitato dai violini:


Sotto di esso ricompare il primo tema a chiudere, con tranquilli accordi, l’esposizione.

Inizia ora lo sviluppo, con due temi principali che si ripresentano e si intersecano, in un crescendo che porta, nei tromboni, alla ripresa solenne del tema del Lied dell’introduzione, ancora ripetuto dai corni e poi dall’orchestra con grandissima enfasi.

Il primo tema dà il via alla ricapitolazione, seguito dal terzo motivo, sempre nel flauto e violini; poi ancora il primo tema e quindi il secondo, ora esposto in modo assai ampio ed enfatico dagli strumentini. Tocca al primo tema l’ultima parola, prima della chiusa sugli accordi perfetti di SOL maggiore.

La seconda parte, piuttosto breve (45 battute) e in tempo lento, si intitola Grablegung (Sepoltura) e si richiama al pannello della base dell’altare, dove è raffigurata la deposizione di Cristo:


La musica ha ovviamente un carattere mesto e solenne, fino dall’introduzione:
Nell’opera compare come interludio all’interno del settimo ed ultimo quadro. È una lenta cantilena, esposta dai legni, inframmezzata da strappi, che sembrano evocare gli sforzi di chi sta calando il corpo di Cristo dalla croce. Alla fine un sereno accordo di DO# maggiore saluta la composizione della salma nel sepolcro.   

La terza parte si intitola Versuchung des Heiligen Antonius (Le Tentazioni di Sant’Antonio) e si richiama al pannello destro interno, dove è rappresentato il Santo alle prese con mostri di ogni genere:



La partitura riporta come sottotitolo una scritta latina presente sull’altare di Isenheim: Dov’eri buon Gesù / dov’eri, perché non venisti / a sanare le mie ferite?:


Come detto, parte della musica di questo finale (composto inizialmente per la Sinfonia) fu successivamente impiegata da Hindemith nel sesto quadro dell’opera, a sottolineare la visione notturna di Mathis, che sogna Sant’Antonio, San Paolo ed altri personaggi, che avevano ispirato i suoi dipinti ad Isenheim.  

L’inizio è occupato da un’introduzione lenta, proprio di carattere teatrale, con tanto di schianti improvvisi che preparano l’atmosfera delle visioni di Mathis.

Ecco quindi il Molto vivace, col caratteristico ritmo incalzante dell’accompagnamento dei fiati al tema esposto dagli archi:


Poi le parti si invertono e sono gli ottoni a riesporre il tema, assai enfaticamente, fino ad una fermata improvvisa, su un accordo di tutta l’orchestra. Segue un inciso del flauto interrotto da altri due pesanti accordi, poi riprende la corsa, su un tempo ternario scandito dal metro trocaico dell’accompagnamento, mentre oboe e poi clarinetto espongono un tema ondeggiante; corsa interrotta ancora da due schianti, poi ripresa prima che si arrivi ad un diminuendo e ad una sezione lenta. Essa è caratterizzata inizialmente da un insistito DO sovracuto in tremolo dei primi violini, che poi espongono un motivo elegiaco, che si anima progressivamente, quindi si rilassa e infine muore nel DO# grave dei violoncelli.

Adesso subentra un’altra sezione Vivace, dal metro giambico, che sfocia in due poderose perorazioni di tutta l’orchestra, dopodiché sono le viole ad esporre un nuovo tema contrappuntato da striduli incisi dei legni. Lo riprendono i violini, e poco a poco sono gli ottoni a farsi largo con una progressione che si muove sulle quartine di semicrome degli archi e su lunghissimi tremoli dei legni. Il crescendo si spegne per lasciar spazio ad un fugato degli archi su cui entrano prima i clarinetti, poi i corni esponendo un nuovo tema solenne.

