ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

14 maggio, 2012

La leggendaria Staatskapelle alla Scala con Mozart


Il venerabile Colin Davis (85 primavere fra poco!) è stato ospite ieri alla Scala con la Staatskapelle Dresden, orchestra fra le più antiche e rinomate del pianeta, per proporre un programma tutto mozartiano.

Aperto dalla Pauken-Serenade (K 239) che a Milano è stata eseguita poche settimane fa con laVerdi all’Auditorium da Claus Peter Flor. Interessante – non proprio in senso positivo… - la disposizione degli strumentisti: il quartetto (violino I, violino II, viola, contrabbasso) non è isolato dall’orchestrina, ma è semplicemente costituito dalle quattro prime parti che stanno ai loro posti canonici (viola al proscenio). Invece una particolarità più sostanziale riguarda l’aggiunta di due contrabbassi all’orchestrina, non previsti da Mozart. In tutto quest’ultima era formata da 23 elementi: 12 violini (I e II) 4 viole, 4 violoncelli, due contrabbassi e i timpani. Esecuzione assai sobria, che non ha concesso alcuna deroga alla partitura scritta: quindi nessuna cadenza – come spesso e volentieri accade – nel Rondo finale. Insomma, Mozart allo stato… asettico.

Ecco poi il Quarto concerto per violino (K218) interpretato dal 37enne danese Nikolaj Znaider, con il suo Guarneri, costruito 15 anni prima che Mozart nascesse! Oltre ai 4 fiati (coppie di oboi e corni) pochissimi rinforzi agli archi, rispetto alla Serenata.

Esecuzione gradevole, come si addice ad opere di questo tipo, che certo non hanno la pretesa delle pari-grado di Beethoven, Brahms e simili. Comunque buon successo per Znaider e bis bachiano.

Chiude il concerto la celeberrima Sinfonia in Sol minore. Viene eseguita – ovviamente, mi verrebbe da dire – la versione con i clarinetti (contrariamente a ciò che si poteva dedurre dal programma di sala, dove questi mancavano). Gli archi sono precisamente 40.

Davis – comprensibilmente seduto su uno sgabello (mi ricordava l’ultimo Boehm sentito proprio in Scala, diciamo… 40 anni fa?) ne dà un’interpretazione che potrebbe apparire routinaria, ma in fondo ha il pregio della purezza di approccio e della mancanza di gratuite gigionerie.

Gran successo per il vegliardo che – dopo un bis e tre chiamate – prende sotto braccio il suo Konzertmeister e se ne va meritatamente a riposare.

11 maggio, 2012

Orchestraverdi – concerto n°32


Rientra alla base Zhang Xian per questo concerto che accosta Ciajkovski e Beethoven.

La prima opera in programma è la Seconda Sinfonia di Ciajkovski, già diretta qui da Caetani precisamente un anno fa.

Strepitosa prestazione – alle mie orecchie - di Xian e dell’Orchestra: chiaroscuri ben scolpiti, con i temi delicati e languidi che emergevano come fiori dalle enfatiche perorazioni nei movimenti esterni; in quelli interni, sonorità rarefatte, e poi tempi stringati e nessuna caduta nella facile retorica. Insomma, questo Ciajkovski ancora immaturo reso con grande efficacia e sensibilità.

Veniamo ora all’Eroica. La novità – in un certo senso – di questa esecuzione è che viene impiegata la partitura riveduta-e-corretta da Gustav Mahler (che sia un’appendice alle celebrazioni dei 100 anni dalla scomparsa?) E lodevolissima è la precisazione fornita al riguardo dalla locandina de laVerdi. Poiché è bene che l’ascoltatore – quello esperto, ma anche quello naif – venga sempre informato del contenuto della merce che gli viene propinata. Proprio come si fa – per legge! – con qualunque altro prodotto di consumo.
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Della liceità, o opportunità, o tollerabilità, o criminalità degli interventi sulla carta delle opere musicali (come di qualunque altra opera dell’umano ingegno) si discute da sempre accanitamente, senza che si trovi una risposta univoca e definitiva alla questione. Perciò l’unica cosa seria da farsi è – appunto – chiarire all’utente in modo trasparente e senza infingimenti o manfrine qual è la natura del prodotto proposto: originale o manipolato.  

Ciò che è intollerabile (a mio modesto modo di vedere) è spacciare per originale qualcosa che non lo è. E questo, indipendentemente dal valore soggettivo che il compratore può attribuire al prodotto che gli viene venduto. Mi spiego: una falsa Lacoste o un falso Rolex potrebbero anche essere giudicati dall’acquirente intrinsecamente migliori della Lacoste autentica, o del Rolex autentico; fatto sta che il fabbricante e il venditore di quei prodotti contraffatti rischiano – codice penale alla mano – il carcere. E persino l’acquirente rischia una salatissima multa.

Perché lo stesso metro non si dovrebbe impiegare per giudicare – ed eventualmente sanzionare – produzioni artistiche che sono palesi contraffazioni (quand’anche… in meglio) dell’originale? Ora, sulle partiture la cosa per fortuna accade ancora di rado (almeno a livelli macroscopici) ma si pensi invece alle cento e mille autentiche contraffazioni che vengono giornalmente perpetrate dalle regìe teatrali moderne e post-moderne… Come gridava Bracardi? In galera!

Altro discorso invece è lasciare all’interprete – addirittura pretendere da lui – di portare il valore aggiunto della sua propria sensibilità (interpretativa, appunto) all’opera che esegue. Purtroppo il confine fra libertà interpretativa (sacrosanta) e adulterazione dell’originale (intollerabile, a meno che non venga apertamente dichiarata, come fatto da laVerdi per questa esecuzione) è spesso assai nebuloso e difficilmente tracciabile a priori.

Veniamo a Mahler. Come giustamente rileva Enzo Beacco: Mahler vuol fare di più. Cambia la partitura. Non è una cosa da poco, non è la cosmesi che in fondo tutti i grandi direttori operano sui classici sinfonici (e operistici, ndr), per lasciare il proprio segno. A suo modo è una provocazione.

E in effetti sappiamo come Mahler, il più grande Direttore dei tempi moderni, fu accanito sostenitore – e attivo praticante – della teoria secondo cui era non solo ammissibile, ma doveroso intervenire sulle partiture dei suoi predecessori, per adeguarle alle ultime conquiste della civiltà, o per meglio renderle fruibili impiegando strumenti di cui i compositori non avevano potuto disporre. O ancora, nel caso specifico di Beethoven, per ovviare a vere e proprie manchevolezze nella strumentazione, da Mahler attribuite allo stato di quasi totale sordità dell’Autore. Seguendo del resto l’esempio del suo idolo Wagner (che per primo aveva messo mano pesantemente e in modo scientifico alle sinfonie beethoveniane, e alla Nona in particolare) Mahler riorchestrò addirittura tutte le sinfonie del suo amato Schumann (ma oggi per fortuna c’è chi critica aspramente quegli interventi, come quelli di Rimski su Musorgski) e intervenne profondamente su Beethoven. Una delle sue manìe era il clarinetto piccolo, quello in MIb, usato fino ad allora solo nelle bande: lui non solo lo impiegò (legittimamente, ci mancherebbe!) in parecchie sue opere, ma appunto lo introdusse nell’organico orchestrale della Sinfonia in MIb di Beethoven (Mahler soffre di una malattia da clarinetto in MIb, ironizzò qualcuno sulla stampa del tempo) insieme ad abnormi rinforzi di corni e timpani, giustificati con la necessità di controbilanciare le masse continuamente crescenti degli archi.

