ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

16 agosto, 2012

ROF-33 – Il Signor Bruschino


Dopo il Ciro, ecco il Bruschino, in seconda recita ieri al Rossini. Opera presentata da sola, mentre data la sua relativa brevità (75’ circa) di solito la si abbina ad altre dello stesso genere (quindi farse, normalmente). Una volta però (1938, alla Fenice) fu propinata quasi come antidoto (smile!) ad una tragedia: nientemeno che l’Elektra di Strauss!


E forse per… allungare un po’ i tempi l’opera viene qui introdotta da una simpatica presentazione di RossiniLand, un parco divertimenti tematico, le cui attrazioni sono i vari capolavori del maestro pesarese di cui udiamo, registrati, spezzoni di brani famosi. Addetti all’organizzazione degli eventi del parco stanno dando gli ultimi ritocchi al padiglione dove sta per iniziare la recita del Bruschino; arrivano gli interpreti che, nei loro camerini, indossano i loro pacchiani costumi di scena; qualche visitatore si aggira curiosando qua e là; arrivano anche gli ultimi orchestrali, che prendono posto nella buca e infine… ecco giungere di corsa Daniele Rustioni che scende sul podio e attacca la Sinfonia.

La quale – un vero gioiellino - è costruita su un modello assai semplice, già impiegato da Rossini in precedenza, come ad esempio ne L’inganno felice (1812) imprestato poche settimane dopo al Ciro: struttura bitematica (anche qui RE e LA maggiore, tempo Mosso) con breve introduzione (Allegro). Esposizione dei due temi, poi ripresa degli stessi, dove il primo tema chiude su una sesta napoletana e prepara la strada al ritorno del secondo – variato nella strumentazione, con oboe al posto del flauto - nella tonalità d’impianto (RE). Quelli che diventeranno i famosi crescendo rossiniano non mancano anche qui di farsi vivi a chiudere temi e sinfonia.  

Famola strana, sembra aver pensato Rossini, che ci infilò quegli impertinenti colpi di archetto picchiato sul leggìo (qui sul paralume) dai secondi violini: una trovata che non piacque molto al pubblico della prima (27/1/1813) che accolse malissimo l’opera, subito ritirata dal Teatro San Moisè di Venezia (ma si dice fosse un fiasco preparato a tavolino, motivato da contrasti fra Rossini e l’impresario e non certo da intrinseche deficienze dell’opera; Rossini, solo 10 giorni più tardi, trionferà alla Fenice con Tancredi).

La trama della farsa giocosa (di Giuseppe Foppa) è di quelle classiche quanto improbabili: il tenore è un giovane (Florville) innamorato (corrisposto) di un soprano (Sofia) affidata alle cure di un basso (il ricco tutore Gaudenzio). Costui ha però promesso Sofia ad un altro tenore (Bruschino-junior) solo perché figlio di un altro basso (Bruschino-senior) che evidentemente pagava bene… Altri tre personaggi di contorno sono il locandiere Filiberto, la cameriera Marianna e il Delegato di Polizia.

Riuscirà il simpatico Florville a sposare la dolce Sofia? Ovviamente sì, come in tutte le storie a lieto fine, ma solo attraverso una serie di fortuite combinazioni e l’impiego di trucchi, millanterie, scambi di persona, manovre di corruzione e… falso ideologico!    

Una curiosità: il tenore che interpreta Bruschino-junior entra solo nel finale cantando, anzi balbettando, non meno di 15 battute di musica, con una linea di 5 sole note (LA-RE-SIb-LA-RE) sui versi Padre mio! Sono pentito! (Peggio dell’aria del SIb di Argene nel Ciro, smile!) Ecco perché, per fare economie-di-scala, qui al ROF come anche alla prima di Venezia la parte è cumulata con quella del Delegato di Polizia (anche se nell’originale quest’ultimo sarebbe un basso… ma tanto deve a sua volta cantare poche note da solo, più un concertato e qualche frase di recitativo.)

Torniamo al ROF: questo allestimento è opera di un collettivo registico fiorentino, Teatro Sotterraneo, che si avvale delle scene dei ragazzi della Scuola di scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Urbino.


Premesso che una farsa si presta per definizione a qualunque tipo di trattamento, va dato merito ai gruppi di regìa e scene-costumi di averci cucinato un piatto assai gradevole. L’ambientazione in un parco-divertimenti comporta l’interazione di comparse che impersonano turisti in visita alle diverse attrazioni, che salutano i protagonisti, scattano con loro foto-ricordo o gli chiedono autografi, o vivaci scolaresche con relative maestre, che creano un minimo di animazione in uno scenario che altrimenti più statico non potrebbe essere. Talvolta servono anche come didascalia, ad integrare simpaticamente ciò che si recita: ad esempio entrano due ragazzi che si mettono ad amoreggiare dietro un divano, mentre Gaudenzio tiene a Sofia la sua improbabile lezione sulle delizie del matrimonio… Celebrato il quale in fretta e furia da Gaudenzio, la bella Sofia volta le spalle alla platea e vi lancia il suo bouquet!

A metà dell’opera, dopo il terzetto Bruschino-Florville-Gaudenzio, c’è ancora una piccola pausa dove passano in scena altri addetti del parco, uno dei quali inalbera un cartello con la scritta Guillaume Tell, chiaro messaggio pubblicitario in vista del ROF-34.

Insomma: uno spettacolo godibile, costruito con intelligenza e buongusto. Al successo del quale ha contribuito tutta la compagnia di canto e suono: su tutti Carlo Lepore (Gaudenzio) accolto da un’autentica ovazione; poi Roberto DeCandia, un divertente Bruschino. Maria Aleida nei panni di Sofia ha sciorinato la sua gradevole vocina (compresi alcuni sovracuti degni di Zerbinetta) e David Alegret è stato un Florville più che discreto. Così come Chiara Amarù (Marianna) e Andrea Vincenzo Bonsignore (Filiberto). Francisco Brito ha impersonato degnamente il Delegato di Polizia e la macchietta del Bruschino-figlio.

Daniele Rustioni ha condotto con piglio e verve (compresi i saltelli sul podio) i bravi ragazzi dell’Orchestra Rossini, lodevolmente affiancati da Carmen Santoro al fortepiano.

A tutti il folto pubblico – direi a maggioranza decisamente straniera - che assiepava il Rossini ha tributato un successo caloroso. 

14 agosto, 2012

ROF-33 – Ciro in Babilonia


Ieri sera seconda recita, al Teatro Rossini, del Ciro, sbarcato a Pesaro dopo l’esperienza sulla east-coast americana. La ripresa televisiva della prima (RAI5) ci aveva già dato una consistente idea dell’allestimento e una più o meno vaga sensazione sull’interpretazione musicale: originale (o bizzarra?) la regìa; di buon livello il lato sono-canoro.