Che percorre anche la Coda, sempre in fugato, contrassegnata in partitura dal sottotitolo Lauda Sion Salvatorem, che riprende la sequenza latina (che nell’opera è cantata da Sant’Antonio nell’apparizione a Mathis):


Il fugato si spegne infine sull’Alleluia, che nell’opera è cantato da San Paolo e Sant’Antonio al termine della loro apparizione a Mathis, santi che troviamo rappresentati nel pannello sinistro interno di Isenheim:


Così invece in partitura:


Subito dopo, l’enfatica e magniloquente conclusione della Sinfonia, in un luminoso REb maggiore.
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Davvero impeccabili anche qui Xian e i ragazzi, accolti da convinti e meritati applausi. Speriamo che il successo di questo concerto riapra le porte… di teatri e auditorium a questo compositore che non merita l’oblio in cui sembra caduto.
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Chiusura in bellezza con Beethoven e la sua Quinta. Che Xian affronta alla garibaldina, diciamo alla Toscanini, con tempi serratissimi (che le consentono, a parità di durata complessiva, di proporci i ritornelli sia del primo che dell’ultimo movimento, smile!)

Se proprio devo trovare un pelo nell’uovo, anzi due, citerei l’eccessivo fracasso dei fiati nel secondo movimento, che ha un pochino sommerso i poveri archi. E la scelta di lasciare i contrabbassi all’estrema sinistra, come per Hindemith, lontanissimi dai violoncelli. Ma sono in fondo dettagli di scarsa importanza: ciò che conta è la fantastica compattezza mostrata dai ragazzi, davvero un pacchetto agguerritissimo. Trionfo assicurato.
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Sempre la cinesina protagonista la prossima settimana con Wagner, in qualità di autore e di estimatore di… Beethoven.

04 maggio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.33


Zhang Xian si rifà viva in Auditorium con un programma dedicato a composizioni di un genero e di suo suocero. Ieri sera la prima replica del concerto, in una sala letteralmente presa d’assalto.

Programma modificato ampiamente (nei titoli, non negli autori) rispetto a quanto previsto: c’erano una Totentanz e un Parsifal-Vorspiel, rimpiazzati da Rienzi e Lohengrin-III. E cambiato è anche il solista al pianoforte.

Quindi, a parte i quattro preludi, o ouverture, wagneriani, è rimasto del papà della terribile Cosima soltanto il Secondo Concerto, interpretato – in sostituzione di Paolo Restani - da Orazio Sciortino, che era stato ospite dell’Auditorium lo scorso ottobre in qualità di compositore, e di cui fu allora eseguita in prima assoluta Träumer (Trauer) Stimmen.

Il titolo di concerto è francamente fuorviante per questo brano (a meno di non intenderlo in senso estremamente lato). Se per Concerto per pianoforte e orchestra intendiamo invece una forma compiuta e storicamente riconosciuta, allora il termine non si attaglia per nulla a quest’opera, che potrebbe altrettanto, e meglio, titolarsi fantasia, o variazioni sinfoniche, o poema sinfonico per pianoforte e orchestra, o divertimento, o rondò capriccioso, o serenata… insomma, qualcosa che del concerto classico non ha proprio alcuna parvenza. 

Tuttavia l’apparente caoticità della sua struttura (ad un superficiale ascolto pare un brano senza capo né coda, un’accozzaglia di motivi buttati lì a caso) non deve trarre in inganno, poiché invece Liszt vi amalgama, variandoli e manipolandoli sapientemente, diversi motivi.
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Il più importante dei quali è subito esposto (nell’iniziale Adagio sostenuto assai) dai due clarinetti:

Ma già i primi arpeggi del pianoforte, che accompagnano la riesposizione – lenta – del tema nei legni, cominciano ad anticipare vagamente il motivo che si staglierà plasticamente più avanti, nell’Allegro agitato assai. Per ora il pianoforte introduce, con violente biscrome nella mano sinistra, un motivo che richiama l’incipit di uno dei temi del primo concerto (discesa mediante-sopratonica-tonica). Chiusa questa sezione, si arriva all’Allegro agitato assai, e di lì a poco all’indicazione TUTTI, un poco più mosso dove troviamo il motivo accennato negli arpeggi iniziali, ora in SIb minore (qui esemplificati i soli archi):
Incidentalmente, sarà questo motivo a chiudere con grande enfasi il concerto, nella tonalità base di LA maggiore. Ma intanto costituisce il nucleo del tema del successivo Allegro moderato, aperto da violini e viole, nel quale poi il tema principale viene esposto – due volte - con grande nobiltà dal violoncello solo, prima che il pianoforte esploda un motivo che ne ricorda da vicino uno del primo concerto:


Ecco il tema dell’Allegro moderato tornare due volte nell’oboe, dando quindi spazio al tema principale, che appare molto dilatato, ma troncato, negli strumentini. Dopo una breve e virtuosistica cadenza del solista, abbiamo l’Allegro deciso, in cui poderosi arpeggi del pianoforte, sostenuti da robuste strappate degli archi fanno da sfondo all’inciso che ricorda il tema degradante del primo concerto. Poi ancora nei legni fa capolino un nuovo motivo, di sapore eroico:

Dopo lunghe volate di semicrome del solista, è il secondo tema, variato e manipolato, nel pianoforte e nell’orchestra, a tenere banco, fino al Marziale, un poco meno allegro, dove il primo tema esplode in tutta la sua retorica, accompagnato da incisi eroici:

Si arriva ora ad Un poco animato, che prepara il finale, con una impressionante serie di ottave parallele nel pianoforte. Però qui c’è ancora un passaggio, indicato come opzionale in partitura (Un poco più mosso. Tempo rubato) dove il pianoforte ricorda il primo tema, ancora rielaborandolo col supporto dell’orchestra; torna anche il tema mutuato dal primo concerto, poi una pausa di riflessione, protagonista il violoncello, finchè il solista si produce in una nuova breve cadenza che conduce all’Allegro animato conclusivo. Il primo tema si frantuma e si espande, poi nello Stretto (molto accelerando) viene accompagnato da altri incisi già uditi, finchè è il secondo tema che chiude con gran retorica e fracasso.
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Sciortino ha dato una bella prova di sé, dal punto di vista della tecnica e anche della sensibilità interpretativa, enfatizzando proprio i tratti più romanticamente marcati del lavoro; ben coadiuvato dall’orchestra, soprattutto nelle parti più solistiche, Tobia Scarpolini in testa, con il suo violoncello.

Due bis – entrambi sono sue rivisitazioni degli originali - hanno coronato il successo del giovane: Ravel e Strauss.
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Che dire del resto del concerto? Una scorpacciata – devo dire fin stomachevole, dopo l’intervallo – di Wagner. Del quale era stato eseguito in apertura il preludio dell’atto primo del Lohengrin, in modo direi più che dignitoso, data la scarsa consuetudine dell’orchestra con simili mostri sacri.

Invece Rienzi, Maestri e Lohengrin-III hanno consentito ai ragazzi di tirar fuori la grinta, buttandosi a briglia sciolta nei gran fracassi, ma devo dire rendendo anche al meglio le (poche) zone di intimità di quei brani.

Insomma, una gradevolissima serata di musica.

Prossimamente ancora Xian in un interessante programma con Hindemith e Beethoven.

01 maggio, 2013

Gomorra - di Verdi?! - alla Scala


Ieri quarta recita, in un teatro abbastanza affollato, della quarta opera verdiana della stagione del bicentone, che è proprio la sua prima: Oberto. Praticamente: un riciclaggio (smile! e ricordiamoci di questo termine quando si tratterà di disquisire sulla regìa di questa proposta scaligera).

Sì, perché Verdi, inopinatamente vincitore all’enalotto di allora (1839, la Scala che – in brache di tela in fatto di novità plausibili – aveva deciso di scommettere su un carneade debuttante rifiutato persino da teatri di provincia e insisterà ancora su di lui affidandogli persino una scimmiottatura di Rossini, prima dell’epocale Nabucco) non ebbe altra scelta che adattare una sua velleitaria – e abortita - opera-prima (Rocesterad un nuovo soggetto messo in mano ad un tizio più giovane di lui, ma di lui più navigato, che successivamente lo affiancherà in alcune delle opere che lanceranno Verdi nel gotha del melodramma: Temistocle Solera.

Oberto rappresenta propriamente quello che i crucchi chiamerebbero l’ur-Verdi (il Verdi primigenio) cioè il germoglio - non certo un frutto maturo! - di ciò che diventerà nel giro di pochi anni la sostanza caratteristica di tutta la produzione del maestro di Roncole: la creazione di drammi in musica, dove lo scavo psicologico dell’anima umana e la scolpitura in suoni dei sentimenti e delle passioni si inseriscono all’interno della rappresentazione di grandi (o pretesi-grandi) scenari storici (o pseudo-storici).

