ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

09 dicembre, 2012

Cosa non va nel Lohengrin di Guth?


Sì, sì, lo so che farei prima a dire cosa va… me la caverei in mezza riga. Ma siamo qui per cazzeggiare, giusto?

Intanto è doveroso precisare (non vorrei ricevere una richiesta di rettifica, smile!, da parte del drammaturgo) che il Konzept del Lohengrin scaligero è il risultato di una fatica a due mani, compiuta dal regista e dal suo compare Ronny Dietrich.

Il quale pare sia andato a scovare, con perspicacia degna di miglior causa, il vero elemento scatenante del dramma di Lohengrin, nella testa di Wagner. Altro che leggende medievali, come credevamo da 160 anni noi poveri pirla (inclusi individui come Dahlhaus, Newman, Nattiez, Mila, Principe, Serpa…) no no, ciò che ha mosso l’immaginazione di Wagner fu la storia del Fanciullo d’Europa, a nome Kaspar Hauser.

Costui fu un povero ragazzo (quasi coetaneo di Wagner) cresciuto fino ai 15-16 anni fra maltrattamenti e sevizie (sempre chiuso, incatenato, in una fossa buia) che avevano lasciato segni evidenti ed indelebili sulla sua psiche (non sapeva chi fosse, né da dove venisse, e trovava inspiegabile qualunque cosa e minacciosa qualunque persona vedesse intorno a sé) e che Wagner pare avesse incontrato di persona (a 20 anni) a Norimberga poco prima che venisse assassinato. Per di più, il ragazzo era stato affidato per un certo tempo ad un avvocato che per caso era il padre di Ludwig Feuerbach, il filosofo di cui Wagner aveva provvisoriamente abbracciato le idee (prima di traslocare c/o… Schopenhauer).

Ecco allora come la coppia Guth-Dietrich ha costruito il suo sofisma: accertato che Wagner fu colpito profondamente dalla vicenda di Hauser, ne viene di conseguenza che lo stesso è il vero ispiratore - magari nell’inconscio dell’artista (così ci mettiamo anche un po’ di Freud, che non guasta mai) - della figura dell’argenteo cavaliere. Ergo, se Lohengrin è Hauser, allora anche Lohengrin deve essere uno che non sa chi sia, da dove venga, cosa stia a farci al mondo, e perché sia capitato dalle parti di Elsa. Ecco, da questa premessa imbecille (perché totalmente, radicalmente contraddetta dal testo – e soprattutto dalla musica! – del Lohengrin di Wagner) derivano tutte le scemenze di questo allestimento.

Un esempio lampante: ecco come Guth-Dietrich giustificano la loro visione della personalità (Hauser-like) di Lohengrin:

La potente esplosione musicale che accompagna l’entrata in scena di Lohengrin è in sorprendente contraddizione con le sommesse, introverse prime parole da lui pronunciate, che fanno pensare a un uomo confuso più che a uno consapevole del proprio compito.

Ora, a parte che nel terzo atto Lohengrin racconterà - per filo e per segno e con dovizia di particolari - tutto, ma proprio tutto di sé, di Monsalvat, del Gral, di Parzival e dei propri compiti (quando e da chi avrebbe appreso tutto ciò, nel frattempo, devono saperlo solo Guth e Dietrich…) leggiamo il libretto di Wagner in quel punto dove Lohengrin apparirebbe come un uomo confuso, più che consapevole:

(Non appena Lohengrin fa il primo movimento per abbandonare la navicella, su tutti scende un silenzio carico di tensione.)
Lohengrin
(con un piede ancora sulla navicella, si china verso il cigno)
Grazie a te, mio caro cigno!
Attraverso l’ampia distesa dei flutti, ritorna
là donde mi ha portato la tua navicella!
Ritorna, mira soltanto alla nostra felicità,
e così fedelmente si compia il tuo servizio!
Addio! Addio, mio caro cigno!
(Il cigno volge lentamente la direzione della navicella e, nuotando, si allontana dalla riva. Lohengrin lo osserva per un po’, con malinconia.)

Allora, questo sarebbe un uomo confuso e inconsapevole? In preda a convulsioni isteriche, raggomitolato per terra proprio nella posizione cui il suo modello Kaspar era stato costretto  per anni e anni, rinchiuso e incatenato, a piedi nudi (!) in una fossa?

E 20 secondi dopo ecco come Lohengrin scambia i saluti con Re Heinrich:

Lohengrin
(s’inchina dinanzi al Re)
Salute, re Enrico! Propizio e presente
sia Dio accanto alla tua spada!
Glorioso e grande, il tuo nome
mai svanisca da questa terra!
Re
Grazie! Perché io intenda quale sia la forza
che in questa terra ti ha portato, dimmi:
è per voler di Dio che ti avvicini a noi?
Lohengrin
Mia missione, mio compito è scendere in campo
per una fanciulla gravemente
accusata. È tempo che io veda se si fondi
il mio impegno per lei su buon diritto.

Allora, è uno che non sa chi è, né cosa ci stia a fare lì? E che diffida di chiunque lo avvicini e cerca di scansarlo e di nascondersi in tutti i modi? Uno che si muove barcollando come un idiota, mentre il popolo che lo sta accogliendo così lo descrive:

Gli uomini e le donne
(pieni di commozione, sottovoce, sussurrando)
Un dolce, santo brivido ci afferra!
Quale amabile forza ci tiene avvinti!
(Lohengrin si allontana dalla riva e procede lento e solenne verso il proscenio.)
Com’è bello a vedersi, come incede sovrano,
colui che un simile prodigio portò alla nostra terra!

??? E così via, non c’è bisogno di altri dettagli, quindi passiamo a Elsa, così inquadrata dal duo di geni Guth-Dietrich:

Elsa, un essere apparentemente angelico, che si rivela progressivamente come una giovane donna segnata dal suo passato. Proprio all’inizio dell’opera apprendiamo, attraverso Telramund, quali traumatici eventi abbiano marchiato la sua infanzia: la perdita dei genitori, la scomparsa del fratello, di cui per di più è stata incolpata. E lo stesso Telramund, al quale il padre in punto di morte aveva affidato la tutela dei figli, abusa della fiducia di Elsa negli adulti nel momento in cui la vuole come sposa.