Al proposito mi sento di proporre una riflessione che non mi pare peregrina: una musica composta per un’orchestra di 40 elementi (le dimensioni medio-massime ai tempi di Beethoven: diciamo 26 archi e 13 fiati più i timpani – ma alla prima del 1804 pare che gli archi fossero poco più di una dozzina!) viene di sicuro snaturata se, a parità di fiati, gli archi diventano 45, come erano già ai tempi di Mahler. Però se, seguendo la logica di Mahler, per bilanciare i 45 archi portiamo i fiati a 25 (quindi portando l’intera orchestra a 70 elementi) siamo sicuri di ripristinare il suono dell’orchestra beethoveniana? In fondo è lo stesso problema che si presenta quando Mahler (guarda caso!) trascrive per orchestra da camera (30-40 elementi) un Quartetto (4 elementi): qualcuno osa sostenere che – essendo rispettate le proporzioni fra violini, viole e violoncelli (con aggiunta magari di contrabbassi) - abbiamo lo stesso risultato sonoro del quartetto? Ecco, Mahler sosteneva di sì… o comunque riteneva inevitabile quella soluzione per poter eseguire un quartetto in una sala da concerto. Chi oggi gli dà ancora ragione?

Insomma, credo che non avessero tutti i torti i molti critici di fine ‘800 che accusavano sarcasticamente Mahler di narcisismo, nel pretendere di migliorare Beethoven, che non avrebbe avuto secondo lui la possibilità di realizzare tutte le sue intenzioni. (E in effetti, parlando di strumenti inesistenti o inconsueti ai tempi di Beethoven: perché allora non impiegare oggi anche i sassofoni, le tubette wagneriane e – magari nella Pastorale - pure chitarra e mandolino?)

Così scriveva nel 1893 – fra il sarcastico e l’indignato - dell’interpretazione mahleriana della Quinta beethoveniana tale Josef Sittard, critico di Amburgo (dove Mahler dirigeva ai tempi): Senza dubbio è essenziale oggi sottoporre le partiture di Beethoven a una revisione, conformemente ai moderni principi esecutivi. Ma si tratta di un problema assai grave. O Beethoven sapeva esattamente ciò che faceva, mentre componeva, oppure lui stesso non ha compreso nulla delle sue proprie idee. E sull’uso esagerato dei timpani nel finale, sempre della Quinta, aggiungeva: Mahler evidentemente considera quest’opera di Beethoven come musica di Giannizzeri. (!!!)

Mahler eseguì la sua Eroica anche nel 1898, per il suo insediamento a capo dei Wiener: ancor prima del concerto già si prendevano a pretesto i suoi interventi sulla partitura per fare commenti offensivi riguardo alla sua origine semita. Così accadde che uno dei pochi critici favorevoli all’esecuzione fu stranamente tale Eduard Hanslick, ben noto per il suo conservatorismo. Ma forse il critico immigrato da Praga, mezzo-ebreo pure lui, difendeva Mahler l’artista per difendere in realtà Mahler l’ebreo…    

Ecco invece come un critico presente ad un’esecuzione di Mahler dell’Eroica al Trocadero di Parigi nel giugno del 1900 ci descrive le sue impressioni: Certo, nella sala c’era il mondo intero, ma Beethoven era assente!

L’ironia sta poi nel fatto che invece, per le sue proprie opere, Mahler fu di una puntigliosità davvero degna di miglior causa, quanto ad indicazioni agogiche e dinamiche, infarcendo di descrizioni dettagliate (spesso pure strampalate e intraducibili in gesti concreti per i musicisti - vedi il bizzarro Altväterisch della Sesta…) e di segni di portamento ogni singola nota delle sue partiture, e pretendendo il massimo rispetto per quelle indicazioni! Ma datosi che chi di spada ferisce, di spada perisce, destino volle che anche lui fosse abbondantemente vittima di contrappasso, almeno a giudicare dai barbari tagli di cui le sue sinfonie furono fatte oggetto nel secolo scorso.

Questo è l’esempio più clamoroso dei mostruosi ritocchi apportati da Mahler al primo movimento dell’Eroica, nel punto di più alta drammaticità (ho riprodotto l’immagine da questo interessante studio); vi si vede anche (terzo rigo dall’alto) l’introduzione della parte di clarinetto piccolo, oltre a quelle dei tre corni addizionali, all’aggiunta di rintocchi di timpano e allo stravolgimento delle indicazioni esecutive; qui nessuno dovrebbe avanzare dubbi sul fasullo substrato romantico (per non dire tardo-romantico) di questo intervento:
Purtroppo la notorietà di Mahler ne fece un caposcuola anche per l’interpretazione beethoveniana, e così tutto il ‘900 è stato un fiorire del Beethoven (falsamente) romantico, suonato proprio à la Mahler e à la Wagner, fino ai giorni nostri (Christian Thielemann, gran wagneriano, è solo l’ultimo alfiere di questa pseudo-scuola).

Oggi per fortuna possiamo però ascoltare le sinfonie beethoveniane nella loro forma più autentica, grazie ai seri studi portati avanti negli ultimi decenni; primo fra tutti quello di Jonathan Del Mar, che ha prodotto un’edizione critica unanimemente giudicata di grandissimo pregio, e che viene adottata da un sempre maggior numero di direttori.

C’è poi chi sembra tenere i piedi in due scarpe, adottando un approccio intermedio (fra Mahler e Del Mar): si tratta di Aldo Ceccato, che ha di recente pubblicato un libricino – introdotto da Quirino Principe - contenente tutte le sue annotazioni (e interventi) sulle partiture beethoveniane: in sostanza Ceccato introduce sue proprie varianti in quei punti della partitura dove risulta (o risulterebbe, secondo lui) evidente la costrizione subita da Beethoven a causa dei limiti degli strumenti del suo tempo (l’estensione dei flauti, ad esempio) con conseguenti salti mortali (esteticamente bizzarri, ma obbligati) che Beethoven avrebbe dovuto compiere per aggirare quei limiti; salti mortali evitabili oggi, stando a Ceccato, impiegando gli strumenti moderni. Ma il nostro adotta anche parecchie modifiche a suo tempo proposte da Mahler (da lui richiamato, con Wagner, nell’introduzione al suo scritto): ad esempio nell’estensione delle parti dei timpani. Peraltro non sembra seguire Mahler fino alle estreme conseguenze: niente clarinetto piccolo (smile!)
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Già il colpo d’occhio dell’orchestra è spaventevole: si direbbe che debba essere suonata la Totenfeier, mica l’Eroica! Dopodiché ciò che si deve ascoltare fa accapponare la pelle: a volte par di sentire la batteria dei corni dei cacciatori della Alpensinfonie; la marcia funebre assomiglia maledettamente a quella di Sigfrido; il clarinetto piccolo squittisce come nella Fantastica; i corni a volte creano un magma sonoro volgare, che distrugge i mirabili temi beethoveniani; gli strumentini suonano quasi sempre con la campana in alto, creando sonorità impertinenti e fastidiose; altre volte le trombe (che sembrano proprio quelle di Gerico, come sarcasticamente affermavano i detrattori antisemiti di Mahler) portano in primo piano linee che dovrebbero starsene in sottofondo. Insomma, un supplizio per le orecchie!

E devo dire che l’esecuzione di Xian e dell’Orchestra non mi è parsa nemmeno di alto livello tecnico, forse proprio a causa dell’inconsueta circostanza. Certo, alla fine gli applausi non sono mancati, anche quelli ritmati dal calpestio dei professori.

I miei (scarsi) clap sono andati agli interpreti e – ça va sans dire – all’Autore. Per l’arrangiatore – e lo confessa uno che si sente mahleriano fino al midollo – lascio la parola a… Bracardi (smile!)

(per pietà, non fatelo più)


Ancora Mahler (l’ultimo) e guarda caso ancora con Beethoven (però non arrangiato, strasmile!) e ancora Xian sul podio per il prossimo appuntamento.

08 maggio, 2012

Rachmaninov per giovani con la Filarmonica della Scala


Una vera Indigestione di Rachmaninov (in prima e per interposta persona…) nel concerto di ieri sera della Filarmonica della Scala. E con tre giovani (o giovanissimi) protagonisti: il ragazzino Andrea Battistoni (25 anni) il suo quasi coetaneo Alexander Romanovsky (28) e il loro fratello maggiore Matteo Franceschini (33).