Ora, l’estetica dell’epoca di Verdi imponeva tassativamente la nobiltà del testo e, soprattutto, della musica, anche e più che mai laddove il soggetto dell’opera fosse di carattere crudo, o presentasse componenti di violenza, o scene cruente, o personaggi sgradevoli se non addirittura spregevoli. E quindi, se il compito della produzione artistica era (come in fondo dovrebbe essere, per distinguersi da quella documentaristica) la poetizzazione dei soggetti, ne consegue che tutto - testo, musica e ambientazione scenica - dovesse sottostare a regole ben precise.

E infatti, in Oberto, Solera e Verdi tendono a presentarci in modo poetico anche gli aspetti più crudi di vicenda e protagonisti: dimore lussuose (Magnifica sala nel castello di Ezzelino) anche se di proprietà di gente poco raccomandabile; cavalieri, dame e vassalli, magari coinvolti in trame e faide non propriamente edificanti, che tuttavia cantano versi come: Qual d’Eugania sulle spalle nivea falda, hai puro il cor…

Lo sbifido Riccardo di Salinguerra (un nome, un programma!) facendo il suo ingresso in scena in mezzo ad una folla festante per le sue prossime nozze, così esprime il suo odio verso i nemici: Già parmi udire il fremito degl’invidi nemici. Le balde lor cervici prostrate al suol vedrò. Il senso non è certo rassicurante, ma la forma, accipicchia, è aulica per davvero; e la musica? una vispa cabaletta, Allegro brillante, in SOL maggiore:


Insomma, il cattivone mica sbraita - magari su truci accordi dissonanti di tutta l’orchestra - a quei brutti figli di puttana gli faccio un buco in testa…, accompagnato da compari che gridano: e fagliene pure due, a ‘sti fetentissimi cornuti…   

Prendiamo poi un fatto di sangue, la morte del protagonista; essa ci viene notificata da una musica in Allegro agitato, MI minore, sulla quale il coro maschile canta versi come Nella selva ei giace esangue:

Di sicuro: non dal grido sguaiato di una donna che vocifera: Hanno ammazzato compare Oberto!

Fu solo a partire dal verismo (50 anni dopo) che i canoni estetici cominciarono a mutare – in biunivoca e reciproca relazione di causa-effetto con l’evolvere dei gusti e dell’attitudine del pubblico – contribuendo a portare sulle scene soggetti, personaggi, linguaggio e ambienti direttamente mutuati dalla realtà contemporanea. E di conseguenza spingendo gli autori (di testi e musica) e i responsabili degli allestimenti a trovare nuovi e appropriati strumenti di espressione e di presentazione, tagliati su misura della nuova offerta artistica.

Nei  primi decenni del ‘900 l’esempio più fulgido di queste tendenze sarà Wozzeck, nato quasi un secolo dopo l’Oberto, dove anche la musica dovrà radicalmente adeguarsi ai nuovi canoni estetici, trovando nella cassetta degli attrezzi resasi nel frattempo disponibile (affrancamento più o meno marcato dalla tonalità e/o serialismo) i mezzi più congrui per supportarli.

Tornando ad Oberto in persona, varrà la pena di constatare come egli venga ammazzato non già da una banda di brigatisti che ricattano lo Stato, né da sicari di una cosca camorristica rivale, ma da Riccardo in un duello (che l’uccisore vorrebbe persino evitare) per motivi d’onore (Io venni in questi lidi vindice dell’onor! canta il vecchio padre): ecco, è l’onore il fulcro di tutto il dramma, null’altro; non il potere (alla cui perdita Oberto è ormai rassegnato), non la politica, non l’interesse, solo l’onore di un padre, infangato da Riccardo che ha sedotta e poi abbandonata sua figlia Leonora.