Conseguenze di tutto ciò sono, per Elsa, un forte senso di colpa a causa del proprio presunto fallimento nonché un’esagerata ansia da abbandono, il che a sua volta la porta a un’eccessiva idealizzazione del partner. Tra le facoltà caratteristiche di personalità gravate da simili esperienze rientra il “pensiero magico”, analizzato, tra gli altri, da Sigmund Freud. Tale concetto identifica una forma dello sviluppo infantile per cui una persona ritiene che i suoi pensieri, le sue parole o i suoi atti possano influire su eventi che in realtà hanno altre cause, o addirittura provocare un determinato evento.

Quindi: il pensiero magico di Freud? E quindi: l’arrivo di Lohengrin avrebbe altre cause? E quali sarebbero, cari Guth-Dietrich, queste altre cause? Il puro caso, che fa incontrare il povero Hauser e la povera Elsa in un parco (con laghetti e canne) di Norimberga? Oppure dovremmo pensare che tutto ciò che Wagner ci vuol proporre sia null’altro che un sogno di Elsa? Compresi i fatti storici (Heinrich) e il conflitto religioso paganesimo-cristianesimo (Ortrud)?

Ridicolo. In compenso, ecco come Elsa viene descritta dal popolo, mentre si presenta al processo

(Elsa entra. Indugia un po’ nel fondo della scena; poi avanza molto lentamente, con grande timidezza, verso il centro del proscenio. La seguono alcune donne, che però, in un primo tempo, rimangono sul fondo, all’estremo limite della Corte di Giustizia.)
Tutti gli uomini
Guardate! si avvicina, con il suo peso di severe accuse.
Ah! come appare luminosa e pura!
Chi osa darle carico di tanto gravi crimini
dev’essere davvero ben certo della sua colpa.

Ecco, questa sarebbe la descrizione (luminosa e pura!) di una poveretta che ci viene mostrata come una qualunque drogata, e per di più colpevole di qualche misfatto, manifestando i classici tic di queste condizioni, come il grattarsi nervosamente e il cercare perennemente di nascondersi?

Anche qui, non serve entrare in ulteriori particolari per stigmatizzare questa concezione dissacrante e – in fin dei conti – sprezzante, che Guth-Dietrich hanno del capolavoro wagneriano. Il quale viene da loro letteralmente sequestrato, rivoltato come un calzino e rimontato secondo le loro idee lunatiche.

Insomma, un ennesimo caso di volgare adulterazione. Qui sì che ci sarebbe da chiamare i carabinieri, mica - come vorrebbe qualche zelante - per zittire quattro (o quaranta) buhatori di loggione. Dico e ripeto: chi fabbrica e smercia Lacoste e Rolex (o VanGogh) contraffatti, secondo le nostre leggi rischia la galera, o sbaglio? E anche nel caso che i falsi siano più apprezzati, agli occhi di qualche snob, degli originali.   

07 dicembre, 2012

Davvero notevole questo… Kaspar Hauser!


Decisamente, questa nuova opera che la Scala ha commissionato a Claus Guth ha un soggetto intelligente, interessante, di una sconvolgente attualità e di un’assoluta modernità; e per di più è messo in scena in maniera superlativa.

Salta però subito all’orecchio che le parole e la musica di questo mirabile dramma del terzo millennio siano copiate – ma proprio alla lettera, incredibile! – da quelle di un’opera semi-sconosciuta (il cui soggetto sta peraltro agli antipodi rispetto a questo di Guth) di tale Richard Wagner: un vecchio rudere, un residuato bellico di quasi due secoli fa, un’opera romantica (hahaha!) dissepolta da metri di polvere che la ricoprivano in un qualche scantinato di un qualche museo tedesco. Un testo ridicolo e inutilizzabile anche come coadiuvante soporifero per bambini ingenui, e una musica stomachevole, al cui confronto Papaveri e Papere pare Gruppen di Stockhausen… 

Peccato davvero perchè, con un testo e una musica adeguati, questo soggetto di Guth avrebbe tutte le carte in regola per diventare un autentico capolavoro: possibile che non si riesca a trovare un librettista e un compositore in grado di rivestirlo con qualcosa di meno imbarazzante, in modo da farne un’opera immortale?

06 dicembre, 2012

La OSR con Repin in Auditorium


L’Auditorium di Milano ospita, da oggi al 7 aprile 2013, la mostra Costruttori di Armonie, dedicata all’arte della liuteria italiana, una mostra che sarà anche accompagnata da una miriade di iniziative collaterali.

Ieri sera una sontuosa anteprima musicale ha visto sul palco la prestigiosa Orchestre de la Suisse Romande, che raggiunse fama mondiale nel periodo in cui fu guidata dal suo glorioso fondatore Ernest Ansermet e che ancor oggi è fra le migliori compagini strumentali di livello internazionale.

Sotto la guida del giovane ma autorevole Kazuki Yamada ci ha regalato una splendida esecuzione dell’Eroica e delle Antiche arie e danze respighiane (n° 1 e 3 dalla Terza Suite) prima che il virtuoso siberiano Vadim Repin chiudesse da par suo la serata con il (piccolo) Concerto in RE minore di Mendelssohn. Nell’occasione Paolo Bodini, Presidente della Fondazione Stradivari di Cremona, ha affidato a Repin, per i bis (chiusi dal Carnevale paganiniano) un prezioso esemplare di Stradivari di fine ‘700.

Pubblico selezionato (la serata era ad inviti, organizzata da Vacheron Constantin, mecenate della cultura) ma foltissimo quanto caloroso.

05 dicembre, 2012

Lohengrin visto (sommariamente) da Guth


In attesa di vedere (prima in TV e poi dal vivo) questo nuovo Lohengrin, propongo qualche considerazione su ciò che il regista ci racconta in alcune brevi note che immagino compaiano sul Programma di sala e che sono anche accessibili dalla pagina web del teatro. (Non so se è un problema del software di Bill Gates III sul mio computer, ma il link funziona se accedo da Chrome, mentre va a meretrici se accedo da IE, ma pazienza… vuol dire che riporterò anche i singoli passi delle note del regista.)

Nell’opera di Richard Wagner ricorre costantemente un medesimo schema: una persona o un gruppo di persone si crea un salvatore – un idolo – un capo. In virtù di un’apparizione misteriosa e di vaghe dichiarazioni sulla propria vita, questo personaggio attrae su se stesso la proiezione di ideali altrui. Ovvero: sull’individuo vero e proprio in questione viene steso il manto di un modello precostituito. Tutto ciò funziona alla perfezione: il senza patria è amato, ammirato e adorato; i suoi ammiratori hanno trovato qualcuno che colma il loro intimo vuoto e soddisfa il loro anelito. 
  