Rossini, nelle lettere alla mammina, parlava di quest’opera (la sua seconda seria, dopo il giovanilissimo Demetrio) chiamandola oratorio, forse perché doveva rappresentarsi (1812, a Ferrara) durante la Quaresima (quindi in forma magari semi-scenica?) In realtà, a parte un labile riferimento biblico, poco o nulla ha delle caratteristiche strutturali degli oratori.

Secondo il costume del tempo, oltre ad auto-imprestarsi musica da un’opera all’altra (la Sinfonia, per dire, è quella della farsa (!) L’inganno felice, composta poche settimane prima del Ciro) Rossini era solito adattare le sue opere alle possibilità tecniche dei cantanti chiamati ad interpretarle (quando addirittura non le avevano direttamente ispirate). Così, saputo che il personaggio di Argene sarebbe stato affidato a tale Anna Savinelli, che secondo lui cantava ancor peggio di quanto fosse brutta (smile!) e aveva di passabile solo il SIb centrale, il ventenne Rossini (che doveva avere già il pelo sullo stomaco e la simpatica perfidia di un uomo navigato) per sfruttare al meglio quella peculiare qualità ed evitarle figuracce le affidò per tutta l’opera soltanto dei recitativi secchi e poi le scrisse un’aria (Chi disprezza gl’infelici, prima del finale dell’opera) poggiante esclusivamente su quella nota: 


(Va da sé che il pregio dell’aria sta tutto nell’accompagnamento orchestrale, smile!

Si suol dire che il libretto di Francesco Aventi sia debole e farraginoso ed abbia quindi condizionato negativamente anche la parte musicale: può darsi, e certo non mancano lungaggini e zone d’ombra, come ad esempio tanti recitativi secchi francamente snervanti  e forse giustificati proprio da quel preteso quanto spurio carattere oratoriale dell’opera. Ma la musica, signori, è proprio all’altezza del Rossini più grande e non per nulla ne ritroveremo parecchia altrove, in opere della maturità!  

Già la Sinfonia – per quanto presa di peso, come detto, da altra opera di tutt’altro genere – è un bell’esempio di struttura, pur embrionale, di forma-sonata: vi troviamo un’introduzione lenta (Andantino) dal carattere religioso, in RE maggiore virante ad un cupo e quasi tragico minore, che conduce all’esposizione dei due temi, entrambi veloci (Allegro spiritoso): il primo in RE e il secondo (che sembra anticipare certo Schubert) nella dominante LA maggiore; segue la riesposizione del primo tema, in RE, di cui è variata la cadenza conclusiva, in modo da portare alla ripresentazione del secondo tema adeguato alla tonalità di impianto. Rossini gioca abilmente con i timbri orchestrali, affidando a strumenti diversi (soprattutto i fiati) le riproposizioni dei temi; e fa già uso sapiente di quelli che diventeranno i suoi famosi crescendo, a concludere temi e brano. 

A dispetto dello sfondo pseudo-storico, l’opera poggia sulle vicende legate ai rapporti umani fra i protagonisti e sullo scavo psicologico delle rispettive personalità. Abbiamo un triangolo piuttosto anomalo (o originale, se si preferisce) col tenore incapricciato del soprano, che però è sposa fedele del… contralto! (Esiste anche una vicenda sentimentale parallela, fra Argene e Arbace, che resta però a livello di recitativi.) Il (lieto) fine è dovuto al provvidenziale intervento di due agenti esterni: il primo di natura soprannaturale (la mano che verga sul muro il famoso mane, thecel, phares) che fa dar di volta il cervello a Baldassare, e a Rossini fa scrivere un’aria stupefacente (Qual crudel, qual trista sorte); e il secondo più prosaicamente incarnantesi nell’arrivano i nostri guidati da Dario. Così trionfano onestà e fedeltà (di soprano e contralto) sulla cieca protervia ricattarice (del tenore).

Di azione quasi non esiste ombra, e anche l’unico (e classico) espediente dell’arrivo a Babilonia di Ciro sotto le mentite spoglie di un suo portavoce non crea alcuna suspence né ha sostanziali effetti, venendo presto smascherato e trasformandosi, come un boomerang, in un nuovo strumento di ricatto di Baldassare nei confronti di Amira. Ancora: la scena all’inizio del second’atto – che sembra mutuata da Fidelio, compresa la mirabile introduzione orchestrale – dell’incontro fra Amira e Ciro nella prigione in cui questi è segregato e dove arriva a sorprenderli Baldassare, si conclude senza colpi di teatro (nessuno squillo di trombetta che metta in allarme il despota babilonese…) e rimane un puro pretesto per farci ascoltare due grandi pagine di musica: il duetto Ciro-Amira (Nello stingerti al mio petto) e il successivo terzetto con Baldassare (Fiero nell’anima terror si desta).

In sostanza: l’intera vicenda si riduce al lungo braccio di ferro psicologico fra Baldassare e Amira, con Ciro a recitare la parte di un marito e padre tanto amorevole quanto impotente, cui non resta che affidarsi alla provvidenza. E tutta la musica (arie e cabalette) non fa che supportare questo scenario, con il contorno di qualche coro e di pochi numeri (tra cui la citata aria del SI bemolle…) riservati ai comprimari.   

Sul lato puramente strumentale, oltre ad alcune splendide introduzioni ad arie, sono da incorniciare alcuni brani di obbligato: primo fra tutti quello in LA maggiore del violino sull’aria di Amira (Deh! per me non v’affliggete) veramente degno di quello che Beethoven scriverà per accompagnare il Benedictus della sua Missa! Ma anche fagotto e corno hanno modo di mettersi in bella mostra in più di un’occasione.

Insomma, non sarà proprio un capolavoro, ma adesso che ne esiste una versione sufficientemente stabilizzata (grazie al lavoro sulle fonti compiuto dagli esperti della Fondazione Rossini, Ilaria Narici e Daniele Carnini) il Ciro è opera che merita senz’altro di entrare nel repertorio dei teatri (meglio se con parecchie sforbiciate ai recitativi secchi…)
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Vengo ora a questa nuova produzione del ROF. Intervistato da Radio3, il patron Gianfranco Mariotti ha ribadito che il ROF è un Festival e come tale è tenuto a fare allestimenti che portino novità e che facciano discutere; la routine viene lasciata ai teatri di repertorio. (Deduco che Mariotti non frequenta quei teatri da qualche decennio, smile!) Quanto a Davide Livermore, nelle sue apparizioni in radio e tv, durante le dirette, non ha mancato di ribadire il suo personale approccio alla regìa operistica: attualizzare i soggetti da mettere in scena, pur preservandone (bontà sua) la trama originale (!) E ha ovviamente citato a supporto di ciò la sua (censurabile, per me) interpretazione dei Vespri verdiani, da lui ambientati attorno alla strage di Capaci.

