ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

15 aprile, 2013

DonCarlo festeggia i 40 anni del Regio moderno


Mercoledi 10 aprile si celebravano i 40 anni dalla riapertura (con rocamboleschi Vespri) del teatro torinese (i festeggiamenti proseguiranno sino a fine giugno) e Don Carlo è stato scelto per onorare la ricorrenza (poi per una qualche insondabile ragione la prima è slittata di 24 ore…) Ieri la seconda, in un teatro piacevolmente gremito in ogni ordine di posti. E dove alla fine il pubblico si è accalcato sotto il palco per tributare un autentico trionfo a tutti i protagonisti, non essendosi risparmiato prima applausi a scena aperta al termine di tutte le stazioni di questo meraviglioso calvario che è il Don.

Qui siamo proprio in un teatro-della-città, che i cittadini sentono come loro proprio e di cui giustamente apprezzano la serietà, la professionalità e lo stare-con-i-piedi-per-terra, fornendo prodotti di qualità senza pretendere (non essendolo) di essere i primi al mondo e soprattutto senza pretendere di attribuirsi porzioni sproporzionate dei finanziamenti pubblici. Il riferimento alla Scala è evidente: il quale ormai non è più il teatro dei cittadini milanesi, ma è una meta turistica per stranieri neo-ricchi, dove la maggioranza del pubblico passa di lì per caso e, soprattutto, senza cognizione di causa.
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Lo spettacolo riprende l’allestimento del 2006 di Hugo de Ana, mentre sul podio sale il padrone di casa, Gianandrea Noseda da Sesto San Giovanni.

Regìa che gli snob con la puzza al naso tacceranno di ammuffita musealità (o di zeffirellite rafferma) poiché le scene copiano quasi alla lettera le architetture dell’Escurial e di Valladolid, i costumi sono precisamente quelli che vediamo nei quadri e nelle pitture cinquecentesche e ciò che avviene in palcoscenico è al 100% rispettoso delle didascalie prescritte in partitura. Ah, che noia, che barba, che noia, vuoi mettere qualche bel cappottone ddr e l’ambientazione nella Dallas di JR ?!

Per la verità la regìa, col Don Carlo (o Carlos) un problemino ce l’ha sempre, ed è una faccenda di… taglie: datosi che il povero Infante, all’inizio del secondo atto, deve scambiare la Eboli per la Regina (della quale Regina conosce meglio di chiunque altro, e per evidenti ragioni, le… dimensioni, smile!) è necessario che soprano e mezzosoprano che impersonano le due signore abbiano corporature almeno vagamente compatibili. (La benda che copre l’occhio offeso della Eboli non è un problema, essendo prudentemente nascosta dalla maschera e dal velo da lei indossati.) Ora, la defezione della Frittoli (annunciata dall’altoparlante alle ore 14:29) sostituita dalla Kasyan (che ha due taglie in meno…) qui ha provocato invece un palese… scompenso volumetrico, talchè ha fatto piuttosto sorridere il Carlo che scambiava la giunonica Barcellona per l’esile georgiana (cose che capitano solo in teatro, smile!)  
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Ma a proposito di inverosimiglianze, sappiamo che il dramma di Schiller e il libretto di Méry-DuLocle, mentre presentano uno sfondo storico-politico assolutamente rigoroso, contengono invece una versione ampiamente romanzata e fantasiosa delle relazioni personali intercorrenti fra Carlo, Elisabetta e Filippo.

Per fare un minimo di chiarezza storica, bisogna ricordare alcune date: Filippo II (nato nel 1527) succede al padre Carlo V (tramite abdicazioni successive) nel 1556-58 (Carlo V muore appunto nel ‘58). Ha già all’attivo due matrimoni, dal primo dei quali è nato il Carlo della nostra vicenda, nel 1545. Quindi quando Filippo eredita (parte del) l’impero del padre, ha 29 anni e suo figlio Carlo ne ha 11.

Veniamo ora ai due giovani: ammesso che si siano incontrati a Fontainebleau, la cosa deve essere avvenuta assolutamente prima del 1559 (anno del matrimonio, il terzo, di Filippo con Elisabetta). Ora, a quel tempo DonCarlo ed Elisabetta (che erano coetanei, classe 1545) avevano 12, massimo 13 anni! Praticamente dei bambini insomma, le cui eventuali promesse di matrimonio corrisponderebbero a quelle che oggi si fanno due sbarbati delle scuole medie! (Invece pare verosimile che i due fossero destinati, magari a loro insaputa, ad un qualche matrimonio di Stato).    

È storicamente accertato che Filippo sposò Elisabetta nel 1559, quando lui aveva 32 anni e la francesina ne aveva solo 14, e ancora stava uscendo dalla pubertà (ebbe la prima gravidanza, abortita, 5 anni dopo). Ed è verosimile che i fatti narrati nell’opera siano anteriori al 1564, anno in cui Elisabetta ebbe appunto la prima delle sue 4 gravidanze (successivamente ebbe due femmine - ’66 e ’67 - e un altro aborto nel ’68). In effetti il libretto reca l’indicazione verso il 1560: il che comporta che Carlo ed Elisabetta, ai tempi dello scandalo narrato nell’opera, dovessero avere 15 anni al massimo (!?)

Quanto a Filippo, che spesso viene rappresentato come un ottuagenario decrepito, aveva appunto 32 anni quando sposò Elisabetta, e 33 ai tempi della vicenda dell’opera, il che contrasta abbastanza con il crin bianco da lui stesso citato nella famosissima Ella giammai m’amò… Però qui a Torino Filippo è impersonato nel primo cast dal 36enne Abdrazakov, il che tutto sommato rende giustizia alla… storia!  
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Tornando a bomba, la versione rappresentata al Regio è Don Carlo e non Carlos, dal che si deduce essere quella in italiano (Scala 1884) e in soli (smile!) quattro atti (3 ore nette di musica) avendo abbandonato oltralpe l’idilliaco Fontainebleau. Edizione qui meritoriamente esente anche da pseudo-filologie-a-buon-mercato (tipo riscoperte dell’america di Peregrine o Lacrymose assortite, per intenderci, o di pagine di partitura rifatte di sana pianta da Verdi medesimo in occasione dell’edizione scaligera).

