ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

04 giugno, 2012

Dittico-Bartók al Maggio


Béla Bartók è protagonista al Maggio fiorentino con due diverse opere teatrali: un balletto-pantomima e un dramma. Purtroppo la prima di giovedi scorso è saltata, causa lavori alle strutture del teatro, e così l’esordio è avvenuto ieri pomeriggio, in un Comunale per la verità afflitto da troppi vuoti (il che rinfocolerà le polemiche fra chi apprezza queste proposte e chi vorrebbe solo trilogie popolari, per far cassetta).

Ma il contrattempo più grave si era verificato mesi fa, quando purtroppo quello che doveva essere il grande protagonista dell’evento, Seiji Ozawa, aveva annunciato la propria rinuncia per serie ragioni di salute; ed anche il suo (quasi) naturale sostituto, Peter Eötvös, non ha potuto farcela. Così la direzione è affidata al 44enne Zsolt Hamar, magiaro pure lui, quindi in qualche modo di casa con Bartók

La produzione è giapponese (con scene della DGT) opera del Saito Kinen Festival, di cui Ozawa è più che un partner, quasi un padre fondatore, e certo la sua simbiosi con la regìa di Jo Kanamori avrebbe garantito un altissimo livello allo spettacolo, come avvenne lo scorso anno a Matsumoto. Spettacolo che ha comunque riscosso un notevole successo.


Dapprima viene presentato Il Mandarino miracoloso (o meraviglioso, come si usa più spesso titolare) in forma integrale e con le coreografie di Kanamori e i complessi Noism Dance Company e MaggioDanza.     
   
Coreografie assai intelligenti, con i mimi a impersonare l’ambiente (a cominciare dall’iniziale caos del traffico) in cui si muovono i 5 personaggi principali (i tre malfattori, qui individuati nel padre e madre adottivi della ballerina Mimì, e la di lei cognata; e appunto Mimì e il Mandarino) e i 2 secondari (i primi avventori della ragazza, che qui sono a ruoli modificati rispetto all’originale, dove lo squattrinato è il primo e non il secondo). Il Mandarino ha incollato alle spalle una specie di ombra, che in realtà lo pilota continuamente nei movimenti, evidentemente rappresentando tutto il complesso di vincoli materiali, venali e prosaici cui il nostro soggiace. E di cui si libererà solo alla fine, dopo aver provato almeno per una volta un poco di amore e prima di… tirare le cuoia.

Ottima prova di Hamar e dell’orchestra (clarinetto, manco a dirlo, in testa!) e breve ma efficace intervento del coro femminile, a sottolineare la luminescente trasformazione finale del Mandarino.

Calorosa l’accoglienza per tutta la troupe, in particolare per Sawako Iseki (Mimì) e il Mandarino Satoshi Nagakawa.


Poi il pezzo forte del programma, Il castello del duca Barbablu (in magiaro sarebbe Kékszakállú, nome che a noi pare più che altro uno sfottò piuttosto volgare, smile!) Il Maggio fu il primo teatro italiano ad ospitare l’opera, nel lontano 1938, a 20 anni dalla prima, e dopo un lungo periodo in cui l’opera rimase ineseguita a causa delle proibizioni del governo militare di Miklós Horthy a citare sulle locandine il nome del librettista Balázs (di orientamento comunista) il che convinse Bartók a ritirare l’opera per parecchi anni.    
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Opera di chiara ascendenza al simbolismo francese, che riprende molto liberamente il libretto di Maeterlinck per Ariane et Barbe-bleue di Dukas. Nel quale, contrariamente alla tradizione consolidata da Perrault (dove le 7 mogli perdono fisicamente la testa per il protagonista) il finale è quasi lieto, con Ariane che se ne va incolume, e Barbablu cui viene risparmiata la vita, e così continua a starsene con le altre 5 mogli che lo accudiscono amorevolmente… come brave schiave (!)

Anche Béla Balázs non fa morire fisicamente nessuno (per lui le mogli precedenti sono 3) ma la sua è una storia dalle mille implicazioni: psicologiche, sessuali, filosofiche, antropologiche (per citarne solo alcune). Già il Prologo (recitato da un menestrello) pone questioni da nulla, del tipo: dov’è la scena, dentro o fuori? (pare un soggetto creato apposta per Robert Carsen… smile!, ma lui non l’ha ancora abbordato, credo.)

La prima cosa certa che si evince dal libretto di Balázs è che è stata Judit a cercare Barbablu e non viceversa (!): cosa non proprio scontata, dati i… precedenti. Le prime parole che i due si scambiano in scena sono continue e insistite domande che l’uomo fa alla donna, per sincerarsi della sua persistente volontà di seguirlo, a dispetto del fatto che il suo castello è una ciofeca, a confronto con quello del padre di lei, e che i di lei familiari non l’hanno presa per niente bene, la sua fuga con lui; alle cui domande lei sempre risponde con la massima sicurezza, rivelandoci addirittura di aver lasciato, oltre alla famiglia, pure il promesso sposo, pur di seguire il duca fin lì. E ben sapendo (o sospettando) che il duca medesimo abbia parecchie e turpi cose da nascondere!

Allora, come la mettiamo qui? È Judit una pazzoide, così morbosamente attratta da un uomo, da affrontare una prospettiva terribile, compiendo un gesto a dir poco temerario, e ficcandosi di proposito nella tana-del-lupo? O una stupidella mossa da pura curiosità, che sta giocando, senza saperlo, col fuoco? O più probabilmente una donna affetta da complesso di redenzione-del-peccatore, che si è messa in testa di portare il fedifrago sulla retta via? In effetti alcune sue esternazioni ce lo fanno pensare, ad esempio quando, a precisa domanda di Barbablu (Perché sei venuta?) lei risponde che è lì per aiutarlo a riscaldare il suo castello con le sue labbra e il suo corpo (qui il simbolismo sconfina peraltro dall’erotismo nella pornografia, smile!) Quindi: una ninfomane sado-maso amante del rischio? Mah… forse tutte le cose insieme.