Del quale ultimo (cui l’opera è stata commissionata dall’Orchestra) si inizia con una prima assoluta: Ja sam.

Dato che l’Autore afferma di voler impiegare il coro di voci bianche come fosse uno strumento dell’orchestra, ecco che ad esso viene riservato uno spazio sulla destra del palco (per chi guarda) spostando per l’occasione i contrabbassi a sinistra.

Cosa c’entra qui Rachmaninov? C’entra come ispiratore del brano (una cosa corposa, quasi mezz’ora, come un poema sinfonico di Strauss, per dire…) con la sua Prima Sonata per pianoforte in RE minore (in particolare l’iniziale Allegro moderato). Che Franceschini prende a modello rispettandone la struttura di forma-sonata fino nei dettagli quantitativi (357 battute e relativa suddivisione in esposizione-sviluppo-ripresa).

Non ci si aspetti però di trovare nella sua composizione delle citazioni letterali e nemmeno vaghe (almeno io al primo ascolto non le ho percepite…) Come ammette l’Autore stesso (nelle note pubblicate sul programma di sala) la Sonata del russo è stata essenzialmente di stimolo per la sua creatività.

Successo – come si dice in queste circostanze – di stima, con ripetute chiamate per Autore e Interprete. Meritatissimi gli applausi per le ragazzine del coro e il loro Maestro Casoni.

Poi arriva Alexander Romanovsky, immigrato ucraino e oggi cittadino italiano (cosa che immagino infastidirà i residui leghisti, smile!) per proporci le Variazioni su un tema di Paganini dello sdolcinato Sergei.

Il quale – imitatore e scimmiottature di natura (Ciajkovski ne sa qualcosa) – compì un’operazione analoga a quella già inventata da Liszt con la campanella e da Brahms con il medesimo tema sull’ultimo dei 24 capricci del genovese: comporvi un pezzo velleitario, una specie di concerto in 24 variazioni. Nel quale immancabilmente infila, indovinate un po’… anche il Dies Irae (un’autentica fissazione la sua!)

Romanovsky mostra qui tutta la sua grande tecnica e propone – alle mie orecchie perlomeno – una specie di coca-cola-light del brano, togliendogli parecchio dello zucchero. Assecondato da Battistoni, che ad esempio non calca per nulla la mano nel celebre quanto volgare Andante cantabile (n°18) in REb maggiore.

Gran successo per Romanovsky, che si cimenta anche in un paio di bis.

Ha chiuso la pesante razione di Rachmaninov la Seconda Sinfonia, che a Milano si è potuta ascoltare con una certa (direi preoccupante, smile!) frequenza negli ultimi tempi: dalla stessa Filarmonica con Pappano, poi da laVerdi con Xian, indi ancora da Noseda all’Arcimboldi con l’Orchestra del Regio di Torino.

A me è parsa un’esecuzione più che accettabile, con un’orchestra in buona forma e un Direttore che sarà pure giovane e magari, come si dice in gergo, se la tira un po’ troppo (mai un sorriso, accipicchia, e atteggiamenti iper-formali) però non sembra proprio un tipo catapultato da qualcuno sul podio, e che cerca di seguire col gesto un’orchestra che tanto suona per i fatti suoi…

Al contrario, a me dà l’impressione di uno che conosce bene il suo mestiere (poi bisognerebbe chiedere ai professori se lo trovano una guida carismatica o soltanto un montato). Certe stroncature lette dopo le sue Nozze a me sembrano il classico contrappasso fatto pesare su un incolpevole per controbilanciare peana sconsiderati rivolti in precedenza ad altri giovani più o meno meritevoli (e/o raccomandati) di lui.  

07 maggio, 2012

Un apprezzabile Rosenkavalier allieta il Maggio fiorentino


Ieri pomeriggio al Maggio – in una Firenze intristita dalla pioggia - seconda delle quattro recite del capolavoro straussiano. L’ascolto radiofonico della prima di venerdi aveva lasciato una buona impressione (parlo dell’opera e non certo dei deplorevoli interventi dei conduttori di Radio3) che ieri si è confermata in pieno, almeno ai miei occhi e alle mie orecchie.  

Teatro Comunale che presentava qualche vuoto di troppo (ci si aspetterebbe un tutto esaurito da titoli come questo). La crisi, i prezzi dei biglietti, i costi di trasferta per chi deve venire da fuori, forse il titolo stesso che (in Italia, ancor oggi) a molti purtroppo non dice molto, il cast (peraltro notevole) con nomi (in Italia, sempre) poco o punto conosciuti… o magari proprio il tempo uggioso, chissà… Di sicuro è uno spettacolo che merita anche qualche sacrificio materiale, di cui non ci si pentirebbe proprio!

Innanzitutto per la parte musicale. Che Zubin Mehta e l’Orchestra ci hanno sciorinato con grande cura e passione. Mi sento di fare solo un piccolo appunto al Maestro: aver alzato di una tacca di troppo il volume nelle ultime battute del delizioso terzetto finale, andando un filino a coprire le voci. Come contrappasso, il pubblico ha coperto lui a fine di second’atto, cominciando ad applaudire – a chiusura di sipario - quando ancora l’orchestra doveva esalare le ultime, mirabili, quattro battute in MI maggiore… così a lui non è restato che alzare le braccia verso i suoi professori, in segno di resa! (Forse da noi sarebbe bene contraddire la partitura e lasciare il sipario alzato fino a che il direttore non posa la bacchetta.)

Per il resto, una direzione accuratissima e un’interpretazione – per me – perfettamente in linea con lo spirito, oltre che con la lettera, della partitura. Perdonabili sono i diversi tagliuzzamenti - soprattutto della parte di Ochs nell’atto conclusivo - di cui fatico sempre a comprendere la ragione: che Strauss medesimo qua e là li abbia autorizzati o tollerati non li giustifica automaticamente. Ma tant’è.  

La compagnia di canto non sarà proprio stellare, ma mi è parsa benissimo assortita e all’altezza del compito. Angela Denoke impersona - nel canto e nel portamento scenico – la Feldmarschallin in modo egregio e commovente: il suo finale del primo atto è proprio una cosa sbudellante (ovviamente grazie al birraio bavarese!) Caitlin Hulcup è a sua volta un’efficace Octavian, bella voce che passa tranquillamente e si complementa a meraviglia con quella della Denoke, nei diversi momenti di dialogo fra le due. Forse meno pulita la Sophie di Sylvia Schwartz, una voce squillante… fin troppo (negli acuti a volte un filino pigolati). Però il duetto finale è stato un vero gioiellino… Kristinn Sigmundsson è un Ochs praticamente perfetto nella parte scenica, non certo nel canto, dove le parti in piano e nella cosiddetta ottava bassa lasciano un poco a desiderare. Eike Wilm Schulte è un onesto Faninal, anche lui meglio nel lato attoriale. Mi ha ben impressionato Ingrid Kaiserfeld, una Duenna altrettanto efficace come attrice che come canto, una bella voce, intonata e sempre pulita in tutta la gamma.

Rimando alla locandina per gli altri interpreti (cosiddetti minori) che hanno tutti ben meritato. Solo un cenno speciale per Celso Albelo, data la rilevanza qualitativa (non certo quantitativa) della sua particina: che lui ha compitato in maniera apprezzabile, mancandogli forse un tocco di espressività… I Cori del Maggio (Piero Monti) e di Fiesole (Joan Yakkei) hanno egregiamente svolto il loro non improbo compito.   

Per tutti – orchestra compresa, salita sul palco con Mehta - alla fine un gran trionfo con minuti e minuti di applausi e ripetute chiamate.