Intanto mi permetterei umilmente di contestare il costantemente: ciò che Guth presenta come una regola in Wagner, è in realtà riscontrabile, e molto, molto vagamente, in Rienzi, Tannhäuser, Lohengrin e Parsifal; non certo in Holländer, né in Siegfried, né in Tristan e tanto meno in Walther. Nel caso di Lohengrin, è vero che il cavaliere misterioso arrivato da lontano fa subito colpo su Elsa, sul popolo di Brabante e sui seguaci di Re Heinrich, che lo accolgono come l’uomo-della-provvidenza, ma è da dimostrare che su Lohengrin venga steso il manto di un modello precostituito, fondato su ideali altrui. Prendiamo l’aspetto personale: non è certo Elsa a proiettare su Lohengrin i suoi ideali, ma esattamente il contrario: è Lohengrin che pretende di ricevere da Elsa un amore umano che a lui, divino, non dovrebbe essere concesso. Sul piano pubblico, Lohengrin accetta l’investitura a Protettore del Brabante del tutto spontaneamente e senza condizionamento alcuno, tanto è vero che alla fine dà - per così dire - le dimissioni dalla carica non perché si accorga di aver addosso quel manto di un modello precostituito, ma perché è venuta meno l’unica e vincolante ragione della sua permanenza lassù.

Il problema ha inizio nel momento in cui tale personaggio, dopo una prima fase di entusiasmo, si rende conto di essere stato preso non per quello che realmente è, bensì soltanto quale veicolo di un’idea di altri. A questo punto egli scopre il proprio vuoto interiore, benché tutti lo amino – ma di un amore che nasce da premesse falsate. Allorché egli insiste per essere quello che realmente è, il sistema crolla: la vera personalità che sta dietro la maschera protettiva si rende visibile, e la bolla scoppia; ha luogo una dis-illusione – non era lui l’oggetto della suprema epifania emotiva. L’altro è altro.

Beh, qui ho proprio l’impressione che Guth abbia scambiato Lohengrin per Tannhäuser! (o abbia fatto cut&paste di una sua nota scritta per quell’opera?…)

Elsa, colei che viene sempre abbandonata
Perde precocemente i genitori, il tutore (Friedrich) diventa suo pretendente; l’unico compagno affidabile che le resta, sola com’è in un mondo a lei estraneo, è il fratello Gottfried; poi però il fratello scompare, e la colpa è sua: avrebbe dovuto sorvegliarlo. Che sia annegato? Quale tipo di uomo desidera una giovane donna con un simile orizzonte di vita? Un partner che sia in simbiosi con lei come lo era il fratello, e soprattutto che sia affidabile e comprensibile, uno che, semplicemente, rimanga al suo fianco!

Qui sembra tutto a posto salvo un piccolo, ma importante particolare: quell’aggettivo comprensibile. No, Elsa non pretende questo, almeno finchè ragiona con la sua testa: crede ciecamente nel cavaliere che ha visto in sogno e che è arrivato per davvero a salvarla. Sarà soltanto in seguito all’azione delle forze del male (rappresentanti le religioni pagane pre-cristiane) che pretenderà che il partner le diventi anche comprensibile.

Lohengrin, colui che sempre abbandona
Figlio di Parsifal – Parsifal, l’eroe manovrato da altri, che è stato scelto da altri come portatore di felicità. Il figlio segue percorsi simili: continuamente inviato a salvare qualcuno, non riesce a trovare la propria identità. Gli altri vedono sempre qualcosa in lui, ma lui, in se stesso, che cosa vede? Chi sia, non lo sa: il suo compito è essere qualcosa per gli altri. Svolge il proprio incarico come se fosse un intermediario; l’essenza della sua missione gli rimane estranea. Unica via d’uscita, una donna, che dovrà capirlo per quello che egli è, riconoscerlo al di là della sua missione e dirgli chi egli sia, ma senza chiedergli quale sia il suo compito.

Intanto Parsifal. Manovrato, scelto da chi? Certo a Monsalvat aspettavano una nuova guida, ma Parsifal non lo diventa a seguito di plagio, ma perché prende coscienza, individualmente e personalmente, del peccato di Amfortas e si guadagna così lo status di Erlöser. Quanto a Lohengrin, la descrizione che ce ne fa il regista è abbastanza gratuita e soprattutto denigratoria: Lohengrin sa benissimo chi sia e quale sia la sua missione, ne è talmente cosciente da desiderare di andare al di là di essa, sperimentando un amore umano che al suo status sarebbe precluso. Il suo dramma deriva proprio dal suo essere perfettamente padrone delle sue azioni e delle sue aspirazioni, ed esplode nel momento in cui deve purtroppo constatare che queste ultime non trovano possibilità di compiuta realizzazione. L’ultima frase poi è per me del tutto incomprensibile: ciò che Lohengrin si aspetta dalla donna è di esserne amato – non capito (Gefühl vs Verstand) - come uomo; di avere da lei amore, non spiegazioni su chi egli sia; e ciò che lei non deve chiedergli è proprio il suo nome e la sua provenienza, non certo il suo compito, che è chiaro a lui e a tutti da sempre.  

Ortrud, colei che sa
Al pari di Elsa, ha avuto un’infanzia cupa e tumultuosa – perdita del potere da parte dei genitori, aperta rinuncia alla propria religione/fede –, ma sceglie una strada completamente diversa per sottrarsi a tale impronta iniziale. Laddove Elsa si ritira nel proprio mondo interiore, elaborando un ricco mondo fantastico, Ortrud intraprende un viaggio verso il potere reale e concreto, servendosi di qualunque mezzo: la profonda conoscenza dell’animo umano e l’attenta osservazione degli altri sono i suoi strumenti.

Da dove Guth ricavi l’idea che Ortrud abbia fatto aperta rinuncia alla propria religione/fede mi risulta davvero incomprensibile: le sue esternazioni (secondo e terzo atto) ci dicono esattamente il contrario! E la sua figura incarna precisamente i residui delle religioni pagane ancora presenti alla fine del primo millennio, soprattutto nell’Europa centro-settentrionale. E in Lohengrin lei vede per l’appunto un rappresentante del Cristianesimo, quindi il nemico da abbattere, per tramite di Elsa, verso la quale lei sa perfettamente impiegare lo strumento del plagio. Vero è che la donna cerchi anche di riconquistare il potere materiale (e verosimilmente, attraverso di esso, quello religioso).

