ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

11 aprile, 2012

Due cosette per Alberto Mattioli, op-eroinomane


In un forum del prestigioso OperaClick, che ospita una discussione sul suo libro, Alberto Mattioli è intervenuto per rispondere o commentare alcuni interventi colà comparsi.

Una delle risposte, indirizzata a notung (uno dei moderatori del forum) fa un chiaro riferimento al mio post dello scorso 8 aprile, in cui mi sono permesso di esprimere alcune – circostanziate, anche se ovviamente personali e quindi opinabili – critiche ad affermazioni contenute nel suo libretto. Questo è quanto Mattioli scrive al proposito:


Prima considerazione: l'aggettivo anonima con cui Mattioli etichetta la mia recensione è il classico strumento usato per screditarne il contenuto, evitando quindi di rispondere nel merito (della serie: anonimo = non credibile). Non c'è bisogno di ricordare che, come titolare di blog, ho un profilo ed un indirizzo e-mail colà pubblicati e quindi sono contattabile e "incontrabile" senza problemi. Ma anche fossi davvero e totalmente anonimo, ciò che ho scritto non perderebbe un solo grammo del suo valore.

Seconda considerazione: lui conferma di non aver capito Neuenfels e sembra fare dell'ironia su chi – come me, anonimo e quindi non credibile – lo critica per questo. A Mattioli quindi mi permetto di segnalare non già un mio post sull'argomento (che sarebbe di un anonimo e quindi non credibile) ma una recensione comparsa sull'autorevole The Wagner Journal. Non è molto lunga e con poco sforzo Mattioli potrà sicuramente scoprire ciò che non ha decifrato a Bayreuth.

08 aprile, 2012

Alberto Mattioli, diario di un op-eroinomane


In questi giorni nell'ambiente dei melomani si fa un gran parlare del libro di Alberto Mattioli Anche stasera – Come l'opera ti cambia la vita. Sono meno di 200 pagine che l'Autore definisce come la cronaca di una passione.

E infatti nel suo libro il 43enne Mattioli ci presenta una specie di catalogo dongiovannesco (invero invidiabile!) di tutte le sue imprese (le recite cui ha assistito, che sono al momento di andata in stampa del libro 1100, quindi già più delle 1003 spagnole del Don, ma circa la metà delle 2065 totali… auguri): una lista ovviamente lunga (e talvolta parecchio noiosa, mi permetto di dire) di titoli, luoghi e interpreti; arricchita poi da resoconti di tour-de-force francamente velleitari e poco raccomandabili (la vacanza intelligente?) quali 13 opere in 13 giorni, o 2 opere in un pomeriggio-sera a distanza di centinaia di Km, oppure ancora frenetiche spole fra Bayreuth, Monaco e Salzburg, con annesse indigestioni di Wagner, Strauss e Mozart. Ecco, se Mattioli ci voleva dare l'idea della sua dipendenza dal teatro musicale, come da una droga, il suo scopo l'ha raggiunto. Resta da vedere se – come lui si ripromette programmaticamente – tutto ciò lo aiuti a fare proseliti per la causa… o invece a far prendere semplicemente lui per… matto (smile!)

C
i racconta poi moltissimi aneddoti (tipo l'ambiente di Bayreuth, o quello del MET, o Salzburg o Zurigo) qualche volta umoristici, altre volte piuttosto patetici; e anche i soliti luoghi comuni, primo fra tutti il SantAmbrogio scaligero: con tanto di irrisione per la colorita fauna che lo popola e per l'incompetenza (musicale, e non solo) che vi regna sovrana. Poi però si lascia andare ad una lode per il pubblico (e per i relativi giudizi) che affolla la primina del 4 dicembre: lì sì che, essendo tutti (o quasi) giovani, vi regna sovrano il sincero interesse per l'opera e si danno giudizi ed apprezzamenti intelligenti. Può darsi, ma che i giudizi di questi giovani siano da prendere quasi come oro colato mi pare francamente eccessivo: perché è da dimostrare che anche quei giovani, in media e in maggioranza, non abbiano lo stesso livello di ignoranza dei loro ingioiellati e impomatati papà-mamme (o nonni!) del 7 dicembre.

