ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

15 marzo, 2012

Alla Scala una donna senza troppe ombre, ma con parecchi incubi


Seconda ieri sera alla Scala – vergognosamente ricca di poltrone e palchi vuoti - della ranocchia bavarese, accolta trionfalmente (col minimo sindacale di buu…) all’esordio di domenica. (Oh, quel minimo sindacale si riferiva ai Musikanten, chè il Regisseur se ne beccò invece una razione direttamente proporzionale alla sua parcella, smile!)

La Frau – sappiamo -  è opera complessa, dalle mille e una notte sfaccettature: simboli, allusioni, allegorie, esoterismo, surrealismo e psicanalisi spuntano fuori da ogni dove in questa specie di fiaba a sfondo moraleggiante, socialista, femminista, antifemminista, bigotto… e chi più ne ha, più ne aggiunga. Ho riletto per l’occasione uno spassosissimo – oltre che eruditissimo – saggio di Alberto Arbasino, comparso sul programma di sala per la (travagliata, ahinoi) Frau del Maggio fiorentino di quasi 2 anni orsono: una vera miniera d’oro per un regista che voglia trovare spunti per chiavi di lettura originali di questo mezzo-capolavoro (intero, per la parte di competenza di Strauss).

La cui trama è - di conseguenza – assai intricata: se il personaggio centrale è abbastanza facilmente individuabile (nella figura dell’Imperatrice) e il percorso fondamentale è più o meno chiaramente tracciato (come progressiva assunzione di responsabilità della ragazza-gazzella, che muove da una beata ingenuità animalesca per raggiungere la consapevolezza del proprio ruolo nell’umana società) non altrettanto chiari, comprensibili, logici e spiegabili sono i mille avvenimenti che passano sotto i nostri occhi. Molti dei quali sono del tutto irrazionali, effetti senza causa, eventi miracolosi procurati da forze sconosciute e soprattutto senza alcun presupposto plausibile. 

Quindi, pur nel doveroso rispetto dovuto al genio di Hugo von Hofmannsthal, mille sono le domande che sorgono nella mente del lettore del testo: perché mai una colpa della donna, l’Imperatrice (ammesso che di colpa si tratti, quella di non avere ombra, simbolo di infertilità) deve per forza ricadere anche sul marito, l’Imperatore - che oltretutto si impegna allo spasimo, tutte le sacrosante notti, come un coniglietto infaticabile (smile!) nel suo dovere di fecondatore - al punto da comportarne la condanna alla pietrificazione? E come è sostenibile la presentazione della crisi di un ménage familiare (in casa Barak) quando sentiamo l’uomo chiedere alla donna di dargli finalmente dei figli (il che implicherebbe che da parte sua venga onorata una regolare, sia pure noiosa, routine sessuale) e la moglie che invece ribalta su di lui la responsabilità della mancanza di prole, accusandolo apertamente (e non m’hai resa una madre) di aver dimenticato il suo principale dovere coniugale?  

A cosa si deve il repentino mutamento di atteggiamento della Nutrice, che gioisce all’iniziale annuncio del Messo, pregustando (Oh giorno benedetto!) il ritorno suo e della sua protetta al mondo di Keikobad (e fregandosene altamente della sorte dell’Imperatore, visto che lei ha in odio il mondo degli uomini) e poi, subito dopo aver ricordato alla ragazza l’ineluttabilità del destino suo e del marito, di  punto in bianco e senza apparente ragione si mette a sua disposizione per procurarle l’ombra? 

E giù in casa Barak, dove sta completando la sua opera di corruzione della moglie del tintore con le classiche armi di seduzione (oro, gioielli e vestiti, più un Giovinetto amante) e l'ha convinta (L'anima mia è sazia ormai della maternità, ancor prima d'averla gustata) a rinunciare definitivamente alla sua ombra e ad infischiarsene dei figli mancati (Rinunciare col gesto del disprezzo ai tediosi che qui non son nati!) come mai la perfida Nutrice scompare sul più bello (la ritroviamo solo nell'atto successivo!) mentre si manifesta un sortilegio (il pianto di quei cinque bambini mai nati, proprio in concomitanza col friggere dei cinque pesciolini in padella!) che rischia di avere sulla Tintora l'effetto precisamente opposto a quello desiderato dalla Nutrice? (A proposito dei pesciolini/feti-to-be, pare che Strauss fosse inorridito all'idea che Barak si mangiasse i suoi mancati figli, e che HvH dovette porre ripiego facendo mangiare al tintore solo un tozzo di pane… però intanto il fritto era stato fritto, smile!

E all'inizio del second'atto perché mai la medesima Nutrice, che avrebbe bisogno di quanto più tempo possibile a disposizione, al fine di veder consumato il peccato di adulterio della sua corrompenda, invita invece Barak a tornare presto dal mercato, cosa che avviene con una puntualità quantomeno sospetta? Col risultato di guastare la festa non solo alla moglie, ormai ben orientata sulla strada del tradimento, ma soprattutto alla coppia delle corruttrici? E come spiegare il siparietto notturno dell'Imperatore presso la casa del falconiere reale? Quand'è che l'Imperatrice ha vergato il messaggio di convocazione per lui, come lo ha recapitato al Messo, e quale sarebbe lo scopo dell'incontro? E quale logica c'è dietro l'improvviso odio per lei che assale l'Imperatore – che è pur sempre un umano, per quanto del rango più alto – al solo fiutare l'odore di umano da cui è avvolta la ragazza? E di chi sarebbe il respiro umano che la segue, se con lei c'è solo la Nutrice, che lui ospita in casa da quando ha catturato la gazzella?

