XIV

da prevosto a leone

12 marzo, 2013

Noseda porta in Scala le due anime di Rachmaninov


Evidentemente per non dimenticare quella lingua (da lui appresa durante gli anni di gavetta c/o Gergiev) il mio concittadino Gianandrea Noseda ha scelto un programma tutto russo per il suo ritorno in Scala.

È un russo non… sovietico, trattandosi del traditore (smile!) Rachmaninov, di cui si eseguono il concerto più famoso e la sinfonia più sfigata. Per la verità il programma è un pochino diverso e più scarno di quello che il sito-web del Direttore presenta ancor oggi (con L’isola dei morti e il quarto, anziché secondo, concerto).

Meglio… informata è la pianista medesima, che è la 26enne Kathia Buniatishvili (la desinenza del suo cognome basta ed avanza per identificarla come conterranea di tale… Stalin!) che si cimenta con uno dei concerti - il secondo - più eseguiti (non necessariamente più nobili) del repertorio pianistico.

Ma per inquadrare il Rachmaninov che Noseda ci propone sarà però opportuno invertire la sequenza della locandina, e partire dalle vicende che accompagnarono la malnata Prima sinfonia. Scopriremo come le due opere eseguite oggi stiano su due opposti versanti della produzione del russo, il cui indirizzo estetico mutò drasticamente nei tre anni che le separano.  

La sinfonia, composizione di un Rachmaninov 22enne (siamo ancora nell’ottocento, pur se verso la fine) subì un fiasco totale alla prima esecuzione del 1897 a Leningrado (era il 15 marzo, mai sfidare le idi… d’altronde lui era nato al pesce d’aprile). Disastro probabilmente dovuto a tutt’altro tipo di fiasco, quello di vodka che il direttore Glazunov aveva ingurgitato prima di salire sul podio (smile! però ad altri direttori, tipo Barbirolli, pare che una buona dose d’alcol in corpo facesse effetti musicalmente strabilianti…)

Tutto ciò fu causa di una tremenda frustrazione e depressione, che portò Rachmaninov praticamente sull’orlo della pazzia, dalla quale depressione fu guarito grazie ad una robusta cura a base di ipnosi praticatagli da uno psichiatra russo specializzatosi a Parigi (tale Nikolai Dahl) cui il compositore dedicò per riconoscenza proprio il concerto – la sua prima opera post-choc - che ha aperto qui la serata.

E così la sinfonia venne del tutto abbandonata da Rachmaninov, che se ne disinteressò per il resto della sua vita, al punto tale da lasciarla in un cassetto a Mosca, al momento di emigrare in occidente, e mandarne così perduta la partitura. Solo a metà del secolo scorso (1945, due anni dopo la morte del compositore in California) questa fu ricostruita dalle singole parti strumentali ritrovate al Conservatorio di Leningrado, ed eseguita a Mosca dove, cosa apparentemente inconcepibile in un mondo staliniano che opprimeva e umiliava i patrioti Prokofiev e Shostakovich, ottenne un successo strepitoso!

A me la vendetta, sono io che ricambierò (Paolo, Lettera ai Romani): profetiche parole vergate da Rachmaninov in calce alla partitura! Ma che forse erano dirette più prosaicamente a tale Anna Lodyzhenskya, la dedicataria della sinfonia, una bella gitana moglie di un suo amico, colpevole di non avergliela data (!?)

Tanto per inquadrare l’opera nel contesto storico, essa è più o meno coeva delle prime sinfonie di Mahler e dei poemi sinfonici di Strauss; è di poco più giovane della Patetica e della sinfonia Dal nuovo mondo. Personalmente la trovo piuttosto velleitaria, ma per nulla affettata e dolciastra come molte delle composizioni successive di Rachmaninov, che fra l’altro le sono debitrici di varie idee musicali. È invece un’opera interessante, assolutamente innovativa, per non dire di più, rispetto al pur adorato Ciajkovski; ostica da digerire anche per noi che abbiamo le orecchie allenate ed assuefatte al noise del novecento, e quindi figuriamoci per gente di più di un secolo fa.

E proprio in queste sue positive qualità sta l’aspetto più singolare e inquietante di tutta la vicenda legata al suo originario fallimento: l’aver convinto (o magari spinto a livello inconscio) Rachmaninov ad abbandonare – ahilui e ahinoi - la strada dell’innovazione per rifluire istintivamente (o furbescamente?) nella bambagia di un’anacronistica tradizione tardo-ciajkovskiana (che anni dopo in USA gli consentirà di fare palate di proseliti e soprattutto di… dollari!) Più o meno il contrario di ciò che succederà sul piano artistico (non certo economico!) ad un altro fuoruscito dalla Russia, Igor Stravinski, anche lui svezzatosi alla mammella di Ciajkovski, ma poi trasformatosi in un radicale (a suo modo) innovatore.
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Tutti i quattro movimenti della sinfonia sono introdotti da una cellula motivica (un veloce gruppetto) che vi ricompare qua e là e che si incaricherà anche di chiuderla:

Invece il motivo ispiratore della sinfonia, dove viene impiegato in modo abbastanza intelligente, è il Dies Irae, che diventerà purtroppo negli anni successivi una insopportabile manìa del compositore. Lo intravediamo già nell’introduzione (Grave) di 7 battute, dove il RE (tonalità d’impianto, in minore) in realtà si muove come dominante di SOL minore: l’introduzione si chiude infatti con un accordo di SOL, addirittura maggiore, che degrada subito a minore, anticipando chiaramente il motto della sesta mahleriana (!) Già questa apparentemente gratuita trovata testimonia di un approccio originale e innovativo nei confronti di una forma che con Brahms pareva aver esaurito tutte le sue potenzialità.