Il principale argomento serio che Mattioli tratta nel suo libro riguarda i problemi e gli approcci alla regìa dell'opera, o in generale alla messinscena. Chi legge abitualmente i suoi resoconti e recensioni sa benissimo che lui è un tifoso del modernismo (o magari del post-modernismo) e un fautore del cosiddetto teatro-di-regìa. E nel libro si sprecano le lodi per Robert Carsen, Claus Guth e compagni, puntualmente affiancate da denigrazioni anche poco soft nei confronti dei vari Zeffirelli, Pizzi e Pier Alli. Per carità, tutte esternazioni legittime, come quelle di qualunque manicheo. E ad essere presi di mira non sono soltanto i registi tradizionalisti, ma soprattutto quella parte di pubblico e critica che dileggia le mirabili intuizioni di quelli di avanguardia. A questa parte di pubblico e critica, colpevole di non apprezzare le regìe dei Carsen di turno, Mattioli riserva un trattamento assai sbrigativo: sono dei cretini. Perché non sono in grado di capire ed afferrare quelle mirabili intuizioni. Peccato però che poi il dottor Freud si insinui subdolamente nella sua psiche, allorchè il nostro ammette candidamente di non aver capito la recente regìa (quella coi i topi, per intenderci) del Lohengrin di Hans Neuenfels! Allora, caro Alberto, chi è qui il cretino? (smile!) Sì, perché quella regìa è di sicuro agli antipodi della sostanza dell'opera wagneriana, ma si basa su un Konzept chiarissimo e – in sé e per sé - pure molto intelligente. Ma il peggio è che dal giudizio negativo su una regìa (che lui non è arrivato a capire) Mattioli tragga la conclusione che tutto Neuenfels sia da buttare e da evitare come l'aids. Invece - toh! – la regìa della Butterfly di Damiano Michieletto (che riduce l'opera pucciniana a volgare racconto di turismo sessuale) sarebbe un capolavoro! 

Mattioli cerca poi di spiegarci i razionali che giustificherebbero queste regìe moderne, il primo dei quali sarebbe quello di allineare, per così dire, la presentazione delle opere alla nostra attuale civiltà, alle nostre conoscenze, alle esperienze che l'umanità ha maturato da quando quelle opere liriche furono composte. Bene, fin qui ci siamo. Ma allora, visto che il citato Lohengratt di Neuenfels interpreta precisamente queste esigenze, ponendo (sia pur gratuitamente e surrettiziamente) al centro dell'opera i problemi filosofici, psicologici e persino politici della nostra civiltà, perché mai Mattioli lo dileggia, esponendolo al pubblico ludibrio?

E infatti poi arrivano degli esempi che sono tutto fuorchè convincenti. Prendiamo Rigoletto. Mattioli rileva giustamente come nella prima scena dell'opera ci troviamo in presenza di una festa tutt'altro che pura e casta, anzi propriamente di un'orgia (come dice espressamente Monterone). Quindi – e fin qui possiamo concordare – presentarla come hanno fatto e fanno troppo spesso le regìe tradizionali, che ci mostrano una scena degna di un menuetto dove gli individui si toccano solo col mignolo, è sbagliato e ridicolo. Ma Mattioli va oltre: essendo un'orgia, oggi che non abbiamo più le censure dell'800 e abbiamo infranto tutti i tabù del sesso, è logico e giusto che venga presentata come tale, quindi: vai con lo stupro e vai con scene di pura pornografia. Ecco, qui francamente mi pare che Mattioli sia fuori strada. Perché non lo sfiora nemmeno il dubbio che quella scena del Rigoletto sia stata costruita e musicata da Piave e Verdi con caratteristiche, diciamo così, soft, non solo e non tanto per evitare gli strali della censura o per non urtare la suscettibilità dello spettatore di allora, quanto per ragioni squisitamente estetiche: in sostanza, per poetizzare anche una vicenda truculenta. La quale, se invece viene presentata in modalità hard, con pieno e nudo realismo, ridiventa appunto truculenta e perde tutta la sua poesia! Lo stesso ragionamento applicasi a Giacosa-Illica-Puccini e alla loro Butterfly.

In fatto di allineamento ai tempi moderni, Mattioli fa anche un accenno ai contenuti musicali (mica sarà una velata proposta perché, oltre ai libretti, si cominci anche a metter mano alla strumentazione?) Quando fa l'esempio della scena del cimitero nel DonGiovanni. Lì (ed è l'unico momento in tutta l'opera) Mozart impiega, per sottolineare i versi cantati dalla statua del Commendatore (11 battute in tutto) i tre tromboni (oltre ai legni e ai contrabbassi). Ora, credo che anche un bambino capisca che ciò sia legato ad esigenze drammaturgiche: accentuare la forza evocatrice di quei versi minacciosi, che arrivano propriamente dall'oltretomba, attraverso il suono profondo di quegli strumenti gravi. Mattioli come lo spiega, invece? Con un ragionamento che definire capzioso è fargli un complimento: siccome siamo in luogo sacro (cimitero=chiesa) ecco che Mozart impiegherebbe uno strumento che ai suoi tempi si usava – secondo lui - solo in chiesa e non in orchestra; ma oggi che udiamo il trombone quasi in tutte le opere musicali, questo significato si perde e quindi sarebbe opportuno sostituire il trombone con altro strumento (!?!)