Friedrich von Telramund, il sensibile
Con ogni probabilità, si è profondamente innamorato della ragazza che avrebbe dovuto proteggere come un padre, dopo la prematura morte dei genitori di lei. La scomparsa del fratello e la bugia di Elsa mandano in fumo il suo sogno d’amore. Quando Ortrud calunnia apertamente Elsa, l’amata gli è definitivamente preclusa. La biografia di Friedrich quale personaggio autonomo termina qui, molto prima che egli effettivamente muoia, ormai diventato un’arma telecomandata nelle mani di Ortrud.

Nessun dubbio che Telramund sia un burattino nelle mani di Ortrud. Che fosse sinceramente innamorato di Elsa è possibile. Quale sia la bugia di Elsa non saprei proprio capire. Piuttosto è lui che cade in una chiara contraddizione già all’inizio del processo: dapprima dichiarando di aver spontaneamente rinunciato alla mano di Elsa, dopo essersi convinto della sua colpevolezza; e subito dopo accusando Elsa di aver sdegnosamente rifiutato la sua mano, perché invaghitasi (dice lui) di un altro. Una contraddizione che non può essere attribuita ad una svista di Wagner, ma che evidentemente deve servire a noi per inquadrare da subito l’inaffidabilità dell’uomo e della sua accusa.

La collettività, coloro che ardentemente desiderano
In tempi di cambiamenti sociali estremi – il capitale dà forma nuova alle strutture, una guerra è alle porte –, tutto viene riorganizzato razionalmente, eppure le cose appaiono sempre più confuse. Il mondo viene registrato e catalogato, eppure si desidera ardentemente proprio ciò che va oltre la ragione. Solo uno che venga da fuori, un’anima vergine, può fare da guida in un contesto simile, può soddisfare tale aspirazione collettiva. Tuttavia, guai a chi improvvisamente non dovesse più rispondere alle aspettative…

Ecco, qui siamo alla trasposizione della vicenda medievale ai giorni di Wagner, con tanto di proclama anti-capitalista e vetero-marxista! Ora, che Wagner avesse in odio l’andazzo che aveva preso la società dei suoi tempi è fuori discussione. Ma a lui non stava a cuore Das Kapital, né l’anarchismo di Bakunin, a lui stava a cuore… se stesso! Non poteva sopportare – lui che si credeva (e magari era pure) un Artista dalle qualità quasi messianiche - di non avere successo, di non essere amato, perché non capito. Lo scenario che Guth immagina – l’aspirazione collettiva dell’avvento di un’anima vergine, che guidi un mondo sempre più confuso, sarebbe casomai quello della Germania del 1925, non certo quello della Sassonia del 1845, men che meno quello nordeuropeo della fine del primo millennio. E che significa guai a chi improvvisamente non dovesse più rispondere alle aspettative? Se stiamo parlando di collettività (non di Elsa, quindi) ciò che vediamo nel Lohengrin (quello di Wagner, sarà il caso di sottolinearlo) è che la collettività che accoglie l‘argenteo cavaliere non si riprende mai indietro (neanche sull’ultima battuta dell’opera) la fiducia che aveva riposto in lui: anche se effettivamente quella fiducia e quelle aspettative lui  le delude, abbandonando quella collettività al suo destino, e per ragioni squisitamente personali.

Insomma, se dovessimo prestar fede a queste note, dovremmo preventivamente esprimere pollice-verso a questa concezione del Lohengrin. Possiamo solo sperare che ciò che viene rilasciato per la pubblicazione sui programmi di sala siano solo parole al vento… Gli under-30 avranno già potuto verificare; noi matusa aspetteremo ancora un paio di giorni.   

04 dicembre, 2012

Le turbe di Richard Loherangrin


Se Elsa è un enigma (l’amore umano allo stato puro, oppure… una povera donnicciuola senza spina dorsale) Lohengrin a sua volta non è mica un tipo facile da inquadrare. Com’è che il suo disegno (farsi amare come uomo, e non adorare come super-uomo) se ne va a meretrici?

Una spiegazione l’ha data lo stesso Wagner, nel suo pamphlet del 1851 intitolato Una comunicazione ai miei amici. Ecco la sua versione dei fatti: Lohengrin (che come appartenente alla comunità del Gral è di fatto un essere sopra- o super-naturale) ambisce ad un amore terreno, umano, e approfitta (per così dire) della sua missione umanitaria di soccorso ad Elsa per soddisfare con (o su di) lei questa sua (più o meno legittima) aspirazione.

Per garantirsi che l’amore di Elsa sia genuino e non condizionato dal suo status - insomma, una vicenda abbastanza simile a quella che vede protagonisti una tale Rosina e un tal Lindoro (alias Conte di Almaviva) in un certo dramma (smile!) di Rossini - decide di non rivelare ad alcuno la sua vera identità e proibisce tassativamente ad Elsa (e le ripete la proibizione due volte, per non essere frainteso) di chiedergli notizie di sé.

Peccato che – è sempre Wagner a riferircelo – a Lohengrin non riesca proprio di farsi passare per un normale essere umano: tutti lo guardano da subito come un agente divino (Gottgesandter Mann) un uomo-della-provvidenza al quale il popolo intero è pronto a restare fedele (e difatti lo rimarrà fino alla fine, esclusi 6 individui). La punta di diamante dei 6 scettici, o dei nemici di Lohengrin, è Ortrud; ed è lei (con il veleno dell’invidia) che – scrive Wagner – instilla scientificamente il dubbio nell’animo di Elsa, che contravverrà così al divieto di chiedere. Ergo, Lohengrin conclude di essere adorato e non amato, e non può far altro che rinunciare al suo sogno, rivelando la sua vera identità e tornandosene, distrutto, alla comunità del Gral.