Per gli aficionados di Radio3 allego, dall’archivio di Musica&Dossier, due scritti sull’opera verdiana, apparsi sui numeri di aprile 1988 e di novembre 1992 a firma di due vecchie conoscenze: Stefano Catucci e Guido Barbieri.
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Come detto, ieri gran trionfo per tutti gli interpreti, fra i quali mi sembra spetti di diritto la priorità di menzione a Svetlana Kasyan, che ha dovuto forzatamente anticipare il suo debutto di due giorni, causa l’indisposizione della Frittoli. Bene, questa giovane georgiana, alle prime esperienze forti, è stata davvero una piacevolissima sorpresa, mostrando grande tecnica, una bella voce e soprattutto una sicurezza da cantante navigata: per essere un esordio, davvero splendido.

Accanto a lei un Ramón Vargas abbastanza efficace, senza sbavature, anche se la voce non è abbastanza… eroica (non sempre, ovvio, ma quando ciò sarebbe necessario).

Ildar Abdrazakov è un Filippo convincente (come detto, anche… anagraficamente): voce calda e mai cavernosa, bella espressività e portamento davvero regale, incluse le tremende contraddizioni che animano il personaggio.

Ludovic Tézier per me ha fatto un figurone: un Posa di grande spessore e autorevolezza, cui è difficile trovare lacune.

Molto bravo anche Marco Spotti, che ha restituito con durezza, ma senza esagerazioni macchiettistiche, la figura dello sbifido cerbero Inquisitore.

Roberto Tagliavini ha dignitosamente prestato la sua voce (che arrivava più che altro dalle… profondità della cripta) al Frate-CarloV.

Lascio per ultima Daniela Barcellona: dopo la (tutto sommato) positiva comare Quickly alla Scala, la statuaria mula triestina si cimenta in un altro, e invero impegnativo, ruolo verdiano: quello di Eboli. Ecco, una prestazione di livello non assoluto, stante le caratteristiche… somatiche della sua voce, che non collimano precisamente con quelle del personaggio, soprattutto nelle scalate più ardite. Tuttavia un risultato complessivo più che accettabile, raggiunto anche, se non soprattutto, grazie alla impeccabile capacità di stare in scena.     

I comprimari erano Sonia Ciani (Tebaldo en-travesti) Erika Grimaldi (Voce dal cielo) Dario Prola (Lerma) e Luca Casalin (Araldo).

Fabrizio Beggi, Scott Johnson, Federico Sacchi, Riccardo Mattiotto, Franco Rizzo, Marco Sportelli (gli ultimi tre sono membri stabili del Coro del Regio) hanno ben recitato la parte dei bistrattati Deputati fiamminghi.

Sempre all’altezza il Coro di Claudio Fenoglio, sia nelle parti di canto arcano e sommesso dei frati, che in quelle di grande e smaccata sonorità, davanti ad Atocha.

Il Kapellmeister Noseda si conferma ancora una volta solido ed affidabile concertatore: cava dall’orchestra i suoni più cupi e introversi, come i fracassi più enfatici. Guida le voci da par suo, senza mai metterle in difficoltà e tiene tempi mediamente serrati, senza però andare mai oltre i limiti della correttezza interpretativa. Insomma, un nome, una certezza!
  

12 aprile, 2013

Orchestraverdi – concerto n.30


Oleg Caetani (Markevitch) si ripresenta al suo affezionato pubblico con una cosa (relativamente) moderna che apre la strada a Mahler

Dapprima l’ex-bambino-prodigio armeno Alexander Chaushian (oggi rispetto al video ha una trentina d’anni in più e… tutti i capelli in meno, smile!) interpreta il Concerto per violoncello di Witold Lutoslawski. Opera scritta su commissione della Royal Philharmonic Society, dedicata a Slava Rostropovich e da questi eseguita in prima assoluta a Londra nel 1970 (qui autore e interprete insieme).

Lutoslavski vi sperimenta alcune delle sue più o meno geniali trovate (lui si inventò anche una sua personale dodecafonia) come ad esempio l’aleatorietà (limitata) degli sviluppi dei suoni: in alcune sezioni (normalmente definite ad-libitum) gli strumentisti sono liberi di suonare le note scritte in partitura (certo, non altre!) un po’ come pare e piace a loro, quindi non rispettando necessariamente la sincronizzazione dei propri suoni con quelli dei colleghi, ma limitandosi ad obbedire ad un cenno del direttore che segnala (anche lui a sua discrezione) la fine dell’ora d’aria e il rientro in cella (smile!) cioè l’allineamento di tutti in vista del passaggio alla sezione successiva. In queste sezioni si ottengono quindi sia tempi che armonie variabili ad ogni esecuzione, i primi legati alla sensibilità del direttore, le altre ai limiti consentiti dalle possibili combinazioni delle note dei diversi strumenti che suonano insieme. Eccone un tipico esempio:


Al battere del direttore sul segno (7) le tre trombe entrano in modo aleatorio (cioè non necessariamente in sincrono) e ciascuna esegue la sua parte indipendentemente dalle altre. Le armonie derivanti dalla sovrapposizione dei suoni dei tre strumenti sono quindi aleatorie, ma limitatamente a quelle rese possibili dalle combinazioni (casuali) dei suoni emessi dai tre strumenti.

In questo caso la prima tromba suona dei LA e dei DO# (su ottave diverse); la seconda suona dei LAb e dei RE (sempre su diverse ottave) e la terza suona dei SOL e dei MIb (ancora su diverse ottave). Ne consegue che le armonie possibili sono date dalle 8 combinazioni dei 6 suoni (a 3 per volta) più i rivolti derivanti dalle diverse altezze (di ottava) degli stessi 6 suoni di base. Per esempio, ne possono uscire dei cluster (tipo SOL-LAb-LA) o accordi di nona costituiti da due quinte sovrapposte (SOL-RE-LA) e così via permutando…

Essendoci un segno di da-capo sui righi delle tre trombe, la sezione viene rieseguita. Quando il direttore segna il battere (8) i tre strumentisti devono finire le rispettive sezioni e tacere fino al nuovo battere (9) del direttore, dove inizia una nuova sezione.