E lui, il duca, che tipo sarebbe? Uno di quelli che non-devono-chiedere-mai, perché per le donne sono come il miele – o la m… - per le mosche? Oppure un inguaribile narcisista sognatore e perennemente insoddisfatto, che ha bisogno di sempre nuove sensazioni estetico-sessuali (mattino-pomeriggio-sera-notte, come per le previsioni del tempo, smile!) per soddisfare il proprio io? (Dopodichè, invece di limitarsi a metterle-in-lista, come fa DonGiovanni, lui le donne le rinchiude in cantina…) E questo morboso vivere nell’oscurità, proprio à la Tristan, rappresenta forse lo stereotipo del cinico nichilista, che cerca quasi inconsciamente qualcuno(a) che lo salvi, ma sa benissimo che inevitabilmente dovrà tornare all’apeiron? (Finisce con le parole e ora sarà sempre notte… notte… notte.) O incarna per caso il simbolo di tutta la mascolinità universale e delle relative malefatte, dalla tortura alla guerra, alla conquista di sontuose dimore e di sconfinati possedimenti, tutti traguardi raggiunti più che altro spargendo sangue e facendo riempire laghi di lacrime? O ancora: è forse il duca l’espressione esteriore dell’io profondo, che rifiuta ogni contatto con l’esterno e chiude tutte le sue porte di accesso (Perché nessuno penetri qui con lo sguardo)? Ma allora perché, apparentemente riluttando e pur avvertendo per sé e per la donna un pericolo, consegna a Judit, una dopo l’altra, tutte le chiavi delle sue più segrete profondità?

O forse il protagonista-simbolo è proprio il castello (pare che Balázs ci avesse pensato seriamente…): che piange, sospira, sanguina e trema alla presenza degli umani? E le sue sale segrete, non possono essere i repository della conoscenza? Di segreti arcani, misteriosi, spaventosi e… pericolosi per l’Uomo che vi si avventura? (Perché mai Barbablu, a Judit che apre le prime due porte, chiede: che cosa vedi, che cosa vedi?)  
  
Insomma, un soggetto dai cento volti e dalle mille possibili interpretazioni.

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Quanto alla parte musicale, l’opera ha una struttura fortemente simmetrica, che peraltro rispetta la simmetria testuale/scenografica.

Ciascuna delle 9 scene principali (l’Introduzione, la Presentazione e le 7 porte) ha a sua volta una struttura in tre sezioni (nell’Epilogo sono due) come qui sotto schematizzato:



Questo specchietto invece illustra schematicamente l’impiego delle tonalità nelle diverse scene, anche in corrispondenza dei colori prevalenti di ciascuna:

  
Macroscopicamente si percorre un arco che parte dalla tonalità di FA# (nel buio pesto) e dopo essere passato per il RE e il MIb di tesori e giardini, raggiunge il culmine (porta 5, il meraviglioso regno di Barbablu, nella luce più piena) sul DO, a distanza quindi di un tritono (l’antipodo nel circolo delle quinte) dal punto di partenza, per poi tornare al buio del FA# conclusivo.  
   
Non ci sono propriamente temi assimilabili a Leit-motive di buona memoria wagneriana, ma alcuni motivi si distinguono perché ricorrono spesso, come ad esempio il richiamo al protagonista, fatto da Judit, che si presenta talvolta così:

Oppure quello che si riferisce al sangue (ma anche alle lacrime) iniziante con due note a distanza di un semitono, che si ode proprio all’inizio, ma poi torna sotto diverse forme:
Straordinario il DO maggiore che caratterizza l’apertura della quinta porta, mostrando l’abbagliante – e allo stesso tempo retorica e tronfia - bellezza del panorama che da lì si gode:
Nel canto di Barbablu che segue, par di sentire Froh che presenta il Walhall agli dèi, nel finale del Rheingold (!) mentre Judit (praticamente parlando, proprio senza alcun accompagnamento) con un contrasto tremendo commenta attonita la vista mozzafiato con due frasi fatte di otto crome, tutte bemollizzate! 
  
Struggente e piena di cupi presagi l’implorazione di Barbablu a Judit (amami, e nulla chiedimi) poco prima dell’apertura dell’ultima porta:
Ma tutta l’opera è un’autentica miniera di idee musicali, assolutamente appropriate ad evocare in modo straordinario le diverse atmosfere che si presentano all’apertura delle porte, e i sentimenti che scatenano nell’animo dei protagonisti.   
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Bene, come ci è stata proposta qui al Maggio?  
  
L’allestimento nipponico è di assoluto livello, coniugando un approccio moderno (scenografia essenziale e intervento di mimi) con il totale rispetto di libretto e partitura, a volte persino troppo didascalico, come negli abiti dei due protagonisti: palandrana scura (come la notte) per lui, che poi se la sfila alla porta 5, restando in… pigiama tutto bianco, per poi rimettersela dopo la porta 6, passata l’euforia; vestito candido per lei (la luce) che però alla fine viene ricoperta da un mantello scuro (chè è destinata pure lei a finire nell’eterna notte di una cantina). Judit ha anche un’anima (impersonata dalla bravissima Sawako Iseki) che appare in momenti topici del dramma, proprio quando la ragazza è più sottoposta a stress. Così come mimi nero-vestiti rappresentano le ombre del duca in prossimità delle varie porte.   
  
I contenuti delle stanze o non si vedono (già la musica li evoca mirabilmente!) o sono rappresentati da mimi. Fa eccezione l’ultima porta, dalla quale escono temporaneamente le tre mogli del duca, ma tutte, così come poi Judit (la quarta) fermamente pilotate nei loro movimenti da grigie presenze, che le rendono prigioniere dell’oscurità.    
  
Matthias Goerne è stato un efficace Barbablu; personalmente preferirei un baritono puro, con voce più chiara, rispetto a quella piuttosto… ehm, cavernosa di Goerne. Ma immagino che oggigiorno di cantanti che abbiano così bene in repertorio questo personaggio non ne esistano a bizzeffe.  
  