Uno dei massimi studiosi dei drammi wagneriani, Carl Dahlhaus, ha pensato bene di prendere Wagner in castagna su questo punto preciso, avanzando una diversa spiegazione alla disobbedienza di Elsa. Che non sarebbe conseguenza del plagio da parte di Ortrud, ma di un marchiano errore di valutazione dello stesso Lohengrin. L’obiettivo del quale – passare per un uomo qualunque, quindi amato come tale e non adorato come un semidio – viene vanificato dallo stesso strumento che lui impiega per raggiungerlo (nascondere la sua vera identità). Sì perché, osserva Dahlhaus, a nessuno verrebbe in mente di chiedere spiegazioni e identità a Dio (o a un semi-Dio) che si adora, mentre è del tutto naturale farlo ad un uomo che si ama.

Ora, l’osservazione critica di Dahlhaus è stata sottoposta sotto forma di quesito da Enrico Girardi a Daniel Barenboim durante la presentazione della prima scaligera tenutasi giorni fa presso l’Università Cattolica (dove per la verità si è parlato di tutto, fuorchè del Lohengrin…) A 29:40” del filmato si vede Girardi porre la questione al Maestro, il quale la liquida facendo quasi una… pernacchia (smile!) e mostrando di infischiarsene altamente delle spiegazioni e delle dietrologie extra-musicali e buttando la palla nel campo della regìa!

C’è da dire però che Wagner stesso ebbe non pochi dubbi e ripensamenti riguardo al finale dell’opera, arrivando al punto di immaginarne un (quasi) lieto fine, fedelmente mutuato dai racconti di Wolfram von Eschenbach, dove Loherangrin e la Duchessa di Brabante vivono felici e contenti e mettono pure al mondo diversi figli, finchè (la crisi del settimo anno? smile!) lei gli pone le domande fatali e così manda all’aria il matrimonio.    

Insomma, un’opera che – se si guarda al di fuori di quanto messo, nero su bianco, in libretto e partitura - si presta a mille interpretazioni. E quindi vedremo cosa Guth si inventerà al proposito: certo, dalle scarne note che si possono leggere sul programma di sala, le premesse non mi sembrano precisamente entusiasmanti.

03 dicembre, 2012

Gli enigmi di Elsa…


Ormai siamo entrati nella settimana di SantAmbrogio e quindi, dalle sponde del Lambro (eh sì, perché anche Milano ha la sua Schelde) già vediamo in lontananza un cigno che arriva trascinando una barchetta con dentro Lohengrin.  Prepariamoci allora a riceverlo come si deve, quando entrerà – oltre che nel più costoso ed esclusivo caravanserraglio del pianeta - anche nelle nostre umili dimore, grazie alle diavolerie visuali e auricolari che allietano le nostre esistenze.

Ma Lohengrin non sarebbe Lohengrin senza… Elsa, come non potrebbe esistere un Holländer senza Senta, o un Tannhäuser senza Elisabeth. Ma che tipo è la nostra sfortunata ragazza, che nel giro di un paio di giorni compie un percorso di 360° pieni, passando dalla polvere e dallo sconforto più totale alla beatitudine più alta e alla gioia più grande e poi di nuovo alla disperazione più nera?

Il libretto (oh, pardon, nel caso di Wagner è meglio usare il termine poema) ci presenta una ragazza piuttosto, diciamo, invertebrata, che spera di difendersi da un’accusa di omicidio del fratellino Gottfried (per quanto falsamente sostenuta) attraverso i servigi di un cavaliere mandato da Dio, che lei ha visto in sogno e che è pronta a ricompensare offrendoglisi in moglie. Il cavaliere (meraviglia delle meraviglie, ma mica poi tanto, essendo appunto mandato direttamente da Dio) arriva per davvero, la scagiona dalle accuse e accetta di sposarla, a patto che lei… si faccia gli affari suoi, evitando di fargli domande indiscrete (il Frageverbot, che nell’opera ha il suo bel tema, che ricompare mille volte).

Ma lì attorno ci sono due cattivoni, anzi per la verità una (Ortrud) che è l’autrice dell’omicidio di cui ha poi incolpato Elsa, abbindolandone l’ex-promesso (Friedrich): questi mettono in atto un piano semplice e sicuro per mandare all’aria la felicità di Elsa e sostituirsi a lei e alla sua casata nel dominio del Brabante. Piano consistente nell’approfittare dell’ingenua ragazza per lavarle ben bene il cervello onde portarla a fare a Lohengrin le domande proibite. Cosa che accade puntualmente (durante la prima ed unica notte di nozze) col risultato di mandare Lohengrin in bianco e subito dopo… a casa sua.

Insomma, una donna davvero miserella, questa Elsa, della quale il povero Lohengrin – un mezzo uomo e mezzo dio, che similmente a Giove con Semele (come ci ricorderà lo stesso Wagner) vorrebbe vivere un amore terreno, umano – crede di potersi fidare, venendone però amaramente deluso.         

Ecco, francamente le femministe avrebbero di che lamentarsi di fronte ad un siffatto personaggio, una che prima crede al principe azzurro e poi però non sa restare fedele alla parola datagli.

Ma allora, dove stanno gli enigmi?
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Ce li propone lo stesso Wagner, a posteriori. Dunque, il nostro aveva composto il Lohengrin fra il 1845 e il 1848, cioè in una fase della sua evoluzione artistico-estetica antecedente alla presa di coscienza rivoluzionaria, che si materializzerà – fra il 1848 e il 1851 - in una serie di opere, diciamo filosofiche, in cui Wagner spiegherà al mondo le sue idee sul futuro del teatro musicale. Idee che verranno poi compiutamente applicate (anche se, per nostra fortuna, con mille eccezioni) a partire dal 1852, nel Ring e nei drammi successivi (Tristan, Meistersinger e Parsifal).

Uno di questi documenti, di lettura piuttosto noiosa ma illuminante, è Eine Mittheilung an meine Freunde (Una comunicazione ai miei amici) scritta a metà del 1851, quando Wagner era alle prese con ciò che (ma solo di lì a un paio d’anni) sarebbe diventato il Ring, cioè le due opere relative a Siegfried. In questo documento il compositore intende presentare il percorso evolutivo della sua arte, a partire dai lavori giovanili (Die Feen e Das Liebesverbot) per passare poi a Rienzi, Holländer, Tannhäuser e Lohengrin. Giustificando quindi le discrepanze, che alcuni critici gli imputavano abbastanza ingiustamente, fra tali opere e le sue rivoluzionarie idee, esposte nei recenti scritti teorico-programmatici.  