Insomma, una specie di caos organizzato! Che trova il suo culmine qui, all’inizio del finale, dove 23 fiati, 3 percussionisti, il pianoforte e tutti gli archi devono suonare ciascuno indipendentemente dall’altro (leggere attentamente la nota a piè pagina) e dove in verticale compaiono tutte le 12 note della scala cromatica!


Altra caratteristica della scrittura (soprattutto per il violoncello, ma anche per gli altri archi) è la notazione di quarti e trequarti di tono; che serve a far produrre all’esecutore intervalli inferiori al semitono, ma più netti rispetto ai tradizionali glissando. I simboli usati e il loro significato sono riportati nella prefazione alla partitura. Ecco un esempio di queste notazioni sulla parte del violoncello solista:

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La struttura del concerto prevede quattro segmenti, che si susseguono senza soluzione di continuità e configurano una vera e propria tenzone sonora fra il solista (saltuariamente spalleggiato da altri strumenti) e gli ottoni, che sembrano impersonare un nemico, o un’autorità piuttosto… tirannica:

1. Introduzione affidata al solo violoncello, a mo’ di cadenza; alterna momenti di annoiata staticità (semicrome di RE ad intervalli di 1 secondo e in numero variabile da 10 a 20, con agogica indifferente) a guizzi improvvisi e spiritosi (grazioso, un poco buffo ma con eleganza, flautando, marziale) che si vanno infittendo per poi ricedere il posto all’atmosfera indifferente, dove però le semicrome di RE si trasformano in semibiscrome ribattute, oppure vengono precedute da acciaccature, a nota singola, poi doppia, poi tripla. Qui arriva una prima brusca intromissione delle tre trombe, che pian piano (dapprima singolarmente, poi insieme) prendono il sopravvento sul povero RE del violoncello, fino a zittirlo completamente.

2. Quattro episodi - protagonista il violoncello dialogante con strumenti diversi - interrotti da altrettante irruzioni degli ottoni.
Nel primo episodio la linea del violoncello, sempre caratterizzata da momenti di sonnolenza rotti da improvvisi risvegli, viene sporadicamente accompagnata dall’arpa, poi anche da clarinetto e violoncelli, quindi da viole, altro clarinetto, ancora da tutti gli archi, poi dalle percussioni (timpani, tomtom e tamburi, rullante e senza corde); sono proprio le percussioni ad accompagnare il solista fino all’irruzione della tromba, quindi – dopo una timida risposta del violoncello - di altra tromba e tromboni, che troncano l’episodio.
Nel secondo il violoncello dialoga con clarinetti, arpa e poi anche con il pianoforte; quindi entrano altre percussioni (vibrafono e campanelli) con tutti gli archi; poi ecco anche flauto, clarinetto basso, campane e celesta, cui si aggiunge il pianoforte; c’è poi un tutti che si spegne lasciando in vita, accanto al violoncello che si agita sempre più, soltanto poche percussioni, prima che un trombone intervenga perentoriamente, spalleggiato poi da altri due, a por fine bruscamente all’episodio, con il violoncello che sembra proprio un cagnolino, redarguito dal padrone, che si va ad accucciare.
Nel terzo episodio abbiamo interventi di percussioni, pianoforte, arpa e clarinetto basso, poi un frusciante passaggio di flauti e clarinetti, quindi ancora percussioni e poi celesta, arpa e pianoforte, mentre il violoncello si muove sempre alternando momenti di quiete a scatti improvvisi, sull’ultimo dei quali arrivano, proterve, le tre trombe a ristabilire… l’ordine.
Il quarto episodio è una specie di crescendo in cui entrano praticamente tutti gli strumenti, salvo gli archi alti: anche qui sono le tre trombe ad intervenire, dapprima con scarso successo, visto che violoncello, tastiere e fiati cercano di resistere; ma poi si aggiungono due tromboni a fare una specie di ramanzina collettiva, e così la… ricreazione è finita!   

3. Cantilena, affidata al violoncello solista che, dopo una serie di soliti RE cadenzati, espone meste linee melodiche, caratterizzate da continue acciaccature, supportato dai soli archi, che sembrerebbero quasi volerlo rincuorare; in effetti qualcosa si muove, in corrispondenza dell’entrata di tastiere, arpa e fiati, poi la melopea del violoncello riprende, accompagnata dall’agitarsi degli archi; finchè subentra una specie di crescendo, come di un treno che si mette in moto: violoncello e archi in unisono sembrano voler marciare con decisione verso… dove? e vengono bruscamente zittiti dall’intervento… dell’esercito (smile!) Sono tutti gli ottoni (trombe, tromboni, corni e poi, per poco, la tuba) che impongono una specie di legge marziale che annichilisce il violoncello, mentre gli archi continuano la corsa, ma stridendo precisamente come i freni di un treno che ha innestato la rapida! Gli ottoni (tuba esclusa, ribadiscono la loro autorità, spalleggiati dal pianoforte e portano verso il…