Ottima mi è parsa la Daveda Karanas, forse un poco deboluccia nelle note basse, ma dotata di personalità e di buon timbro, oltre che sicura negli acuti, incluso il DO della porta 5.  
   
Andras Palerdi ha interpretato efficacemente il menestrello che presenta l’opera. Brevissimi tutti i mimi-danzatori italo-nipponici.  
  
Anche qui una piacevole sorpresa è venuta da Zsolt Hamar, che ha mostrato di tenere in pugno la difficile partitura con grande autorità, sia sull’orchestra, che negli attacchi ai cantanti. Orchestra che ha risposto assai bene in tutte le sezioni, inclusi i sei ottoni (3 trombe e 3 tromboni, in luogo dei 4+4 prescritti) e le due arpe, dislocati su palchetti di platea.  
  
Alla fine lunghi e meritati applausi e ripetute chiamate per tutta la compagnia. Peggio per chi ha disertato! 

01 giugno, 2012

Orchestraverdi – concerto n°35


Interessante programma questa settimana all’Auditorium, che impegna orchestra e coro de laVerdi. Sul podio un altro giovine asiatico, il poco più che trentenne Darrell Ang, da Singapore, che ha già dalla sua un curriculum invidiabile: direttore, compositore, educatore, fondatore di complessi… accipicchia!

Si apre con Mendelssohn e i suo Ein Sommernachtstraum, musiche di scena per il Sogno shakespeariano, di cui vengono eseguiti i numeri principali (4 su 13, più l’Ouverture). A differenza di quanto annunciato su locandina e programma di sala (dove lo Scherzo era spostato in penultima posizione, quasi si volesse dare al brano la forma di una sinfonia in 5 movimenti) l’ordine rispetta precisamente quello scenico.
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L’Ouverture, composta da un Mendelssohn poco più che fanciullo, è in tonalità di MI maggiore e principia con i quattro accordi introduttivi che sono diventati una specie di paradigma dell’atmosfera romantico-leziosa di cui tutta la composizione è permeata. Ed è una sola nota, il DO naturale del secondo clarinetto, a caratterizzarla inconfondibilmente:

Poi abbiamo l’esposizione dei tre temi principali, manipolati nello sviluppo e ripresi, in ordine diverso, nella ricapitolazione, prima della coda dove ricompaiono i quattro accordi iniziali, con lievissime sfumature armoniche, legate ad abbassamenti o innalzamenti di ottava nel primo clarinetto e nel primo corno.

Ecco quindi lo Scherzo, in SOL minore, con il famoso tema introdotto dai flauti e poi dagli oboi, ben spalleggiati da clarinetti, fagotti e corni; e poi ripreso anche dagli archi.

Segue quindi l’Intermezzo, che è pur’esso un brano piuttosto mosso, in LA minore, con un motivo secondario in DO maggiore e un secondo tema, per terze, in LA maggiore, esposto dai fagotti e seguito da un controsoggetto negli altri strumentini, che chiude il brano.

Ora il tempo lento, il Notturno, ancora in MI maggiore, dove i corni creano quella straordinaria atmosfera proprio da sogno all’interno del bosco abitato da fate ed elfi.    

L’inflazionata Marcia Nuziale – le cui prime 11 note della trombetta, spostate di un semitono in alto, verranno impiegate da Mahler per aprire la sua Quinta - chiude questa specie di suite con un prosaico DO maggiore. (Le musiche di scena si chiudono invece assai più appropriatamente, sul piano delle tonalità, con la Marcia dei clown, in SI maggiore e con un Finale ancora in MI.)
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A me pare che Ang abbia una certa tendenza a privilegiare – nei momenti di insieme – le sonorità degli ottoni, a tutto scapito di quelle degli archi e degli altri fiati. Questo può andar bene per la Marcia nuziale, ma meno per l’Ouverture, ad esempio. Qualche imprecisione proprio dei corni nell’attacco del Notturno e delle tre trombette in quello della Marcia hanno poi macchiato un’esecuzione non propriamente impeccabile. E musica come questa, se non eseguita con la massima cura, rischia purtroppo di degradare verso il banale e il dolciastro.

Ora un’opera moderna, le Sacrae Symphoniae di Flavio Testi, composizione che compie 25 anni ed è per la verità pochissimo eseguita, anche perché impegna parecchie risorse: oltre alla grande orchestra, con arpa, celesta e pianoforte, anche il coro e tre solisti di canto. Testi ha anche scelto i testi (smile!) prendendoli dalle Sacre Scritture. Sono per la precisione cinque, interpretati, nell’ordine: dal coro, tenore, soprano, basso e tutti quanti.    

Caratteristica della composizione è il grande contrasto fra il fracasso infernale di accordi dissonanti (cluster di note con intervalli di semitono, principalmente urlati dagli ottoni -  4 trombe e 4 tromboni) e momenti di religioso raccoglimento, dove magari è la celesta a creare atmosfere rarefatte. Il canto del coro è prevalentemente a voce spiegata, fortissimo, mentre quello dei solisti è più intimistico, quasi straniato.

Anna Carbonera, Gianluca Bocchino e Abramo Rosalen sono i tre solisti che danno voce a Matteo (V, 11-12), al Cantico dei Cantici (VII, 11-12) e al Lamento di Geremia (V, 15-16-17) mentre il Coro di Erina Gambarini espone Paolo (Epistola ai Galati II, 20) e, insieme ai solisti, il Salmo 105 (1-2-3).

Caloroso successo per l’opera – che è stata giustamente apparentata a Stravinski, più che a certe discutibili avanguardie novecentesche – e per l’autore, un arzillo 89enne presente in sala e salito sul palco a raccogliere applausi (e a ringraziare gli esecutori).

Chiude la serata la celeberrima Italiana, dove Ang conferma – nel bene e nel male – quanto mostrato nel Sogno. Eccessivo lo spazio sonoro concesso agli ottoni (qui corni e trombe) anche quando dovrebbero suonare solo parti di accompagnamento, da non far venire in primo piano. Molto meglio i tempi interni, dove gli ottoni tacciono o quasi, e possono quindi risaltare strumentini e archi.