Ora bisognerebbe chiedergli dove stia, nel suo Ciro qui al ROF, l’attualizzazione… Perché cosa vediamo noi in scena? Ambientazioni e costumi pseudo-storici, tanto belli quanto inverosimili. La prima reazione che viene spontanea è: vuoi vedere che Livermore è stato colpito da improvvisa zeffirellite acuta? (smile!) E ha deciso di smentire clamorosamente il patron Mariotti, con un allestimento più tradizionalista di quelli dei teatri di repertorio (di 50 anni fa)? Ovviamente non può essere, e quindi ci dev’essere sotto qualcosa d’altro…

E questo qualcosa pian piano viene alla luce (lo si era del resto intuito da alcuni fuori-scena durante l’esecuzione della Sinfonia): acconciature, trucco e movenze degli interpreti sono tipiche da cinema muto (!) e noi del pubblico stiamo assistendo appunto alla proiezione di un film di un secolo fa, più o meno, come testimoniano tutte quelle classiche striature che scorrono verticalmente davanti ai nostri occhi, così tipiche delle pellicole di quei tempi (già, stiamo attualizzando, smile!)

Quindi ecco la trovata: dato che il-teatro-nel teatro, ed anche il-cinema-nel-cinema sono già stati da tempo inventati, usati ed abusati, il buon Livermore si spinge fino ad inventare il-cinema-nel-teatro.

Ma non è ancora tutto: ci accorgiamo che sulla scena, oltre ai protagonisti principali del dramma rossiniano, bardati nei loro costumi zeffirelliani, ci sono anche componenti del coro (e forse alcune comparse) che vestono invece abiti borghesi di un secolo fa, e assistono al film (muto, ma… cantato!) accomodati su scomode seggiole. Dopodichè questi particolari spettatori cominciano ad alzarsi, a muoversi e a… mescolarsi con i protagonisti del film, diventandone a loro volta interpreti (ma il pubblico che diventa protagonista dell’opera è un… copyright che da anni è stato registrato da tale Robert Carsen, o sbaglio?) In alcuni momenti sullo sfondo compare proprio l’immagine dei palchi di un teatro, ottenuta con semplici proiezioni, invece che facendo scendere giganteschi specchi che riflettano la sala vera, dove stiamo noi spettatori (ma al ROF non ne avevano uno di specchi, già impiegato anni fa per Zelmira? Forse era stato solo noleggiato… smile!) Insomma, oltre al cinema-nel-teatro abbiamo adesso anche il teatro-nel-cinema!

Mah: viene il sospetto che Livermore con questo allestimento si sia proposto (anche) di mettere alla berlina le regìe cosiddette tradizionali, e per far ciò abbia usato uno strumento ben preciso: la parodia. L’idea sarà anche brillante, ma il rischio che il regista corre è di parodiare, insieme al concetto di regìa tradizionale, anche l’oggetto medesimo della rappresentazione. In sostanza, quello cui assistiamo è un Ciro in Babilonia che assomiglierà pure a grandi e secolari pellicole, quali Cabiria o Intolerance, ma a volte finisce per scadere al livello di Ridolini o di Stanlio&Ollio! Beh, come risultato del principio di attualizzazione non mi sembra male davvero (!) In ogni caso e dati i precedenti, ci consoliamo pensando che ci poteva capitare di molto peggio: Ciro trasformato in Khomeini e Baldassare in Saddam, ai tempi della guerra Iran-Iraq (ma evidentemente questo soggetto è stato ritenuto di scarsa attualità, smile!)

Quello che ha lasciato pochi dubbi è invece il lato-suoni, di livello davvero ragguardevole (accade raramente che l’ascolto dal vivo appaia migliore di quello microfonato delle riprese audio-tv): a partire dall’inossidabile 60enne Ewa Podleś, un Ciro eccezionale che ha letteralmente stregato il pubblico. Voce da vero contralto, che si spinge giù fino al MIb centrale della chiave di… basso (!)

Per continuare con Michael Spyres, perfettamente a suo agio nei panni di Baldassare: gran voce da bari-tenore, canto aperto, con ampia estensione (qui, dal SIb sotto il rigo al DO sovracuto). Interminabile l’applauso che ha accolto la sua Abbian morte e Ciro e figlio.

Ma su tutti ha brillato, secondo me, Jessica Pratt (Amira): voce sempre calda e intonata, ottimo legato e mai una sbavatura o un urlo.

All’altezza gli altri interpreti: Mirco Palazzi, autorevole Zambria, Robert McPherson come Arbace e Raffaele Costantini, nella parte piccola ma importante di Daniello. Carmen Romeu (Argene) ha sciorinato assai bene il suo SI bemolle: si spera che non abbia solo quello (smile!) Compatto e preciso il coro bolognese di Lorenzo Fratini.

Will Crutchfield – oltre che accompagnare personalmente i recitativi al fortepiano - ha guidato con autorità l’Orchestra del Comunale di Bologna, sempre più di casa al ROF, con un’interpretazione rigorosa, forse a volte un filino troppo… compassata (ma siamo quasi a cercare il pelo nell’uovo).

Si potrebbero invece criticare i pochi (!) tagli ai recitativi secchi (tagli limitati più che altro al finale) il che ha comportato inevitabili rallentamenti del flusso musicale (oltre ad una durata della recita che ha sfiorato le tre ore nette!) senza peraltro aggiungere gran valore allo spettacolo. Ma in complesso si è trattato di un’esecuzione che ha reso giustizia a questo Rossini giovane ma ormai avviato sulla strada che lo porterà lontano.

Grandissimo – e assolutamente meritato - successo per tutti.

01 agosto, 2012

È in arrivo il ROF-33


Venerdi 10 agosto prenderà il via a Pesaro la 33ma edizione del Rossini Opera Festival.

La novità assoluta di quest’anno è il Ciro in Babilonia (che pochi mesi fa ha festeggiato i suoi due secoli di vita!) coprodotta con il Festival di Caramoor e colà già rappresentata lo scorso luglio, con lo stesso Direttore (Will Crutchfield) e gli stessi interpreti principali che rivedremo a Pesaro: Ewa Podleś, Jessica Pratt e Michael Spyres. La regìa – con ampio impiego di immagini - è di Davide Livermore, accolta con qualche perplessità dal pubblico americano, ma difesa a spada tratta dal Concertatore. Qui abbiamo un flash del clima simpaticamente godereccio che sta regnando nei giorni di preparazione dello spettacolo…   

La prima del 10 potrà essere seguita in video – leggera differita, alle 21:15 - su RAI5. In audio, in diretta alle 20:00, su Radio3, che trasmetterà (sempre alle 20:00) anche le prime delle altre due opere del cartellone principale: sabato 11 Matilde di Shabran (Mariotti sul podio e Martone alla regìa, ripresa dal 2004) e domenica 12 il nuovo allestimento de Il Signor Bruschino (direttore Rustioni).


La chiusura del Festival, giovedi 23 alle 20:30 (con diffusione in Piazza deI Popolo, ma non in etere) come è recente consuetudine sarà affidata ad un’opera – Tancredi - eseguita in forma di concerto, sotto la direzione di papà Alberto Zedda e con la specialista Daniela Barcellona nel ruolo-titolo.  
  