Ma ancora più ermetico – qualcuno potrebbe dire strampalato - è il seguito del secondo atto (le tre parti della terza scena): dapprima il nuovo tentativo della Nutrice di indurre in tentazione la Tintora, che reagisce in modo quanto meno schizofrenico, fra disprezzo per la corruttrice e confessioni di desideri di tradimento; fra ostentata indifferenza verso il bel Giovinetto che la Nutrice le fa miracolosamente ricomparire davanti e terrore al contatto con la mano di lui; dal rifugiarsi nella protezione del marito all'abbandonarlo subito dopo per uscir di casa (con chi? ma con la sua corruttrice, accipicchia!) 

Qui poi abbiamo l'altro siparietto con l'Imperatrice nella casa del falconiere, completamente fuori-tempo-luogo-azione (a differenza del precedente, che godeva almeno di una vaga plausibilità temporale, questo si cala irrazionalmente nel bel mezzo di un'azione in pieno svolgimento, nella casa di Barak, in cui è presente l'Imperatrice medesima) con le visioni oniriche della giovane, che devono servire a mostrarci l'antefatto di ciò che vedremo più avanti (l'Imperatore pietrificato!) 

Chiude l’atto un altro scenario a dir poco bizzarro, con la falsa auto-accusa della Tintora (che chissà perché le provoca comunque la perdita dell’ombra!) la reazione violenta di Barak, i sortilegi della Nutrice che fa oscurare il cielo e mette in mano a Barak una luccicante spada che poi però svanisce nel nulla a fronte della preghiera dell’Imperatrice, che ha rifiutato di vestire l’ombra lasciata libera dalla Tintora… Mentre la Tintora medesima ritratta in fretta e furia la confessione appena fatta, mettendoci però anche un tocco di freudiana quanto ricattatoria carogneria, quando, dopo aver proclamato Non l’ho fatto! aggiunge e precisa: Non l’ho fatto ancora! Ecco infine un provvidenziale quanto gratuito cataclisma, con tanto di esondazione fluviale, che spedisce sottoterra Barak e consorte (ma l’ombra che fine ha fatto? smile! sappiamo che la cosa fece passare notti insonni a Strauss) separando l’uno dall’altra ed entrambi dall’Imperatrice e dalla sua tata. (!?!)

L'atto conclusivo - aperto da quella genialata straordinaria dei due umani che si dichiarano amore e fedeltà in contemporanea, pur essendo ciascuno in totale isolamento - è perlomeno più abbordabile, se non altro per l'aperta similitudine con la Zauberflöte. Della quale ripropone anche l'ambiguo ruolo di Keikobad-Sarastro, che soltanto alla fine si chiarisce in modo positivo. 

Certo che per qualunque regista mettere in scena un simile amba-aradam rappresenta un problema non da poco (il che, insieme al fabbisogno esagerato di Musikanten, spiega perché l'opera si rappresenti col misurino, anche in territorio crucco). Rispettare alla lettera le indicazioni del libretto fa effettivamente correre il rischio di proporre uno spettacolo del tutto incomprensibile allo spettatore medio (e forse anche agli esperti) come del resto avevano paventato sin da subito HvH-RS, se è vero come è vero che pensarono addirittura di predisporre un bigino esplicativo dell'opera, da distribuire in anticipo al pubblico! 

Così Claus Guth deve aver scelto una strada che gli rendesse facile la vita, e che allo stesso tempo si attaglia perfettamente alla practice del più classico Regietheater: cavar fuori dal guazzabuglio di ingredienti dell'originale un proprio Konzept e costruirci intorno l'intero allestimento. Purtroppo il rischio che comporta questa scelta è quello (tipico) di prendere una parte dell'originale per innalzarla a tutto. È come se, dovendo presentarci una grande villa settecentesca di 50 locali, con camere, saloni, corridoi, verande, biblioteche e scaloni, tutti ambienti diversi e magari anche poco coerenti fra loro, l'imbonitore ci mostrasse decine di fotografie, filmati, schizzi, disegni e riferimenti del solo letto a baldacchino su cui il marchese passava le notti con le sue favorite e/o vi aveva le sue visioni oniriche. Bellissima ed eccitante presentazione, peccato che della villa nel suo insieme e di tutti gli altri suoi componenti non ci arrivi alcunchè.

Ecco, Guth prende il solo risvolto freudiano-onirico, 
anzi per la verità solo onirico – importante, nessun dubbio, come lo è il… letto a baldacchino (smile!) – dell'originale e ci costruisce sopra tutta la sua Frau. Che sta a quella di HvH-RS – indovina, indovinello - precisamente come il letto a baldacchino sta alla villa settecentesca.