Buon successo e applausi da un pubblico abbastanza folto.

Per il prossimo appuntamento, torna Zhang Xian con un programmone classico-romantico: Weber, Beethoven (con il bravissimo Cominati) e Brahms! 

28 maggio, 2012

La Norma del Regio


Ieri terz’ultima delle 11 recite di Norma al Regio torinese, piacevolmente stracolmo. Trattasi di una ripresa dell’allestimento di Alberto Fassini di parecchi anni fa.

Che dire di un’opera sulla quale sono state scritte enciclopedie? Allora la prendo alla larga, esaminando qualche aspetto, come dire… etno-geografico-storico. Intanto, dove è ambientata l’opera? Qui dobbiamo subito rilevare una grande incongruenza del libretto, che consiste nell’ubicare nelle Gallie - quindi nel mondo celtico-druidico-francese - l’Irminsul, che è invece simbolo religioso e divinità tipicamente sassone-germanica.

Questa operazione però non è farina del sacco di Felice Romani, che già dieci anni prima di Norma aveva scritto per Pacini La sacerdotessa d’Irminsul, coerentemente ambientata ad est del Reno. Per il libretto di Norma, Romani si rifece alla tragedia – nuova di zecca al tempo - di Alexandre Soumet, da cui copiò anche questa (ma per fortuna soltanto questa!) incongruenza. Ma Soumet era stato a sua volta convinto a compiere questa forzatura da François-René de Chateaubriand, che nei suoi Les Martyrs aveva deliberatamente importato l’Irminsul nel mondo druidico, in base alla superficiale considerazione che anche i Galli adoravano divinità arboree.

Per la cronaca, la foresta dove si trovava l’Irminsul è posizionabile nella parte nord-orientale di quello che oggi è il Land tedesco Nordrhein-Westfalen, all’interno di un triangolo che ha come vertici Dortmund, Kassel e Hannover. Sulla sua localizzazione precisa ci sono almeno due teorie. Secondo la prima, basata su un fatto storico (la presa di Eresburg nel 772 da parte di CarloMagno, che vi fece distruggere i simboli delle religioni pagane) l’Irminsul si trovava nelle vicinanze dell’odierna Obermarsberg, e precisamente sul vicino Priesterberg (monte dei sacerdoti). La seconda supposizione (che fu avallata dalla propaganda nazista, e qui avanzare qualche sospetto è lecito…) ubica invece il luogo sacro una sessantina di Km a nord, nei pressi dell’odierna Detmold, dove sono ancor oggi visibili le Externsteinen, gigantesche formazioni di pietra che recano delle incisioni e bassorilievi in cui si riconoscerebbe anche l’Irminsul umiliato da CarloMagno.

Irminsul era probabilmente una grande quercia venerata come una divinità, analogamente al frassino Yggdrasil delle saghe nordiche di cui si occuperà – nel suo Ring - tale Richard Wagner. Il quale, guarda caso, fu un grandissimo ammiratore di Bellini e di Norma in particolare, arrivando al punto di scrivere una sua aria (alternativa a quella di Oroveso prima del finale) per una rappresentazione (poi sfumata) a Parigi nel 1839! E come non riconoscere in Tannhäuser e soprattutto in Lohengrin chiari spunti presi proprio da Norma… per non parlare del Liebestod, il cui modello fu quel crescendo sempre e incalzando che accompagna Io più non chiedo, io son felice che Norma canta avviandosi al rogo.

Un’altra curiosità, più o meno rilevante rispetto ai problemi di ambientazione dell’opera, riguarda il periodo storico in cui collocare la vicenda. Il libretto di Romani, per fortuna, non ci lascia molti dubbi – supponendo che il suo Pollione sia proprio il proconsole Gaio Asinio Pollione – nel collocare la vicenda ai tempi di Giulio Cesare, quindi ben prima di Cristo (Pollione fu nominato proconsole nel 39 a.C. e morì nel 4 d.C.)

Invece qui era stato Soumet a fare una gran confusione, fornendoci un’indicazione della massima rilevanza, nel definire Clotilde come una nutrice cristiana, e nel metterle in bocca, nei dialoghi con Norma e il di lei figlio Agenor, giudizi negativi sulle religioni pagane e l’invito ad abbracciare il cristianesimo. Il che comporterebbe di spostare in avanti le lancette dell’orologio come minimo di parecchie decine d’anni, se non di un paio di secoli addirittura, a Pollione ampiamente defunto!

Probabilmente Romani si accorse dell’incongruenza ed evitò accuratamente di adeguarcisi, anche per non introdurre nell’opera un ulteriore, pesantuccio - e, nella fattispecie, fuorviante - aspetto quale il problema del conflitto fra religioni. Nulla di ciò quindi nel libretto, dove Clotilde non solo è semplicemente definita come confidente di Norma, ma nelle sue fugaci esternazioni mostra di essere fedele osservante del culto pagano. Non parliamo poi del finale di Soumet (Norma che ammazza i figlioletti e poi si suicida!) che Romani letteralmente (e mirabilmente) reinventò.  

Detto ciò, com’è l’allestimento di Fassini, ripreso oggi da Vittorio BorrelliLa vicenda ci viene presentata – toh! – precisamente come vien fuori dalla lettura del libretto. Peccato perché, proprio come Butterfly, anche Norma si presterebbe molto bene ad una proposizione in chiave di turismo sessuale (smile!) Vorrà dire che sarà per il prossimo regista-genio.

Sempre come da libretto, i movimenti di tutti i protagonisti e comparse sono ridotti quasi a zero e chi canta – salvo la povera Norma, sdraiata, ma per pochissime battute – lo fa stando sempre in posizione eretta e non da fachiro o contorsionista.
   
Le scene sono austere, proprio minimaliste, in un’ambientazione cupa, con alte pareti di pietra granitica, impersonate da quinte mobili che traslano parallelamente al proscenio, aprendo o chiudendo di volta in volta la vista su panorami più ampi, rappresentati da fondali che raffigurano cieli chiari con una grande luna piena (atto primo) o foreste impenetrabili (atto secondo). L’altare del clandestino Irminsul è sovrastato da due blocchi di granito che ricordano (in scala) la Garisenda e l'Asinelli, forse per far sentire Mariotti a casa sua (smile!)  