Mattioli ripete più volte che il suo libro, più ed oltre che ai melomani, vorrebbe indirizzarsi a chi non si sia ancora avvicinato al teatro musicale. E allora, giustamente, propone un elenco di buoni motivi per invogliarlo a fare il primo passo. Ora, chiunque abbia un minimo di cognizione di tecniche del convincimento, sa benissimo che il miglior risultato si ottiene proponendo pochissime (magari una soltanto) ragioni, purchè veramente efficaci e tali da scatenare nella vittima non solo la curiosità, ma proprio la voglia matta del prodotto che viene proposto. Fare una lista interminabile di motivi più o meno plausibili ottiene di solito l'effetto contrario. Ecco, Mattioli di motivi - in ordine sparso - ne elenca addirittura 100 (tanto per dare un esempio di motivazione sospetta bizzarra, al n°44 troviamo: Verdi diretto dal giovane Omer Meir Wellber!)

In sostanza, da melomane (spero: non ignorante) ho trovato il libretto di scarso valore aggiunto, non dico utilità. Mettendomi viceversa nei panni di un non-melomane, francamente dubito che sarei arrivato in fondo alla lettura. 

Comunque, per par-condicio, ecco qua una recensione politically-correct del sempre più famoso Amfortas.

04 aprile, 2012

Orchestraverdi – concerto n 27


In vista della Pasqua torna in Auditorium, dopo due anni, la Johannes-Passion, preceduta ieri sera da un'interessantissima introduzione del Direttore artistico Ruben Jais (che è anche il papà de laVerdi barocca).

Con dovizia di esempi e robustezza di argomenti, Jais ha esaltato il supremo magistero di Bach nell'esprimere i più diversi scenari (materiali e spirituali) dell'opera; ha anche sottilmente criticato certe sottovalutazioni di Bach (la quasi totale assenza di indicazioni agogico-dinamiche) dovute a semplice ignoranza della materia (è il testo stesso a guidare in modo infallibile l'esecutore, nel più classico spirito del recitar cantando) e anche certe interpretazioni novecentesche (Karajan e Richter) che hanno trasformato opere come questa in kermesse sesquipedali quanto infedeli. 

Poi Jais è salito sul podio per riproporci questa Passione nel modo più fedele allo spirito e alla lettera bachiani: orchestra composta da 22 archi (incluse viole d'amore e da gamba, ove prescritte) e 6 fiati, più organo e tiorba; coro di Erina Gambarini (femminile a sinistra, maschile a destra) composto da meno di 40 elementi; rispetto allo scorso aprile c'è poi la novità del cast principale, tutto maschile, con il sopranista Paolo Lopez a sostenere il ruolo del soprano e, come allora, il controtenore David Hansen a sostenere la parte di contralto; confermati anche i bravissimi Makoto Sakurada (Evangelista, tenore) e Christian Senn (basso, recitante anche Pilato); Gesù è il basso Thomas Tatzl; altro tenore Randall Bills; completano il quadro dei solisti due componenti del coro (tenore Francesco Frasca e soprano Saito Kaoru).

Esecuzione davvero rimarchevole, accolta dal folto pubblico con un autentico trionfo.

La prossima settimana… a tutto Musorgski.


30 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 26


Ieri è tornato sul podio dell'Auditorium il grande sir Neville Marriner con un programma che spazia su tre secoli di musica.