La discesa da SI a SIb (che ha determinato la virata da maggiore a minore) continua nei fiati fino al LA, dominante del RE minore sul quale viene esposto dal clarinetto il primo tema (Allegro ma non troppo) la cui derivazione dal canto gregoriano è palese, quanto la rassomiglianza con il motivo dell’Allegro vivace del finale della quinta di Ciajkovski:


Segue un controsoggetto in SIb, esposto da viole, celli e bassi:

Poi il tema principale riprende con gran vigore e crescendo, per acquetarsi in prossimità dell’entrata del secondo tema (siamo ovviamente nel regno della forma-sonata) Moderato, in SOL minore e SIb maggiore, esposto inizialmente dai violini:


Un tema dal sapore gitano (come la dedicataria dell’opera…) che sfocia in un controsoggetto lamentoso, in 7/4 negli oboi, prima di una enfatica e pesante reiterazione del secondo tema, in SIb maggiore, che chiude l’esposizione.

Lo sviluppo è aperto da una velocissima quartina di biscrome che riporta l’atmosfera un semitono sotto, sul LA, dominante del RE minore in cui viene ripresentato il primo tema, in Allegro vivace e in un interessante contrappunto, prima nei soli archi, poi arricchito dai fiati. Il secondo tema si fa udire, piuttosto storpiato, negli strumentini, modulando sul MI minore, dove si adagia momentaneamente anche il primo tema. Il quale viene ancora poderosamente sviluppato, fino a rimodulare a RE minore in vista della ricapitolazione.  

La quale canonicamente ripropone il primo tema nella tonalità d’impianto, poi il controsoggetto in SIb e poi ancora il secondo tema e relativo controsoggetto portati nella tonalità del primo (RE). Una transizione porta poi alla Coda, improntata al primo tema, che ora scopertamente presenta la sua origine chiesastica.

Pur con qualche aspetto di immaturità e acerbezza, si tratta di un movimento assai bene strutturato, che coniuga lodevolmente il rispetto delle regole classiche con il tentativo di innovarle dall’interno.

Segue l’Allegro animato, con funzione di Scherzo. Già le primissime battute ci riportano i due chiodi fissi della sinfonia: la cellula iniziale e il Dies Irae, qui esposto inizialmente in FA maggiore, per terze, dai primi violini:

I fagotti rispondono con un motivo sincopato discendente, contrappuntato da un richiamo dei corni:

Questi motivi sostengono l’intero movimento, il primo comparendo in tonalità diverse e spesso in inversione, l’altro manifestandosi qua e là in archi e strumentini. Veloci terzine fanno da sottofondo agitando l’atmosfera, e sottolineando folate ascendenti negli archi, dove il Dies Irae compie anche diverse spettrali irruzioni.

Una sezione centrale, una specie di abbozzo di trio, è affidata a due violini soli, che intonano, sulla struttura della cellula iniziale, una melodia di sapore prettamente gitano. Riprende lo Scherzo in tutto il suo vigore, ma sempre caratterizzato dalla leggerezza delle terzine di archi e strumentini.

Per finire i violini presentano il Dies Irae, ora in chiaro (RE minore) seguito dalla cellula iniziale, prima delle 6 battute conclusive, siglate dal clarinetto sul REb (sesta minore, perdendosi) che sfocia nel DO, dominante del FA maggiore con cui gli archi in pizzicato pppp chiudono il movimento. Che va lodato per la mirabile capacità che Rachmaninov mostra a livello di intelligente manipolazione dei semplici motivi di base.

Ecco poi il delicatissimo Larghetto, immancabilmente aperto dalla cellula iniziale che introduce – qui assai languidamente - il dolce tema in SIb esposto dal clarinetto:

Tema che si sviluppa subito in una lunga melodia, che verrà poi ripresa e variata anche da oboe, flauto e archi, che le imprimono anche inflessioni gitane.

Una sezione centrale, sostenuta da cupi accordi sincopati dei corni, con successivi pesanti interventi di tromboni e tuba e dall’agitarsi degli archi, porta un’improvvisa oscurità, che però si dirada presto per far posto al sereno, col ritorno del tema principale nei due violini e violoncelli solisti; tema che riprende la sua ampia dimensione - contrappuntato nei corni da un austero motivo che richiama con discrezione il solito Dies Irae - prima di sfumare in una cadenza in SIb maggiore, per terze, dei clarinetti, sul pizzicato degli archi.

Il finale è un classico Allegro con fuoco. La struttura è riconducibile ad un’introduzione, all’esposizione di un gruppo di due temi in RE (maggiore e minore) e di un secondo gruppo di due temi in LA maggiore; segue una sezione centrale (DO#) prima della ricapitolazione, dove torna il secondo dei temi del primo gruppo e il secondo gruppo di temi. Chiude il tutto una lenta transizione all’enfatica coda.

È sempre la cellula iniziale ad aprire il movimento introducendo, dopo tre schianti dell’orchestra, una fanfara delle trombe ritmata dal tamburino, trombe che arpeggiano per terze sulla triade di RE maggiore. Archi e legni espongono in questa tonalità un primo tema, di vaga rassomiglianza ciajkovskiana, ancora una volta derivato dal Dies Irae, tutto scandito da crome alternate a pause, con andamento irregolarmente sincopato, mentre i fiati e il tamburino continuano a scandirne il ritmo marziale:

Chiusa l’esposizione del tema, torna la cellula iniziale, che introduce un nuovo soggetto, negli archi con i corni a interloquire con le prime tre note del Dies Irae; si oscilla fra maggiore e minore, finchè un crescendo dei legni non porta alla plateale esposizione del Dies Irae da parte del contrabbasso-tuba:

Ora i violini presentano un secondo tema (Con anima) canonicamente sulla dominante LA maggiore; un’atmosfera che tornerà nel finale della seconda sinfonia, una lunga melodia dal sapore zingaresco:

La contrappuntano poi i corni, con portamento invero maestoso, prima che un nuovo soggetto, ancora mutuato dal Dies Irae (in tempo Più vivo) faccia la sua comparsa negli archi e si sviluppi in modo concitato ed enfatico - in cui si riconosce nelle trombe un inciso (terza minore discendente-ascendente) che troveremo nella Coda - fino a chiudere la sezione con poderosi accordi di LA maggiore dell’intera orchestra.