4. Finale, dove protagonista è dapprima l’intera orchestra, in un ribollire di suoni concitati e invero caotici; il violoncello sembra voler cominciare una frase, ma è brutalmente zittito da uno schianto sonoro; poi però riprende a… parlare, suonando una frase abbastanza lunga, ma qui tutta l’orchestra lo interrompe con quattro pesanti semicrome; adesso il violoncello prova per ben cinque volte a smozzicare qualche sillaba, sempre brutalmente interrotto dalle martellanti semicrome dell’orchestra. Poi si fa coraggio e (furioso, recita l’agogica) si imbarca in una serie di volate infarcite di quarti di tono e alternate a note testardamente ribattute, il tutto assecondato da sporadici interventi di tre ottavini, dei tomtom, xilofono, tamburino e campane, infine del pianoforte che precede un primo intervento repressivo di tutti i fiati. 
Adesso l’atteggiamento del violoncello diventa molto patetico, però sfida i tromboni, supportato a tratti da qualche percussione e dai violini, poi dall’arpa, fino al prossimo intervento bruciante degli ottoni. Ancora il violoncello insiste con note doppie ondeggianti, alternate ad altre ribattute con forza, sfidando i rimbrotti di trombe e corni, poi dei tromboni. Ancora intervengono percussioni, arpa, violini e contrabbassi, quindi il pianoforte e poi le viole, sfidando altri interventi di tutti i fiati, poi di corni e tromba e quindi ancora di tutti i fiati e degli archi. 
Ora abbiamo il redde-rationem: l’intera orchestra esplode precisamente 10 cannonate, seguite subito da un’esplosione tremenda (che deve durare dai 12 ai 15 secondi!) e qui il violoncello, accompagnato dai soli archi, si mette letteralmente a guaire come un cane bastonato, dando l’impressione di… tirare le cuoia (perdendo, recita l’agogica).
Sembra tutto finito (male) ma ecco comparire una coda, riservata al violoncello solista, con fugaci interventi di grancassa, archi e arpa. Ora persino gli ottoni paiono restare attoniti, e così il violoncello chiude la faccenda con 10 caparbie ripetizioni di un LA acuto (la dominante del solito RE, innalzata di un’ottava…)
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A dispetto delle ripetute affermazioni del compositore che sempre asserì trattarsi di musica pura, senza alcun riferimento esterno, c’è chi invece vi vede una scoperta allusione (con conseguente denuncia in… suoni) ai conflittuali rapporti fra l’individuo (in particolare l’artista) e le autorità-fantoccio filo-sovietiche che, da Gomulka al famigerato generale Jaruzelsky, nel secondo dopoguerra tennero per decenni la Polonia sotto il tallone comunista, prima che la premiata coppia Walesa-Wojtila mettesse fine allo scandalo. Il violoncello rappresenterebbe l’individuo, che invano cerca di esprimersi liberamente, venendo ogni volta messo a tacere dalla brusca invadenza delle tiranniche autorità (impersonate principalmente dagli ottoni). Peraltro la coda del concerto starebbe a rappresentare la possibilità per l’individuo medesimo di farsi beffe, se non altro nella sfera privata, della prepotenza del regime.

Questa è musica difficile da digerire, tranne forse che per gli esecutori, per via della libertà, sia pur vigilata (che sia anche questo un riferimento alla Polonia del dopoguerra?) di cui possono, una volta tanto, godere e che li mette al riparo da ogni critica sulla correttezza e pulizia degli attacchi (smile!)

In effetti solista e orchestra danno a vedere di divertirsi assai, mentre al pubblico andrebbe magari più a genio qualcosa come lo Schiaccianoci o la Moldava… E qualche dubbio sulle preferenze musicali dello stesso compositore nasce dallo scoprire che – fra una sinfonia e un concerto, diciamo… moderni – lui componeva clandestinamente polke, mazurke e walzeroni a gogò (smile!)

Comunque a Chaushian – che per la cronaca ha eseguito all’inizio 17 RE (l’Autore ne propone dai 15 ai 20!) - e a tutti vanno doverosi applausi per l’impegno profuso, e così l’armeno ci regala un bis con un brano popolare della sua patria lontana.
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Ecco, diciamo che questo antipasto è servito a farci apparire quasi dolciastra nientemeno che la Quinta di MahlerDella quale ho già altre volte scritto qualcosa, per cui mi limito qui a far parlare l’illustre Paolo Petazzi, allegando uno stralcio del suo corposo studio su Mahler, apparso nel settembre del 1989 su Musica&Dossier.

Sinfonia che Caetani ha interpretato con ragionevolezza, quanto a tempi staccati, e cercando di mettere in evidenza tutti i dettagli di questa complessa partitura. Strana invece la disposizione dell’orchestra, un ibrido visto poche volte, con violini secondi al proscenio (come da tradizione alto-tedesca) ma con archi bassi al centro-destra e viole a sinistra, dietro i violini primi… mah.

Purtroppo, dopo una partenza promettente (i primi due movimenti) le cose non sono propriamente andate per il giusto verso, a cominciare dal pasticcio del primo corno (si dice il peccato, ma non il peccatore) precisamente all’attacco dello Scherzo. Dopo un Adagietto un filino stiracchiato, il Finale è stato costellato da una serie di imprecisioni (di ottoni, corni e trombette in particolare, ma non solo) chissà, dovute magari all’abitudine dei ragazzi all’aleatorietà ereditata da Lutoslavski (stra-smile!)   

Gli applausi non sono comunque mancati, da parte di un pubblico assai folto (e questa è una buona notizia comunque).
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Prossimamente una strepitosa primizia (per quanto… rimandata di un anno) con il funambolo Wayne Marshall.

06 aprile, 2013

Stupro albionico in quel di Reggio E.


Oltre ai due sommi bi-centenari, il 2013 è anche il centenario dalla nascita di Benjamin Britten, e così molti cartelloni ospitano opere del compositore britannico. The rape of Lucretia – nella co-produzione ReggioEmilia-Ravenna-Firenze – dopo aver esordito all’Alighieri transita in questi giorni dal ValliL’orchestra (meglio, il complesso cameristico) è quella del Maggio, la regìa è… reggiana (Daniele Abbado, che riprende, rivedendolo, un suo allestimento ultra-decennale) e il cast è multi-nazionale.

Con l’occasione allego qui una monografia sul Britten teatrale curata da Carlo Maria Cella e apparsa nel numero di maggio-giugno 1993 della rivista Musica&Dossier.

Come meritoriamente puntualizza il libero pensatore Amfortas (a proposito, non vedo l’ora che torni fra noi più… semiserio che mai!) sarebbe ora di finirla con le penose ipocrisie (superate solo da quelle del Berlusconi che si offre per fare un governo nientemeno che con i comunisti!) che traducono rape con ratto, alle quali si potrebbe obiettare che – trattandosi di vicenda coinvolgente parti intime femminili – allora sarebbe più appropriato il termine ratta, aulica versione di topa…
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Ecco, sistemata la ginecologia, qualche considerazione a margine del soggetto, che Ronald Duncan derivò da Le viol de Lucrèce di André Obey, ma che si basa su una vicenda (più o meno) storicamente accertata, trovandosi descritta in Ab Urbe condita libri di Tito Livio, e poi ripresa da Shakespeare nel dramma omonimo.