Quanto alla regìa di Eike Gramms devo dire che non mi ha convinto del tutto. Il regista medesimo, nelle note sul Programma di sala, ammette di avere ambientato l’opera tra la metà del XVIII secolo e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale. Ora, a parte le scene che richiamano vagamente il settecento, il resto (i costumi, ad esempio) sono invece più da inizio novecento. Un po’ come nella regìa di Herbert Wernike ripresa tempo fa alla Scala, sui cui avevo manifestato le mie personali perplessità.

Della quale regìa Gramms ha persino copiato alcuni dettagli: come il parrucchino di Ochs (che non ha alcun significato, salvo quello di rendere vagamente plausibile – in realtà incomprensibile - il riferimento che vi fa il Commissario) al posto della parrucca (simbolo preciso della nobiltà settecentesca); oppure la pletora di ragazzini (in luogo dei quattro prescritti) sedicenti figli del medesimo Ochs, che trasforma in parodia ciò che per il librettista era un aspetto grottesco sì, ma serio!

Per fortuna Gramms non copia da Wernike il sottofondo pessimistico generale; ad esempio sottolineato dall’uscita di scena finale di Marie-Therese e di Faninal (in direzioni opposte) per la quale Gramms invece rispetta in pieno il libretto (facendoli uscire sottobraccio, il che ha un precisissimo e positivo significato sociologico, oltre che esistenziale!)

Per il resto, quanto a rispetto del libretto e delle didascalie di cui abbonda la partitura, soprattutto nei movimenti e nelle posture dei personaggi, va dato atto a Gramms di averne molto: sempre a differenza di Wernike, tanto per fare un esempio banale, noi vediamo Rofrano ferire il barone al braccio destro, non ad una natica (smile!) Utile anche l’esplicitazione sceneggiata del passaggio di campo (da Ochs a Rofrano) di Valzacchi-Annina nell’atto secondo.

In conclusione: uno spettacolo complessivamente apprezzabile, di quelli che in Italia – credo io - andrebbero programmati più di frequente (*).

(*) Ps: come concorda anche Amfortas

04 maggio, 2012

I beg your pardon: politically… what?


Confesso di essere rimasto basito al leggere un corsivo di Angelo Foletto, apparso su Repubblica.

In 10 righe il nostro riesce nella mirabile impresa di fare del sarcasmo su (o di offendere direttamente) nell’ordine: a) un Maestro di fama internazionale, ex-Direttore musicale della Scala; b) il pubblico che a quel Maestro ha voluto manifestare tutta la sua ammirazione; c) quella parte di pubblico che ha liberamente contestato una recita alla Scala.

Alla faccia del politically correct! Qui siamo in una full-immersion di faziosità. Libera anche quella, ci mancherebbe anche. Si dà però il caso che qui sgorghi copiosamente dalla penna del rappresentante ufficiale dei critici musicali italiani.

Orchestraverdi – concerto n°31


Il 31° concerto della stagione vede ancora sul podio Claus Peter Flor, che dirige un programma, come dire… religioso, in un Auditorium - ahinoi - un po' troppo ricco di poltrone vuote.

Benjamin Britten era certamente (già da giovane, ben prima dell’ultima guerra) un tipo che viveva, diciamo così, ehm, ai limiti del regolamento, almeno per benpensanti, bigotti e patrioti del Regno Unito: omosessuale e obiettore di coscienza, hai detto niente! Bene, nel 1940, in piena guerra e col Giappone sull’orlo di accoppiarsi con l’Asse per mettere al mondo RoBerTo, costui riceve nientemeno che da parte del Governo di Tokio un invito (esteso a personaggi come Richard Strauss, per dire…) a comporre un brano musicale per celebrare la ricorrenza dei duemilaseicento anni dalla fondazione dell’Impero del Sol Levante. E lui cosa gli propina, per una simile festosa circostanza? Un Requiem!!!

Roba da provocare un incidente diplomatico (e ciò è accertato che avvenne) ma forse anche – chi lo sa? – da far decidere i gialli a spedire di lì a poco un’allegra brigata di bombardieri e siluranti dalle parti di Pearl Harbor… Solo una quindicina d’anni più tardi, e con gli yankee saldamente in control a Tokio, il nostro potrà tranquillamente dirigervi il suo regalo per i giapponesi, cui nel frattempo erano stati forniti, e in abbondanza, seri (e nucleari) motivi per pregare sui loro morti.

Cupi e sordi colpi di timpano aprono l’opera, creando un’atmosfera precisamente da funerale. È il biblico Lacrymosa che incede – Andante misurato - col passo pesante di un cantilenante mortorio; che dopo un pesantissimo passaggio, ancora con i timpani a scuotere l’aria, si perde, quasi su un fievole RE maggiore. Il successivo Dies Irae è una specie di Scherzo (Allegro con fuoco): una danza della morte più che la spaventosa evocazione dell’ira divina, con le trombette e i corni che sembrano lanciare sberleffi più che maledizioni, mentre archi e percussioni paiono suonare una carica da arrivano-i-nostri! Finchè il tutto termina in una specie di buco nero… Il conclusivo Requiem Aeternam (Andante molto tranquillo) sembra imparentarsi con un qualche Adagio di Mahler… un sereno indirizzo a chi sta riposando, dovunque egli sia. Nobilissimo il crescendo che porta alla consolante chiusura.

Opera interessante, non certo da catalogare fra i capolavori, che Flor e laVerdi interpretano comunque con grande concentrazione ed efficacia.

Segue poi la Nona di Anton Bruckner. Musica scritta in onore nientemeno che del Buon Dio! Da parte di un uomo profondamente anche se quasi ingenuamente religioso, che ormai sentiva vicino il momento di presentarsi al cospetto del Creatore, e voleva arrivarci portando con sé l’opera sua più grande. La chiamata arrivò un tantino troppo presto, e così il devoto organista di Sankt Florian potè presentarsi all’appello con tre movimenti compiuti, più i soli abbozzi del Finale, scritti su 184 fogli di musica, l’ultimo dei quali vergato il giorno stesso della sua dipartita: 11 ottobre, 1896.

Quindi musica composta in prossimità della morte e, dalla falce di questa, troncata prima del completamento, proprio come era accaduto quasi 150 anni addietro a Die Kunst der Fuge di Bach, o come accadrà una quindicina d’anni dopo alla Decima di Mahler.

Personalmente – mettendomi nei panni di Bruckner (smile!) – sono propenso a vedere questa sinfonia come una specie di Divina Commedia. Mi spiego. Bruckner sapeva che questa sarebbe stata la sua ultima sinfonia, poiché mai avrebbe osato andare oltre il fatidico nove di Beethoven (e per restare entro quel limite ne aveva addirittura cestinate due, di sinfonie…) L’aveva dedicata a Dio (più in alto di così osar non si puote…) e doveva essere appunto – credo io – l’estrema sintesi di un lungo e travagliato percorso esistenziale, una specie di salvacondotto che lo accompagnasse dalla terra al cielo.