Gli archi bassi tengono quel LA per altre tre battute, dopodichè (in 3/4) inizia un lungo Allegro mosso (che poi diviene Più vivo) in tonalità DO# minore-maggiore. Ne è protagonista inizialmente l’oboe, poi è tutta l’orchestra a svilupparlo con inflessioni zingaresche e atmosfere un po’ decadenti, che richiamano certo Ciajkovski sdolcinato. Questa è forse la parte meno robusta della sinfonia, almeno a mio parere.

L’Allegro con fuoco riprende ora il sopravvento per la ripresa dei temi principali: si parte dall’introduzione, ora assai ampliata, poi è il secondo motivo del primo gruppo di temi a fare capolino, virando temporaneamente dal RE al SOL, su cui riudiamo nella tuba il Dies Irae; segue il secondo gruppo di temi, trasposto in RE (in piena obbedienza alle classiche regole) col Dies Irae che imperversa, fino alla chiusura su un terrificante accordo di RE minore seguito da un perentorio colpo di tam-tam.

Ora subentra un ampio Largo, che riprende invariabilmente il motivo del Dies Irae (qui in SI minore) e lo sviluppa in modo enfatico, con salite e successive discese cromatiche (a mo’ del wagneriano tema del Sonno) e prepara l’arrivo della coda (Con moto).

Essa è occupata da ben nove reiterazioni, in tutti gli archi e con enfasi incredibile, di un motivo costituito inizialmente da una terza minore discendente-ascendente (RE-SI-RE) già udita in precedenza, seguita dal gruppetto comparso fin dall’inizio della sinfonia. Alla quinta reiterazione l’intervallo discendente-ascendente diventa una terza maggiore (RE-SIb-RE) e il tam-tam fa sentire, per quattro volte, il suo metallico fracasso; alla sesta ripetizione (e poi per le restanti tre) l’intervallo è di quarta (RE-LA-RE, tonica-dominante-tonica). L’ultima reiterazione del motivo, invece del gruppetto, si limita ad esporre, in fff, due crome dell’accordo perfetto di RE maggiore, nell’intera orchestra.
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Ora, pur non risparmiando qualche critica agli aspetti meno convincenti della sinfonia, devo dire che la trovo personalmente rimarchevole, per essere praticamente la prima esperienza del genere di un giovane di 22 anni. Pur nel rispetto sostanziale dei canoni classici (struttura dell’opera e dei singoli movimenti) essa mostra grandi qualità innovative, che solo raramente sfociano in velleitarismo o presunzione.

Ed è un vero peccato che il clamoroso (e del tutto immeritato) insuccesso dell’opera abbia poi materialmente compromesso l’intera produzione successiva dell’autore che, viceversa, avrebbe verosimilmente potuto rivaleggiare, in quanto a progressismo, con i connazionali Prokofiev, Shostakovich e (sull’altro fronte) Stravinski.
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Noseda, che diresse tre anni orsono la prima esecuzione a Chicago della Sinfonia con la CSO e che ieri l’ha fatta risuonare per la prima volta dentro il Piermarini, ne ha interpretato lodevolmente lo spirito, mettendone in risalto le migliori qualità, caso mai eccedendo fin troppo nei contrasti e nei chiaroscuri.

Difficile immaginare perché – contrariamente alle indicazioni in partitura - nella sezione centrale del secondo movimento, abbia fatto suonare soltanto uno dei due primi violini, e analogamente, nella ripresa del terzo movimento, abbia fatto suonare solo un violino e un violoncello, invece di due coppie…

L’orchestra ha comunque risposto bene, in tutte le sezioni, mostrando un buon affiatamento col maestro: tutti accolti da calorosi applausi.
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Torniamo ora al Secondo concerto, che apriva la serata. Come detto, quest’opera, composta precisamente a cavallo del secolo, segnò la riscossa – fisica, morale e musicale (ma a modo suo piuttosto regressiva) – del compositore, dopo il penoso stato di depressione legato al flop della sua Prima Sinfonia.  

Qui purtroppo la fanno da padroni: un’ispirazione prosaica, zuccherosità e affettazione in quantità industriale, cedimenti continui al patetico, o al kitsch. Insomma: roba da romanzi di Harmony… E non sarà un caso se da subito e fino ai giorni nostri il concerto sia diventato oggetto di abbondanti saccheggi da parte di autori di colonne sonore di film, sigle di trasmissioni tv o canzonette.

La simpatica Kathia Buniatishvili ce la mette ovviamente tutta per valorizzare la mappazza, compreso qualche rubato (del suo amato Chopin) nel centrale Adagio sostenuto, ma ahilei aggiungere del cioccolato ad una melassa finisce per renderla ancor più indigeribile! E anche Noseda non va purtroppo indenne da colpe, per il volume esagerato con cui tiene l’orchestra, che spesso e volentieri riduce il pianoforte a strumento muto. Comunque gli applausi non mancano: voglio pensare indirizzati agli esecutori per la loro abnegazione, e non all’autore per la qualità della sua opera…  

Meno male che la bella Kathia (presentatasi con un lungo nero che le lasciava scoperto anche il fondo schiena, smile!) ci riconcilia con la musica… seria (ri-smile!) regalandoci una versione abarth della proibitiva trascrizione de La valse (qui un suo indimenticabile precursore).

08 marzo, 2013

Orchestraverdi – concerto n.25


Dopo la sterminata Terza di Mahler, un altro mastodontico corpus musicale ci viene proposto, come ormai da anni consuetudine, dalla stagione de laVerdi: quest’anno, dopo Xian (09-10 e 10-11) e Ceccato (11-12), è John Axelrod a cimentarsi con il Requiem verdiano, in un Auditorium ancora una volta piacevolmente gremito, a dispetto dell’uggiosità del tempo.