I costumi sono più o meno plausibilmente (vedi gli stivaletti di Pollione e Flavio...) dell’epoca romana (repubblicana o imperiale, chi può dirlo?)  

Insomma, una visione abbastanza classica e nobile, che a qualche snob saprà di museo, ma che al sottoscritto non è per nulla dispiaciuta.
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Sul fronte musicale, do senza esitazioni un ottimo a Michele Mariotti: per come ha guidato l’orchestra e soprattutto per come ha pilotato i cantanti, con un gesto sempre essenziale e composto. Ha tenuto tempi comodi, ma mai slentati, né ha ecceduto in enfasi o retorica. Meritatissimo l’autentico trionfo che il pubblico gli ha tributato.

Subito appresso, il Coro di Claudio Fenoglio, che in quest’opera ha una parte determinante, e l’ha sostenuta in modo eccellente.

Note meno entusiasmanti sul fronte interpreti. Aspettavo un grande Marco Berti, e invece è arrivato sul palco il secondo, Aquiles Machado (che Berti aveva sostituito la sera precedente…) Lui ce l’ha messa tutta, ma il suo è un Pollione un pochino… approssimativo; ha anche provato a sparare il DO con corona puntata nell’aria di esordio, con esiti non propriamente edificanti, e per il resto ha navigato sul limite della sufficienza.

Le due protagoniste femminili, Dimitra Theodossiou e Kate Aldrich non mi sono dispiaciute nei loro incontri-scontri-duetti, in atmosfere più intimiste, mentre nelle parti squisitamente solistiche non hanno brillato particolarmente, la prima urlando eccessivamente gli acuti e difettando spesso in intonazione, la seconda mostrando qualche limite nella zona bassa e una certa freddezza nell’espressione. Alla Dimitra il pubblico ha comunque riservato un clamoroso trionfo alla fine di entrambi gli atti: buon per lei!

Bene invece Giacomo Prestia, che ha impersonato un più che degno Oroveso, gran portamento e bella voce penetrante sull’intera gamma. Sì, la parte non sarà tipo Filippo o simili, ma non è proprio una cosuccia da nulla.

Gianluca Floris e Rachel Hauge hanno ben compitato le loro parti di comprimari.
  
Uno spettacolo tutto sommato più che dignitoso, anche se non entrerà in guinness o in annali delle meraviglie.

25 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°34


È John Axelrod ad occupare il podio nel concerto di questa settimana in Auditorium. Con un palinsesto che, contrariamente a certe più o meno radicate consuetudini, presenta due composizioni (relativamente) moderne che prendono in sandwich una dell’ottocento più romantico che si possa immaginare.

I due lavori che aprono e chiudono il programma hanno il titolo di Concerto per orchestra (il primo con la specifica di orchestra d’archi) e sono stati composti a breve distanza uno dall’altro (1948 e 1943). Gli autori sono due musicisti del vicino est (Polonia-Lituania e Ungheria) che hanno avuto profondi, anche se differenti, legami con la civiltà musicale mitteleuropea.

Si inizia con Grazyna Bacewicz, il cui Concerto per orchestra d’archi è la più famosa composizione del suo periodo classico (successivamente si sposterà su posizioni più moderniste, dodecafonia inclusa). È in tre movimenti ed è saldamente ancorato alla tonalità (per quanto sui righi non compaiano mai accidenti in chiave).

C’è chi tira in ballo Bach, chi Händel, per dare dei riferimenti formali-estetici di questa composizione. Che però già alla battuta 7 ti spara un bell’accordo di tritono (SOL#-RE) che avrebbe fatto fare il segno della croce ai due imparruccati barocchi (smile!)   
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Il primo movimento (Allegro) è in tonalità base di RE (con parecchie divagazioni…) e presenta in sostanza due temi: il primo, esposto in origine dagli archi bassi e sostenuto da un pedale ostinato di crome dei violini, è costituito da scalette discendenti di semiminime (che portano all’accordo col tritono) che poi verranno riprese dai violini e dalle viole:
Una variante del tema è proposta dai soli violino primo e violoncello, poi abbiamo il secondo tema, energico, in tempo di 2/4 con frequenti intrusioni di 3/4, 4/4 e 5/4, presentato da viole e archi bassi, con incisi di accordi dei violini, prima sincroni e poi sincopati:
Temi che vengono poi ripresi in una specie di sviluppo e ricapitolazione, quasi da forma-sonata, ed è il secondo a concludere su un RE pizzicato di tutti.   

L’Andante (3/4) riprende il ritmo oscillante del pedale di accompagnamento del primo tema dell’Allegro, sul quale il violoncello solo, all’inizio, poi due viole sole, cantano una delicata melodia:
Il tema è sviluppato assai gradevolmente – sembra quasi anticipare certe atmosfere di Ligeti, e nel contempo richiama vagamente l’impressionismo di Debussy - fino ad arrivare ad un climax (accelerando) da cui rifluisce lentamente, per poi chiudere (ancora verso il RE) su note in armonici.

Il terzo movimento è un Vivo (6/8) aperto, sempre sul RE, da martellanti semicrome che introducono il tema di questa specie di Scherzo:

Che è inframmezzato da due specie di Trii (in cui il tempo diminuisce e l’atmosfera si fa languida e rarefatta) prima che il tema principale si rifaccia largo per chiudere - con un anapesto - ancora sul RE in unisono di tutti gli strumenti.
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Questa composizione conferma come si potesse scrivere – ancora a metà del ‘900 - dell’ottima musica impiegando la vecchia cassetta degli attrezzi, senza necessariamente rincorrere avanguardie e sperimentalismi che hanno dato risultati (per me) francamente deludenti.

E gli archi de laVerdi ce l’hanno propinata con gran perizia ed efficacia, sotto l’esperta bacchetta di Axelrod, meritandosi convinti applausi dal non oceanico pubblico.