E come una sorta di prologo-in-terra mi immagino l’iniziale Feierlich.Misterioso: la presentazione della meta da raggiungere e la presa d’atto del faticoso cammino e dei tanti ostacoli che si parano davanti all’Uomo che si accinge all’immane impresa. E quindi la chiamata a raccolta di tutte le forze (musicali) disponibili. Cui segue l’Inferno dello Scherzo, una cosa per l’appunto demoniaca, dove guizzano fiamme e dove schiere di dannati marciano tenuti a bada da diavoli armati di forconi, o si danno a spiritate danze a ritmo di walzer! Ecco quindi il Purgatorio dell’Adagio, dove si comincia ad intravedere un poco di luce, lassù, in fondo ad un tunnel ancora occupato da sofferenze e da peccati da espiare. E infine il Paradiso del Finale (qui purtroppo però non ci basta più nemmeno l’immaginazione…) dove non a caso Bruckner, nei suoi schizzi, pare richiamarsi al TeDeum, del quale viene citato il famoso inciso che scende di un’ottava, passando per il quinto grado, come qui, nello schizzo della Coda, dove contrappunta un motivo di corale:


E sulla base di quest’ultima congettura, oltre che di supposte volontà di Bruckner, Ferdinand Loewe – uno dei discepoli-arrangiatori-adulteratori del Maestro e delle sue opere – in occasione della prima esecuzione della sinfonia (1903) appiccicò abbastanza arbitrariamente proprio il TeDeum ai tre movimenti compiuti. Cosa che per fortuna si è smesso di fare da quando – avendo la coppia Loewe-Schalk tolto il disturbo e con esso i millantati diritti sull’opera - Haas e Orel prima, poi Nowak e infine Redlich hanno potuto presentare una seria edizione della parte della sinfonia completata dall’Autore. Accertando allo stesso tempo che i corposi schizzi del Finale – che qualcuno (vedi qui) ha tentato di ricomporre per farne qualcosa di eseguibile - tutto lasciano intuire tranne la volontà di Bruckner di importarvi di peso il suo preesistente TeDeum.
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Dopo l’esordio da nona beethoveniana (ma senza la quinta vuota, solo il RE in tutte le voci dell’orchestra) otto corni e due trombe espongono con solennità il primo tema, che sfocia in questa stupefacente perorazione dei primi quattro corni:

Si passa qui dal RE minore (tonalità d’impianto) a MIb maggiore, quindi MIb un’ottava sopra, poi ecco, spiccando il volo, arriviamo ancor più in alto, al DOb maggiore la cui triade è pesantemente sottolineata dai corni. Da qui si scende fino al SOLb due ottave sotto, per risalire al MIb, quindi scendere al REb e alla sua sensibile DO. Come si vede, un percorso spettacolare, ma quanto mai contorto e dagli esiti ancora incerti.

Una transizione in crescendo porta poi ad una nuova perorazione: il secondo tema, una possente ottava discendente RE-RE (minore) poi ancora un’altra (LA-LA) e quindi l’appoggio provvisorio sul MIb; da qui risalita alla dominante LA (violini e corni sforano sul SIb) e quindi i due secchi accordi dominante-tonica che chiudono sul RE maggiore! Ancora una volta: grandi orizzonti raggiunti attraverso faticosi percorsi.

Un nuovo periodo di transizione, caratterizzato da un sommesso pizzicato degli archi e da brevi incisi negli strumentini, porta al terzo tema (Langsamer, più lento), un cantabile in LA maggiore - dove troviamo una chiara reminiscenza dell’Adagio della settima - che si ripete subito dopo e poi sfocia sul LAb dove oboe e clarinetto anticipano una forma invertita del quarto tema, che viene poi esposto (Moderato) dagli archi, arpeggiando sulla triade di RE minore; il tema si sviluppa poi come un sofferto procedere, con una punta sulla dominante e poi un’adagiarsi fra mediante e sopratonica; la sua reiterazione sfocia però ancora in un passaggio in DOb maggiore, un vero squarcio di luce, sottolineato da un largo gruppetto dei corni, attorno alla dominante SOLb. Che per poco diventa tonica, prima che una serie di arpeggi modulino alla relativa MI minore e da qui, per ascesa di un semitono, al sorprendente (ma assolutamente canonico, secondo le regole della forma-sonata) FA maggiore che sommessamente chiude l’esposizione.    

Sviluppo e ricapitolazione sono quasi un tutt’uno, poiché vi si mescolano manipolazioni dei quattro temi - trattati con variazioni e  modulazioni - e riprese degli stessi, magari in diverse tonalità. Sul RE minore di impianto chiude il gigantesco movimento una Coda che ripropone inizialmente il salto di ottava RE-RE del secondo tema, poi vi prendono il sopravvento gli ottoni (la tromba in particolare) che portano alla stentorea chiusa, con gli appoggi di MIb sull’accordo di quinta vuota di RE minore.  

Lo Scherzo (mosso, vivace) inizia con note tenute degli strumentini e un pizzicato degli archi che pare proprio introdurre uno scenario infernale; che infatti si materializza presto – così come la tonalità di RE minore - in un martellante motivo esposto ad intera orchestra (par di vederci i Nibelunghi schiavizzati da Alberich!):

È seguito da uno squarcio di apparente gaiezza, con l’oboe che intona un motivo in LA maggiore, staccato, imitato poi dal flauto, ma non v’è proprio nulla di bucolico in tutto ciò (come accadeva magari in altri scherzi di Bruckner) e infatti una successiva progressione ci riporta al martellante tema principale, lungamente sviluppato fino alla classica fermata sul RE minore (anche qui l’accordo è solo tonica-dominante). Il Trio (Schnell, rapido) è nella lontana tonalità di FA# maggiore, ed ha una parte sempre mossa e spiritata, seguita da una un filino più calma, ma sempre in un clima poco rassicurante. Lo Scherzo viene ripreso in toto per chiudere il movimento, quindi in RE minore.

L’Adagio.Langsam,feierlich è nella distante tonalità di MI maggiore (la stessa dell’Adagio della settima, dove però rispettava rigorosamente la tonalità d’impianto, oltre ad essere posto subito dopo il movimento iniziale). Si apre con il famoso salto ascendente di un’ottava aumentata (SI-DO), di cui Mahler si ricorderà al momento di aprire l’ultimo movimento della sua nona (dove sarà di un’ottava giusta, LA-LA):
 
La caduta cromatica DO-SI-LA# ci ricorda inevitabilmente il wagneriano Tristan, e la cosa non deve essere proprio casuale: siamo ancora in uno scenario di sofferenza, in cui appare però ben presto uno squarcio di luce, di speranza: ed è ancora Wagner a ispirarlo, laddove tromba e primi violini espongono un tema solenne e maestoso, in RE maggiore, che ricorda appunto… la Spada del Ring (quanti significati e allusioni si porta dietro!):

Ma poi sale anche più in alto, quasi fosse un Dresden-Amen, proprio come a cercare… il Paradiso? 

Un secondo tema compare poco dopo, a piena orchestra, su accordi in fortissimo dove su un fondo di dominante di SI (i FA# di archi, tromboni, corni e flauti, i MI e DO# degli oboi e i SOL# di clarinetti, tromboni, fagotti e viole) si innestano rapidi incisi delle trombe, che salgono dal SI al MI, passando per il DO#, con un effetto invero straniante, poiché lascia la tonalità sospesa fra tonica MI e sopratonica FA# (dominante della dominante).

Dopo che il FA# è calato al FA naturale, una transizione nei corni e nelle quattro tubette wagneriane (due lente discese che pare Bruckner avesse etichettato come il suo addio-alla-vita) portano all’esposizione del terzo tema, nobilissimo e cantabile, in LAb maggiore:

È seguito da un controsoggetto in SOLb maggiore, che poi modula enarmonicamente a FA#, col che si chiude l’esposizione.

Come per il movimento iniziale, anche qui sviluppo e ripresa si incastrano fra loro, con il ritorno dei temi, variamente manipolati, finchè si giunge alla Coda, una cosa assai simile a quella – invero stupefacente – che chiude l’Adagio dell’ottava. Un arpeggio dei corni precede le ultime 5 battute, dove corni, tubette, tromboni e tuba, con radi accordi in pizzicato degli archi, mettono il sigillo a questo – ahinoi incompiuto – testamento spirituale.

Io ritornai da la santissima onda
rifatto sì come piante novelle
rinovellate di novella fronda,
puro e disposto a salire a le stelle. 
___

Per l’occasione Flor ha disposto l’orchestra alla tedesca (bassi a sinistra, secondi violini al proscenio, sulla destra). In più ha raggruppato al centro-sinistra corni, tubette, tuba e tromboni, isolando le trombette in alto a destra, accanto ai timpani. Scelta per me efficacissima.