Lo scenario storico-politico generale è quello dell’assedio che i romani (guidati da quello che sarebbe stato l’ultimo dei sette Re, l’etrusco Tarquinio il Superbo) stavano ponendo nel 509 a.C. alla città di Ardea, che si trova a circa 40 Km a sud-ovest di Roma, sul mare. Ciò si evince dalle fonti storiche o letterarie, mentre il libretto di Duncan parla genericamente di nemici greci, probabilmente riferendosi alle presunte, mitologiche origini greche di Ardea (sappiamo che invece a quei tempi la città era abitata dai Rutuli, di incerta origine, ma sicuramente non greca).

Nella partitura di Bosey&Hawkes (nella pagina di descrizione in tedesco di personaggi e scene) si accenna all’accampamento romano situato al di là del Tevere. Nel libretto si fa anche cenno alle luci di Roma che dall’accampamento si vedono riflettersi nel fiume e poi si descrive l’attraversamento dello stesso da parte di Tarquinio (Sestio, figlio del Superbo e protagonista dell’opera, insomma: lo stupratore di Lucrezia) per raggiungere la città nella notte del misfatto.

Orbene, queste circostanze (che non si trovano assolutamente in Livio, quindi tanto meno in Shakespeare) appaiono in verità assai poco plausibili, proprio per ragioni… geografiche: ai tempi la città di Roma sorgeva quasi interamente ad est del Tevere (che sappiamo va a sfociare ad ovest) quindi il percorso Roma-Ardea, oltre ad essere del tutto divergente rispetto a quello del fiume (rendendo inverosimile che l’accampamento romano fosse nei suoi pressi) non doveva contemplarne di certo alcun attraversamento. Peggio ancora se la destinazione di Tarquinio non fosse stata Roma ma, come scrive Livio, Collazia (la città dove Lucrezia e Collatino avevano la loro dimora) che era situata ancor più ad est di Roma.

Il fiume compare nel libretto di Duncan anche nel second’atto, seconda scena, quando Bianca saluta il sorgere del nuovo giorno ammirando la nebbiolina che si disperde lungo il Tevere argenteo. Ciò a conferma che nell’opera la casa di Lucrezia sia in piena Roma, e non a Collazia (come sappiamo da Livio) da dove il Tevere di certo non si poteva vedere.

Tuttavia diamo atto al librettista (e alla sua fonte diretta) di aver sì falsificato la geografia, oltre che la storia, ma contemporaneamente di aver dato a Britten ottimi spunti per comporre musica mirabile.
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La partitura è del 1946, a guerra appena finita, ed è dedicata ad Erwin Stein, famoso musicologo austriaco, che Britten aveva conosciuto a Vienna nel 1934 e che poi era sfuggito al nazismo rifugiandosi a Londra, dove collaborò con Bosey&Hawkes, la casa editrice musicale che già aveva a contratto le opere del compositore albionico.

L’organico è di piccola orchestra, soltanto 12 strumentisti (più il maestro cui è affidata la parte del pianoforte, che accompagna i recitativi): uno al flauto (più ottavino e flauto contralto); uno all’oboe (più corno inglese); uno al clarinetto in SIb (più clarinetto basso); uno al fagotto; uno al corno in FA; uno alle percussioni (triangolo, frusta, tamburo, timpani, tamburo militare, tamburo tenore, tamburo basso, piatti sospesi e gong); uno all’arpa; cinque agli archi (vl1-2, vla, vc, cb). È un organico da camera che Britten userà, con piccole divergenze, anche in altre due opere successive: la poco eseguita Albert Herring e la famosissima The Turn of the Screw.

La struttura dell’opera è assai semplice e simmetrica: due atti (della durata di circa 50 e 60 minuti) costituiti ciascuno da due macro-scene divise da un interludio e precedute da un’introduzione. Nel primo atto, dopo l’introduzione, la prima scena raffigura l’accampamento dei romani (con le discussioni fra i tre generali sulla fedeltà di mogli e compagne); l’interludio ci racconta del forsennato galoppo notturno di Tarquinio dal campo alla casa di Lucrezia, incluso il guado del Tevere; la seconda scena è all’interno della casa di Lucrezia a Roma, dove troviamo la moglie di Collatino con le due donne che vivono con lei, che ricevono in piena notte l’inaspettata visita del principe etrusco. Nel secondo atto, dopo l’introduzione, siamo dapprima nella camera da letto di Lucrezia, che è la scena dello stupro; segue l’interludio in cui i cori piangono la sorte della donna; e infine restiamo nella stessa casa di Lucrezia, che sarà teatro del tragico epilogo con il suicidio della donna.  

La presenza dei Cori (in realtà solo due voci: un tenore e un soprano) serve a raccontare antefatti storico-antropologici (lo scenario dell’azione piuttosto che le origini della fallace fortuna etrusca) e anche a spiegare ciò che si vede in scena, sostituendosi o sovrapponendosi alle voci dei protagonisti. Ma soprattutto si incarica di trarre dalle vicende una morale cristiana: sì, poiché il coro vive di fatto in mezzo a noi, millenni dopo quel 509 a.C. in cui si svolsero i fatti, e li racconta leggendoli su libri di storia (come il citato Ab Urbe condita) commentandoli però alla luce del messaggio cristiano. Il che ha attirato sull’opera e su Britten qualche critica magari non proprio ingiustificata.

Quanto ai personaggi, sono tre maschi ed altrettante femmine: Tarquinio Sestio, figlio del re il Superbo, Lucio Giunio Bruto (che spodesterà i re etruschi - facendo sollevare contro di loro i romani, proprio a seguito dello stupro - per fondare la Repubblica) e Lucio Tarquinio Collatino, sposo di Lucrezia; la quale Lucrezia è affiancata dalla nutrice Bianca e dall’ancella Lucia.