Si parte infatti dal secolo XX (quasi esattamente 100 anni orsono, peraltro) con Ralph Vaughan-Williams, di cui ascoltiamo la Fantasia su un tema di Thomas Tallis. Tallis fu un musicista rinascimentale (1500) che fra l'altro compose 9 salmi per l'arcivescovo Matthew Parker, di cui il terzo (Why Fum'th In Fight) è stato preso da RVW come base per la sua fantasia, composta dopo una proficua residenza a Parigi per… sciacquare i panni chèz-Ravel

L'Autore prescrive di distribuire le parti su tre diversi complessi, esclusivamente formati da archi: due orchestre, una corposa, l'altra smagrita (di soli 9 elementi: 2+2+2+2+1) e il classico quartetto (violini I-II, viola e violoncello). La cosa ha un senso pratico solo se i tre complessi vengono dislocati in posizioni ben diverse, in modo da creare effetti eco-stereo come quelli che si hanno in chiesa quando i cori vi cantano le antifone… altrimenti la suddivisione serve a ben poco. E in effetti la prima della Fantasia fu eseguita nella cattedrale di Gloucester, nel 1910, in occasione di un celebre festival.
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La melodia originale è in modo frigio (la scala che parte dal MI, in pratica, e percorre i tasti bianchi) che secondo gli antichi greci era il modo collerico (non per nulla melodie frigie venivano suonate per dar la carica ai soldati in battaglia!) che ben supporta il testo di Tallis, che tratta di guerre e odio. Consta di 20 battute, suddivise in 4 (quanti sono i versi del salmo) sezioni di 5:

Vaughan la presenta trasposta sulla tonica di SOL (minore-maggiore) e impiega soprattutto le linee melodiche di soprano e tenore (1° e 3° rigo). Mirabile l'uso del contrappunto per creare atmosfere armoniche continuamente cangianti, dal modo frigio al minore e maggiore del SOL, quindi mescolando intelligentemente stilemi musicali antichi con moderni. 

In tempo Largo, sostenuto, già alla quarta battuta - dopo i cinque accordi iniziali e il RE in unisono - viole, violoncelli e contrabbassi presentano in pizzicato il primo frammento del tenore, e subito dopo la chiusa del primo verso:

Poco più avanti ecco motivi ricavati dal terzo verso e dal quarto, fino alla conclusione in maggiore:

Quindi l'esposizione dei temi continua con l'insieme degli strumenti e con arpeggi in semicrome dei secondi violini. 

Poi si distinguono tre episodi: nel primo (Largamente) sono le due orchestre che si fronteggiano con domande-risposte; nel secondo (Poco più animato) è la viola solista ad esporre la melodia, subito seguita dal violino e poi dagli altri due strumenti solisti, contrappuntati dalle due orchestre; quindi un terzo episodio, assai lungo (Ancora più animato) di cui è protagonista il quartetto dei solisti supportato dall'orchestra da camera e poi anche dalla principale, fino a sfociare in un tutti

Improvvisamente il tempo rallenta, con quattro battute in Molto adagio. Poi ancora violino e quindi viola solisti, sul Tempo del principio, ripropongono il tema, con sommessi interventi delle orchestre.

Infine la coda, col suono che subisce una progressiva rarefazione, sia nel tempo (Molto ritardando) che nel volume, fino al conclusivo accordo (in pppp) di SOL maggiore.
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Intanto, come ha disposto le orchestre Marriner? Allora, la seconda è stata dislocata sul fondo (area solitamente occupata dalle percussioni): contrabbasso al centro, a sinistra (per l'osservatore) i quattro violini (2 primi e 2 secondi) e a destra i 2 violoncelli e le 2 viole; l'orchestra principale disposta secondo tradizione moderna; i solisti del quartetto erano in realtà le prime parti dell'orchestra principale. Tutto sommato mi è parsa una scelta più che opportuna ed efficace.

Il pubblico, abbastanza folto anche se non proprio oceanico, ha mostrato di gradire quest'opera interessante certo, ma che si può definire un capolavoro solo se si restringe il campo alla perfida albione (smile!

Poi si fa un salto indietro di 2 secoli (in realtà di circa 120 anni) con il Quarto Concerto per corno di Mozart. Che si è scoperto essere per la verità il secondo in ordine di composizione (ma son problemi di scarsa rilevanza) dato che la numerazione di Köchel era imprecisa al proposito.

È il residente Radovan Vlatkovic a proporlo – dopo il Terzo eseguito un paio di mesi orsono - come sempre con grande sfoggio di virtuosismo e maestrìa. Qui lo vediamo impegnato qualche anno fa (ancora imberbe) in una specie di kermesse estiva pugliese, con contrappunto di gaie vocine da scuola materna (!)

Anche ieri prestazione di altissimo livello, accolta da ovazioni e scroscianti applausi, inclusi – ed è proprio una bella cosa – quelli del primo corno scaligero, Danilo Stagni, presente in platea e salito poi nel retropalco per salutare e – immagino – felicitare il virtuoso croato. 