25 luglio, 2012

A Bayreuth niente svastiche, solo panzer…


Der fliegende Holländer ha così inaugurato il Festival n°101. Grandioso successo di pubblico (stando a ciò che ci hanno riportato i microfoni delle radio) che credo si spieghi col fatto che oggi – come negli anni ’40 – la Germania si sente in guerra contro tutti, e a Bayreuth può mostrare i muscoli.

Christian Thielemann – ormai il padre spirituale del festival - è il trionfatore della prima, con una direzione che più tedesca (e quindi autentica, sia chiaro!) di così si muore: nel terzo quadro si vedevano chiaramente i panzer marciare su… Bruxelles (smile!A parte le battute, Thielemann possiede quello che si definisce il gene wagneriano, forse già presente nel suo DNA, ma di certo ben pasciuto dalla frequentazione diretta di gente come Karajan o indiretta di maestri come Furtwängler… L’unico difetto che gli imputo (personalmente) è la manìa - comune peraltro a molti direttori, soprattutto se famosi - di lasciare sulle partiture quelle che chiamo (con termine irriverente, ok) pisciatine di cane (tipicamente: indebiti salti di tempo, che faranno anche effetto, ma siamo sempre lì: se accettiamo questa, allora dobbiamo poi accettare qualunque invenzione di qualunque altro direttore?)  

L’orchestra e il coro di Bayreuth sono – soprattutto se guidate da uno come Thielemann – delle macchine quasi perfette, nelle quali è difficile trovare difetti, e anche oggi lo hanno confermato in larga misura (ricordo solo una piccola sbavatura di un attacco del coro e un paio di incertezze dei corni).

La protagonista principale, la Senta di Adrianne Pieczonka, ha avuto un partenza un poco freddina, ma per il resto mi pare abbia ottimamente retto l’urto di una parte assai impegnativa (buon viatico per quando la sentiremo in quel ruolo a Torino, fra qualche mese).

Suo padre Daland, Franz-Josef Selig, mi è parso francamente non all’altezza: ha cercato di dare espressione al personaggio, ma il canto ha lasciato a desiderare assai: difficoltà continua di intonazione e timbro del tutto sgradevole. Per me, un esordio non proprio felice sulla collina verde.

Meglio, se non altro date le circostanze di assoluta emergenza in cui si è venuto a trovare, è andato l’Holländer di Samuel Youn: essere catapultato all’ultimo momento in una prima e in un ruolo-chiave (per uno che ha solo sostenuto a Bayreuth parti secondarie) non dev’essere uno scherzo davvero. Lui in fin dei conti ha colmato il vuoto lasciato da Nikitin (meglio: dall’ipocrisia dilagante lassù) in modo dignitoso.

Lo sfigato Erik era l’esordiente (a Bayreuth) Michael König: una prestazione appena appena discreta la sua, in una parte pur non proibitiva (nell’aria del terzo quadro ha accuratamente evitato anche un non impossibile LA acuto…)  

Bene lo Steuermann di un altro esordiente, Benjamin Bruns, voce chiara e ben impostata. Decisamente un gradino sotto la Mary di Christa Mayer.
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PS: ogni volta che ascolto l’Holländer non posso non pensare alla stupidità della tradizione di Bayreuth (leggi: Cosima) che vi rappresenta quest’opera, e vi tiene rigorosamente fuori Rienzi.

22 luglio, 2012

Ombre brune su Bayreuth


A 3-4 giorni di distanza dalla première dell’Holländer, il basso-baritono russo Evgeny Nikitin, destinato ad interpretarne il ruolo principale, si deve essere tolto – chissà dove, ma in pubblico - la canottiera per la prima volta dopo anni e anni (evidentemente lui, su consiglio di una mamma premurosa, la indossava sempre, anche sulle spiagge a 40°).

E così i/le responsabili del Festival di Bayreuth hanno potuto scoprire – giusto in tempo – che il biondo 39enne nato al circolo polare (ecco perché non svestiva mai gli indumenti intimi di lana!) non aveva uno dei requisiti-base per salire sulla verde collina: essere esente da ogni compromissione con il nazismo!

Sì, perché il nostro, in pieno petto, reca da quando era ragazzo e faceva il metallaro, un tatuaggio con tanto di svastica!


Apriti cielo, in quattro e quattr’otto è stato invitato a rinunciare al tanto atteso esordio. Lui si è giustificato dicendosi pentito di quel tatuaggio e di non aver pensato a quanto lunga sia ancora la coda di paglia dei tenutari di Bayreuth rispetto al passato nazista del gran baraccone.

Peccato perché erano anni che Kathi Wagner e Christian Thielemann gli facevano la corte - mai avendolo visto in mutande, evidentemente – ragion per cui in fretta e furia è stato cooptato al ruolo Samuel Youn, che si trova per caso già a Bayreuth per interpretarvi l’Araldo nel Lohengrin, e così fa pure risparmiare sulla nota-spese (smile!
        

19 luglio, 2012

Storielle della verde collina


Si avvicina anche quest’anno la fatidica data del 25 luglio, giorno in cui tradizionalmente si apre il Festival di Bayreuth, che nel bene e nel male (ultimamente più male che altro…) fa sempre parlare di sé. E già ne ha scritto un altro wagnerite.

Questo è il secondo anno consecutivo di astinenza dal Ring, che nel 2010 chiuse il quinquennio Thielemann-Dorst, in vista del colossale lancio di quello del bicentenario, già in preparazione e già in mezzo a guai e problemi di ogni genere… ma ci sarà tempo per occuparsene al momento opportuno.

Quindi ci sono cinque titoli in programma, ciascuno con 6 recite: quattro già presentati nelle scorse stagioni (Tannhäuser, Lohengrin, Tristan e Parsifal) e uno di nuovo allestimento, l’Holländer, che rimpiazza, rispetto al 2011, i famigerati Meistersinger di Kathi, la pronipotina terribile del vecchio Richard, che dal 2009 è - insieme alla sorellastra Eva - alla guida del baraccone inaugurato dal bisnonno nel 1876.

Sul podio dell’Olandese ci sarà Christian Thielemann, ormai di fatto, se non proprio di diritto, Direttore musicale del festival; il quale, oltre alla nuova produzione, si accollerà anche la ripresa di Tannhäuser. Così aggiungerà ben 12 gettoni di presenza sul podio di Bayreuth, totalizzandone 123 e superando di slancio al quarto posto James Levine, fermo a 117. Anche il routinario Peter Schneider, con i 6 Tristan, farà un passo avanti in classifica, scavalcando al secondo posto, con 142 presenze, il compianto Horst Stein (138). Al comando resta, ma con vantaggio ridotto, Daniel Barenboim (161 gettoni).

E a proposito di statistiche, pur avendo diretto soltanto 14 recite, Richard Strauss è tuttora il recordman in fatto di tempo trascorso fra la prima e l’ultima direzione, avendo diretto per la prima volta nel 1894 e per l’ultima nel 1934, a 41 anni di distanza. Lo segue da vicinissimo (e potrebbe in teoria superarlo) Pierre Boulez, che ha diretto 97 recite, la prima nel 1966 e l’ultima ben 40 anni dopo, nel 2005.    