La figura del cattivone Tarquinio emerge dal libretto e dalla musica assai meno categoricamente collocata nel regno del male di quanto non sia nelle fonti storiche, ed anche in Shakespeare. Lì l’etrusco arriva al livello massimo di abiezione, allorquando ricatta Lucrezia minacciando di ucciderla, dopo lo stupro, e di uccidere quindi un suo servo gettandone poi il cadavere nudo sopra di lei per rovinarle, anche da morta, la reputazione, e salvando la propria presentandosi come il giustiziere di una fedifraga e del suo abietto stallone.

Questo particolare invero disgustoso non è per nulla ripreso nel libretto, dove invece il principe sembra quasi genuinamente apprezzare e lodare le virtù di Lucrezia, allorquando cade nella trappola tesagli da Giunio – geloso non tanto della donna ma di Collatino, che dall’onestà della moglie poteva trarre vantaggi politici su di lui – che ne stuzzica l’orgoglio sostenendo che quella donna è casta solo perché nessuno attenta alla sua virtù. Ben sa, Giunio, che le lodi di Tarquinio a Lucrezia nascondono il suo inconscio desiderio di possedere – finalmente, dopo una moltitudine di puttane, professioniste o dilettanti! – una donna vera, sana, forte, oltre che avvenente, che vive ispirandosi a - e praticando - princìpi di onestà e fedeltà… insomma, un essere quasi introvabile in quel mondo piuttosto depravato, e quindi preda massimamente appetibile.

Ma anche quando Tarquinio penetra nella stanza da letto di Lucrezia e la sveglia con un bacio, cerca dapprima di conquistarla con le antiche e in fin dei conti naturali e persino legittime armi della seduzione, blandendo la donna con frasi poetiche ed ammalianti,  che farebbero cascare qualunque altra ai suoi piedi.

È certo il suo smisurato ego che lo spinge ad immaginare di poter raggiungere l’obiettivo in forza delle sue virili qualità positive, e non in forza della… forza. Ma poi, di fronte alla fermezza e alle resistenze di Lucrezia, nel suo animo di superbo subentra l’inevitabile senso di frustrazione da fallimento e da respingimento, e lo stupro è l’atto estremo e disperato che rimane da compiere ad un uomo irreparabilmente sconfitto, umiliato e distrutto precisamente sul terreno dell’orgoglio e dell’amor proprio.

Qui in Duncan-Britten i cori commentano la scena dello stupro con cristiana compassione, invocando la Vergine perché aiuti l’umanità a ritrovare Dio, anzi le tre distinte persone della Trinità. Ma insuperabile, nel suo lucido, laico e crudo realismo, è il commento di Shakespeare, che coglie in pieno il tragico senso dell’odioso atto, un atto che umilia la vittima e, letteralmente, impoverisce il carnefice:

But she hath lost a dearer thing than life,
And he hath won what he would lose again:
This forced league doth force a further strife;
This momentary joy breeds months of pain;
This hot desire converts to cold disdain:
Pure Chastity is rifled of her store,
And Lust, the thief, far poorer than before.

Quanto a Giunio (che Duncan-Britten accreditano come romano doc, mentre era in realtà etrusco, nipote del Superbo…) qui ci appare come un cinico e ambiguo arrampicatore: geloso di Collatino (per via di Lucrezia) ordisce una trama che gli farà prendere due piccioni con una fava: creare difficoltà per il rivale (mettendone in cattiva luce la moglie) e contemporaneamente avere il pretesto (lo stupro da parte di Tarquinio) per guidare Roma alla sollevazione contro l’etrusco e divenire di tale sollevazione il principale beneficiario.

Il povero Collatino è quello che ci fa la figura più grama, come capita a tutte le persone normali, oneste e con la testa sulle spalle: perchè verrà alla fine tradito persino dalla sua stessa moglie che, pur di attestare pubblicamente e orgogliosamente la sua rettitudine, si toglierà la vita, lasciando lui, che l’aveva già magnanimamente compresa e assolta da ogni colpa, in brache di tela.  
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Della musica si può dire che – se non proprio un capolavoro – è comunque di altissimo pregio e profondità. A partire dal motto di sei pesanti accordi – di durata decrescente - di tutta l’orchestra, che aprono l’opera, sulla triade di DO minore, ma che sono resi atrocemente dissonanti dal REb che si aggiunge in viola, violini, arpa e oboe:


È proprio l’annuncio di una tragedia, e questo motto si ripete, diversamente armonizzato, per altre cinque volte nel corso dell’introduzione, ad intercalare i racconti dei cori, che ci informano della situazione politica di Roma, passata sotto il potere etrusco con Tarquinio il Superbo. Particolarmente cruda la quarta apparizione, caratterizzata dalla presenza di un tritono (DO-SOLb) sul racconto delle malefatte dell’etrusco ai danni della famiglia di Re Servio, di cui Tarquinio sposò due figlie, ammazzando la prima e facendo della seconda la sua complice nel regicidio, che portò all’instaurazione del suo governo del terrore. La quinta apparizione (sul LAb) introduce la chiosa filosofica del coro femminile: È un assioma tra i re usare una minaccia straniera per nascondere il male interno (allude alle guerre inventate da Tarquinio per consolidare il suo potere… nulla di nuovo sotto il sole!)

Altro tema ricorrente è quello esposto nell’introduzione del primo atto, in un Solenne DO maggiore (con venature di minore) da entrambi i cori che ci giustificano la loro presenza: Mentre noi staremo qui come due osservatori tra quella scena e il pubblico presente, guarderemo queste umane passioni e questi anni con occhi che un tempo hanno pianto con le lacrime di Cristo.


Queste stesse identiche parole le riascolteremo nell’introduzione del secondo atto, cantate sulle stesse note, semplicemente trasposte in LA maggiore. Note che ritorneranno proprio all’epilogo, e nuovamente in DO, allorquando i due cori si congederanno così: Da quando Tempo e Vita hanno avuto inizio, il grande amore è sempre stato profanato dal fato o dall’uomo. Ora, con parole stanche e con queste scarne note tentiamo di decorare di canto la tragedia umana.

Meticolosa la cura di Britten nell’evocare suoni di natura: l’arpa che simula i grilli, il contrabbasso a imitare i rospi, nell’afa serotina che opprime l’accampamento romano.