Dico subito che la sua concezione è realizzata con grande sapienza tecnica ed estetica (e ci mancherebbe anche, con quel che è costata…) ed ha perlomeno il pregio di non costringere lo spettatore a scervellarsi più di tanto, poiché tutti sanno che nei sogni può accadere di tutto, e ancor di più se i sogni sono incubi di una psicopatica (smile!) Peccato però che, se tutto è solo sogno/incubo, allora è fuori dalla realtà e al massimo sarà oggetto di analisi da parte di un qualche dottor Freud di passaggio: bisognerà quindi avvertire il nobile HvH che anche il suo lieto-fine conclusivo, comunque lo si debba interpretare, altro non è che un sogno! Inoltre, datosi che nel libretto compare per davvero un sogno, ecco che assistiamo all’invenzione, dopo il teatro-nel-teatro, del sogno-nel sogno… però, caro Guth, come fa uno poi a distinguere il sogno-funzione dal sogno-derivata-prima?

Sarà poi il caso di sorvolare su alcune goliardate quali i pesciolini volanti, come da libretto (sì), cui però si aggregano anche alcuni feti, per la felicità di Strauss, immagino; o il Keikobad mostrato con sembianze di antilope cervicapra (questa farà rivoltare HvH nella tomba); o i bambini non nati che sono antilopine, o cerbiattini, o gazzellette; o anche le palpate di culo del morigerato Barak alla moglie… Certo che, per uno che anni fa aveva mostrato Beckmesser, alla fine della baruffa notturna, appeso ad un muro seminudo con i coglioni massacrati, si deve parlare di gigantic step backward (stra-smile!)      

Per fortuna di noi poveri pirla, c'è sempre la possibilità di passar sopra, o addirittura rimuovere, ciò che l'occhio vede, lasciando tutto lo spazio – piccolo o grande che sia – della testa e del cuore a disposizione dei suoni. Poiché, con buona pace di Guth ma anche del grande HvH, senza la musica del businessman bavarese questa regìa farebbe solo sorridere e il pur geniale libretto troverebbe pochissimi acquirenti.





(Bisognerà che qualcuno inventi – ma non dovrebbe essere difficile, con le tecnologie audio-video-informatiche già disponibili quasi a livello individual – una modalità di rappresentazione di opere come questa in forma di concerto, ma con cantanti e orchestra dislocati sì sul palcoscenico, ma dietro schermi 3D su cui il regista faccia proiettare immagini evocanti ciò che l'orecchio ascolta. Ecco, uso un'iperbole, ma sarei pronto a sacrificare tutte le mie ricchezze di Berlusconi per vedere realizzato questo sogno…) 

Tornando alla più prosaica realtà, una volta tanto (in Scala non è davvero poco, di questi tempi) gli addetti all'emissione di voci e suoni sono stati all'altezza del compito. Merito sicuramente di Marc Albrecht, che viene precisamente da quell'ambiente tedesco dove Wagner e Strauss si imparano fin dalla scuola materna (da noi ormai, i Va', pensiero, li scimmiottano solo in via Bellerio…) E dei professori, che forse per puntiglio sembrano dare il meglio di sé quando si trovano di fronte ostacoli impervi, e non il solito zum-pa-pa.


E naturalmente dei cantanti, qui di livello eccellente, prima fra tutti - per me - la Elena Pankratova, una Tintora davvero eccezionale, insieme agli altri quattro moschettieri, fra cui hanno brillato particolarmente la protagonista Emily Magee (Imperatrice) e la Michaela Schuster, una Nutrice che finalmente sa coniugare la truculenza con il canto! Johan Botha è un buon Imperatore (non vorrei però essere nei panni del suo cavallo, smile!) mentre il glorioso Falk Struckmann si salva grazie alle rimembranze che suscita di tanti Wotan… Ma tutti gli altri sono all’altezza, a partire dal postino Samuel Youn. I cori di Casoni debbono cantare sempre, o quasi, fuori scena, dislocati chissà dove (spero per loro non nei WC, smile!) per cui si meritano un'indennità speciale.

Successo pieno quindi per tutti i responsabili dei suoni. Assolto in contumacia - perchè il reato è prescritto - il regista.

Resta da dire che quella che si ascolta anche qui è una Fr-o-Sch assai mutilata (Bychkov aveva promesso di farla integrale, poi… si è dato malato, smile!) Da tutti i tagli – peraltro usuali, e a suo tempo perlomeno tollerati dall'Autore – che anche Albrecht ha inferto al corpo mistico di quest'opera. Sono quantitativamente inferiori, per fare un esempio, a quelli apportati dallo straussiano-per-eccellenza Karl Böhm nell'edizione registrata dal vivo, nella notte dei tempi, a Vienna con Nilsson e Berry e tuttora fra le migliori in circolazione. Ma si tratta pur sempre di pagine e pagine di grande musica…

Nel primo atto, verso la fine della prima scena, c'è un unico, ma importante taglio: la strofa della Nutrice che proclama il suo disprezzo per la razza umana e si autodescrive come imbrogliona e la successiva breve esternazione dell'Imperatrice poco prima che le due si incamminino verso il mondo degli uomini.