Ed in effetti l’esecuzione di Flor e dell’Orchestra è stata letteralmente stre-pi-to-sa! Un primo movimento tenuto con una solennità spinta al limite dell’umana sopportazione (in senso positivo, sia chiaro!); uno Scherzo dove il tema principale pareva arrivare direttamente da un girone dantesco, mentre il Trio creava atmosfere irreali, stranianti; e l’Adagio conclusivo dove l’anelito all’assoluto usciva da ogni nota degli archi e dal caldo suono delle tubette e dei corni.

Un’emozione indescrivibile, unica e memorabile. Peggio per gli assenti…


Prossimamente torna la Direttora Xian con un altro robustissimo programma.

03 maggio, 2012

Riecco alla Scala la Toscaccia di Bondy, un pochino ricondizionata


Forse perché sono ancora da ammortizzare i costi dell’allestimento (altre serie ragioni non se ne vedrebbero, perlomeno…) la Scala ripropone anche in questa stagione la deplorevole Tosca di Luc Bondy, che già fece i suoi danni poco più di un anno fa. E, a differenza di allora, è pure inserita nel programma in abbonamento, così – avendola già pagata – un abbonato non può esimersi dal risorbirsela (d'altronde sarebbe azione quanto mai disdicevole, da parte dell’abbonato medesimo, deleteria per la promozione dell’opera lirica, nonchè punitiva verso un amico, prestargli la tessera d’abbonamento per l’occasione, smile!)

In realtà qualcosa di buono nel frattempo è accaduto poichè, essendo il regista svizzero contumace, in questa ripresa la brava Lorenza Cantini fa del suo meglio per smussare, se non proprio per cancellare del tutto (cosa impossibile) le sue principali efferatezze, in specie quelle del secondo atto. Insomma: una produzione che resta semplicemente sconcia, ma non più da codice penale (ri-smile!)

Per le prime due rappresentazioni si è ripetuto un copione ormai quasi obbligato al Piermarini: buh e grida di vergogna alla prima e poi quasi un trionfo alla seconda, oltretutto col cast alternativo. E anche certe reazioni sono state fedeli a quel copione: chi ha assistito alla seconda recita (e non alla prima) crede di aver la prova provata che l’insuccesso di quella fosse opera dei soliti sabotatori di professione; chi ha assistito alla prima (e non alla seconda) si dice certo che il successo di quest’ultima sia da ascriversi all’ignoranza del pubblico bue. Insomma: dispute da bar-sport, ma proprio di quelli che espongono il cartello vietato l’ingresso ai cani e alla logica

Insomma, eccomi puntuale in prima galleria a risentirmi (guardando il meno possibile…) questa straordinaria espressione del genio italico, una storia tutta fuoco e passioni come di più e meglio non potrebbe uscire dallo scenario della Roma papaloide di fine ‘700, mirabilmente descritta con gli strumenti musicali di fine ‘800.

Devo dire che, date le premesse, mi aspettavo di molto peggio. Invece devo ammettere che si è trattato di una prestazione complessiva tutto sommato sopra la sufficienza (certo non si parla né di dieci, né di lodi!)  

Di Luisotti si dice sia un esperto pucciniano: non so di preciso cosa significhi, ma devo dire che la sua direzione mi è parsa equilibrata (gli perdono qualche eccesso di fracasso in alcuni momenti topici) e rispettosa di chi sta sul palco a cantare. Con lui anche l’Orchestra mi è parsa suonare dignitosamente, inclusi i sempre criticati ottoni.

Martina Serafin è stata una Tosca per nulla disprezzabile (suo l’unico applausetto a scena aperta, dopo un Vissi d’arte peraltro non memorabile). Qualche problema, mi è parso, di intonazione sugli acuti, ma in complesso una prestazione onorevole.

Marcelo Álvarez non ha fatto rimpiangere per nulla – alle mie orecchie perlomeno – il bel Jonas della scorsa edizione: voce ancora sicura e soprattutto senza interventi di naso e gola, così caratteristici del commerciante crucco.

Su George Gagnidze (Scarpia) andrebbe stabilito se: a) lui canta male perché costretto dalla regìa a digrignare continuamente i denti e strabuzzare gli occhi, oppure se: b) lui digrigna i denti e strabuzza gli occhi perché non sa cantare (smile!)

Deyan Vatchkov era già stato un discreto Angelotti lo scorso anno, e mi pare abbia confermato quella prestazione.

Il sagrestano di Alessandro Paliaga ha fatto il suo dovere, facendosi almeno udire chiaramente fin su al loggione. Altrettanto non mi sentirei di dire per Massimiliano Chiarolla (uno Spoletta dimesso). Davide Pelissero (Sciarrone) ed Ernesto Panariello (carceriere) hanno ripetuto le loro oneste prestazioni, come nella precedente edizione. La voce in lontananza del pastore era di Elena Caccamo, che la locandina online del teatro ignora bellamente, insieme ai cori di Casoni.

Alla fine moderati applausi per tutti, con una punta (toh!) proprio per Gagnidze!

Insomma, mettiamola così: se non si fosse nell’indiscusso tempio della lirica (come recita con grande modestia la pubblicità Rolex e come ripete ogni giorno il modestissimo Lissner) si potrebbe persino tornare a casa soddisfatti.

28 aprile, 2012

Rinaldo torna in campo a Reggio Emilia


Dopo le recite di Ravenna e prima di quelle di Ferrara, ecco la ripresa al Teatro Valli del Rinaldo in una produzione firmata PierLuigi Pizzi. Figlia di quella che proprio al Valli riportò l’opera in Italia nel 1985, e poi presentata anche alla Scala-Arcimboldi nel 2005. E come là, è sempre Ottavio Dantone a dirigere questo classico esemplare di opera del barocco magico, ma qui con la sua Accademia Bizantina. Opera che lo scorso dicembre avevamo ascoltato – in forma concertante – eseguita da laVerdi barocca all’Auditorium di Largo Mahler. 

Opera somma, figlia del recitar-cantando, mamma del bel-canto e nonna di Wagner! Di cui la messinscena di Pizzi ci restituisce tutta la freschezza, la nobiltà e la raffinatezza. Dove anche i personaggi e le scene più truci sono trattati e presentati – precisamente nello spirito dell’originale - con grande senso estetico, grande misura e soprattutto grande poesia. Sappiamo che in queste opere la trama – per quanto paludata (da Tasso, nella fattispecie) – non è che un mero supporto per musica e canto (si racconta che i testi delle opere di Händel venissero scritti sulla musica già composta, e non viceversa! e come il Rinaldo in particolare sia infarcito di imprestiti da altre composizioni) e quindi è sacrosanto che siano musica e canto ad essere messi al centro dell’attenzione.

È proprio ciò che fa Pizzi con la sua messinscena: gli interpreti addirittura non si muovono (meglio: vengono mossi come pedine su una scacchiera, appollaiati su alti trespoli, o su giganteschi cavalli, o dentro a navicelle, quasi a mostrarsi nella loro ieraticità immateriale) nè si toccano, ma si limitano, appunto, a cantare le stupende arie (i recitativi secchi sono ridotti al minimo in questo allestimento). Anche tutto l’armamentario magico, che era funzionale ai gusti e alle aspettative dell’epoca, non viene certo riproposto oggi in modo pedestre (il che non avrebbe senso) ma con un misto di sorriso e di garbata ironia e soprattutto con grande buon gusto.

Insomma, un modo intelligente e assolutamente moderno di presentare opere come questa, senza bisogno di snaturarne i contenuti o di distrarre lo spettatore con invenzioni gratuite. Non per nulla Pizzi è stato – con Dantone - il più osannato alla fine dello spettacolo, che dopo 27 anni di onorata carriera ancora mostra di essere pienamente vivo e vegeto (domanda tendenziosa: quanti degli allestimenti intelligenti dei registi di avanguardia saranno ancora riproposti e osannati in questo modo nel 2039?)   