Da sempre ci si accapiglia fra due scuole di pensiero: chi lo cataloga come un melodramma, sacro ma pur sempre melodramma, e chi gli concede caratteristiche di musica religiosa, alla Palestrina o Cherubini o Mozart, o magari alla stregua dell’esempio brahmsiano. A proposito, proprio un entusiasta di Brahms, tale Hans von Bülow, ascoltò la prima della Messa in quel 22 maggio del 1874 e ne scrisse in termini non proprio elogiativi (rivedendo però poi in positivo la sua posizione) denunciandone qualche grettezza scolastica e qualche soluzione bruttina e di cattivo gusto… forse proprio per rimarcarne alcuni lati platealmente melodrammatici.

Oltretutto sappiamo come una pur breve sezione del Dies Irae (il celeberrimo Lacrymosa) altro non sia se non uno scarto (smile!) del primo Don Carlos (atto quarto, quadro secondo - qui VanDam, con Alagna, da 2’17”) che Verdi ripescò dal recycling-bin, riadattandone la melodia, scritta per i versi francesi, al latino della Messa:

Requiem
Lacrymosa dies illa
Qua resurget ex favilla
Judicando homo reus
Huic ergo parce deus.
Philippe
Oui, je l’aimais… sa noble parole
A l’âme révélait un monde nouveau!
Cet homme fier… ce coeur de flamme,
C’est moi qui l’ai jeté dans l’horreur du tombeau!

Nel suo esaustivo saggio sul Requiem, David Rosen ha compiutamente analizzato le (piccole, sottili, ma significative) differenze fra i due brani, legate non solo al contenuto del testo, ma anche all’accentazione delle parole, oltre che ad esigenze puramente estetiche. Una delle differenze principali consiste nella rimozione della rigida anacrusi – ripetuta per ben otto volte in otto battute! - che caratterizza la melodia di Filippo, in favore di una più libera cantabilità dei versi sacri. E anche l’armonizzazione subisce alcuni modesti ma significativi ritocchi:

Ecco, mi sembra che Axelrod appartenga decisamente alla prima delle due scuole di pensiero, almeno da come ha decisamente messo in risalto proprio i tratti marcatamente melodrammatici della partitura, a cominciare dalla scelta delle voci: Victoria Yastrebova, un soprano giovane ma che ha in repertorio Elsa, Desdemona e Tosca, e Khachatur Badalyan, una robusta voce da heldentenor.

Il cast è completato da Maria José Montiel (che aveva cantato anche nelle due edizioni dirette da Xian) e da Mirco Palazzi, che personalmente sono le voci che più ho apprezzato.

Il coro di Erina Gambarini ha fornito ancora una volta una prova egregia, così come l’orchestra, compattissima nei tumultuosi passaggi del Dies Irae dove Axelrod non ha risparmiato la minima enfasi, e capace però di emozionanti pianissimo nelle sezioni di più religioso raccoglimento (forse il morendo finale degli ottoni avrebbe dovuto essere più vicino al ppp prescritto…)

In complesso un’esecuzione più che apprezzabile, accolta da un autentico trionfo.
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John Axelrod resta sul podio anche per Il prossimo concerto dedicato a Brahms.

04 marzo, 2013

C’è del comico anche a Verona


Ieri pomeriggio a Verona, in un Filarmonico che purtroppo presentava parecchi vuoti, la prima di Un giorno di regno, che riprende una stagionata produzione del Regio di Parma e del Comunale di Bologna, già presentata anche al Piermarini dall’Accademia della Scala nel 2001, per la regìa di Pier Luigi Pizzi. E anche oggi gli interpreti sono giovani di quell’Accademia (o da essa transitati) diretti dall’ottimo Stefano Ranzani.

La seconda opera composta da Verdi (dopo Oberto e prima di Nabucco) è anche rimasta, fino a Falstaff, l’unica di genere leggero: quella di Felice Romani è una commedia degli equivoci, a partire dalla località dove ha luogo la vicenda, Brest, che può indifferentemente trovarsi in Francia o in Bielorussia (! una pacchia per registi in cerca di ri-ambientazioni originali) e dove troviamo un finto sovrano polacco, una bella ragazza che il padre nobilastro vuol sposare ad un vecchio riccastro mentre lei ama un giovane squattrinato, una vedova ancor giovane e piacente che si crede abbandonata dall’amante e poi scopre che è il finto sovrano… e un lieto fine dove due coppie si uniscono (o ri-uniscono) in nome dell’amore e dove i due vecchi babbioni attaccati solo all’interesse devono far buon viso a cattiva sorte.

Insomma, un libretto a prima vista alquanto strampalato, come mille altri che avevano spopolato fra il ‘700 e l’inizio ‘800 e dai quali avevano principalmente tratto vantaggio i vari Rossini e Donizetti. Peccato che nel 1840 tutto ciò fosse ormai passato in archivio: il pubblico chiedeva contenuti assai diversi, e se proprio voleva ancora divertirsi con qualcosa di giocoso preferiva di gran lunga le opere famose e consolidate di maestri ormai entrati nella storia a improbabili e nostalgiche (almeno così giudicate) scimmiottature.

Ma il povero Verdi, che pur si sentiva cordialmente estraneo a quel genere di opere, dovette suo malgrado chinare la testa davanti ad una specie di aut-aut della Scala, della serie: o mangi ‘sta minestra, o salti dalla finestra e qui non ci metti più piede. Per sopramercato, lui era ancora convalescente dallo choc per una incredibile catena di tragedie familiari e quindi si può immaginare in quale stato d’animo si mettesse a comporre questo Finto Stanislao.    

Ergo nessuna meraviglia se il 5 settembre del 1840 il pubblico della Scala decretò un clamoroso pollice verso che indusse il teatro a cancellare ogni recita successiva.   

Eppure… eppure, se analizziamo le cose con un minimo di serenità scopriamo che – lungi dall’essere un capolavoro, su questo non ci piove – si tratta di un’opera tutt’altro che da buttare, e guarda caso proprio a partire (sembrerebbe assurdo) dal libretto inattuale del Romani. Nel quale troviamo sì una trama assai ridicola e improbabile, ma anche un paio di caratterizzazioni di personaggi che sono tutt’altro che insulse e vanesie.