Ora si fa avanti il 32enne funambolo yankee-tedesco David Garrett, bardato come fosse appena sceso da una Harley-Davidson (gli mancava solo il foulard…) per proporci il Primo Concerto di Max Bruch. Per usare un linguaggio da pasticceria, trattasi di un babà al miele ripieno di mascarpone, ricoperto di panna vanigliata e sciroppo di fragole e guarnito con marron-glacé e cioccolato gianduia liquido. Insomma: al confronto la mappazza del cacao-meravigliaio ha il sapore di un grissino integrale (smile!)  

Per dire: per tutta la partitura è come se il compositore usasse solo i tasti bianchi del pianoforte, servendosi di quelli neri due o tre volte al massimo, e conoscesse solo accordi di tonica e dominante… roba da chiodi! Il culmine di questa melassa lo si raggiunge nell’Adagio, dove incontriamo quella che è la melodia più famosa – delle tante, una più dolciastra dell’altra - del concerto:
Insomma, siamo in un clima adatto ad un episodio di Harmony (smile!) Il vulcanico Garrett pare il primo a digerire con fatica questo pezzo, tanto che ci infila anche qualche gigionata di troppo, compresi un paio di glissando che Bruch si guardò bene dallo scrivere. Certo, lui ha una tecnica straordinaria e col violino può fare ciò che vuole, quindi tutto ok.

Per lui, tifo da discoteca alla fine, così prima fa il solito bis carnevalesco, con accompagnamento chitarristico degli archi, poi si congeda seriamente con Bach. Peccato che, con lui, si congedino anche decine e decine di spettatori (ahiahi!)

Quindi, dopo l’intervallo, è un Auditorium semideserto quello che accoglie il Concerto per orchestra di Béla Bartók, già altre volte eseguito da laVerdi (ad esempio un paio d’anni fa). Altro caso di ottima musica del ‘900 composta, con mezzi tradizionali, da quello che fu probabilmente il più ispirato autore del secolo scorso.

Pezzo che, programmaticamente, impegna gli strumentisti - timpani inclusi - a livello solistico, e i verdiani hanno quindi l’occasione per mostrare le loro eccellenti doti, sciorinando un’esecuzione (quasi) impeccabile, trascinati da un convincente Axelrod.

Perciò tanti e meritati applausi dal poco pubblico rimasto.

Un altro emergente direttore-bambino-prodigio (asiatico, si dà il caso) Darrel Ang ci delizierà (speriamo) la prossima settimana con un Mendelssohn inframmezzato da Testi.

23 maggio, 2012

Alla Scala il Peter Grimes di Jones-Ticciati


La Scala ripropone di questi tempi Peter Grimes di Benjamin Britten, affidata alla coppia londinese di regista-direttore formata da Richard Jones e Robin Ticciati. Dirò subito che il giovane maestro ha dato gran prova di sé, mentre il regista mi ha lasciato tra il perplesso e l’insoddisfatto.

Tanto per cominciare, l’ambientazione. Jones porta tutto ai giorni nostri, ma sempre in Inghilterra (o comunque in un Paese, diciamo così, civilizzato). Orbene, è pur vero che anche nelle nostre società cosiddette avanzate permangono sacche di schiavitù più o meno mascherata, ma – che so – si dovrebbe trattare del solito cinese che fa lavorare bambini per 20 ore al giorno in qualche scantinato, oppure di un grosso amministratore di condomini che schiavizza fino alla consunzione dei poveri co-co-co… Ma che nell’Inghilterra di oggi ancora ci siano pescatori in proprio che sfruttano poveri orfanelli, come due secoli fa beh, mi pare proprio un’idea bizzarra! Di sicuro è fra quelle suggerite in questo manuale del regista d’avanguardia (smile!)

Essendo portata ai giorni nostri, la taverna di zia Auntie (così come la sala civica nel terzo atto) è trasformata in discoteca. Da esse escono i vendicativi borgatari per dare la (seconda) caccia a Grimes, in puro stile musical di Broadway, con i coristi che ballano come al carnevale di Rio, mentre cantano – ohibò – La nostra maledizione cadrà sul suo giorno malvagio. Noi domeremo la sua arroganza. Faremo pagare all’assassino il suo crimine. Una vera parodia, complimenti. 

Abbastanza banale l’ambientazione della baracca di Grimes e patetico il suo gesto di accendere la TV – che trasmette un cartone animato di contenuto marinar-piratesco, ma di quelli per bambini da scuola materna (smile!) - per tranquillizzare il ragazzo, prima della di lui caduta nel precipizio… della buca del suggeritore (mah!)   

Discutibile la scelta di presentare il ritorno finale di Grimes dentro la sala civica, in piena luce, il che toglie gran parte delle suggestioni che la scena dovrebbe avere, se correttamente ambientata al buio e nella nebbia (così anche il Fog-Horn qui pare fuori posto!) Certo, il regista si è risparmiato con questa trovata un cambio di scena in vista del suo finale, ma il risultato è deludente.

E appunto per l’ambientazione della scena finale - che nell’originale è pari-pari, musica compresa, in LA maggiore, quella dell’inizio dell’atto primo – il regista ne ha proprio combinata una delle sue. Così, invece di mostrarci il ritorno del borgo alla vita un po’ sonnolenta e monotona, come nulla fosse successo, lui ci riporta al prologo, mostrandoci un nuovo processo, intentato ora ad Ellen, evidentemente ritenuta complice di Grimes. Questa non solo è un’invenzione bella e buona, ma per di più è totalmente strampalata. Chè, se Jones ci voleva significare che il borgo è sempre in cerca di qualche diverso da eleggere a capro espiatorio (cosa del tutto plausibile) ha proprio sbagliato personaggio. Poiché  né Ellen né del resto Balstrode (che allora potrebbe essere pure lui la prossima vittima) hanno alcunché delle caratteristiche di diversi che il borgo possa prendere a pretesto per farne, appunto, dei capri espiatori: sono onesti e tranquilli pensionati che non potrebbero materialmente far male ad una mosca. A meno che Jones non voglia insinuare che nella società di oggi si prendano per diversi coloro che mostrano semplicemente di avere un po’ di sale in zucca… ma questa mi sembrerebbe davvero una forzatura di bassa lega.