Andris Nelsons dirigerà ancora il contestato Lohengrin di Neuenfels, mentre l’ultima edizione del ciclo del Parsifal di Herheim perderà la direzione musicale del nostro Daniele Gatti, al cui posto sarà il giovane esordiente Philippe Jordan.

Escludendo dal conto alcuni concerti speciali, al termine di questa edizione saranno 2532 le alzate di sipario complessive del Festival, totalizzate nelle sue 101 edizioni (dal 1876).
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Ecco quindi la novità del 2012: Der fliegende Holländer (che sarà a quanto pare l’unica opera trasmessa in diretta da Radio3, ma altri faranno di più, come gli spagnoli che ci rifilano altri 4 gol di scarto, trasmettendo in diretta tutte le cinque prime, dal 25 al 29 luglio, e di norma corredate da commenti in studio di altissimo livello).

Intanto una curiosità: osservando l’orario di inizio (18:00, come è consuetudine per il Rheingold, che non ha intervalli, e non 16:00, come per tutte le altre opere e drammi) si deve pensare che l’opera venga rappresentata tutta d’un fiato, come Wagner l’aveva concepita in origine, e non suddivisa su tre atti, cosa che lo stesso Wagner fu costretto a fare su richiesta del Teatro Reale di Corte di Dresda che ospitò la prima, riscrivendo all’uopo le parti di raccordo (fine e inizio atti). Questa dell’esecuzione in atto unico (suddiviso in tre quadri) è del resto una tradizione bayreuthiana che a suo tempo (1901) fu la stessa Cosima ad introdurre (qui un’esecuzione in piena era nazista). La durata è circa 2h20’ (meno del Rheingold, appunto) il che metterà comunque a dura prova la resistenza fisica dei pellegrini che affolleranno il sacro tempio.

L’opera fu originariamente composta negli anni 1840-41 a Parigi, subito a ridosso del Rienzi e – come questa – rappresentata in prima a Dresda (dove Wagner era da poco divenuto Hofkapellmeister, sull’onda del trionfo di Rienzi) il 2 gennaio del 1843, con scarsissimo successo.



Il che convinse Wagner a mettervi continuamente mano, tanto che l’edizione oggi più comunemente eseguita è quella approntata nel 1864 – quasi 5 lustri dopo la composizione – per Re Ludwig II di Baviera. Ma si sa che Wagner pensò ancora ad altri rimaneggiamenti nientemeno che fino al 1881, due anni prima della scomparsa: evidentemente, oltre al Tannhäuser, anche l’Holländer gli rimase sempre un po’ sullo stomaco.

Il soggetto, che Wagner mutuò liberamente da racconti ed opere teatrali diverse, è incentrato sul concetto di redenzione, che una donna più o meno schizofrenica è chiamata dal destino a portare ad un uomo più o meno complessato e peccatore, destinato da una scommessa con Satana a vagare sui mari per cicli di sette anni, in attesa dello sbarco che gli faccia appunto incontrare la donna disposta a redimerlo a costo della stessa vita.

C’è chi ci vede Ahasvero e chi – col senno di poi – anche lo stesso Wagner, perennemente in fuga per sfuggire ai creditori (o alla polizia). Il viaggio avventuroso e da clandestino che nel 1839 portò il compositore, con moglie e cane, da Riga a Londra (e da qui a Parigi) con un mezzo naufragio e conseguente sosta forzata in un porto norvegese, furono poi lo stimolo concreto alla definizione dell’inverosimile trama dell’opera.

Dove, tanto per dire, troviamo un onest’uomo (?) marinaio norvegese, a nome Daland - costretto da un fortunale a gettare l’ancora a qualche miglio da casa - che incontra l’Olandese, cui per combinazione sono scaduti precisamente in quel momento i sette anni di peregrinazioni forzate sui mari e prende terra proprio lì. I due si presentano e – toh! – dopo due minuti, alla vista del classico forziere pieno di oro e perle, il simpatico Daland già offre la figlia Senta in moglie all’Olandese, che non vede l’ora di conoscerla per esserne redento (!)

Ma il colmo del ridicolo determinismo di tutta la storia è che (siamo nel secondo quadro) in casa di Daland è appeso alla parete un dipinto raffigurante precisamente… l’Olandese, di cui la pia Senta (promessa sposa a tale Erik, si badi bene) pare conoscere la storia, che infatti lei ci racconta, anzi ci canta per filo e per segno nella celebre Ballade, un’aria col da-capo seguito da una terza strofa (!) Manifestando insieme il suo impegno… umanitario di esser lei a portare la redenzione al pallido navigatore. Alla faccia delle rimostranze del fidanzato che – da parte sua – ha già visto in sogno tutto ciò che sta per accadere (il mancato suocero che si accorda con lo straniero per rifilargli la sua Senta!)

Il quale straniero arriva poco dopo, presentato e sponsorizzato da Daland, e va subito alle spicce, mostrando di gradire assai la fanciulla da cui farsi redimere. Fine del quadro con duetto d’amore fra redentrice e redento, con la benedizione del suocero. (Ma mica può finire così, diamine!)

Il terzo quadro è occupato quasi interamente da un'abominevole scena corale, che ci assorda per quasi un quarto d’ora con sguaiati canti degli avvinazzati marinai norvegesi (ma potremmo essere benissimo all'Oktoberfest, smile!) eccitati a dovere dalle ragazze del posto, e poi dell’equipaggio della nave maledetta dell’Olandese, che pare prepararsi a salpare in un’atmosfera cupa e colma di mistero.

Ecco infatti il finale, tragi… miracolistico. Erik non ci sta a far la figura del pirla, e reclama da Senta il rispetto della sua solenne promessa di matrimonio. L’Olandese, per puro caso, è lì a due passi, ascolta tutto e ne deduce che l’abnegazione redentrice della fanciulla era tutta una messinscena predisposta in combutta con lo sbifido Daland per impossessarsi di oro e perle, e così pianta in asso tutto e tutti, sale rapidamente a bordo del suo vascello fantasma (per i meno giovani, una 500 Abarth!e si allontana alla velocità del fulmine per un nuovo ciclo settennale di oceaniche peregrinazioni.

Al che Senta sale su una roccia del fiordo, grida la sua fedeltà eterna all’Olandese e si tuffa in mare, per dimostrare la sua volontà di sacrificio. Ed ecco che la nave maledetta cola a picco come un piombino, mentre dalle acque si vede emergere uno scoglio su cui stanno, abbracciati, Senta e l’Olandese che – trasformatosi lo scoglio in una nuvoletta – vengono trasportati in cielo avvolti da una luce sfolgorante (!)

Insomma, una cosa a metà fra l’Assunzione in cielo e la chiusa del Faust (smile!)