Che ha concesso un bis collegiale (Reicha) insieme ai due cornisti che lo hanno accompagnato nel concerto.

Chiude la serata l'ottocentesca Scozzese di Mendelssohn. Forse – ma è solo la mia personalissima convinzione – la più ispirata delle cinque sinfonie del ragazzino-di-buona-famiglia nato più di 200 anni fa in quel di Amburgo e poi diventato quasi il re-di-Lipsia, oltre ad aver conquistato – more Handel – anche i cuori albionici. E del resto è anche l'ultima – a dispetto della numerazione – ad essere stata completata, quindi certo la più matura.

È noto come tale Richard Wagner – incallito antisemita – abbia detto e scritto peste e corna del mite Felix, considerato un traditore della… natura, che gli avrebbe dato enormi talenti da lui – in quanto ebreo - regolarmente dissipati (si legga il Das Judenthum in der Musik). 

Epperò quando si trattava di trovare spunti interessanti per le proprie creazioni, ecco che Wagner non esitava a saccheggiare anche la bisaccia dei suoi cosiddetti mostri. E la Terza Sinfonia ne è un eclatante esempio, laddove il suo tema introduttivo fu impiegato da Wagner per costruirci uno dei principali Leit-motive del Ring, quello che si ode all'inizio della quarta scena del second'atto di Walküre, passato alla storia come tema del presagio di morte (che Brünnhilde annuncia a Siegmund):

Mendelssohn trasse lo spunto per la sinfonia da sensazioni e ricordi di un suo viaggio giovanile in Scozia (così come accadde per l'Italiana, ispirata da un soggiorno romano) ma solo quasi al termine della sua breve esistenza vi mise mano con decisione. 

Uno dei punti più alti della sinfonia mi pare essere l'Adagio, che presenta questa sublime melodia:

Il Finale ha una conclusione inaspettata, almeno per Mendelssohn, solitamente poco propenso a gesti di smaccata teatralità (cosa invece normale in Schumann, tanto per dire): l'Allegro vivacissimo, 4/4 tagliato, in LA minore, invece di arrivare ad una prevedibile stretta finale, pare progressivamente arenarsi, fino a spegnersi sulla dominante grave dei violini. Da qui – a velocità più che dimezzata (Allegro maestoso assai, in 6/8) – parte un corale in LA maggiore, tanto enfatico quanto (apparentemente almeno) avulso dal contesto. Che ha peraltro il pregio di dare una chiusura solare ad un'opera su cui aveva imperato un notturno Ossian

Grande prestazione dell'orchestra, clarinetti e corni in primo piano, e trionfo per il Maestro, accolto con il classico pestone ritmato di tutti i professori.

Prossimamente entriamo in clima pasquale con una celebre Passione.

26 marzo, 2012

Strehler va ancora a Nozze alla Scala


Nuovo – e gradito, a giudicare dall'accoglienza del pubblico non oceanico del Piermarini - revival alla Scala di una produzione storica, ma sempre di grande valore e di attualità: Le Nozze di Figaro del sommo Giorgio Strehler, ripresa per l'occasione da Marina Bianchi.

Poi, tanto per non smentire quella che ormai pare una ferrea regola del Teatro, ecco arrivare puntuale la defezione di uno dei protagonisti, Ildebrando D'Arcangelo, sostituito in Figaro da Nicola Ulivieri

Sul podio un ragazzino - si fa per dire, a 25 anni è incallito fumatore di sigaro e ha un curriculum impressionante, avendo già diretto oltremodo (sic!) la metà delle orchestre del pianeta - Andrea Battistoni da Verona: pare entri nel guinness come il più giovane direttore mai salito sul podio scaligero, beato lui… Forse perché invidiosi di questo primato, i loggionisti del lato destro gli hanno tributato, all'uscita singola finale, una salva di buh (unici della serata, in mezzo ad applausi non isterici, ma robusti). A me, che lo sentivo-vedevo per la prima volta, è parso assai sicuro di sè e per nulla sprovveduto; ha un piglio toscaniniano (vedi l'Ouverture, che ha diretto - non saprei se giudicarlo un pregio o un difetto – battendo il Presto in 4! certo molto diverso dalla compostezza di questo Levine) e persino il gesto (l'ampia sbracciata in chiusura di battuta) ricorda quello del Toscanini che si vede in tanti filmati d'epoca. 
In più ha diretto a memoria (salvo qualche pagina di partitura che ha sfogliato nel terzo atto) il che è comunque un segno di applicazione e di studio. Per lui devono aver fatto un'eccezione persino i famigerati corni filarmonici, con attacchi precisi e assenza di stecche o stonature, il che non è poco. E comunque lui ha almeno cinque anni di tempo davanti a sé per raggiungere (infallibilmente) l'età di altri colleghi che qualcuno fa già passare per fenomeni. Perciò… auguri.