Nel secondo atto, prima scena, è tagliata una parte del dialogo fra Nutrice e Tintora, dove la prima convince la seconda a chiudere gli occhi e prepararsi all'apparizione del Giovinetto. Altro taglio alla fine della scena, dapprima una parte dell'esternazione risentita della Tintora verso Barak, poi nel concertato (da birreria!) della mangiata-bevuta, le strofe dei fratelli di Barak e la sua risposta, prima dell'implorazione dei ragazzini mendicanti. Nella terza scena manca una strofa della Tintora, che dileggia Barak appena addormentatosi, e poco dopo, alla ricomparsa del Giovinetto, un'altra strofa della stessa Tintora, che disprezza la Nutrice e parte della successiva risposta adulante di quest'ultima. Più avanti un piccolo taglio (Nutrice, Barak, Tintora) al risveglio dell'uomo. Nel secondo episodio alla falconiera, con l'Imperatrice che sogna e poi grida la sua colpa nei confronti di Barak, è tagliato il breve interludio che segue e porta alla visione dell'Imperatore che va a farsi… pietrificare. 

Nel terzo atto è tagliata la prima parte del breve recitativo dei violoncelli sulla prima strofa della Tintora, poco dopo l'inizio. Poi tagli corposi nel colloquio fra la Nutrice e l'Imperatrice, allorquando arrivano presso il tempio di Keikobad e la Nutrice cerca di dissuadere la ragazza dal procedere verso l'acqua della vita, promettendole per l'ennesima volta l'ombra. Quindi tagliato completamente il passaggio dove Barak prima e la Tintora poi, vaganti alla ricerca l'uno dell'altra, incontrano la Nutrice, che li inganna indirizzandoli in direzioni opposte. Quindi tagliata l'invocazione della Nutrice a Keikobad e il successivo rimbrotto del Messo come pure le invocazioni di Barak e della Tintora, che si mescolano allo scontro fra Nutrice e Messo (è di fatto uno straordinario concertato). Più avanti, un ampio taglio all'esternazione disperata (e parlata) dell'Imperatrice di fronte all'Imperatore pietrificato. Tagliata anche l'implorazione dell'Imperatrice a Keikobad, sulle disperate invocazioni di Barak e consorte. Infine, tagliati sia la parte finale della strofa dell'Imperatore al suo ritorno in vita che l'intero duetto
 di Imperatrice e Imperatore, contrappuntato dai bambini non nati e dalle 5 voci in orchestra, subito prima della scena conclusiva con i due umani. 

Per chi non vuol privarsi di tanto ben di dio, esiste in commercio almeno un'edizione integrale, cui non manca una sola nota scritta da Strauss, registrata 20 anni fa in studio da Solti con i Wiener, Domingo, Behrens, VanDam, Varady.

12 marzo, 2012

La Bohème torna a casa


Ieri pomeriggio al Regio terza delle sei recite di Bohème. Si tratta di una produzione ormai definibile di repertorio, visto che in questa stagione si ripresenta l'allestimento del 1996 - centenario della prima assoluta - di Giuseppe Patroni Griffi (oggi efficacemente ripreso da Vittorio Borrelli).

Qualcuno potrebbe pensare che un'opera così celebre, nota e stranota, proposta in un allestimento già conosciuto e per di più tradizionale non ecciti l'appetito né l'interesse del pubblico. Ma forse ciò pensano quelli con la puzza al naso, quelli che ma che barba che noia, quelli che se non porti l'ambientazione in Thailandia o non spargi sul soggetto Ibsen, Strindberg, Freud e Jung a piene mani non si divertono e soprattutto non si commuovono più. (Detto di passaggio, pare che costoro fossero in netta minoranza ieri sera alla Scala, almeno a giudicare da ciò che si è udito per radio al termine della Fr-o-Sch del genio Guth… su cui però riferirò a giorni, dopo visione diretta). 

O anche coloro che se non c'è la Netrebko con Kaufmann non butto via i miei soldi…

Perché invece la folla straripante e plaudente che anche ieri ha riempito l'anfiteatro del Regio dimostra precisamente il contrario. Ma immagino che i di cui sopra diranno che trattavasi di una folla di incompetenti, tipo quella dei matinée del MET, che si beve qualunque porcheria e applaude sempre tutto e tutti (come si è sentito proprio sabato su Radio3, in un Don Giovanni cantato… nel posto dove si trasferisce alla fine il povero Leporello). 

Forse, può darsi, ma personalmente sono convinto che l'apprezzamento per questa proposta non venisse soltanto da qualche curioso ignorante o da quelli che, non essendoci partite allo stadio, hanno ripiegato sul teatro non sapendo cos'altro fare. Perché l'allestimento era tale da far commuovere (e ridere) nei momenti appropriati e soprattutto la prestazione del cast vocale e orchestrale è stata – almeno a parere di uno come me, che non cerca il pelo nell'uovo, lo confesso - di tutto rispetto, decisamente positiva nella media e con qualche punta di eccellenza. 

Prima fra tutte Maria Agresta, splendida protagonista, perfettamente calata nella parte, soprattutto sul versante musicale: voce calda, penetrante su tutta l'estensione e portamento esemplare. 