E sono propriamente i due protagonisti: lui, Belfiore, il finto Stanislao; e lei, la Marchesa del Poggio, sua amante. Due personaggi che si staccano decisamente dalla prosaica e meschina mediocrità dei due vecchi intrallazzatori (il Barone e il Tesoriere) intenti soltanto a perseguire i loro venali obiettivi, propri della nobiltà parassitaria e reazionaria.

Belfiore e la Marchesa evidentemente rappresentano forze emergenti dall’establishment incartapecorito della società del loro tempo: lui a prima vista parrebbe un tipo di avventuriero poco raccomandabile, ma poi si scopre che, oltre a godere della totale fiducia di un Re (di cui veste i panni non in quanto imbroglione e millantatore, ma nello svolgimento di una delicata missione politica) lui è anche un uomo sinceramente innamorato (il suo temporaneo abbandono della Marchesa, da lei vissuto come tradimento, ha appunto serissime motivazioni) e un liberale convinto; lei è una donna emancipata, assetata (ma non certo a tutti i costi) d’amore e pronta a contrastare le ammuffite convenzioni della società. Ecco: due individui con una visione progressista del mondo, prova ne sia che ciascuno per proprio conto e in modo diverso si adopera per promuovere l’unione dei due giovani innamorati (Giulietta ed Edoardo) contro la volontà della coppia reazionaria Barone-Tesoriere.

Anche la figura di Giulietta (una ragazza che ha il coraggio di contestare apertamente le stupide convenzioni della società, una specie di Rosina insomma) e la sana filosofia della gente comune (che non manca di irridere l’ipocrisia dei potenti) contribuiscono a dare al libretto uno spessore non proprio evanescente.     

Sul piano musicale, di certo siamo di fronte ad una anacronistica riproposizione di abusati stilemi rossiniani e donizettiani, ma attenzione: anacronistica per il pubblico di quei tempi, che viveva fenomeni di trasformazione della società assai tumultuosi e legittimamente pretendeva anche dal teatro d’opera italiano l’innovazione e il progresso che avanzava in Europa. Non per noi che osserviamo con 170 anni di prospettiva storica e abbiamo alle spalle una straordinaria evoluzione della civiltà musicale, il che da un lato rimpicciolisce le distanze fra quei tempi e quei fenomeni (fra Rossini e questo Verdi, per intenderci) e dall’altro ci consente di valutare il livello estetico ed artistico di un’opera come questa senza l’emotività e i condizionamenti di cui naturalmente soffrivano il pubblico e la critica di metà ‘800.    

Ecco perchè oggi possiamo serenamente constatare come il giovine ed ancora acerbo Verdi fosse riuscito – nelle condizioni ricordate e magari senza rendersene conto – a sfornare un oggetto tutt’altro che impresentabile. Soprattutto se viene oggi presentato con il raffinato e intelligente equilibrio dell’allestimento di Pizzi – ripreso da Paolo Panizza - e con la lodevole dedizione della compagnia di canto dei giovani perfezionandi dell’Accademia scaligera.      

Lo spettacolo di Pizzi-Panizza è invero godibilissimo, con la sua ambientazione nelle terre verdiane, fra abbondante gastronomia locale, prosciutti, forme di parmigiano, mortadelle e dolci assortiti in gran quantità, brumosi paesaggi padani e vaghi riferimenti di natura architettonica. Bellissimi poi i costumi di stile settecentesco, caratterizzati da sgargianti colori, sfarzosi senza però cadere nel ridicolo o nel pacchiano. E poi la simpatica trovata di aggiungere elementi coreografici, del tutto appropriati allo scenario, a partire dalla presentazione dei principali personaggi dell’opera durante l’esecuzione della Sinfonia.

Fra le voci si è distinto il protagonista, Filippo Polinelli, per ottima prestazione vocale e brillante presenza scenica; accanto a lui Teresa Romano, una discreta Marchesa, pur con qualche eccesso urlacchiante, che lei si è ampiamente fatta perdonare (smile!) con l’esibizione, gustosamente inventata da Pizzi, delle sue seducenti grazie, nella peraltro castissima scena della vasca da bagno.

Non fosse per il timbro di voce tendente al metallico, la carioca Ludmilla Bauerfeldt (Giulietta) si meriterebbe un voto più che discreto. Il suo giovane amante Edoardo, al secolo Jaeyoon Jung - che era scritturato per altre recite, ma ha sostituito all’ultimo momento l’indisposto Scotto di Luzio - non ha demeritato, anche se il suo registro grave, già dal SOL a centro rigo purtroppo risulta quasi inudibile.

Brillanti i due buffi: Filippo Fontana (Tesoriere) e soprattutto Simon Lim (il Barone). I comprimari Ian Shin e Carlos Cardoso hanno degnamente completato il cast.

Note di merito anche per signori e signore del coro di Armando Tasso e per il Corpo di ballo dell’Arena di Maria Grazia Garofoli.

Quanto a Ranzani, ai miei orecchi ha il merito di aver cavato il meglio sia dalla partitura, aggredita con deciso cipiglio e senza ipocritamente nasconderne anche gli aspetti più… acerbi, né smussarne le frequenti spigolosità, che dagli strumenti della ridotta ma agguerrita formazione veronese e dalle voci, da lui letteralmente calamitate e condotte per mano.

Calorosissimo e per me meritatissimo successo, con lunghe acclamazioni finali, seguite agli applausi a scena aperta che avevano accolto quasi tutti i numeri musicali. Insomma, complimenti alla Fondazione dell’Arena per questa proposta decisamente interessante e lodevolmente realizzata. 

01 marzo, 2013

Orchestraverdi – concerto n.24


Dopo più di due anni tornano a risuonare in Auditorium le poderose note mahleriane della Terza! E come allora è Zhang Xian a guidare i complessi strumentali e vocali de laVerdi in questo interminabile cammino in sei tappe che è un vero e proprio per aspera ad astra.