Musicalmente, siamo ancora abbastanza ancorati agli stilemi e alle regole dell’opera italiana, con tanto di numeri chiusi, arie, duetti e cori. I personaggi-chiave sono quattro: l’Olandese (baritono), Daland (basso), Senta (soprano) e Erik (tenore). Più Mary (tata di Senta, mezzosoprano) e il timoniere di Daland (tenore). Grande ruolo hanno i cori: marinai norvegesi e olandesi, ragazze norvegesi.

L’opera consta precisamente di 8 numeri principali, con il seguente contenuto:

Quadro I:
1. Coro dei marinai norvegesi; canzone del timoniere;
2. Recitativo e aria dell’Olandese;
3. Scena; duetto (Olandese, Daland); coro;

Quadro II:
4. Coro delle filatrici; Ballade di Senta;
5. Duetto (Erik, Senta);
6. Aria di Daland; duetto (Olandese, Senta); terzetto (Daland, Olandese, Senta);

Quadro III:
7. Coro dei marinai e delle ragazze norvegesi, poi degli olandesi;
8. Duetto (Erik, Senta); cavatina di Erik; finale (Olandese, Senta, cori).

La principale innovazione risiede nella mancanza di cadenze chiuse, rimpiazzate da transizioni che danno continuità al flusso musicale (ma nulla a che vedere con ciò che Wagner inventerà a partire dal Ring).

Insomma, un Wagner trentenne  ancora incerto sulla strada estetica da seguire, e sempre in bilico fra il grand opéra (vedi Rienzi) e l’opera romantica: Holländer, Tannhäuser, infine Lohengrin, pur battezzate con la seconda categoria, recano tutte, quale più, quale meno, tracce evidenti della prima. Ed anche la Siegfrieds Tod, antesignana del Ring, nascerà nella mente di Wagner con quelle caratteristiche, che Götterdämmerung conserva in buona misura (vedi il second’atto). Solo dopo la fuga da Dresda (1848) il nostro maturerà le sue convinzioni sui drammi musicali, che troveranno realizzazione a partire dal Rheingold (1853).
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Chi rimanesse deluso (smile!) dalla direzione di Thielemann potrà rifarsi con Gianandrea Noseda, che avrà il battesimo wagneriano da venerdi 12 ottobre, inaugurando con l’Olandese la stagione 12-13 del Regio di Torino.

13 luglio, 2012

Muti a Ravenna per le fraternità


Ieri sera  un concerto diretto da Riccardo Muti nell’immenso PalaDeAndrè, gremito all’inverosimile, ha di fatto chiuso il cartellone concertistico della 23ma edizione del Ravenna-FestivalStando alla locandina, si poteva aver l’impressione di un concerto assai breve, anche se di alto livello di intensità spirituale: con il ‘700 religioso (quello aperto e solenne di Haydn e quello raccolto e intimistico di Mozart) a incorniciare il laico ’800 del sereno e nobile pessimismo dei due canti di Brahms.

Viceversa, e in omaggio al Leit-motiv del Festival (Nobilissima visione) si è trattato di una specie di incontro ecumenico fra religioni diverse (e le rispettive espressioni musicali).

Così vediamo entrare dapprima gli strumentisti, componenti di due orchestre di giovani (l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini e la fiesolana Orchestra Giovanile Italiana) e i coristi (Coro del Friuli Venezia Giulia e Stagione Armonica). Ma poi ecco farsi avanti dalle due entrate sul fondo il Coro serbo bizantino Moisey Petrovich del monastero di Kovilj e i Lama tibetani del monastero di Drepung Loseling, muniti di due giganteschi corni (del tipo Alpenhorn, per intenderci) e di due specie di trombe. Entrano anche, andandosi a sedere davanti ai coristi, il Coro dei missionari di San Carlo Borromeo e il Coro ortodosso di Mosca. Dal fondo della tribuna arriva poi Ani Choying Drolma, monaca buddhista nepalese che sfrutta le sue doti di canto per finanziare attività benefiche nel campo dell’istruzione e della sanità. (E non è finita qui, perché più avanti avremo ancora altri protagonisti.)

Muti si è accomodato su una sedia vicino al podio e segue, con tutto il pubblico, un indirizzo di saluto registrato dal Dalai Lama, che ricorda i valori comuni a tutte le religioni, in particolare la tolleranza e lo spirito di servizio.            

Dopodichè ha attaccato il Te Deum in do maggiore per coro e orchestra, Hob. XXIIIc n. 2 di Haydn. Opera della tarda maturità, commissionata dalla corte di Maria Teresa, e che risente delle esperienze londinesi (Händel incluso). Opera in tutto e per tutto settecentesca, austera, impettita e un po’ retorica e stucchevole, senza molti cedimenti a compromessi armonici.
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Vi si possono distinguere tre sezioni: la prima (Allegro) propone il tema gregoriano del TeDeum, in DO maggiore, seguito da una canonica modulazione alla dominante SOL (Tibi omnes Angeli) a preparare la tonalità del Sanctus. Sul Tu rex gloriae Christe torna il tema del Te Deum in DO maggiore, che si chiude (sul venturus) con un accordo tenuto di settima (SI-FA-RE-SOL, dai soprani ai bassi). Un DO pure tenuto dell’orchestra chiude questa prima parte del brano.

Ora (Te ergo quaesumus) si passa a DO minore (Adagio) ma per sole 9 misure, dopodiché (Aeterna fac) si torna al DO maggiore, in Allegro moderato. Ora si modula a LA minore (Dignare Domine) fino ad una nuova fermata (nos) prima del Miserere Domine, dove si passa fugacemente al FA maggiore, e da qui al definitivo ritorno al luminoso DO maggiore (Quem ad modum speravimus) che porta alla conclusione fugata sul non confundar.
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Devo ammettere che è musica che non mi entusiasma molto (come quasi tutta la musica di circostanza) ma proprio per questo meritano applausi e stima gli esecutori che l’hanno offerta in modo impeccabile.

A questo punto abbiamo un primo intermezzo, con due canti del Coro dei missionari di San Carlo Borromeo  e del Coro serbo bizantino Moisey Petrovich, prima dei due lavori di Brahms, praticamente coevi e caratterizzati da quel pessimismo sottile, ma mai nichilista, che traspare dalle composizioni con voce del burbero amburghese, ma che in fondo emerge anche nella sua produzione puramente strumentale. 

La Rhapsodie (Rapsodia per contralto, coro maschile e orchestra op. 53) è del 1869 e presenta tre strofe (la quinta, sesta e settima, di 6, 8 e 8 versi rispettivamente) delle 11 del poema Harzreise im Winter di Goethe. Che si basa su una storia vera e racconta di un’anima in pena (nella realtà tale Victor Leberecht Plessing, plagiato dal Werther) un misantropo che ha in odio il mondo e vaga per boschi in preda al suo egoismo e al suo nichilismo. Ma ecco uno squarcio di flebile speranza: in qualcosa di soprannaturale, precisamente nella musica che, chissà, non possa consolare il suo cuore. (Pare che qui ci sia anche qualcosa di autobiografico, una specie di magone che Brahms provò allorquando Julie - figlia di Robert e Clara Schumann - di cui lui si era infatuato, prese marito…)
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Sono 175 battute in totale, che iniziano con un Adagio (4/4 in Do minore, con divagazioni a SIb, LAb e REb) dove l’orchestra, per 18 battute, introduce la prima strofa, che descrive il vagabondare dell’individuo in piena solitudine. L’orchestra (i violini hanno sempre la sordina per le prime due strofe) si muove prevalentemente per gradi congiunti, su scale discendenti (a testimoniare della depressione che attanaglia l’anima in pena) negli archi e ascendenti nei fiati, che anticipano motivi che udiremo poco dopo.