E in effetti va detto e sottolineato come l’obiettivo di Verdi, dei suoi librettisti e degli impresari teatrali che mettevano in scena le sue opere non fosse certo quello di denunciare la violenza o l'incultura della società contemporanea, attraverso l’impiego – a mo’ di allegoria – di storie medievali. E nemmeno - come si continua a mistificare - di fare propaganda risorgimentale. Molto più semplicemente, l’obiettivo era quello di fare – e offrire al pubblico – del teatro musicale di alto livello artistico ed estetico, secondo i canoni e i parametri dell’epoca (e casomai, di ricavarne lauti guadagni, cosa di cui Verdi mai si vergognò). Che poi il pubblico decidesse di vederci messaggi risorgimentali o di condanna di certi fatti di attualità, piuttosto che lo specchio dei mali della società contemporanea, liberissimo di farlo; ma non era questo il fine ultimo, né il primo, e menchemeno l'unico, di quelle imprese. (Martone è avvertito…)
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Stabilita la prospettiva storica ed estetica in cui si inserisce l’Oberto, non si  può non dissentire quindi in modo radicale dall’impostazione che il regista (confondendo evidentemente Verdi con Leoncavallo e Mascagni - da lui dignitosamente rappresentati al Piermarini poco tempo fa - se non addirittura con Berg) ha deciso di dare al suo allestimento - portato in epoca a noi contemporanea, fra camorra e mafia - e allo stesso tempo non si può non dissentire dal suo intento maieutico, del tutto estraneo allo scenario artistico-estetico dell’opera da rappresentare.   

Si dirà:
a. ma in fondo in Oberto ci sono due signorotti poco raccomandabili e le rispettive fazioni (con sedi a Bassano e SanBonifacio) e Martone ci mostra due cosche camorristiche (o mafiose, fa lo stesso) in lotta senza quartiere per il controllo del territorio (Casal di Principe e Scampìa, o Corleone e Alcamo, fa lo stesso): quindi fin qui ci siamo.
b. poi in Oberto c’è la questione d’onore, che in Sicilia (e un po’ meno in Campania) è uno dei motori della nostra inciviltà: e anche qui il conto torna.
c. in Oberto le donne sono trattate più o meno come ad Arcore (smile!) dove ha la residenza un caimano a nome Berluscardo (stra-smile!) uso ad avere fior di mafiosi alle sue dipendenze.

Quindi: tutto sembrerebbe quadrare, quasi alla perfezione!  

E invece no, ahilui (Martone) e ahinoi. Sì, perché il problema non è se la trama del libretto venga più o meno scimmiottata dall’allestimento. Eh no, il problema della genialoide trovata del regista è che lo spirito (e in buona misura anche la lettera) dell’Oberto nulla ha a che fare con la sua trasposizione (ai nostri tempi, ma non è questo il punto) nel mondo delle associazioni a delinquere.

Quali non erano, ma proprio per nulla – e non solo nel libretto di Solera, ma anche nella realtà storica - le famiglie o le oligarchie che sostenevano gli Oberto e i Riccardo, personaggi di certo non eletti democraticamente, anzi propriamente dei tiranni, ma pur sempre rappresentanti le istituzioni (per quanto discutibili, ai nostri occhi) di quel tempo, e legittimati da uno dei due massimi poteri allora costituiti: quello imperiale e/o quello papale. Quindi altro da chi, come oggigiorno mafia e camorra (e brigate di vario colore) alle Istituzioni si oppone.

Questo per quanto attiene il piano ideologico. E su quello materiale? Di male in peggio: è un mondo, quello di Martone, dove sorgono volgari quanto pacchiane abitazioni-bunker (scenografie da Scarface, altro che magnifica sala!) situate in vicinanza di discariche a cielo aperto (altro che la deliziosa campagna!) Dove persino l’abbigliamento dei protagonisti, oltre che delle masse, è indice di totale incultura e degrado.

E così vediamo Riccardo, abbigliato come un tipico esemplare di boss della camorra, che entra in scena in vestaglia da camera damascata cantando Questi plausi a me d’intorno, questi voti io devo a lei, a lei sola che m’invita alle gioie dell’amor… un’ardente cavatina in SI maggiore! E attorno a lui, invece di Cavalieri, Dame e Vassalli, chi vediamo? Volgarissimi esemplari di fauna feccia criminale, con ampio seguito di zoccole, che però noi ascoltiamo cantare  Oh felici! omai compita è la speme d’ogni cor, su una musica che anticipa nientemeno che il Libiamo… E gli stessi loschi figuri, verso la fine dell’opera, così si esprimeranno: Son compagne in questa vita la sventura e la virtù… e poi ancora: Ah, sventura! e dalla Croce sol di pace Iddio parlò! Fatto sordo a quella voce, l’uom nel sangue s’allegrò! Camorristi? Picciotti? Ohibò.