Wagner rivela come il furore rivoluzionario avesse cominciato a prendere la sua mente in seguito ai (mezzi) fiaschi di Holländer e soprattutto di Tannhäuser, che gli avevano resa manifesta la sua propria condizione di Artista incompreso dall’establishment (teatri e critici) che lo circondava. E attribuisce tale incomprensione alla deriva dei costumi del suo tempo, che non apprezzava l’artista attraverso il sentimento (Gefühl) ma solo attraverso l’arida ragione (Verstand).

Ebbene, Wagner racconta come proprio la vicenda di Lohengrin (da lui in un primo tempo ignorata perché considerata priva di contenuti drammatici) fosse tornata prepotentemente alla sua attenzione proprio perché vi aveva scorto una specie di specchio della sua condizione esistenziale: in sostanza, Lohengrin gli era apparso come l’Artista respinto da un mondo (Elsa) che è incapace di comprenderlo attraverso il sentimento, e quindi di amarlo. Ma mentre Lohengrin subisce le conseguenze di questo stato di cose, e abbandona Elsa e gli umani per tornarsene… lassù, Wagner decide di prendere di petto la situazione e diventa rivoluzionario.   

Ed un aspetto di questa sua repentina conversione riguarda precisamente Elsa, come archétipo del femminino (weiblichen Herzens). Qui Wagner si dilunga in una rievocazione del suo aver saputo calarsi nei panni della donna (cosa che darà appiglio a critici ed esegeti per ipotizzare un Wagner androgino) per comprenderne l’intima natura. Elsa vista come l’altra metà (das andere Theil) di Lohengrin, nella quale l’uomo cerca il completamento della sua propria natura.

Ed ecco quindi che Elsa si trasforma improvvisamente – ed anche abbastanza sorprendentemente, rispetto a ciò che ascoltiamo in scena – in un modello di donna-in-amore: la sua proibita domanda a Lohengrin altro non sarebbe che la più pura ed alta e nobile espressione d’amore, che solo una donna può manifestare, anche sapendo che ciò le costerà la perdita della persona amata e della propria felicità. La Donna che – sola – può rappresentare, agli occhi del Wagner del 1851, la prospettiva di salvezza e di redenzione dell’Uomo da tutte le sue colpe e i suoi peccati.  
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Ora, qual è la vera Elsa? La donna indifesa che si innamora (superficialmente e a-priori) del suo salvatore e che poi si lascia plagiare dalle forze del male per tradirlo… oppure l’agente cosmico che redimerà, una volta per tutte, l’Uomo?  

30 novembre, 2012

Un SantAmbrogio di sinistra


Questo con la zia Letizia non sarebbe successo.
 

Orchestraverdi – concerto n.12


Appena reduce dalla (trionfale, dicono) trasferta russa, laVerdi (senza Helmuth Rilling che speriamo proprio di rivedere in occasione del Requiem brahmsiano!) è tornata in Auditorium con Ruben Jais per il dodicesimo concerto della stagione principale.  

Concerto che ha un programma relativamente inconsueto, ma tutto saldamente ancorato all’800 (austro)tedesco, ma un ‘800 che guarda con grande rispetto alla tradizione settecentesca (Haydn e Bach in testa) per renderle omaggio e allo stesso tempo trarne ispirazione.

Ecco quindi Brahms e le sue Variazioni su un tema di Haydn. Una specie di ultimo test attitudinale (1873) cui il burbero amburghese si sottopose in vista della sua tanto attesa e reclamata discesa in campo nell’arena sinfonica (1876).
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Che il tema originario (Chorale in honorem St. Antonii, scritto per organico di banda) sia proprio di Haydn è cosa su cui nessuno è disposto a metter la mano sul fuoco (anzi è ormai praticamente certo fosse un canto di pellegrini boemi ripreso da Ignatz Joseph Pleyel) ma ciò che interessa a noi è l’impiego magistrale che Brahms ha fatto di quel tema di 10 battute (5+5) che lo caratterizza:

L’intera opera non sfugge mai alla tonalità del tema principale: SIb. Le otto variazioni che seguono l’esposizione del tema (cinque in modo maggiore e tre – 2-4-8 - in minore) ne sviluppano tutte le potenzialità, o ne derivano altri motivi a mo’ di reminiscenza.

Nel Finale (tempo di passacaglia, ecco un altro chiaro richiamo al glorioso passato) Brahms inventa ancora una nutrita serie di (piccole) variazioni, su un motivo di basso ostinato di 5 battute:
Esso è tenuto inizialmente (per 9 volte) dai soli contrabbassi, ma poi passa ai violoncelli, alle viole e quindi emerge in primo piano nei corni e ancora (in minore) negli oboi, poi nei flauti e di nuovo nei corni, per tornare (in maggiore) a corni e violoncelli, prima della trionfale e conclusiva ripresa del tema.
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Insomma, una composizione che valse ad ottenere a Brahms il passaggio dell’esame (al pianoforte) con la severa (ma anche… innamorata?) Clara Schumann e a convincerlo a fare finalmente sul serio con la Sinfonia in DO minore.    

Jais tiene tempi stringati e privilegia – giustamente, direi – i fiati, che sono i veri protagonisti del brano (come lo erano nell’originale, del resto…): e i ragazzi rispondono alla grande, consegnandoci un’esecuzione assai apprezzabile.

Ecco poi la Tragica di Schubert: appellativo forse esagerato - pur se scritto di proprio pugno (ma a posteriori, e senza mai averla potuta udire suonata da un’orchestra) dall’autore - chè non basta di certo il modo minore per tragicizzare qualcosa… (caso mai il nick-name meglio si applicherebbe all’Incompiuta).
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Qui è ancora lo Schubert giovane, che ai limiti congeniti in campo sinfonico tenta di sopperire con la cantabilità liederistica dei suoi temi. Il primo movimento cerca di copiare il modello Haydn-iano (introduzione in Adagio molto e poi tempo Allegro vivace) ma ciò che manca è la capacità di sviluppo e di contrasto (o amalgama) dei temi.