È curioso notare come in un’epoca (a cavallo fra ‘800 e ‘900) in cui il genere operistico subiva trasformazioni abbastanza radicali, una delle quali consisteva nell’infliggere decise sforbiciate ai tempi, rispetto al passato (raramente si superavano le 2 ore e spesso si andava anche al di sotto dei 90 minuti) Mahler – sulla scia di Bruckner - portasse invece la Sinfonia ad assumere strutture ipertrofiche mai viste prima (salvo rarissime eccezioni). Prima di Mahler (ma sempre escludendo Bruckner) si può dire che solo la Nona di Beethoven, la Grande di Schubert, la Fantastique di Berlioz (ma solo se eseguite con tutti i da-capo) e la Lobgesang di Mendelssohn (peraltro più assimilabile ad un Oratorio) avevano avvicinato o di pochissimo superato l’ora di durata; da Beethoven (non parliamo di Mozart e Haydn) e su su fino a Schumann, Mendelssohn, Brahms, Dvorak, Ciajkovski (ma aggiungiamoci pure i sinfonisti minori Franck, Saint-Saens, Balakirev, Glazunov, ...) le opere sinfoniche erano di norma contenute in tempi oscillanti fra i 30 e i 45 minuti.

Ecco, Mahler portò pressochè ad un raddoppio degli standard di durata, spostando quasi stabilmente le dimensioni delle sue sinfonie oltre i 60 minuti (solo la prima, senza Blumine, e la quarta sono di poco al di sotto) e raggiungendo anche (proprio nella Terza) durate paragonabili a quelle delle opere liriche composte in quel periodo (comprese le straussiane Salome ed Elektra). 

Non a caso si dice quindi che Mahler abbia portato l‘opera nella sinfonia (per speculare analogia al Wagner che veniva accusato di aver portato la sinfonia nell’opera…) A differenza di Bruckner, per il quale le dimensioni temporali delle sinfonie sono legate ad un allargamento smisurato delle forme classiche, di cui rispettano però sostanzialmente i caratteri, a partire dalla concisione e dall’astrattezza dei temi esposti, Mahler sembra aver bisogno di spazio e tempo per sviluppare invece i suoi ponderosi programmi interni (talvolta resi manifesti attraverso discutibili - e di norma poi ritrattati - riferimenti extra-musicali) e per soddisfare un impellente impulso ad esprimere sensazioni (chiare e precise, ma più spesso oscure – come il compositore stesso ammetteva).     

Ora, la lunghezza è solo uno dei difetti che molti musicologi (uno per tutti: Teodoro Celli) e parecchi Direttori (vedi Toscanini o il recentemente scomparso Sawallisch, che mai si decisero ad eseguirle) imputarono e imputano alle sinfonie di Mahler. Ai denigratori del suo livello artistico-estetico non par vero poi citare a suo carico un sacco di prove, consistenti nella montagna di reminiscenze, citazioni, auto-citazioni e scimmiottamenti di musiche altrui (e spesso proprio… dozzinali) che il boemo era solito infilare nei suoi lavori: musica che gli restava nelle orecchie e nella testa della tanta, tantissima, che lui dirigeva o ascoltava ogni giorno e che poi, poco o tanto, finiva sui righi delle sue sterminate partiture. Insomma: Kapellmeister-musik, null’altro.  

E la Terza è letteralmente disseminata di tali prove, proprio a partire dal tema esposto dagli otto corni in unisono al principio dell’opera, tema che ricorda vagamente (in minore) l’Allegro non troppo ma con brio del finale della prima di Brahms:


Ma Brahms lo aveva a sua volta derivato da un inno studentesco – impiegato qui pari-pari da Mahler nel quarto gruppo di temi - e successivamente ripreso nella Akademische Festouvertüre:

Ma ecco poi un motivo che udiamo nell’esposizione del primo movimento, dapprima solo accennato come un brontolio di fagotti e controfagotto, poi apparso timidamente nei corni, da ultimo negli archi bassi e infine esposto enfaticamente dal trombone solista. È una citazione - letterale (tonalità inclusa) e quindi smaccata - dal Requiem brahmsiano:

Chissà se questa criptica allusione alla brevità della vita rappresenta già una delle famose (quanto discutibili) anticipazioni di sventure che verranno attribuite al compositore soprattutto ai tempi della Sesta e dei Kindertotenlieder

Nel trio del Terzo movimento (i cui temi sono presi da un Lied del Wunderhorn) compare la cornetta da postiglione (dislocata dietro le quinte, dovendosi udire da lontano) che intona una melodia che in certi tratti richiama (in tempo lento e ritmo languido) una Jota Aragonesa (ad esempio qui nella trascrizione di Glinka):


A un certo punto la trombetta in orchestra emette uno squillo che ci ricorda immediatamente quello famoso del secondo atto del Fidelio, allorquando lo sbifido Pizarro viene avvertito da un suo scagnozzo dell’imminente arrivo del Ministro:


Nel quarto movimento, dapprima nei violini e successivamente nel canto del contralto sentiamo comparire nientemeno (!) che una canzone (già allora) popolare, La Paloma:

Nel quinto movimento (anche questo ispirato ad un Lied del Wunderhorn) il contralto interloquisce con il coro dei piccoli cantando cadenze che riappariranno pari-pari nel Das himmlische Leben che chiuderà la quarta sinfonia, e che in origine forse doveva fare da conclusione proprio a questa…


L’incipit dell’ultimo movimento espone un tema di stampo parsifaliano (la Fede), che ricorda però anche da vicino l’Op.135 di Beethoven (terzo movimento):


Infine compare anche l’amato Verdi (per la verità già nel primo movimento la sommessa fanfara dei tromboni ci aveva ricordato il letto di morte di Violetta…) laddove si cita esplicitamente un inciso dell’Otello (prima scena, la tempesta):

Che dire? Ugo Duse, nel suo testo su Mahler (compie 40 anni, ma per me resta tuttora insuperato, almeno in lingua italiana, e non me ne vogliano Principe e Fournier-Facio…) riporta una battuta di BusoniTutto è trascrizione – e conclude: è l’uso che se ne fa a decidere se si tratta di opera d’arte o di cattivo gusto.