Peculiare il breve motivo con cui viene inizialmente dipinta Lucrezia. È Tarquinio ad esporlo, mostrando un interesse sospetto per la virtuosa moglie di Collatino, allorquando raccoglie l’invito di quest’ultimo a brindare per chiudere il battibecco sorto fra i tre generali riguardo la fedeltà delle donne (la sera precedente alcuni di loro avevano fatto una visita a Roma per sincerarsi del comportamento delle mogli, con risultati invero sconfortanti, Lucrezia esclusa):


La melodia ondeggiante (una specie di gruppetto dilatato) esprime efficacemente la nobiltà e la bellezza austera della figura della donna casta e fedele, ma anche il brivido di concupiscenza che ha invaso l’animo dell’etrusco! 

E qui nasce un motivo che ricorrerà precisamente altre tre volte nell’opera, il cui incipit è inconfondibile: FA-SOLb/RE-SI). Lo si ode ora nel canto del coro maschile, che sottolinea come la gelosia si stia impadronendo dell’anima di Giunio: Oh, my God, with what agility does jealousy jump into a small heart and fit till it fills it, then breaks that heart (Oh mio Dio, con quale agilità la gelosia si tuffa in un piccolo cuore e lo pervade e lo riempie fino a spezzarlo). Qui il motivo, contrappuntato dall’arpa che storpia il tema di Lucrezia, è seguito dall’imprecazione di Giunio sul nome e sul tema della donna. 

Analoga sequenza troviamo verso la fine dell’Interludio del primo atto (un brano davvero straordinario, che accompagna la corsa sfrenata di Tarquinio verso Roma) al momento in cui il principe etrusco, che sta galoppando a briglia sciolta, si trova la strada sbarrata dal Tevere e decide finalmente di guadarlo: Now stallion and rider wake the sleep of water disturbing its cool dream with hot flank and shoulder. Tarquinius knows no fear! He is across! He’s heading here! (Il principe arde di desiderio e quindi osa! Ora stallone e cavaliere destano le acque dormienti, disturbandone i freddi sogni con i fianchi e le spalle palpitanti. Tarquinio non conosce la paura! Ha attraversato il fiume! Si sta dirigendo qui!) È quello stesso motivo che si ripresenta, sovrapponendosi allo sciacquìo dei flutti attraverso i quali cavallo e cavaliere si slanciano, che invece è evocato dal tema di Lucrezia, che ribolle in tutta l’orchestra, prima che il coro maschile invochi drammaticamente il nome della donna:


Tanto agitata e a volte scomposta era la musica nel campo romano, quanto è serena e quasi eterea quella che si ode in casa di Lucrezia, come nell’introduzione della seconda scena, atto primo, affidata all’arpa:


E tale rimane per la prima parte della scena, eccezion fatta per una comprensibile agitazione che subentra allorquando Lucrezia crede di sentire un rumore alla porta… Mirabile il momento della piegatura delle lenzuola, con la voce del coro femminile che la descrive mentre Bianca e Lucia cantano dolci frasi musicali sull’unica sillaba Ah! Infine torna un’atmosfera agitata quando i cori annunciano l’approssimarsi di Tarquinio (il cui passaggio attraverso la città è accompagnato da mute di cani abbaianti e fa svegliare anzitempo i galli!)

L’arrivo di Tarquinio crea peraltro in casa di Lucrezia un disagio solo momentaneo, presto dissipato dall’atteggiamento (apparentemente) innocente del principe che riceve (e restituisce) la buonanotte dalle donne (su una cullante melodia) e poi ne porge una speciale a Lucrezia, sussurrandone il nome sul suo inconfondibile tema:


Anche l’introduzione al second’atto è una specie di lezione di storia, che ci ragguaglia su ragioni e circostanze antropologiche e politiche che portarono gli etruschi a conquistare Roma. Violoncello e clarinetto basso espongono subito un tema cupo, ripreso poi e sviluppato da tutti gli strumenti e seguito da un martellante motivo caratterizzato da una terzina seguita da un inciso giambico.

Il primo tema comparirà poco dopo – sulle parole Now the she-wolf sleeps at night (Ora la lupa dorme di notte) - in bocca a Collatino, Giunio e alle due donne di casa:


Il motivo martellante invece supporterà la parola d’ordine Down with the Etruscans! (Abbasso gli Etruschi!) con cui i romani auspicheranno la fine del potere etrusco su Roma e il ritorno del governo della città ai suoi legittimi abitanti, cosa che avverrà precisamente poco dopo i fatti qui narrati e proprio ad opera dei due generali romani protagonisti del dramma:


La scena dello stupro è introdotta da una cullante melodia (Allegretto comodo, 3/4) che sottolinea il sonno sereno di Lucrezia, descrittoci dal coro femminile, e poi da un brano più mosso e misterioso, dove il coro maschile segue i passi furtivi di Tarquinio che si avvicina alla camera da letto della sua preda, concludendo il suo racconto con un accorato quanto inascoltato Back, Tarquinius! (Indietro, Tarquinio!)

Il quale Tarquinio ora è ai piedi del letto di Lucrezia e lì rimane per un po’, colpito dalla sua innocente bellezza e canta, in un celestiale MI maggiore, tutta la sua stupefatta ammirazione per la donna:


Mirabile l’intervento del coro femminile, che invita Lucrezia a continuare a dormire, mentre l’etrusco si prepara a svegliarla con un bacio. Bacio che lei contraccambia, convinta com’è, nel sonno, di essere fra le braccia del suo Collatino…

Qui subentra, al risveglio della donna, la scena (Allegro agitato) che si concluderà con lo stupro. Essa raggiunge un climax sulle parole di Tarquinio che paragona la furia del proprio sangue ad una piena del Tevere, che ribolle nelle quartine di semicrome degli archi. Al che Lucrezia domanda, enfaticamente: Is this the Prince of Rome?  Al che Tarquinio risponde: Io … sono il tuo Principe!