Infatti a misura 18 ha inizio l’Arioso, che caratterizza la prima strofa del canto; qui la voce comincia ad introdurre intervalli più ampi, che caratterizzeranno l’intero brano: prima un RE-FA (Abseits) poi un DO-MIb (ihm) sempre discendenti, intervalli che culminano in un’abissale nona (DO-SI) sulla parola Öde (solitudine, appunto) che chiude il recitativo introduttivo.

A misura 48 si passa in Poco Andante (6/4, ma con la voce che spesso si muove in 3/2)  per l’esposizione della seconda strofa (in forma di Aria con struttura A-B-A’, dove in A’ vengono ripetuti i primi 4 versi) carica di pessimismo sulla sorte dell’individuo cui è venuto in odio l’intero universo. Anche qui troviamo melodie poco mosse (ad esempio quelle che caratterizzano la sezione B, secondi 4 versi) ma con irruzioni repentine di ampi intervalli, come quelli che si odono sulla parola Menschenhaß (odio per l’umanità): prima REb-MI, poi (nella ripetizione della semistrofa, A’) REb-REb e MI-MI; o come quelli che sottolineano il concetto opposto (aus der Fülle der Liebe Trank, dalla pienezza dell’Amore): nella prima sezione (A, seconda esternazione) abbiamo REb-REb (ottava discendente) poi SI-FA (12ma ascendente!):

che nella ripetizione (A’) scendono di un semitono, e diventano DO-DO e LA#-MI. Il trank viene quindi raggiunto sul SOL maggiore (anziché sul LAb) e da qui una semplice modulazione da tonica a dominante prepara il DO maggiore del Finale.

E a misura 116 (Adagio, 4/4, DO maggiore) ha appunto inizio la strofa conclusiva, con l’intervento del Coro maschile a supportare – talvolta in contrappunto - il canto del contralto. Il quale è ancora caratterizzato da ampi intervalli sonori, ora però del tutto rassicuranti e sereni, come la sequenza SOL-DO(ascendente)-MI-RE(discendente) sulla parola Liebe, e ancora l’ottava discendente seguita da una settima ascendente (DO-DO-SI) sul verso Ein Ton seinem Ohre:

Brahms impiegherà qualche tempo dopo il motivo di Ist auf deinem Psalter nell’ultimo dei Neue Liebeslieder, op. 65, come accompagnamento nel basso (mano sinistra del secondo pianoforte):

La struttura del Finale è abbastanza singolare: dal punto di vista del testo si potrebbe definire come A-B-A’, dove A sono i primi 4 versi, B i secondi 4 e A’ ancora i primi 4, con reiterazione finale del quarto verso. Invece se guardiamo la musica, dovremmo definirla come A-B-A-B’, dove B’ è il motivo musicale che caratterizza la seconda parte della strofa, impiegato per supportare la finale reiterazione del quarto verso:

Questo motivo (che sottolinea il quinto verso della strofa) compare per la prima volta a misura 128, su un subitaneo passaggio dal DO al MIb, e viene poi sottoposto a tutta una serie di modulazioni. Dapprima a SI maggiore, fra la chiusa dell’ottavo verso nella voce solista e la sua ripetizione nelle voci del coro; poi a SOL maggiore, dopo che il coro ha chiuso l’ottavo verso e in preparazione del ritorno a DO maggiore per la ripresa (A) dei primi 4 versi. La sezione che ho indicato come B’, dove si reitera il quarto verso, principia col ritorno, nel flauto, del motivo nella tonalità di MIb; poi, dopo il primo erquicke del contralto, lo udiamo per l’ultima volta in LAb.

La chiusa continua a reiterare il verso erquicke sein Herz, muovendo dal LAb verso il FA e da qui, con una incredibile serie di modulazioni in poco più di tre battute, ci porta lungo il ciclo delle quinte a SIb, MIb, LAb e REb. Da dove, per scivolamento, si ritorna al DO per la cadenza conclusiva.

Da Brahms a Mahler? Sappiamo come Mahler fosse ammiratore e critico allo stesso tempo del vecchio maestro (che a Vienna gli aveva impietosamente bocciato il suo giovanile Klagende Lied, ma poi lo aveva rivalutato come direttore, ascoltandone uno straordinario DonGiovanni). Fatto sta che non si possono non rilevare contatti o analogie fra la Rhapsodie e il mahleriano Abschied. Nel quale troviamo il verso Ich suche Ruhe für mein einsam Herz (cerco riposo al mio cuore solitario) che riecheggia l’ultimo verso che udiamo nella Rhapsodie. Sono quei vaghi e subliminali rimandi (testuali, se non musicali) di cui è infarcita la storia della musica occidentale, un fenomeno che paradossalmente non è stato ancora studiato in tutte le sue più intime caratteristiche e implicazioni.
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Ekaterina Gubanova ce l’ha proposta con dignità e garbo, pur se la voce non è delle più penetranti  e gli attacchi non sempre impeccabili. Altro intermezzo con una specie di tenzone canora fra bassi: dapprima il solista dei Lama tibetani, che emette suoni gutturali, quasi da ventriloquo, poi quello del Coro moscovita, che si esibisce in una specie di salmo moderno.

Muti risale sul podio per lo Schicksalslied (Canto del Destino, per coro e orchestra,  op. 54) composto fra il 1868 e il 71 su testo di Friedrich Hölderlin (tre strofe di 6, 9 e 9 versi). Se analizziamo il testo scopriamo una specie di specularità con quello goethiano della Rhapsodie. Là avevamo due strofe cupe e disperate, seguite da una terza vagamente consolatoria, qui invece il contrario: due strofe eteree e luminose (dove si descrive la perennemente serena esistenza dei geni soprannaturali, del tutto esenti da ogni forma di destino) seguite da una terza in cui si prende invece atto dell’eterna infelicità che caratterizza la natura degli Uomini, che sono appunto destinati a non trovare mai pace, né rimedio alle loro ansie.     
Brahms, sempre per quella sua innata contrarietà ad avallare posizioni nichiliste, volle aggiungere una conclusione serena – sia pure solo in suoni e non in parole - in ciò contraddicendo però l’autore del testo e lo stesso spirito del poema. E la cosa gli pesò assai, e forse giustificò i quasi tre anni di oblìo in cui lasciò cadere il lavoro, prima di decidersi finalmente – ma senza esserne del tutto convinto - a pubblicarlo.
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Il brano consta di 409 misure e si articola in tre parti: Langsam und sehnsuchtsvoll (Lento e pieno di anelito) 4/4 in MIb maggiore, che contiene l’Introduzione strumentale di 28 misure e il canto delle prime due strofe (75 misure); Allegro, 3/4 in DO minore, 276 misure che presentano, reiterandola, la terza strofa; Adagio, 4/4 in DO maggiore, 30 misure che contengono la conclusione puramente strumentale.