Detto del Kindlein-Kapellmeister, buone notizie dal cast, a cominciare proprio da Nicola Ulivieri, che non ha fatto rimpiangere il forfait-tario D'Arcangelo. Ancor meglio di lui la Contessa, Dorothea Roschmann, che ha tuttora una bella voce e gran recitazione. Su un livello più che dignitoso il Conte di Fabio Capitanucci e la Susanna di Aleksandra Kurzak. Il Cherubino di Katija Dragojevic non ha demeritato, pur non destando entusiasmi (almeno nel sottoscritto). Degli altri, al solito bene la Pretty Yende (Barbarina) ma anche apprezzabili la Marcellina di Natalia Gavrilan e il Basilio di Carlo Bosi, gratificati da applausi dopo le rispettive arie sindacali (l'aggettivo è di Massimo Mila, smile!) del quarto atto. Maurizio Muraro come Bartolo, Emanuele Giannino il giudice don Curzio e Davide Pelissero Antonio: tutti all'altezza dei rispettivi compiti da comprimari. Il coro di Casoni, ultimamente parecchio criticato, non mi è sembrato demeritare, anche perché ha un ruolo francamente tutt'altro che tremendo. Alla fine applausi moderati ma convinti per tutti (cui si sono aggiunti i buh per Battistoni).

Dell'allestimento non si può parlar altro che bene, essendo uscito a suo tempo dalle mani e dalla testa di un maestro assoluto del teatro. Io devo dire che mi ero abbastanza divertito mesi fa alla moderna messinscena di Michieletto (alla Fenice); ma qui con Strehler siamo davvero su un altro pianeta. Francamente non so proprio quante delle regie di oggi verranno ancora riprese nel 2040!

23 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 25


Ancora Zhang Xian sul podio, e ancora con Beethoven e Mahler.

Ma prima - una sorpresa rispetto alla frugale locandina originale - c'è un saporitissimo antipasto wagneriano, l'Ouverture del Rienzi, terza opera composta dal genio di Lipsia e suo primo grande successo (Dresda, 1842). Un grand-opéra gigantesco (3 ore e mezza abbondanti di musica nella versione tagliata!) in 5 atti e con 4 balletti, cori e fanfare a volontà, che Wagner sperò invano di far rappresentare a Parigi. 

Pare che fosse ascoltando Rienzi che Hitler (ancora ragazzo) avesse l'ispirazione per la sua futura carriera (si dice avesse con sé il manoscritto dell'opera al momento della fine, nel bunker di Berlino…) 

Un'opera che, se la si depura di tutta l'abbondante tara (80% del totale!) lascia affiorare grandi tesori musicali, che non a caso ritroveremo nelle opere e nei drammi successivi del sommo Richard. 

L'Ouverture, come era consuetudine a metà '800, è costruita come un corpo separato dall'Opera, di cui però impiega ed introduce alcuni dei motivi principali.
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Si apre (Molto sostenuto e maestoso) con un'introduzione che contiene tre richiami della trombetta (che si udranno nell'opera poco prima del finale del primo atto e poi anche nel terzo, e infine all'inizio del quinto) inframmezzati da due incisi degli archi bassi e poi dei fiati. Quindi violoncelli e contrabbassi presentano un recitativo che prepara l'esposizione (in violini e violoncelli, in RE maggiore) della stupenda preghiera che il protagonista canterà (in SIb) all'inizio del V Atto, all'avvicinarsi della catastrofe: Du stärktest mich, du gabst mir hohe Kraft, du liehest mir erhabne Eigenschaft:

Il motivo costituito dalle prime due note del tema (tonica-sesta) e dal gruppetto rovesciato che le congiunge, sarà impiegato da Wagner in tutt'altro contesto drammatico, oltre che musicale; precisamente nel Prologo di Götterdämmerung, allorquando ci verrà presentato per la prima volta il Leit-motiv di Brünnhilde adulta: anch'esso sale di una sesta – ma da sottodominante a sopratonica - attraverso il gruppetto (qui notato esplicitamente):
Il motivo della preghiera sfocia in un cupo inciso (che ricorda l'apertura del second'atto di Lohengrin) contenente un tritono e che viene ripetuto più volte ad altezze diverse e da diversi strumenti: 
Esso porta ad una riesposizione enfatica e maestosa del tema della preghiera, nelle trombe, con violini e viole ad abbellirlo e movimentarlo con svolazzanti gruppetti di semicrome-biscrome, che anticipano un procedimento usato nell'Ouverture di Tannhäuser. Ora però il tema sfocia in un tremendo accordo di tutta l'orchestra, seguito da un drammatico rullo di tamburino sul quale ricompare l'inciso minaccioso, pesantissimo, in tromboni e tube, cui risponde il triplice richiamo della tromba. La quale a sua volta introduce una fanfara, ancora in RE maggiore, e poi un motivo preso sempre dal finale del primo atto dell'opera, precisamente dall'introduzione alla scena della nomina di Rienzi a tribuno (Gegrüsst sei, hoher Tag). Ad esso si concatena, in tromboni e oficleide, un nuovo tema (che tornerà poi nel terzo atto, ad accompagnare l'invocazione Santo Spirito Cavaliere!):
Ecco ora una modulazione alla dominante LA maggiore, che prepara il ritorno del tema della preghiera, adesso in tempo Allegro energico, a velocità praticamente doppia rispetto alle precedenti esposizioni (qualcosa di simile Wagner farà nel Vorspiel dei Meistersinger!) Alla conclusione, ancora il motivo del Santo Spirito conduce adesso, sempre in LA maggiore, all'esposizione del tema che costituirà il cardine del resto dell'Ouverture. Viene dal finale secondo dell'opera, dopo che Rienzi ha perdonato i suoi attentatori, e Irene e Adriano ne tessono le lodi (Rienzi, dir sei Preis):
Dopo la prima sua doppia esposizione, orchestrata in modo leggero, cui segue il controsoggetto (ripetuto) e una ripresa assai enfatica del tema, ecco arrivare una specie di sviluppo del Santo Spirito. Ancora il triplice richiamo della tromba e – tornando a RE maggiore – la fanfara del Gegrüsst, che si conclude con caratteristiche quarte ascendenti (come quelle che risentiremo nell'Holländer) e porta alla perorazione del tema di Rienzi (che principia appunto con una quarta) che conduce alla retorica conclusione dell'Ouverture, lasciata peraltro al Santo Spirito Cavaliere.
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Grande la prestazione dell'Orchestra e… originale l'approccio di Xian, che certo è lontana da Thielemann (per dire) quanto Pechino dista da Berlino (smile!) Quindi grande sbrigatività (forse troppa), niente pesantezza né prosopopea, tutto ridotto all'essenziale… insomma un Wagner abbastanza smagrito.

Secondo piatto della serata il Primo concerto di Beethoven, suonato dal nostro Gianluca Cascioli, bravissimo ad esporre con grande sensibilità e tocco magistrale sia i temi marziali del primo movimento, che le parti più intimistiche del Largo e le nervose sferzate del Rondò. Come cadenza dell'iniziale Allegro con brio ha scelto – delle tre scritte da Beethoven – quella di gran lunga più difficile ed impegnativa, che principia così:
Chiude il concerto il ciclo di 5 Lieder mahleriani su testi di Friedrich Rückert, proposti dal 53enne mezzosoprano ungherese Ildikó Komlósi. La locandina giustamente sottotitola da Sette canti, poiché, in origine, a questi 5 (composti fra il 1901 e il 1902 con accompagnamento di pianoforte e successivamente orchestrati – salvo l'ultimo) erano stati aggregati, ai fini di pubblicazione, gli ultimi 2 Lieder composti in precedenza (1899-1900) da Mahler su testi del Wunderhorn (che abbiamo già ascoltato in Auditorium tempo fa). 
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In ordine cronologico di composizione, il primo è Blicke mir nicht in die Lieder! (giugno 1901) una breve canzone di due strofe, che ripetono un tema in FA maggiore seguito da una sezione in minore. Un inciso, sul verso wie ertappt auf böser Tat (e poi su schauen selbst auch nicht zu) richiama da vicino la seconda ricorrenza del verso Gib mir Brot, sonst sterbe ich!, in Das Irdische Leben dal Wunderhorn:
Come si vede, sono idee anche piccole che in Mahler riemergono a distanza di tempo e in contesti del tutto diversi: qui uno scenario piuttosto sereno, là uno di morte! 