Alcuni spunti della regìa sembrano mutuati da quella di Willy Decker, autore dell’edizione presentata tempo fa al Regio di Torino: ad esempio il mare che non si vede mai, poiché secondo Jones sul mare sta il pubblico, che da lì osserva ciò che accade sulla riva (e questa è una trovata plausibile); oppure Grimes che si vede – a fine secondo atto – trascinare il ragazzino morto verso casa (qui siamo però ad un didascalismo quasi offensivo per le capacità cognitive dello spettatore). E anche l’apertura del primo atto, con borgatari seduti come fossero in platea a guardare il mare, tutti perfettamente allineati e composti, ricorda vagamente quella di Decker.

Per fortuna la caratterizzazione dei personaggi è in generale apprezzabile: quello che vediamo è il Grimes di Britten-Pears-Slater, e non quello di Crabbe… ed è già qualcosa! Qualche riserva, come detto, sul  modo un po’ troppo da avanspettacolo con il quale ci vengono presentate certe esternazioni, soprattutto del popolo. Intelligenti le scene e le luci, a parte… l’ambientazione moderna (il che coinvolge anche i costumi).  

Ma tutto sommato, quale valore aggiunto apporti all’originale questo allestimento, resta per me un mistero.  
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Come detto, buone se non proprio ottime notizie invece sul fronte musicale. Merito di Ticciati, giovane ma evidentemente assai preparato ed autorevole sul podio, e di Bruno Casoni, che ha riportato il coro al livello che gli compete.

John Graham-Hall è un Grimes efficace, pur faticando parecchio sulle note alte, come qui al momento di prendere la drammatica decisione che lo porterà alla rovina:
(Poi, nell’esternazione finale, il regista lo fa esibire su un tavolo e accucciato sulle punte dei piedi, posizione credo infelice per il canto…) In ogni caso si prende grandi applausi. Più grandi ancora (ma forse alle mie orecchie non così meritati) quelli andati a Susan Gritton, una Ellen che mi è parsa discontinua e in difficoltà nell’ottava bassa.

Christopher Purves è un ottimo Balstrode, e ancor meglio di lui fa Peter Hoare come Boles (pur penalizzato sul lato scenico da eccessivo macchiettismo). Felicity Palmer è una Auntie di gran livello. Nettamente al di sotto Catherine Wyn-Rogers (Sedley) Christopher Gillett (Adams) e Stephen Richardson (Hobson). Un poco meglio George von Bergen come Keene (e non Keen come scritto sulle locandine!) e lo Swallow di Daniel Okulitch. Anonime le nipotine e le due altre parti minori.     

Successo abbastanza caloroso, ma francamente nulla di epocale.

22 maggio, 2012

Fabio Luisi sul podio della Filarmonica


Il successore-in-pectore di James Levine alla guida del MET è stato ieri sera ospite della stagione della Filarmonica, dirigendo un concerto di musiche italiane più… Beethoven!

Ha aperto con una trascrizione di tre brani di Giovanni Gabrieli, fatta da Claudio Ambrosini nel 1998 per Milano Musica e già allora (30 ottobre di quell’anno) eseguita dalla Filarmonica guidata dal dedicatario Riccardo Muti.

Si tratta della Canzon XIII dalle Sacrae Symphoniae (1597), della Canzon I e della Sonata XIX dalle Canzoni et Sonate (1615, postume). L’approccio programmatico di Ambrosini è quello di evocare le melodie rinascimentali di Gabrieli immergendole  in uno scenario sonoro moderno. E tanto per tener fede al proposito, impiega anche un gong immerso in una vaschetta d’acqua (smile!) Oppure fa suonare lo xilofono con le nocche delle dita, o percuotere le corde del pianoforte con bacchette di spugna… insomma, cose che ai tempi di Gabrieli lo avrebbero fatto rinchiudere ai Piombi! C’è di buono che, pur immersa in un magma indecifrabile,  qualche nota di Gabrieli si può ancora ascoltare (ri-smile!)

Dopo questo esordio bizzarro, ecco arrivare il 27enne polacco Rafał Blechacz a proporci il Quarto concerto di Beethoven. Tutt’altra musica (tri-smile!) Il ragazzo ha una tecnica sopraffina che forse, nell’iniziale Allegro moderato, penalizza un poco l’espressività, dando (a me, perlomeno) l’impressione di un’esecuzione un po’… meccanica. In ogni caso dall’Andante in poi le cose migliorano e il resto della prestazione è davvero rimarchevole. Bravo anche Luisi a sostenerlo con un’orchestra mai invadente, ma allo stesso tempo protagonista. Gran successo per il bel Rafał che ringrazia con un paio di bis.  

Dopo l’intervallo si torna in Italia con Paganiniana di Alfredo Casella. Nel 1942 compivano 100 anni i leggendari Wiener (al 28 marzo 1842 risale il primo concerto della Philharmonische Academie, diretto dal fondatore Otto Nicolai). La ricorrenza cadde in un periodo disgraziato, ma a quel momento in Germania e in Italia il clima era euforico e il Patto d’acciaio più che mai saldo. Vienna era la seconda capitale tedesca e Karl Böhm – deciso fautore dell’Anschluss – sarebbe di lì a poco diventato direttore della Staatsoper. Così successe che l’italiano Casella (anche lui assai ben disposto verso il fascismo e i suoi alleati) compose per l’occasione questo divertimento in quattro parti che è ispirato a musiche (capricci e quartetti) del grande genovese. La cui prima fu diretta – per l’appunto - da Karl Böhm.

L’opera si suddivide in quattro sezioni, a partire da un Allegro agitato (Capricci 8-12-16-19) seguito dalla Polachetta (Quartetto n°4), dalla Romanza (Duo inedito violino-clarinetto) per chiudere con la Tarantella (ancora dal Quartetto). Un brano effettivamente di circostanza, in cui però Casella mostra la sua raffinata abilità di orchestratore, senza cadere nelle sesquipedali esagerazioni di Ottorino Respighi.