Con lei merita un grande elogio il coro - anzi i cori, con i piccoli in grande evidenza - di Claudio Fenoglio: tutti bravissimi a superare alla grande le impervie difficoltà della polifonica kermesse che occupa l'intero secondo quadro. 

Massimiliano Pisapia era Rodolfo. Partito non senza difficoltà (mi è parso leggermente calante all'esordio) si è ripreso subito e ha poi fatto del suo meglio: certo, la voce è quella che gli ha dato la mamma (e nessuno, per quanto studi, può trasformarla in quella di… Pavarotti, smile!) ma lui l'ha impiegata con intelligenza e professionalità, e non si è tirato indietro nemmeno di fronte ai DO acuti che peraltro Puccini indicherebbe come optional. Anche per lui gran trionfo.

Norah Amsellem è stata una Musetta efficacissima sul piano della recitazione, un poco meno, a mio avviso, su quello musicale: voce dal timbro non proprio gradevole e vagamente tendente all'urlo, soprattutto nel secondo quadro; meglio alla fine.

I tre amiconi di Rodolfo hanno ben meritato: Claudio Sgura come Marcello (peraltro non sempre penetrante), Fabio Previati come Schaunard e Nicola Ulivieri, un Colline che ha più che dignitosamente preso congedo dalla sua vecchia zimarra

Gli altri quattro comprimari (su tutti Matteo Peirone, non foss'altro che per il doppio-lavoro, Dario Prola, Mauro Barra e Marco Tognozzi) hanno svolto con diligenza la loro parte.

Massimo Zanetti (è perlomeno il secondo Zanetti che dirige Bohème a Torino, dopo l'Ubaldo del 1898!) ha saputo porgere le mille sfumature della partitura con grande sapienza, senza mai incorrere in eccessi, né coprire le voci: evidentemente ha gran dimestichezza con Puccini e in particolare con quest'opera. L'Orchestra del Regio non la si scopre oggi come una delle migliori nel panorama italiano.

In definitiva, una riproposta eccellente – perlomeno a giudicare dai risultati in termini di gradimento da parte del pubblico - che conferma la validità delle scelte del Regio, un Teatro che non pretende riconoscimenti speciali, ma in cambio sa mantenere uno standard di rendimento che certe prime-donne (ahinoi) si sognano. 
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Mi permetto di aggiungere un'appendice – pertinente in particolare a questo Puccini, ma di applicabilità generale – riguardante il materiale divulgativo che può aiutare un ascoltatore non preparatissimo a… prepararsi a dovere prima di entrare in teatro, in modo da apprezzare ancor meglio ciò che vi viene rappresentato. Parlo dei cosiddetti programmi di sala che ogni teatro predispone a corredo delle locandine.

Premesso che quelli del Regio di Torino sono sempre di ottima fattura e presentano contenuti assai approfonditi, scritti da illustri firme, hanno però - come tutti - il difetto di essere messi a disposizione del pubblico, oltre che a pagamento, solo in occasione delle recite, dentro il teatro. Il che di fatto li rende di difficile fruizione prima della recita, quando sarebbero più utili che mai. 

Per questo colgo l'occasione per segnalare nuovamente la lodevole iniziativa del sito web del Teatro La Fenice, che – nella sezione Libretti, una vera miniera d'oro – pubblica in realtà tutti i programmi di sala delle opere rappresentate dal teatro negli ultimi anni. Nel caso di Puccini, essi contengono le fulminanti analisi del professor Michele Girardi, co-fondatore del Centro Studi Giacomo Puccini a Lucca e oggi somma autorità in campo pucciniano. Oltre a Bohème, vi si trovano quelle di Manon, Tosca, Butterfly, Rondine, Turandot, la cui lettura trovo personalmente imprescindibile per chiunque intenda accostarsi non passivamente alle opere di Puccini.

Nel caso di Bohème, Girardi ci propone anche una recensione appassionata (fino alla faziosità…) dell'incisione, ormai storica e probabilmente ineguagliabile, registrata in una chiesa di Berlino nel 1972 con Pavarotti, Freni, Ghiaurov, Panerai, Harwood, Maffeo e HvK sul podio del Berliner Philharmoniker. Ma in realtà è quasi un'appendice o un approfondimento dell'analisi dell'opera, che val proprio la pena leggere. 

09 marzo, 2012

Orchestraverdi – concerto n 23



Dopo una sola settimana torna sul podio Wayne Marshall con un programma tutto americano. Che (purtroppo) è stato modificato rispetto alla locandina originale, che prevedeva la recente Swing Symphony di Wynton Marsalis, rimpiazzata da più tradizionali e familiari opere di George Gershwin

Resta per fortuna l'interessante proposta di The Age of Anxiety di Leonard Bernstein. Una composizione (del 1949, dedicata al mentore Koussevitsky, poi rivista nel 1965 con aggiunte alla parte pianistica del finale) che assomma in sé diverse caratteristiche (o nessuna di esse?) È intitolata Sinfonia e prevede un pianoforte solista, ma non è un concerto… È fornita di un preciso programma letterario, eppure il suo autore sostiene di aver voluto comporre musica pura, che quel programma ha semplicemente evocato, musica nella quale egli avrebbe introdotto quasi inconsciamente riferimenti diretti al programma medesimo. Mah… personalmente credo che qualunque ascoltatore, anche il più musicalmente preparato, fatichi assai a raccapezzarsi in quest'opera se non ne conosce – e pure dettagliatamente – il programma esterno. 
Peraltro, con un minimo di conoscenza dello stesso, l’opera si lascia apprezzare… pur non potendosi chiamare un capolavoro.