Come ciliegina (marcia) sulla torta (rancida) troviamo in questo allestimento stupidi quanto gratuiti, nonchè irrispettosi, riferimenti alle vittime degli anni di piombo (Oberto = Aldo Moro? roba da manicomio!) uomini che sacrificarono la vita per motivi ben diversi da un  malinteso onore…   

Insomma: di poesia, nemmeno l’ombra! Solo volgare e crudo realismo, e indebiti e beceri riferimenti a fenomeni tipici della nostra società: cosa che contravviene in-toto precisamente ai princìpi fondatori dell’opera, stravolgendone completamente la natura, e quindi presentando al pubblico un oggetto del tutto diverso dall’originale. Ecco: un prodotto adulterato spacciato per autentico, esattamente come vendere un Modigliani falso (si rischia la galera, o sbaglio?)

Intendiamoci, il film ideato dal regista – non abbiamo alcuna difficoltà a dargliene atto - è in sé e per sé di alto livello e di grande attualità (per quanto un Gomorra sia già stato prodotto, da altri). Peccato che soffra di un clamoroso difetto, che ne compromette irrimediabilmente il valore: la scelta dei testi e, soprattutto, della colonna sonora!     
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Purtroppo la lunaticità della regìa si ripercuote inevitabilmente anche sulla percezione che uno spettatore appena-appena non sprovveduto ha della prestazione musicale degli interpreti (non dico direttamente sulla sua qualità intrinseca). Interpreti che solo per questo dovrebbero chiedere i danni a Martone…

Sì perché vedere Fabio Sartori che, dopo aver ucciso Oberto in regolare duello – quasi impostogli dal vecchio! – arriva vestendo i panni di un sicario della camorra, con tanto di mitra, per poi intonare un’accorata romanza in SIb maggiore - Ciel pietoso, ciel clemente, se pregarti ancor mi lice, deh! perdona un infelice, tu mi salva per pietà – ti mette un tal disagio addosso, che la stonatura della scena finisce per farti sembrare stonato pure il tenore! Accidenti al regista! Peccato, perché la prestazione del nostro è stata tutt’altro che malvagia, in una parte per nulla facile. Ha anche rispettato alla lettera la partitura come quando, nella cavatina d’esordio, ha cantato tranquillamente il SI acuto (sul m’invita) e poi è rimasto sul FA# in chiusura.

Maria Agresta è una Leonora che convince a metà: voce sempre ben impostata, nelle volate virtuosistiche, come nei più nobili cantabili. Ma la parte – quasi da mezzosoprano – la mette in seria difficoltà nell’ottava bassa (non parliamo del LA sotto il rigo) dove arranca o… fa il pesce. Per lei comunque una calorosa accoglienza. Qui dobbiamo anche ringraziare Martone per averci chiarito in modo inequivocabile, mostrandocela con un gran pancione, ciò che noi poveri pirla non avevamo minimamente sospettato dal libretto di Solera… 

Il protagonista nel ruolo del titolo è Michele Pertusi, che ha confermato la sua classe e la sua grande sicurezza: per me, il migliore della compagnia.  

Sonia Ganassi impersona Cuniza, per me, senza infamia e senza lode (anche se il pubblico le tributa solo le lodi…): anche qui temo di essere negativamente influenzato dall’esteriorità (leggi: come viene acconciata e fatta recitare dal regista) poiché invece di una nobildonna sensibile e magn-anima, sembra la zoccola di un magn-accia, e chi mi dice che pure il suo canto non si sia fatto trascinare nella… discarica in cui Martone ha collocato la vicenda.

L’Imelda di José Maria Lo Monaco ha dato il suo meritevole contributo ai numeri di insieme in cui è quasi esclusivamente impegnata.

Molto bene il coro di Bruno Casoni, che ha un impegno quantitativamente esteso, ma – credo io – relativamente facile.

Al mio conterraneo Riccardo Frizza va il mio personale plauso (pochi invece ne ha avuti dal pubblico) se non altro per aver evitato di trasformare l’Oberto in Ernani o in Boccanegra. Insomma, ci ha dignitosamente restituito il Verdi esordiente, con tutte le sue velleità e i suoi limiti, e questo in fin dei conti è ciò che si può chiedere ad un onesto concertatore.

Alla fine moderato successo, diciamo così, di stima, come ormai capita sempre più spesso in questa Scala piuttosto… appiattita (smile!)