Ecco, mentre Teodoro Celli, grandissimo wagneriano, negava al Mahler sinfonista ogni credito estetico, Duse non ebbe dubbi in direzione opposta, cogliendo proprio in questa Terza un profondo senso religioso; ma religioso in termini assolutamente non confessionali (quantunque Mahler la componesse proprio mentre maturava la decisione di abbandonare l’ebraismo per abbracciare il cattolicesimo); bensì profondamente umani e soprattutto legati ad un rapporto davvero panteistico con la Natura, che culminerà nel Die liebe Erde dell’estremo commiato.  

Ma a proposito di commiati e della Terza, davvero drammatico fu quello con cui Dimitri Mitropoulos passò a miglior vita. Il giorno 2 novembre 1960 il maestro, che meno di due anni prima era stato colpito da un grave infarto a New York, era alla Scala per le prove della mastodontica sinfonia di Mahler. Bene, l’anti-mahleriano Teodoro Celli assistette alla prova, dalla penombra di un palco. Ecco come descrisse la scena: 

Sul podio Mitropoulos, impastando i suoni con quelle sue mani parlanti, conduceva l’orchestra a veleggiare attraverso l’eloquenza dei corni, i richiami delle trombe, i rulli del tamburo, l’assolo del trombone e i trilli degli archi con sordina. E il fiume dei suoni scorreva irruente, si diffondeva, sovrabbondava: e, in tutti, l’impegno era al massimo. 

Ad un tratto Mitropoulos si fermò. Gettò un urlo e si portò le mani al petto; poi ondeggiò, sussultò: infine precipitò dal podio, direttamente nell’eternità. Il suo corpo stramazzò addosso ai primi violini, travolgendo strumenti e leggii. Io ero saltato in piedi e m’ero sporto spasmodicamente dal palco. E quello che vedevo era così terribile da sembrare irreale. Tutti i professori dell’orchestra erano accorsi al centro e avevano fatto gruppo attorno a quel caduto. Cercavano di sollevarlo, di rianimarlo, lo chiamavano: “Maestro! Maestro!” Ma Mitropoulos era morto; il suo cuore s’era spaccato in due. 

Aveva detto a se stesso: “Guai a me, se non dirigo!” Ed era rimasto fedele alla sua missione, fino alla fine.  

Già: …und mein Leben ein Ziel hat.
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Devo ammettere che mi emoziona sempre ripercorrere questo itinerario che ci porta dalle montagne ai prati, agli animali dei boschi, alla notte catartica e allo scampanìo mattutino, per giungere infine alla beatitudine dell’Amore, cui noi poveri mortali abbiamo dato il nome di Dio.  

E anche ieri sera l’emozione non è mancata. L’approccio forse eccessivamente garibaldino della Xian ha magari tolto un filo di pathos all’esecuzione; qualche incertezza degli strumentisti (i corni ma anche gli oboi, mi è parso) ha prodotto qualche piccola macchia tecnica, ma in complesso è stata una prestazione di buon livello. Bravissimo Alessandro Ghidotti, cui ieri spettava l’onere e l’onore di suonare da dietro le quinte (con un’argentea tromba in DO) la parte del Posthorn; eccellenti il coro femminile della Gambarini e quello dei piccoli della Tramontin. Positiva per calore e portamento anche la prestazione di Carina Vinke. Grandissimo successo in un Auditorium ancora piacevolmente affollato.
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Il prossimo appuntamento è ancora di quelli da far tremare i… soffitti

22 febbraio, 2013

Orchestraverdi – concerto n.23


Otto stagioni sono l’oggetto del concerto di questa settimana, per il quale torna sul podio Jader Bignamini in (bella, ad onor del vero!) compagnia della violinista Natasha Korsakova, un’ospite non nuova de laVerdi (l’avevamo ascoltata un paio di anni fa in Shostakovich) che si presenta fasciata da un lungo nero dotato di spacco vertiginoso. Chissà se è per vedere (e ascoltare, ovviamente) lei che l’Auditorium di Largo Mahler, a dispetto del nevischio imperversante su Milano, è stato letteralmente preso d’assalto (ed esaurite risultano anche le due prossime repliche)!

Quattro sono le celeberrime Stagioni di Antonio Vivaldi, e le altre quattro sono Las cuatro estaciones porteñas di un re del tango, Astor Piazzolla. In questo video Bignamini spiega l’approccio usato per presentarcele: un approccio non certo nuovo, dacchè l’accostamento fra le stagioni vivaldiane e quelle bairensi non è una primizia, essendo spesso oggetto di concerti ed esibizioni. Quindi l’ordine di presentazione non ha poi moltissime possibili varianti: prima le une, poi le altre; oppure, più spesso, una mescolanza delle otto stagioni ordinate per calendario (primavera-primavera, etc.) oppure, come in questo caso, per contemporaneità fra le stagioni dei due emisferi.
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I concerti vivaldiani fanno parte dell’op.8, stampata in Amsterdam attorno al 1725 e pomposamente consacrata a tale Venceslao, Conte di Marzin (o Morzin) un nobile mecenate boemo che aveva incontrato e apprezzato Vivaldi durante uno dei suoi soggiorni italiani:


Vivaldi scrisse personalmente (o forse impiegò farina del sacco di altri, chissà…) i testi poetici richiamati nei quattro concerti tripartiti, trascrivendo i singoli versi sui corrispondenti righi delle partiture, ed aggiungendo sulle stesse alcuni sottotitoli, come schematicamente rappresentato nelle figure che seguono.

I tentativi di Vivaldi di imitare la natura (e/o le reazioni e i sentimenti che si provano al contatto di essa) oggi ci possono sembrare patetici, ma non va dimenticato che il nostro aveva a disposizione mezzi assai limitati, e non certo le macchine del vento (vedi Strauss) né tanto meno i nastri magnetici registrati col cinguettar di un usignolo (Respighi)! Inoltre i concerti sono per complessi di soli archi, quindi il reverendo nemmeno si potè giovare (come Beethoven nella Pastorale) di flauti-usignoli, oboi-quaglie e clarinetti-cuculi! Né di timpani o di grancasse a simulare tuoni e temporali.