Il programma letterario è un lungo poema di pari titolo – scritto fra il 1944 e il 1947 - di Wystan Hugh Auden, poeta britannico trasferitosi in USA nel 1939, in pratica disertando proprio alla vigilia della guerra. Poema scritto in arcaica rima allitterativa, che risente degli effetti traumatici degli eventi bellici e descrive lo stato di straniamento, di sradicamento e di impotenza di tanta parte dell'umanità, vittima di meccanismi e di forze cui non si può opporre. È strutturato – come precisamente sarà la Sinfonia di Lenny – in sei parti: il prologo, in cui tre maschi (Malin, ufficiale dell'intelligence medica dell'aviazione canadese, Quant, impiegato in un ufficio di spedizioni, nauseato dal mondo ed Emble, una recluta della Marina) e una femmina (Rosetta, impiegata all'ufficio acquisti di un supermercato) – nessuno di loro originario di NewYork, quindi tutti a loro modo piuttosto sradicati - si incontrano per caso in un bar di Manhattan in piena guerra; le sette età, in cui i quattro si raccontano le proprie esperienze di vita, suddivisa appunto in sette fasi, dall'infanzia alla morte; i sette stadi, in cui i quattro immaginano (senza peraltro cavare un ragno dal buco) come ritrovare, attraverso viaggi in onirici paesaggi, una vita serena, lo stadio preistorico di felicità e la fede in Dio; il lamento per la mancanza di un grande condottiero che indichi loro la via da percorrere; la mascherata, che si svolge nell'appartamento di Rosetta, dove tutti (i maschi soprattutto) si ubriacano definitivamente, finchè i due più anziani se ne vanno a casa e il giovane Emble finisce spossato… nel letto di Rosetta; l'epilogo, in cui l'alba riporta ciascuno al proprio quotidiano tran-tran, in cerca di… una fede che pare impossibile da mettere in pratica.

Ma che secondo Bernstein è raggiungibile, nel suo finale, in cui pare di sentire nobili echi mahleriani. La Sinfonia è suddivisa in due parti, di tre sezioni ciascuna: la prima consta delle tre scene nel bar di Manhattan; la seconda contiene la sezione del lamento (mentre i quattro sono su un taxi che li porta verso l'appartamento di Rosetta) e le due sezioni conclusive. Tutta la prima parte potrebbe vagamente essere considerata il primo tempo di una sinfonia (tema e variazioni); poi c'è il movimento lento, ancora una cosa simile ad uno scherzo e quindi il finale.

Nella sua prefazione alla partitura Bernstein, dopo aver ammesso di essere rimasto letteralmente affascinato dal poema di Auden (che invece considerò la Sinfonia una cosa estranea ad esso!) spiega come la parte pianistica rappresenti autobiograficamente se stesso, totalmente immedesimatosi nel poema, che si specchia nell'orchestra (indifferente, se non proprio ostile) come nel mondo circostante. Seguiamo le sue concise note didascaliche per orizzontarci nel gran ginepraio della partitura, aiutati da una minuziosa analisi fatta da una musicofila presso l'Università di Rochester.

Part I

a. Prologue. Presenta l'incontro dei quattro personaggi nel bar della Terza Avenue, dove cercano scampo, bevendo, dai loro quotidiani problemi esistenziali. È una sezione assai breve, che consiste nella malinconica improvvisazione di due clarinetti (in echotone) seguita da una scala discendente che fa da ponte verso l'inconscio in cui si svolge poi il resto della storia.

Sono soltanto 28 battute (Lento moderato, poi Poco più andante) in cui i due clarinetti, con suono appena udibile 
(l’echotone in pratica fa assomigliare il suono a quello di uno zufolo, forse in omaggio al carattere di egloga del poema di Auden) ci introducono un'atmosfera di tristezza, e pure di inquietudine, come testimonia il tritono (RE-LAb) già nella prima battuta:

seguiti dal primo flauto che – su un sottofondo di timpani, con arpa e violoncelli che suonano accordi di quarte sovrapposte - intona una lunga scala discendente (dal RE# acuto a quello due ottave sotto) alla fine della quale il secondo flauto ricorda il primo tema:


Questi motivi torneranno poi nel seguito ed anche nel finale della sinfonia.

b. The Seven Ages (Variations I-VII). Bernstein spiega che quelle che seguono non sono classiche variazioni su un tema predeterminato, bensì ciascuna varia la (e/o risponde alla) precedente, analogamente al flusso dei discorsi dei quattro personaggi che raccontano le loro esperienze. 