Sul fronte musicale, i tagli e gli aggiustamenti ci sono, non sono pochi né indolori (purtroppo!) ma l’approccio della coppia Pizzi-Dantone è tutto sommato simile a quello della coppia originale Hill-Händel, che ad ogni recita modificavano, tagliavano o aggiungevano qualcosa a seconda dello scenario di interpreti, pubblico e teatro.

Sparisce così addirittura Eustazio, che non sarebbe propriamente un personaggio minore, godendo di ben 5 arie (2+2+1 nei 3 Atti)! Però almeno una delle sue arie (Siam prossimi al porto) viene trasferita al fratello Goffredo, così non si butta e… rimane comunque in famiglia (smile!) Per il resto, le principali manipolazioni sono: espunte quattro arie del suddetto Eustazio, tre di Goffredo, due di Rinaldo e una di Argante. Poi spostata dal primo al second’atto Cara sposa (Rinaldo), anticipata Abbruggio, svampo e fremo (Rinaldo) prima dell’aria di Almirena (Lascia, ch’io pianga) e posticipato il duetto Armida-Argante del finale a dopo l’aria di Almirena (Bel piacere e godere).

Così l’intera opera – suddivisa in due blocchi, atto I e poi II-III – non supera di molto le due ore di durata netta, contro le almeno 2h 45’ di un’edizione standard. Peccato perché si perde davvero della grande musica…

Quanto al sesso, gli interpreti - in penuria di castrati (smile!) - sono quasi tutti al loro posto, tranne il Rinaldo en-travesti e il Goffredo, en-travesti al quadrato(!)

Proprio all’ultimo momento viene meno il-la protagonista: Marina De Liso deve dare forfait e viene sostituita da Delphine Galou. La quale fa evidentemente del suo meglio, date le circostanze, ma certo non può inventarsi una voce che non ha (parlo soprattutto dell’ottava bassa, poco udibile anche dalle prime file). Per lei applausi di stima per l’abnegazione. L’Armida di Roberta Invernizzi ha mostrato più le doti di temperamento da vera maga, che quelle canore (smile!) dove ha invece lasciato a desiderare con urlacchiate poco… händeliane. Bene invece Maria Grazia Schiavo nei panni di Almirena. Su un livello (per me) più che accettabile Krystian Adam (Goffredo), Riccardo Novaro (Argante) e Antonio Vincenzo Serra (Mago). Completano dignitosamente  il cast William Corrò (Araldo) e Lavinia Bini (Donna e Sirena in un colpo solo!)

Di alto livello la prestazione dell’ensemble di Dantone, composto da autentici virtuosi e guidato in modo impeccabile dal Direttore.

Encomiabili infine le prove dei non-addetti-al-canto: le furie-sirene Cristina di Paolo e Adriana Ilardi e la squadra di bravissimi movimentatori dei trespoli che reggono protagonisti e mostri assortiti.  

Insomma, un bellissimo spettacolo e una bella serata, che il pubblico del Valli (qualche buco qua e là…) ha accolto con minuti e minuti di ovazioni.

27 aprile, 2012

Orchestraverdi – concerto n°30


Il malese-di-adozione Claus Peter Flor torna sul podio per un programma dal contenuto non proprio consueto, tutto dedicato a musiche di fine settecento e di carattere piuttosto, ehm… leggero.

Si inizia con una delle tante Serenate mozartiane, la K239. Anticipando una trovata che 10 anni dopo svilupperà nel Don Giovanni (con le tre orchestrine che suonano insieme)  Mozart  la strutturò per due complessi, precisamente due quartetti: uno – il principale, col contrabbasso al posto del violoncello - che propone le melodie (e da solo suona il Trio) e l’altro - che fa quasi solo da accompagnamento e crea effetti stereofonici - di struttura classica, ma con aggiunta di timpani! (per questo il brano è noto come Pauken-Serenade.) La tonalità è quella tipica mozartiana per questo genere di musica: RE maggiore.
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Contrariamente alle altre serenate mozartiane, che sono più corpose, contenendo fino a 9-10 movimenti (escludendo i trii) questa ne presenta solo 3. Come accadeva non di rado, viene introdotta da una Marcia (cui ben si addice la presenza dei timpani) costituita da due sezioni, ripetute. Nella prima troviamo un’introduzione, invero marziale:

seguita da due temi, il primo in RE (ripetuto) che sbocca sulla dominante LA, su cui udiamo il secondo tema, costituito da due motivi. In questa sezione è sempre il quartetto principale a guidare, mentre l’altro lo supporta saltuariamente.

La seconda sezione presenta un nuovo motivo in LA, sempre nel primo quartetto, interrotto qui per due volte dal secondo con interventi puramente ritmici, in pizzicato, e timpani in primo piano. Poi il primo quartetto, seguito a ruota dall’altro, propone un ponte modulante per tornare all’introduzione e al tema iniziale (ora non ripetuto) in RE, alla cui tonalità si adegua anche il secondo, a chiusura del Maestoso.

Ecco poi un Menuetto (+ Trio) in RE maggiore (3/4). La struttura del Menuetto è assai semplice: tema (da ripetere) poi motivo secondario che lo reintroduce, dopo breve intervento del solo secondo quartetto (anche questa sezione da ripetersi).

Il Trio – eseguito dal solo primo quartetto - è nella sottodominante di SOL maggiore e consta di due sezioni, da ripetersi. Nella prima viene presentato – dal primo violino, contrappuntato dal secondo con rapide terzine - un tema che sale da tonica a dominante e di lì ancora su fino a toccare la dominante superiore, per poi rapidamente ridiscendere per tornare da dove era partito. La seconda sezione inizia con un motivo in RE, che tosto modula al SOL dove viene ripresentato il tema iniziale. La riproposizione del Menuetto chiude il movimento.

In conclusione ecco un Rondo, 2/4 in RE maggiore, di struttura piuttosto articolata. Inizia con un Allegretto in 5 sezioni (le prime 4 col ritornello) dove il tema ricorrente è esposto subito dal primo violino:

Nella seconda sezione troviamo un breve motivo, che si chiude su una cadenza (che tornerà spesso) di accordi fra sensibile e tonica, eseguita dalle due orchestrine insieme, e che resta sospesa (corona puntata) dopo il DO#:


In questa sua prima apparizione è seguita dal tema principale. La terza e la quarta sezione presentano un nuovo tema e un suo controsoggetto. Nella quinta troviamo la seconda comparsa della cadenza tonica-sensibile, seguita dal tema principale.

Ora, abbastanza sorprendentemente, ecco una sezione (3/4, SOL) di 10 battute in Adagio. È il solo primo quartetto a suonarla, conferendole un carattere elegiaco e intimistico. Si passa poi in Allegro (2/4) sempre in SOL maggiore con un nuovo, lungo tema – ondeggiante fra sopratonica e dominante – eseguito e poi sviluppato prevalentemente dal primo quartetto, che viene bruscamente interrotto dai timpani e dal secondo, con un marziale arpeggio. Il quale culmina sul LA, dominante del RE su cui torna il tema principale, seguito dal motivo della seconda sezione e dalla cadenza tonica-sensibile e ancora dal tema principale. Tornano i motivi della terza e quarta sezione, sempre seguiti dalla cadenza e dal tema principale.

Qui il primo quartetto sembra però avere un’esitazione, emette piccole note in pizzicato e poi – unico caso nell’intera serenata – fa da accompagnamento al secondo quartetto (il timpanista tace) che riespone – adesso in RE maggiore, canonicamente – il tema che avevamo udito in SOL all’inizio dell’Allegro.  
 