Dopo l’esposizione (ripetuta) dei due temi - il primo in DO minore e il secondo in LAb maggiore (dominante del MIb, relativa maggiore della tonalità di impianto) – ci si aspetterebbe appunto uno sviluppo. Invece Schubert lo salta a piè pari per avventurarsi in una riesposizione del primo tema in… SIb minore e successivamente in SOL minore (!?) prima di ripescare il secondo tema e faticosamente chiuderlo (col movimento) in DO maggiore. Insomma, una cosa che somiglia di più ad una fantasia che ad un primo tempo di sinfonia

Molto meglio l’Andante, dove Schubert si trova… a casa sua! E può sciorinare, senza obblighi di sorta, le sue bellissime melodie. Quella del primo tema ispirerà molto più tardi il celeberrimo (secondo) Impromptu dell’opera 142:
Paradossalmente il movimento è però strutturato con maggior robustezza rispetto al primo, con i suoi due temi assai contrastanti, il primo (LAb maggiore) molto dolce e delicato, il secondo (FA minore) il cui incipit (salita da dominante a tonica) ricorda molto da vicino l’attacco del primo tema del movimento iniziale, introducendo nell’opera un elemento di ciclicità. La forma è più o meno A-B-A-B-A’(+coda): la seconda comparsa di A chiude modulando a REb e la seconda di B inizia quindi nella relativa SIb minore. A torna poi sviluppato ampiamente, dando origine ad una mirabile cadenza finale.

Il successivo Menuetto, Allegro vivace, si caratterizza per la sua concisione: severo il tema principale (MIb, ripetuto); più cantabile la seconda idea, che sfocia ancora nel primo tema per la chiusa. Nel Trio ricompare ciclicamente la salita dominante-tonica, una specie di motto, quindi, della Sinfonia.  

Il cui Allegro conclusivo vuole presentarci una specie di conflitto tra tenebre e luce (da cui emergerà la seconda). E già il tema principale ci prefigura questo obiettivo: dal DO minore di impianto, la sua seconda esposizione sfocia nella relativa MIb maggiore. Il tema viene ancora ripreso in DO minore e subito sottoposto, nella stessa tonalità, ad uno sviluppo convulso e quasi angoscioso nei violini, con le sincopi degli strumentini e delle viole e con l’esplosione di un paio di accordi dissonanti (sul SOL e SOLb) a tutta orchestra.

Qui subentra una modulazione a LAb maggiore (come nel primo movimento) dove compare l’altra idea, cantabile, palleggiata fra archi e fiati, che porta alla riproposta del primo tema, adesso in MIb maggiore: ed è con questo che si conclude l’esposizione (che prevederebbe, ma di solito non si fa, il ritorno all’inizio).

Ora abbiamo uno sviluppo dove il tema principale ricompare in frammenti e in tonalità diverse per poi, dopo una rarefazione della melodia, passare abbastanza sorprendentemente a LA maggiore e quindi, modulando per terze discendenti, prima a FA maggiore e poi a REb maggiore, dove si inizia una transizione, che passa dal FA al FA# e da qui al SOL, dominante del DO maggiore che sarà protagonista della ricapitolazione finale.

Nella quale il tema principale, dopo una prima esposizione in DO maggiore, torna anche in minore (la relativa LA) così come il suo agitato sviluppo, che lascia spazio all’idea cantabile, ora canonicamente in FA maggiore. Quindi il DO riprende faticosamente il sopravvento per chiudere con una (peraltro poco luminosa) apoteosi.
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Jais conferma la sua predisposizione a stringere i tempi: il che non fa male, salvo che nell’Andante, che a mio avviso avrebbe meritato un poco più di… ponderazione. Per il resto, uno Schubert più che accettabile.

Chiude il concerto Mendelssohn con il Salmo XLII, da Martin Luther: Verlangen nach Gott aus fremden Land (Desiderio di Dio da una terra straniera). Un’anima conturbata e un cuore addolorato anelano e sono dolorosamente assetati di Dio. Egli alla fine verrà loro in aiuto, perciò sia lodato per l’eternità:


Si tratta di una Cantata per 5 solisti e coro, composta praticamente… in viaggio di nozze. È forse per questo che la musica che accompagna il testo, invece di evocarne l’angoscioso contenuto, si mantiene in un ambito piuttosto sereno e beato…

Vi troviamo gli stilemi caratteristici del compositore, già comparsi in opere di ispirazione religiosa, sia strumentali (vedi la Reformationssinfonie) che vocali (come il Paulus) e che ritroveremo più avanti nell’Elias e soprattutto in quell’ibrido di sinfonia&cantata che sarà la Lobgesang. E anche qui il risultato è musica accattivante, eterea sì, ma anche piuttosto molle, quasi al limite della monotonia; insomma, priva di quegli slanci (e magari anche di spigolosità) che oltretutto ci si aspetterebbero dall’asprezza di un testo come questo.

Ecco, alla fine si resta come dopo un pranzo tutto a base, che so, di… camembert; o dopo aver mangiato troppa… nutella (smile!)

Laura Aikin e i quattro solisti che l’accompagnano nel n°6 (tutti membri del Coro de laVerdi: tenori Francesco Frasca e Hidekazu Suzuki; bassi Fausto Candi e Diego Manto) hanno fatto del loro meglio, insieme al resto del Coro di Erina Gambarini, per valorizzare al massimo questa partitura.

Certo, la recente trasferta russa dell’Orchestra deve aver limitato assai i tempi di prova, rispetto al normale, e qualche incertezza è emersa qua e là. C’è quindi da immaginare che le nelle prossime due uscite le cose vadano ancor meglio. Anche Ruben Jais ha sopperito con la sua esperienza di Maestro del Coro e di barocco all’assenza del mitico Rilling

Alla fine buon successo, in una sala relativamente affollata (tenendo conto del contestuale sciopero dei mezzi pubblici…)

Riprende fra due settimane il Ciclo-Dvorak con lo specialista Aldo Ceccato.

26 novembre, 2012

La dignità del Tristan alla Fenice


Ieri pomeriggio la terza del Tristan veneziano, in un teatro affollato, ma non proprio esaurito. Anzi, andatosi tristemente svuotando di intervello in intervallo. Che dire? perle ai porci?

Beh, forse proprio non erano perle, ma certo un Tristan più che decoroso non si ascolta e vede tutti i giorni. E si avrebbe sempre qualcosa da imparare, se i buhatori spiegassero le loro ragioni. Dico: quello (o quei due al massimo) che hanno accolto Chung alla sua uscita finale sul palco con sonorissimi buh dovrebbero gentilmente far sapere ai poveri pirla che gridavano bravo! e applaudivano calorosamente che cosa non andava secondo loro nella direzione del coreano (o erano forse i suoi occhi sporgenti?) Direzione che io (ma evidentemente sono un crasso ignorante, e per questo mi piacerebbe imparare qualcosa…) ho trovato di livello se non assoluto, quanto meno elevatissimo (gli perdonerò qualche eccessivo fracasso nel finale).