È il pianoforte solo ad aprire la prima variazione (sole 15 battute) che rappresenta l'infanzia e ricorda dapprima il tema discendente e subito dopo l'incipit del tema dei clarinetti nel prologo. Poi entra l'arpa ed espone, raddoppiate all'ottava, su un tremolo delle quarte dei violoncelli con sordina divisi in tre parti, le sedici note discendenti udite dal flauto poco prima:

La seconda variazione (l'adolescenza) è più corposa e vi è protagonista il pianoforte, che suona continuamente e sviluppa un frammento del tema discendente udito in precedenza: 

Gli strumentini espongono un nuovo motivo – due quarte ascendenti seguite da una terza minore discendente - che verrà impiegato nelle successive variazioni:
Questa variazione (Più mosso, rubato, come si addice alla turbolenza adolescenziale) è composta da due sezioni (la seconda in effetti è una… variazione della prima) con frequenti esplosioni di semicrome, fino ad adagiarsi (Quasi lento) sulla…

Terza variazione (Largamente) che rappresenta la prima maturità, dove il pianoforte tace e sono violini e corno inglese ad esporre maestosamente il motivo degli strumentini nella precedente variazione:

Si noti il frammento di seconda maggiore ascendente seguito da una quinta giusta discendente, poiché darà l'appiglio alla variazione successiva. Il motivo principale è ripetuto dai corni, con flauto e oboe, prima che il violino solo, in una nuova breve sezione, ne esponga uno specchio:
L’arpa e gli archi accompagnano il tema, ripetuto due volte, più la terza variata, con un ritmo quasi marziale, a sottolineare la determinazione, caratteristica di questa età dello sviluppo umano.

Nella quarta variazione si manifesta l'accettazione della dura realtà della vita. Sul tempo sghembo di 5/8, è dominata dal pianoforte, che ne espone l'idea principale, derivata dall'inciso della variazione precedente (qui è una seconda minore seguita da una quinta discendente):

Negli archi (e terza tromba) torna il motivo esposto originariamente nella seconda variazione:
La prima tromba vi espone infine un motivo da cui germinerà la quinta variazione:
Il tempo mosso e le agitate semicrome del pianoforte accentuano il senso di smarrimento e depressione di questo stato dell'esistenza.

La quinta variazione evoca l'improvviso arrivo del successo e l'apparente raggiungimento del benessere esistenziale. Il tempo è agitato, misterioso ed il clarinetto attacca con semicrome che ripetono il motivo della tromba della precedente variazione:
I legni e poi gli archi espongono un secondo motivo:

Dopo una transizione, affidata al pianoforte con intrusioni dell'orchestra - con i corni che letteralmente urlano - i motivi vengono ripresi, sempre con un ritmo che dà l'idea di una vita che procede da un successo all'altro, fino a… spegnersi su un nuovo motivo del flauto, che caratterizzerà la successiva variazione:
La sesta variazione (poco meno mosso) rappresenta l'invecchiamento e la constatazione della fallacia del successo e l'idea che la felicità si possa trovare solo tornando all'innocenza della fanciullezza. È piuttosto breve (solo 26 battute) ed è il solo pianoforte ad esporla, inizialmente con un motivo derivato da quello appena suonato dal flauto nella variazione precedente, indi richiamando fugacemente il primo motivo del prologo, poi esponendo un nuovo motivo, sempre derivato dal primo, che verrà impiegato nella settima variazione:

La settima variazione rappresenta l'estrema vecchiaia e… la morte. L'oboe espone un motivo derivato dalla variazione precedente, quindi sempre oboe e poi clarinetti espongono il motivo iniziale del prologo:
Infine il pianoforte – con i violoncelli sempre ad accompagnare con quarte sovrapposte - la chiude esponendone il motivo discendente (cui sovrappone il primo) che parte sempre dal RE#, ma questa volta percorre ben quattro ottave discendenti, anzi di più, fino al DO# e finalmente al DO (da cui ripartirà la prossima sezione) come a dipingere il lento cadere della vita nell'abisso del nulla:
Si notino in particolare le quarte dei violoncelli in accompagnamento, poiché sarà da lì che sgorgherà il tema principale della successiva variazione. Flauti e clarinetti accompagnano mestamente la cerimonia…

c. The Seven Stages (Variations VIII-XIV). Sono altre sette variazioni che evocano gli immaginari viaggi dei protagonisti, singolarmente o a coppie, alla ricerca della perduta e irraggiungibile felicità. Al termine dei quali viaggi (per quanto infruttuosi) i quattro si sentono uniti dall'esperienza comune e cominciano ad agire come un unico organismo.

Il primo stadio (ottava variazione
si riferisce alla constatazione, fatta dai quattro protagonisti dopo aver percorso tutti i panorami, dalla preistoria ad oggi, della costante presenza del dolore nella vita dell'uomo, in tutte le epoche della nostra civiltà. Il tema principale (quarte ascendenti SOL-DO) è esposto inizialmente da corno inglese e viole, mentre il pianoforte presenta un motivo ostinato, che verrà ripreso anche dagli archi, caratterizzando l'intera variazione:
Poco più avanti il pianoforte espone un'altra idea:

Tutta la variazione è sostenuta dall'ostinato (il cui incipit pare il dies-irae) su cui si innestano i due motivi principali, ripetuti due volte: il tutto crea – fedelmente al soggetto letterario - un'atmosfera di tristezza e rassegnazione.