L’introduzione serve a preparare l’atmosfera rarefatta e luminosa in cui si muovono i geni beati, su morbidi tappeti di nuvolette, accarezzati dalle divine brezze (par di vedere la pubblicità di un famoso caffè, smile!) Dai primi violini, alle misure 19-20, scaturisce quasi inavvertitamente un motivo che fra poco aprirà il canto della prima strofa.  

La quale viene esposta da misura 29 (e fino a 63) inizialmente dai soli contralti che ne cantano i primi due versi, con gli strumentini a disegnare dolci arabeschi che evocano uno scenario di olimpica pace. E, a proposito di Olimpo, sarà un caso che le prime quattro note del motivo che udiamo (ripreso subito dall’intero coro e dagli archi) e che i violini avevano fugacemente preannunciato poco prima, vengano dal mozartiano Molto Allegro della Jupiter?

Dopo che il coro ha chiuso i primi due versi, nel MIb di impianto, ecco una subitanea modulazione a DO (sono le splendenti brezze divine!) sulla quale vengono esposti il terzo e quarto verso, subito ripetuti modulando ulteriormente a SIb (dominante del MIb). In questa tonalità udiamo anche il quinto e sesto verso, pure ripetuti, che iniziano con il motivo principale, ma poi divagano assai, in particolare su Wie die Finger, e la strofa si chiude sospesa sulla dominante FA.

Un breve interludio di 5 misure, dove udiamo il motivo principale, sempre in SIb, nei corni accompagnati da svolazzi degli strumentini, riporta la tonalità a MIb per l’esposizione della seconda strofa (da misura 69 a 96).

I primi due versi (da Schicksallos) sono musicati secondo una variante di quelli della prima strofa, i successivi quattro (da Keusch bewahrt) su un nuovo motivo che dapprima sale per gradi congiunti (dal DO al FA) per scendere sulla tonica, e poi ridiscende sulla mediante SOL in due misure cantate dal solo coro.

Curiosamente, dopo il verso Ihnen der Geist, il flauto propone un inciso (ripreso subito dopo dai soprani sulle parole Augen Blikken) che viene – tonalità inclusa - direttamente dall’Allegro iniziale della Sinfonia K543 (la n°39) di Mozart:

I restanti tre versi della strofa (gli ultimi due ripetuti) chiudono in MIb lo scenario celeste, ma con qualche ombra (i due SOLb che offuscano in minore la melodia); è una cadenza di 8 misure, che ricorda la conclusione dell’Introduzione (con le salite al MIb acuto) a preparare il passaggio al… destino cinico e baro che governa il mondo degli umani. 

Ecco quindi, a misura 104, l’Allegro, nella cui struttura trovano posto due ripetizioni dell’ultima strofa, ma assai diverse fra loro, pur con qualche tratto in comune. È introdotto da altre 8 battute strumentali degli archi (con sporadici secchi e dissonanti accordi degli ottoni) che si agitano con sinistre crome ribattute fino al termine della prima esposizione della strofa, a misura 172.

Il coro, da misura 111, canta in sincrono (proprio a cappella) su una melodia che per i primi quattro versi pare quasi richiamare le cupe esternazioni dei marinai dell’Holländer (terzo atto); poi un primo tremendo accordo in fortissimo su un intervallo di seconda minore discendente (LAb-SOL) sottolinea la parola Blindlings (il cieco errare, da un’ora all’altra); ancora, sui versi Wie Wasser von Klippe Zu Klippe geworfen (come acqua sbattuta di rupe in rupe - qualcosa del genere si trova, peraltro in atmosfera serena, nel goethiano Gesang der Geister über den Wassern) abbiamo un'onomatopeica serie di semiminime sincopate, ad evocare il susseguirsi delle cascatelle che cadono, chiusa da un nuovo grido (Jahrlang) stavolta sul SOL. Altro schianto, sulla dominante, al termine dell’ultimo verso (Ins Ungewisse hinab, letteralmente: in abissali insondabilità). L’ultimo verso è ancora ripetuto, piano, dal coro, prima che 22 misure strumentali portino alla riproposizione dell’intera strofa, da misura 193.

La seconda esposizione della strofa del destino umano ha caratteristiche abbastanza diverse dalla prima: intanto, è per buona parte cantata in contrappunto ed anche la melodia è sottilmente variata. Inoltre ci sono più ripetizioni dei primi due versi, mentre dal terzo verso si ripercorre abbastanza coerentemente, ma con diverse altezze, la prima esposizione, incluso l’urlo sul Blindlings e quello su Jahrlang. Anche l’ultimo verso viene reiterato più volte (dall’intero coro, poi da soprani e tenori, finalmente da contralti e bassi) come a non lasciare speranze di fronte allo sprofondamento negli abissi insondabili.    

A misura 364 si chiude il canto e si trova una coda di 16 misure dove la musica sembra perdersi proprio nel nulla.

Ma a misura 380 ecco l’iniziativa (discutibile?) di Brahms: dal DO minore si transita al maggiore, dove riascoltiamo, solo negli strumenti, la serena melodia dell’Introduzione che ci conduce alla chiusa sull’accordo perfetto di DO maggiore di tutta l’orchestra, in pianissimo.
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Eccellente la prestazione di orchestra e coro, diretti proprio a bacchetta dal ravennate d’adozione.

Ora ecco una nuova irruzione: sono due gruppi italiani, che entrano dal fondo della sala: i Memento Domini di Mussomeli e I lamentatori di Marianopoli, che si esibiscono nelle loro lamentazioni, rispettivamente in latino e in siculo. Ancora un canto della Drolma, e poi la chiusura del programma, con l’Ave Verum Corpus di Mozart.  

Anche questo è un pezzo composto praticamente su ordinazione (o per saldare un debito, fa lo stesso) ma il Teofilo non si smentisce mai e così ne cava un gioiellino sublime. E talmente universale, nel suo messaggio, che Muti, dopo averlo fatto eseguire una prima volta ai complessi canonici, lo ripete invitando al canto anche i quattro cori dei monaci. Ripagato alla fine con una bianca e lunga stola, evidente simbolo di ecumenismo religioso.

E così finisce davvero in gloria questa specialissima serata di universale volemmose bbene… Risalito in automobile, in una serata finalmente fresca dopo una giornata di sbifido e snervante garbino che aveva imperversato sulla costa romagnola, faccio a tempo ad ascoltare le ultime parole pronunciate da Muti, intervistato per Radio3 da Giovanni Vitali: un appello ad investire di più nell’istruzione musicale. Vien quasi da ridere, in tempi di spending review