Tarquinio afferra Lucrezia fra le sue braccia e i cori si intromettono, cercando disperatamente di dissuaderlo dal suo proposito, ma l’inevitabile sta ormai arrivando, quando l’etrusco strappa le lenzuola dal letto e minaccia Lucrezia con la spada. Qui abbiamo una mirabile sospensione dell’azione, realizzata nientemeno che con un coro a cappella, dove Tarquinio, Lucrezia e i due cori sembrano accettare, estasiati quanto impotenti, l’ineluttabile epilogo che sta ormai per compiersi: Guardate come il centauro rampante ascende al cielo e serve il sole con tutto il suo seme di stelle. Ora il grande fiume sotterraneo scorre attraverso Lucrezia e Tarquinio ne è sommerso. 

Il motivo che lo sostiene è la terza apparizione di quello udito già due volte nel primo atto (FA-FA#/RE-SI):


L’Interludio che segue è macroscopicamente suddiviso in due parti: dapprima l’agitatissima evocazione dello stupro (La virtù assalita dal peccato…)  e poi la pietosa (e già ricordata) invocazione dei cori alla misericordia cristiana.

Nella prima parte della seconda scena (il mattino su Roma) incontriamo eteree atmosfere musicali (che Britten aveva già introdotto nel Peter Grimes) che contrastano fortemente con quelle della scena precedente e dell’interludio: il lungo duetto fra Bianca e Lucia, rallegrato ulteriormente dall’arrivo dei fiori in gran quantità, rappresenta uno squarcio di serenità e quasi di beatitudine - portate dalla Natura – che presto lascerà il posto nuovamente allo sconforto e all’agitazione, al momento dell’arrivo di Lucrezia, uscita dalla sua camera.

La quale, dopo aver ordinato di spedire un messaggero a richiamare a casa il marito, esplode in un violento monologo, che culmina nella disperata esternazione incentrata sul proprio nome, cantato precisamente sul motivo esposto nel primo atto dal suo stupratore (qui un semitono più alto):


Ecco poi il lungo lamento della donna, che contempla con amarezza i fiori (solo loro sono casti…) prima di tornare nelle sue stanze.

Dopo l’intermezzo dedicato ai ricordi che Bianca esterna dei tempi della fanciullezza di Lucrezia si arriva alla scena finale del dramma, con il ritorno a casa di Collatino, accompagnato da Giunio, che aveva sospettato tutto fin dalla sera precedente. Efficacissimo il Poco adagio e dolente che sostiene l’amaro incontro dei due sposi, tutto pervaso dal suono mesto del corno inglese, una parte che non sfigura rispetto a quella del Tristan.

Ora abbiamo la confessione di Lucrezia (sì, confessione, perché lei si sente in qualche modo colpevole…) in un’atmosfera greve, illuminata dalla quarta ed ultima apparizione di quel motivo (FA-SOLb/RE-SI) già udito in precedenza, sulle parole Oh, my love, our love was too rare for life to tolerate or fate forbear from soiling. For me this shame, for you this sorrow (Oh, amore mio, il nostro amore era troppo prezioso perché la vita lo tollerasse o il fato gli impedisse di insozzarsi. A me questa vergogna, a te questo dolore).

Dopo il magnanimo perdono di Collatino (propenso a riconoscere alla moglie tutte le attenuanti) ecco il  momento drammatico del suicidio della donna, che pronuncia, dopo essersi piantata un pugnale in petto, le parole della sua liberazione: Ora sarò casta per sempre: solo la morte potrà stuprarmi. Guarda come il mio sangue lascivo lava via la mia vergogna!

L’orchestra ne sottolinea così gli ultimi rantoli:



Ora le voci di Collatino e Giunio cantano insieme, ma concetti diversi: il marito piange la sposa perduta, l’altro generale comincia subito ad approfittare delle circostanze, aizzando i romani contro gli stupratori etruschi.

Si aggiungono poi le voci delle due donne e infine quelle dei cori, a formare un sestetto che piange sulle pene e il dolore che gli uomini si danno per inseguire chimere.

Alla fine sono i cori che traggono la morale cristiana, prima del loro definitivo commiato dal pubblico.  
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Lo spettacolo di ieri sera - in un teatro con molti, davvero troppi posti vuoti – si merita un incondizionato elogio. Praticamente perfetto in tutte le sue componenti, a cominciare dall’allestimento di Abbado, dove l’austerità di scene e costumi si coniuga perfettamente con il sapiente impiego di luci (tutto di Gianni Carluccio) e con le immagini di Luca Scarzella.

I due cori interagiscono anche fisicamente con l’azione, e ciò è fatto sempre in modo appropriato e nel pieno rispetto del testo. I movimenti dei personaggi sono sempre misurati, proprio da tragedia greca, ed assecondano alla perfezione lo spirito, oltre che la lettera, della partitura.

Le otto voci sono tutte da lodare, a partire dalla Lucretia di Kirstin Chavez, vero contralto di grande potenza ed espressività; per continuare con Gordon Gietz che ha cantato assai efficacemente la parte del Coro maschile. Un filino debole, a tratti, la voce di Susannah Glanville (Coro femminile); bravissime le due donne di casa, in particolare Gabriella Sborgi (Bianca) mentre Laura Catrani (Lucia) ha forse ecceduto in qualche forzatura, sulle note alte. Anche i tre maschi mi son parsi all’altezza, in particolare il Tarquinius di Jacques Imbrailo; ma Joshua Bloom (Collatinus) e Philip Smith (Junius) non hanno affatto demeritato.

Gli strumentisti (in pratica le prime parti, guidate da Yehezkel Yerushalmi) del Maggio (erano 13 anziché 12, avendo separato, e posto ai due estremi della buca, la parte dei timpani dal resto delle percussioni) hanno confermato il loro altissimo livello, dovendo in pratica suonare tutte parti solistiche.      

Jonathan Webb (che ha anche accompagnato al pianoforte i recitativi) ha diretto da par suo e con grande sensibilità questa difficile partitura, di cui ha saputo rendere con precisione e cura ogni singolo dettaglio.

Alla fine grandi manifestazioni di consenso da parte del pur ristretto pubblico (pochi ma buoni, vien da dire…). Personalmente consiglio gli appassionati di approfittare della recita di domenica 7 a Reggio e di quelle prossime a Firenze per godersi uno spettacolo davvero eccellente.