La compagnia di canto non è proprio di quelle da star-system, ma se l’è cavata degnamente. Su tutti, per me, la Brangäne di Tuija Knihtila, voce bellissima e penetrante, che ha spesso sovrastato – nei loro dialoghi - la pur brava Brigitte Pinter. La quale è stata un’apprezzabile Isolde, pur con qualche piccola pecca sugli acuti pieni, un po’ troppo aperti e vocianti. E il modo con cui fissava in continuazione Chung (non Tristan!) fa pensare anche a un qualche disagio, se non proprio ad insicurezza (sarà mica questa la ragione dei buh al maestro?)  

Ian Storey, da cinque anni esatti a questa parte (cioè da quando Barenboim gli appaltò per la prima volta il ruolo per l’inaugurazione scaligera del 2007) è evidentemente migliorato, almeno come capacità di tenuta fino in fondo (allora aveva mostrato chiare défaillances, e anche in seguito, vedi a Genova nel 2010, se l’era cavata solo grazie ad abbondanti tagli nel second’atto). La voce non sarà straordinaria (anche lui meno penetrante della Knihtila) ma pare anche emotivamente adatta al personaggio (non parliamo poi delle qualità attoriali, che non si scoprono oggi).

Il Kurwenal di Richard Paul Fink non mi è dispiaciuto, sia nelle sue sguaiate esternazioni del prim’atto, che nelle sue premurose attenzioni del terzo. Un po’ a desiderare ha lasciato il suo modo di muoversi (ma quanto c’entra la regìa?) che ne faceva più una figura di cuoco o, che so, di addetto alle stalle, che non del rude luogotenente di Tristan!    

Attila Jun era König Marke: voce discreta, non eccezionale; quello che personalmente gli contesto è una caratterizzazione troppo focosa e meridionale della figura del vecchio Re: che ai miei occhi dovrebbe essere un personaggio dolorosamente colpito dal tradimento del figlioccio, ma che mantiene sempre (nel canto e nei gesti) l’aplombe e la regalità del suo ruolo, senza fare gesti inconsulti o imprecare come Rigoletto contro i cortigiani (!) 
     
Francamente modesto il Melot di Marcello Nardis (meno male che canta poco, smile!); apprezzabili i comprimari, in specie Gian Luca Pasolini, il mozzo che ha l’ingrato compito di rompere il ghiaccio. Come pure il pastore Mirko Guadagnini (chi ha trionfato con pieno merito è stata la sua… controfigura al corno inglese, Renato Nason) e Armando Gabba (il timoniere).

Il coro di Claudio Marino Moretti non si è mai… visto, ma ha sostenuto efficacemente la sua parte, che è limitata al primo atto.
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Due cosette sull’allestimento di Paul Curran (con le scene/costumi di Robert Hopkins e le luci di David Jacques). Dirò subito che, con tante stupidaggini che si vedono in giro di questi tempi, qui siamo al rigore (quasi) assoluto: grazie!

Sì, non mancano trovate abbastanza gratuite, come il Tristan che gioca a carte con Kurwenal durante l’intera prima scena: qui non si tratta solo di infedeltà rispetto al libretto, ma di una evidente banalizzazione del personaggio. Tristan se ne dovrebbe stare da solo a scrutare il mare (o il vuoto) perché ha qualcosa (e sapremo bene cosa) che gli rode dentro: mostrandocelo mentre gioca a carte per far passare il tempo è francamente deludente. E poi contrasta in pieno con il pretesto che Tristan invocherà per rispedire Brangäne a mani vuote (dover attendere al timone…) Buona invece l’idea scenografica della gabbia che rinchiude Tristan, efficace strumento ad evocare la barriera psicologica che separa i due protagonisti. Così come efficace e quasi didascalico è l’impiego delle luci al momento del brindisi e del risveglio: buio totale dopo l’assunzione del filtro e poi una luce violenta e concentrata sul pavimento verso la quale i due amanti, finalmente dichiaratisi, si trascinano bocconi, fino a congiungere le loro mani.

Nel second’atto la scena è nuda e sembra più un carcere che una lussuosa dimora, albero spoglio incluso (che il sempre sapido amfortas giustamente vedrebbe meglio nella Walküre!) Le libagioni dei due amanti (Tristan si è portato dietro in bisaccia bottiglia e calici, ma Isolde tracanna anche direttamente dalla bottiglia!) sono forse un cedimento alle abitudini del regista (scozzese, smile!) Quando i due amanti vengono sorpresi, secondo Wagner Isolde dovrebbe accucciarsi vergognosa sul sedile fiorito (e fin qui ci siamo quasi… mancano solo i fiori) e Tristan, in piedi, dovrebbe aprire il braccio per coprire col mantello la vista della svergognata. Qui invece vediamo Tristan coprire direttamente (in modo biblico, proprio!) la sventurata… Evabbè. Poi, dopo che Marke ha fatto il pistolotto e Tristan e Isolde hanno chiarito a tutti le loro intenzioni, il nostro eroe bacia la sua amata… dove? Mica in fronte, come poeticamente avverte Wagner, ma proprio e bene sulla bocca (in modo che anche i distratti possano capire, smile!)  

Nel terz’atto tornano le suppellettili del primo (fasciami di nave e gabbia di legno) ma tutte sgangherate e cadenti: e ci sta senz’altro, dato ciò che è accaduto nel frattempo. Tristan giace su una poltrona (e va bene) e se ne sta anche abbastanza fermo, come vorrebbe Wagner (che lo fa alzare solo all’avvicinarsi di Isolde). Bende insanguinate dappertutto non lasciano dubbi sul suo stato fisico, anche se l’attenzione di noi tutti dovrebbe concentrarsi esclusivamente su quello spirituale…

Il finale è rappresentato con efficacia e poesia: Isolde trasfigurata sul cadavere di Tristan e tutti gli altri, in penombra, inebetiti ad osservare.
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Per me, lo spettacolo vale assolutamente la pena (del prezzo del biglietto e del trasferimento in laguna). Poi però: non scappate durante gli intervalli, please!