Nell’Allegro iniziale c’è la scena dei ruscelli (le fonti) dove Vivaldi impiega quartine di semicrome ad evocare lo scorrere calmo ma continuo delle acque. Qualcosa di simile sentiremo 150 anni più tardi nella Moldava… In compenso simili semicrome (in sestine) verranno impiegate da Wagner per evocare lo stormir di fronde (il Waldweben nel Siegfried); il quale mormorio è invece rappresentato da Vivaldi (all’inizio del Largo) con semicrome puntate seguite da biscrome, proprio a darci l’idea dell’incresparsi irregolare del fogliame.

Insomma, fenomeni diversi possono essere evocati dallo stesso stilema musicale, e uno stesso fenomeno da stilemi diversi. A dimostrazione, ce ne fosse ancora bisogno, che la musica mai e poi mai può descrivere alcunché, ma soltanto richiamare vagamente alla nostra sensibilità oggetti, fenomeni o personaggi. I quali, se non esplicitamente e preventivamente esposti in un programma o in didascalie, ci rimarrebbero del tutto indecifrabili al puro udirne i motivi musicali.


Nell’Allegro compaiono (come in Beethoven) tre volatili (cucù, tortorella e cardellino): è invariabilmente il violino solista a doverli impersonare, e non può far altro che differenziarne il canto attraverso il ritmo impresso alla melodia, mancandogli la qualità fondamentale, il diverso timbro. E Vivaldi fa effettivamente miracoli, nel tentativo di presentarci tutta questa varietà ornitologica con questi limitatissimi mezzi…

Nell’Adagio-Presto centrale e poi nel Presto finale abbiamo l’evocazione di tuoni e di un classico temporale, e guarda caso molti dei mezzi musicali impiegati da Vivaldi sono analoghi, se non identici, a quelli relativi ai tuoni del movimento iniziale della Primavera. Simili urla di vento udiremo infine anche nell’Inverno. Certo che la mancanza di timpani (tuoni) e di un bell’ottavino (per lampi e saette) si fa sentire, e come!


Nell’Allegro iniziale, curiosa la rappresentazione di ubriachi, dove il violino cerca di mostrare l’effetto dei fumi dell’alcol, i giramenti di testa e il barcollare incerto della persona:


L’Allegro conclusivo, che dovrebbe rappresentare la caccia, in effetti è un menuetto dietro il quale inizialmente si intravedono, più che preparativi di carattere venatorio, leziosi balletti di corte! Poi l’atmosfera si muove assai con la comparsa di schioppi e cani e le terzine che evocano la belva fuggente. Però ci vuole una bella fantasia per associare questa musica allo scenario proposto!


Nell’iniziale Allegro non molto è curiosa e meticolosa allo stesso tempo la cura che Vivaldi pone nel differenziare due fenomeni di battimento (di piedi e di denti) legati alle basse temperature. Per rappresentare i secondi il prete rosso introduce una rudimentale poliritmia, con il violino solista che suona in corda doppia 32 biscrome a battuta (4/4), i violini che suonano 16 semicrome e le viole che suonano 8 crome.

Nel Largo, il sottotitolo La Pioggia è scritto sulla parte dei violini (primi e secondi) che suonano arpeggi di MIb in pizzicato, proprio ad evocare il rumore di sgocciolamento che arriva alle nostre orecchie, ovattato, mentre ce ne stiamo al calduccio davanti al caminetto!

Nelle sezioni estreme tornano venti e maltempo, ma anche corse e scivolate sul ghiaccio: e il povero violino solista, con i colleghi, deve far miracoli per rappresentarli plausibilmente, anche se il risultato, ammettiamolo pure, non cambierebbe se le diverse didascalie venissero magari rimescolate a piacere!
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Quanto ai tanghi di Piazzolla, che non sono stati propriamente concepiti come un corpus organico, non hanno certo pretese descrittive, ma sono più che altro rievocazioni poetiche della vita del porto di Baires.

Musicalmente, uno degli stilemi ricorrenti è un inciso di due semicrome che ricompare quasi come un tic in tutte le stagioni:


Qui una interessante interpretazione del Quartetto Artemis.

La versione che ascoltiamo in questa occasione (ci sono svariati arrangiamenti di questi tanghi) è opera abbastanza recente di un russo (Leonid Desyatnikov) che ha voluto evidentemente rivestire Piazzolla con qualcosa di Vivaldi, a cominciare dal violino principale, che diventa protagonista dei quattro tanghi, nei quali Desyatnikov ha pure infilato qualche chiara reminiscenza vivaldiana, a costo di qualche forzatura, come il MI maggiore del veneziano messo in chiusura del SOL minore della Primavera di Piazzolla.
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La coppia Bignamini-Korsakova fa davvero scintille: lui sempre impeccabile e pulitissimo nel gesto (ed avendo sia Vivaldi che Piazzolla mandati a memoria…) lei a sfoggiare la sua tecnica sopraffina, ma anche una grande sensibilità di interprete. Ai lodati sono da aggiungere il violoncello di Tobia Scarpolini (in particolare nell’Autunno bairense) la viola di Gabriele Mugnai e il violino di Luca Santaniello.

Il successo è tale che non può mancare un bis, con la ripetizione del Largo dall’Inverno: che, devo dire, a me più che la pioggia ha sempre richiamato alla mente la classica slitta di SantaKlaus che se ne scivola dolcemente sulla neve diffondendo cullanti suoni di sonagli.

Ma non finisce qui, poiché la fascinosa discendente del grande Rimsky ci regala anche la Sarabanda in RE minore, dalla seconda Partita bachiana.
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A fine mese, in singolare coincidenza con il prepensionamento del Papa (per il quale laVerdi ha più volte suonato) una sesquipedale costruzione sonora del tardoromanticismo: la Terza di Mahler!