Poi abbiamo Ich atmet' einen linden Duft! Forse il più bello del ciclo, con la sua atmosfera sognante, illanguidita dalla celesta e dall’arpa, sul pedale cullante delle crome dei violini. Straordinaria la modulazione dal RE maggiore al MIb, sui versi das Lindenreis brachts du gelinde! E anticipatrice del Lied von der Erde la chiusa, con il SI del flauto che si aggiunge alla triade di RE maggiore suonata da arpa, celesta e legni.  

Quindi il famosissimo Ich bin der Welt abhanden gekommen (agosto 1901) che richiama da vicino l’Adagietto della quasi contemporanea Quinta Sinfonia (quello divenuto famoso in Morte a Venezia di Visconti) sia nella melodia che, soprattutto, nell’accompagnamento con terzine dell’arpa. In compenso qui c'è una parte significativa per il corno inglese (e altre di contorno per oboe, clarinetti, fagotti e corni) che è assente nell'Adagietto, dove tutti i fiati tacciono. Poco prima della conclusione, sull’ultimo verso (in meinem Lieben) spunta anche un inciso che viene chiaramente dal Ruhevoll della Quarta Sinfonia, completata precisamente un anno prima: 
Poi viene Um Mitternacht: qui Mahler prescrive l’oboe d’amore e (a doppiare l’arpa, nella seconda metà dell’ultima strofa) il pianoforte (tacciono invece del tutto gli archi!) È una canzone di cinque strofe, che per quattro e mezza si mantiene in tonalità di LA minore (eccetto una fugacissima apparizione del maggiore nella parte centrale della seconda strofa) presentandoci uno scenario quasi disperato, di buio nel cuore e nell’anima, che si aggiunge a quello profondo e materiale della mezzanotte. Il motivo che sostiene la ricorrente invocazione Um Mitternacht – anticipato già alla seconda battuta dal flauto e alla quarta dall’oboe d’amore - verrà ripreso da Mahler, ad esempio, all’inizio della seconda parte della sua Ottava Sinfonia, per descrivere lo scenario inizialmente cupo – che si aprirà poi verso l’alto – della scena finale del Faust:
L'atmosfera depressa è sottolineata da frequenti scale monotòne discendenti, un po' come quelle che riappariranno, non a caso, in Der Einsame im Herbst.

Poi, in una sola misura, ecco il repentino passaggio ad un luminosissimo LA maggiore, sulle parole (hab' ich die) Macht in deine Hand gegeben! nelle mani del Signore di morte e vita viene riposta la forza dell'Uomo: 
   
Arpa e pianoforte aggiungono un'aura celestiale allo sfarzo degli ottoni, che porta all'enfatica e positiva conclusione.

Infine Liebst du um Schönheit. Composto un anno dopo gli altri quattro (1902) non fu mai da Mahler orchestrato e la versione per orchestra si deve a tale Max Puttmann, uno che lavorava per l’editore Kahnt. Il che – secondo i musicologi - spiegherebbe certe bizzarrie che Mahler non avrebbe mai commesso. La giovane e bella Alma – allora era da pochi mesi divenuta sua moglie - narra nelle sue memorie che Mahler le fece trovare il manoscritto del Lied dentro la partitura del Siegfried, che lei era solita scorrere: si trattò davvero di una originale dichiarazione d’amore.

Anche qui è interessante la chiusa, con la voce che si ferma sulla sesta (il LA) proprio a creare una specie di sospensione... eterna (sull'avverbio immerdar, eternamente, appunto) anticipando un procedimento che Mahler impiegherà estensivamente in Das Lied von der Erde
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Non avendo Mahler imposto una sequenza precisa ai canti, ogni interprete (che può essere indifferentemente un mezzo, come qui, o anche un baritono) è autorizzato a sceglierne l'ordine di presentazione. La Komlósi invece li ha presentati precisamente nello stesso ordine in cui Mahler li compose. 

Purtroppo una prestazione vocale, la sua, insoddisfacente (a parer mio, s'intende): chiare difficoltà d'intonazione, voce poco udibile nell'ottava bassa e tendente all'urlo in alto. In più, una pronuncia che credo farà sorridere un crucco… Peccato, perché l'orchestra (in configurazione sempre diversa per ogni canzone) l'ha accompagnata al meglio. Comunque gli applausi non sono mancati. 

Prossimamente il venerabile sir Neville Marriner con un programma… scozzese.