Del quale ha chiuso il concerto Feste romane, anteriore di 14 anni alla Paganiniana. È il terzo dei poemi sinfonici della triade romana (con Pini e Fontane) dove il nostro scimmiotta – pur con grande maestria, va detto - i Liszt e gli Strauss. In effetti l’orchestra pare quella dell’Alpensinfonie, con una sessantina di archi, sette trombe e percussioni a non finire. Il risultato – ammettiamolo pure – è un filino al di sotto, ma dobbiamo accontentarci.

Il brano ci elenca – con precise didascalie poste in prefazione alla partitura - quattro tipi di passatempo SPQR: dai gladiatori e dai cristiani offerti in pasto a belve fameliche, ai pellegrini che arrivano al Giubileo, alla classica ottobrata, e infine alla Befana. Nel cui conclusivo episodio – come fece nei Pini di Roma, dove introdusse, insieme ad altre filastrocche, la famosa Madama Doré - Respighi non manca di citare uno dei tipici stornelli romaneschi:

che chiude le feste con gran fracasso e fuochi d’artificio. Caos sonoro talmente parossistico, che diventa persino difficile capire se i suonatori (gli ottoni in particolare) hanno eseguito proprio le note giuste, o altre buttate lì a caso (smile!) Nel dubbio, gran trionfo per tutti, e quindi per Luisi un buon viatico in vista della prossima Manon

21 maggio, 2012

Anne-Sophie Mutter per beneficenza alla Scala


A una settimana precisa di distanza dall’esibizione della Staatskapelle Dresden con Colin Davis, la Scala ha ospitato, per l’annuale iniziativa benefica della Croce Rossa, un altro bel concerto mozartiano, protagonisti Anne-Sophie Mutter e la Kammerorchester Wien-Berlin (formata da strumentisti dei celebri Wiener e Berliner Philharmoniker).

Come una settimana addietro, in programma c’era quel Mozart leggero ed etereo che – almeno a me personalmente – non manca mai di provocare emozioni e grande piacere estetico. Per di più se eseguito da autentici fuoriclasse, come sono i Musikanten di Dresda e quelli di Vienna-Berlino. I quali si schierano in 17 (nessuna superstizione, evidentemente) con due corni e due oboi  (prescritti dai tre brani in programma) e 13 archi, disposti alla tedesca (quattro primi violini a sinistra, tre secondi violini a destra e dietro, da sinistra, il contrabbasso, i due violoncelli e le tre viole.

Dà inizio al concerto Rainer Honeck (con tali strumentisti un Direttore non serve davvero…) attaccando con la Sinfonia K201.

È questa una delle opere che vengono indicate come lo spartiacque fra il Mozart ancora acerbo, principalmente influenzato dallo stile italiano (di J.Christian Bach) e il Mozart che – sotto l’influsso della Mannheim di Stamitz e della Vienna di Haydn - si incammina sulla strada della maturità.

Già l’articolazione in 4 movimenti è un chiaro sintomo del nuovo corso (vero è che sinfonie successive - K297, K338 e K504-Praga - tornano alla struttura in 3 movimenti) ma è soprattutto lo spessore delle idee musicali che fa davvero intravedere cosa uscirà di lì a poco dalla penna del Teofilo. Per dire, all’attacco dell’Allegro moderato deve aver pensato 30 anni dopo Beethoven al momento di mettere su carta il tema principale del suo Quarto Concerto per pianoforte:


Anche la struttura formale – a parte il movimento aggiuntivo – si arricchisce: nascono temi diversi e a volte contrapposti, che vengono, sia pure moderatamente, sviluppati e inquadrati negli schemi che si stavano consolidando della forma-sonata, pur ancora allo stato embrionale. E certi rimandi tematici (come il salto di un’ottava discendente che apre il primo movimento, e poi si ritrova… raddoppiato anche all’apertura dell’ultimo) sono indici di un’attenzione particolare alla caratterizzazione dell’opera nel suo insieme.

Impeccabile l’esecuzione dei vien-linesi; data la (relativa) brevità della Sinfonia, è da apprezzare anche il rispetto dei da-capo prescritti da Mozart.



Ora la sempre affascinante (a dispetto dell’anagrafe) Anne-Sophie - in un lungo e scollato turchese - va in cattedra con il primo dei due Concerti in programma: il K216, terzo dei cinque nel catalogo mozartiano. Denominato Straßburg, dal tema dell’Allegretto che compare nel Rondeau finale, che riproduce quasi alla lettera quello di una danza (si dice opera di tale Georg von Reutter, Maestro di Cappella di Corte) molto popolare a Vienna:
  
Invece: il motivo dell’incipit del tema principale e della chiusa dell’Adagio ci ricorda qualcosa? Ma come no! Quell’ammiratore sfegatato di Mozart che rispondeva al nome di Ciajkovski lo citò (quasi) letteralmente – nei clarinetti – al momento di chiudere l’Andante cantabile della sua Quinta:

La Mutter ha proprio tutte le carte in regola, e non fa certo rimpiangere i mostri sacri del passato! 

Dopo l’intervallo ecco il K219, famoso come il turco. Del quale avevo scritto qualcosa un anno fa, dopo averlo ascoltato da Isabelle Faust accompagnata da Abbado a Ravenna.

Curiosa la chiusura di questo 5° concerto (come del resto quelle del 3° e del 4°) che, invece di presentare i classici accordi dell’orchestra, avviene sommessamente, come di chi non voglia disturbare eventuali ascoltatori già passati nel mondo dei sogni (smile!)

Ma alla Scala credo nessuno si sia addormentato al suono dello Stradivari della Mutter! Che ci regala due bis: il primo ancora mozartiano e poi, quasi a chiudere il concerto come si era iniziato – con un minuto di raccoglimento per i recenti fatti luttuosi - l’Aria dalla bachiana Suite 1068, che lei esegue con le sole quattro prime parti degli archi.

Bellissima serata, che ci fa tornare a credere che il mondo non sia solo stragi e terremoti.