Ecco ora l’ultima delle apparizioni della cadenza tonica-sensibile, a 14 battute prima della chiusa. Di solito – e così è accaduto anche ieri sera - si approfitta della pausa per introdurre una cadenza solistica dei timpani, in omaggio all’insolita presenza dello strumento. In questo caso (ad esempio qui a 4’02”) a me pare di vederci la finestra della dedicataria della serenata che si spalanca per dar luogo ad una pioggia di oggetti non proprio complimentosi (smile!); dopodiché i serenatori si danno una scrollatina agli abiti, riespongono il tema principale e chiudono come da contratto la loro esibizione…
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Qui in realtà il secondo complesso è formato da una corposa porzione degli archi de laVerdi – disposti per tutto il concerto in configurazione alto-tedesca - anche se Flor ne tiene sempre assai basso il volume per non coprire il quartetto principale (le prime parti dell’Orchestra) che è dislocato davanti a lui, al proscenio. Ciascuno dei solisti ha anche modo di esibirsi in mini-cadenze nel Rondo, prima dell’ultima dedicata ai timpani. Esecuzione davvero impeccabile, che scatena applausi convinti.

Ora arriva al proscenio – avendo così modo di mostrare anche il suo gran fisico da modella (!) - la bravissima prima arpa dell’Orchestra Verdi, Elena Piva, per cimentarsi con un Concerto in RE maggiore composto – qualche anno dopo la serenata mozartiana - da Haydn per uno strumento a tastiera (clavicembalo o pianoforte). In effetti la sonorità dell’arpa richiama da lontano (pur essendo assai più morbida e meno… metallica) quella del clavicembalo - in fin dei conti sono entrambi strumenti a corde pizzicate! - e ben si adatta a questa brillante partitura.
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Haydn qui non cerca complicazioni particolari: nell’iniziale Vivace gli basta un tema per cavarsela da par suo:

Poi lo impiega per il passaggio sulla dominante LA, quindi lo sviluppa – con veloci quartine di semicrome del solista - modulando anche alla relativa SI minore… insomma con una sola idea ci costruisce l’intero primo movimento! Che si chiude dopo una cadenza del solista.

Stessa economicità di risorse per il centrale Un poco adagio, 3/4 in LA maggiore. Il tema principale, di una disarmante semplicità, pari alla bellezza, dopo essere stato introdotto dall’orchestra, viene esposto dal solista:

Quindi viene sviluppato – con l’impiego di terzine di semicrome e note delicatamente ribattute - in una poetica sezione centrale nella dominante MI, prima di tornare sul LA per la ripresa. Anche qui è una cadenza solistica a precedere la chiusura del movimento.

Chiude il concerto un Rondo all’ungherese, Allegro assai, 2/4 in RE maggiore. È il solista ad esporre per primo il tema principale, poi imitato dall’orchestra:

Anche qui Haydn non si smentisce e costruisce il Rondò (A-A’-B-A-C-A) con elaborazioni continue di questo tema. Dapprima modulando, tramite SI minore, alla dominante LA maggiore, dove viene sviluppato dal solista con veloci quartine di semicrome e diverse ulteriori modulazioni (MI, DO) prima di tornare al LA. Ecco poi una sezione in RE minore, dove il tema è ancora variato, con pesanti interventi dei corni (tonica-dominante) prima di tornare in RE maggiore. Altro episodio nella relativa SI minore prima del definitivo ritorno alla tonalità d’impianto.
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Grandissima la prestazione della solista, che padroneggia da par suo una parte ostica, a volte impervia (l’arpa non è una tastiera!) ed è accolta da scroscianti applausi.

Ma per lei non finisce qui, poiché dopo l’intervallo è ancora lei ad esibirsi, questa volta con il Mozart francese - come qualcuno ha battezzato François–Adrien Boieldieu (avvertenza importante per i francesisti-fai-da-te: il cognome non è, anche se ne ha tutta l’apparenza, una bestemmia!) - e il suo Concerto per arpa e orchestra, composto proprio all’alba del nuovo secolo e nel quale si sentono per la verità stilemi che – più che mozartiani – paiono anticipare il Paganini dei concerti per violino.

Andato perduto l’originale, ne sono state conservate solo alcune parti (arpa, per fortuna!, violini primi e contrabbassi) presso il Conservatorio di Bruxelles. Così il concerto ha dovuto essere, per così dire, ricostruito. Fino a pochi anni fa circolava solo la versione di Carl Stueber (pubblicata nel lontano 1939 da Ricordi) poi negli anni ’90 ne è stata approntata una dal compositore e musicologo Marc-Olivier Dupin e dall’arpista Marielle Nordmann, pubblicata nel 1999 da Billaudot. Quest’ultima versione presenta una particolare cadenza del finale e propone - ma non impone di certo - un organico orchestrale classico completo: flauto, oboe, clarinetto, fagotto, corno, tromba, timpano, archi a 5; quella di Stueber – usata qui - è forse più mozartiana, escludendo clarinetto, tromba e timpani. Esistono anche esecuzioni con orchestre da camera, senza fiati. Ma sono dettagli tutto sommato marginali, dato che il concerto è incentrato sulla parte solistica, e dove i tutti si limitano all’esposizione iniziale e poi a collegare le diverse sezioni.  
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L’Allegro brillante in 4/4 tagliato (che occupa più della metà del concerto) è nella classica forma-sonata, ma con sviluppo assai ridotto. L’orchestra, dopo 8 battute marziali introduttive, presenta inizialmente i due temi, in DO e SOL maggiore rispettivamente, i quali vengono poi ripresi dall’arpa solista:


La quale li arricchisce con veloci quartine di semicrome inframmezzate a terzine di crome: l’esposizione è assai più corposa rispetto a quella orchestrale, soprattutto nel secondo tema che viene sviluppato assai, anzi affiancato da un nuovo soggetto, da cui esso riparte poi modulando alla relativa MI minore. Il ritorno a casa passa attraverso un’altra relativa minore (LA): quella del DO di impianto, dopodiché la ripresa ripresenta entrambi i temi in quest’ultima tonalità.

Segue un breve Largo in DO minore, 4/4. Sono solo 26 battute, dove l’arpa, introdotta dall’orchestra, espone una melodia dolce, principiante con un arpeggio di ottava, ricca di increspature. L’atmosfera pare quasi beethoveniana (a me richiama alla mente l’Andante con moto del 4° concerto dell’op.58…) Segue una sezione di 8 battute in DO maggiore, molto più mossa, per poi tornare al minore, con 4 battute di quasi-cadenza del solista. 

Le quali introducono il Rondeau, Allegro agitato (4/4) in DO minore. La forma è piuttosto semplice: A-B-A-C-A, con le sezioni sempre ripetute (più o meno variate). Il soggetto principale è costituito da una frase che sale (prima al SOL, poi al MI) per discendere al DO e da un controsoggetto - ripetuto due volte – che si limita a salire da DO a LAb prima di tornare alla tonica:

L’orchestra risponde con cadenze marziali, che paiono anticipare Paganini, come detto. I soggetti B e C sono esposti nelle due relative: MIb maggiore il primo, DO maggiore il secondo, che lascia spazio anche ad una cadenza virtuosistica, che precede e introduce la chiusa ancora in DO minore.
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Anche qui, straordinaria la prestazione di Elena Piva, letteralmente portata in trionfo alla fine e che, per nulla stanca dopo il doppio massacrante impegno, regala anche un bis!

Chiude il concerto un ritorno a fine ‘700 con la Sinfonia cosiddetta degli addii di Haydn, ascoltata qui più di un anno fa con Adam Fischer. Si potrebbe anche chiamare la sinfonia dello sciopero, benché il parallelo fra il bonario e accomodante Josephus e la irriducibile pasionaria Camusso suoni assai improbabile (smile!)

La sceneggiatura è sempre la stessa, con il palco al buio e i lumi sui leggii che alla fine vengono via via spenti dagli orchestrali che se ne vanno alla spicciolata: il tutto sempre fatto con un certo buon gusto e senza parodia.

Bella l’ultima immagine degli strumentisti che rientrano e si schierano tutti al proscenio per ricevere, col Direttore, il meritato applauso del (non oceanico) pubblico.

Per il concerto n°31 resterà sul podio Flor, ma con un programma sontuoso.