Nel secondo stadio (nona variazionei quattro si dividono a coppie (i due giovani, Rosetta ed Emble e i due attempati, Quant e Malin) e partono per un cammino di analisi dei valori della società. 
Sono le note dell’ostinato a costituire il nerbo della variazione, esposte inizialmente dai violini e poi variate in continuazione (l’ultima figurazione servirà poi a sostenere la variazione successiva):

Una seconda idea è presentata dal pianoforte e poi si ripete in altri strumenti durante questa variazione:

Infine vediamo riapparire nell’oboe (alterata nel ritmo) l’idea iniziale della variazione precedente:


La variazione è divisa in due sezioni (separate da una lunga pausa): la prima molto pesante (forte e fortissimo) e la seconda molto tenue e dolce, forse a rappresentare l’atteggiamento delle due coppie (gli attempati e i giovani); poi alla fine il ritmo accelera per arrivare ad una conclusione tutt’altro che serena.

Nel terzo stadio (decima variazionei quattro si ritrovano davanti all'oceano e meditano sulla piccolezza dell'uomo. Formano due nuove coppie (Rosetta-Quant e Malin-Emble) e si mettono alla ricerca della possibilità di rendere il mondo meno insicuro e terribile. Vanno in città e scoprono la tendenza che molti hanno a farsi assorbire dalla sua vita tumultuosa perché timorosi per la propria stessa libertà. 

L’idea principale deriva dall’inciso di seconda minore ascendente seguita da una quinta discendente, che avevamo già incontrato nella quarta variazione e che era tornato anche in chiusura della nona. È il pianoforte ad esporla inizialmente, su un tempo che alterna battute in 4/4 alla breve e in 3/4:


Essa viene poi ripresa a canone dai fiati, mentre il pianoforte si sbizzarrisce in veloci semicrome. In aggiunta al ritmo claudicante, la chiusura improvvisa e sospesa della variazione lascia proprio un senso di insicurezza! 

Il quarto stadio (undicesima variazione) vede i quattro in una moderna città, dalla quale si allontanano avendone toccato con mano la superficialità della cultura e l'infelicità che ne deriva. Il pianoforte espone il primo motivo, una vaga derivazione da quello con cui era iniziata la precedente variazione e subito dopo un suo controsoggetto e ancora un altro motivo, usato poi come accompagnamento:

Il trattamento fugato della variazione è l’unico labile appiglio al testo letterario (la fuga dalla città). 

Nel quinto stadio (dodicesima variazione) i quattro fanno una gara nella speranza di scoprire che l'uomo può vivere felice: vi è rappresentata una grande casa, in cui Rosetta crede di trovare la risposta alle sue aspirazioni (ma ne uscirà profondamente delusa). 

È (quasi) il solo pianoforte ad eseguirla, in due sezioni, di cui la prima ripetuta (da-capo). È ancora la figura dell’ostinato a generare la prima idea; la seconda sezione presenta un motivo caratterizzato da quarte (ascendenti e discendenti) che risentiremo poi nella successiva variazione:


Nel sesto stadio (tredicesima variazione) i quattro capitano in un camposanto e meditano sulla morte e sulle impurità che albergano nei propri cuori. Il motivo principale proviene dalla precedente variazione ed è esposto dal pianoforte, contrappuntato dall’ostinato di tromboni, tube e controfagotto:


Il pianoforte poi improvvisamente tace per il resto della variazione, dove prevale il tema – molto espanso, fino a diventare quello iniziale della variazione precedente, su 15 note – dell’ostinato:


Il quale viene esposto ripetutamente dalle diverse sezioni dell’orchestra, che forse rappresentano i sentimenti dei diversi personaggi del poema. 

Il settimo ed ultimo stadio (quattordicesima variazione) vede l'illusione dei quattro, nel giardino ermetico, che credono di sapere come raggiungere il loro obiettivo, ma vengono ricondotti alla triste realtà da cui cercavano di distaccarsi.  

Il pianoforte riespone le 15 note del motivo allargato dell’ostinato, poi gli strumentini rispondono con il motivo principale della variazione precedente:
Più avanti i clarinetti espongono un nuovo motivo che verrà ripreso dai primi violini, in contrappunto con le ultime sette note del motivo allargato dell’ostinato
 
Prima della cadenza conclusiva udiamo un ultimo martellante motivo, esposto a piena orchestra: 
 
La cui conclusione è secca e pare lasciare poche speranze… 

Part II

a. The Dirge. I Quattro – in un taxi – piangono la perdita del colossal Dad (il colossale papà). La sezione impiega armonicamente una serie di 12 note da cui evolve il tema principale. Con esso contrasta una sezione centrale, caratterizzata da romanticismo brahmsiano (sic!) 

È il pianoforte a presentare la serie di 12 note, cui segue, in arpa e fiati, un altro motivo ostinato, di sette note:


Il tema principale, che evolve dalle note 8-10 della serie, viene dapprima esposto dall’ottavino:

Poi il pianoforte ripete più volte, variata, la serie iniziale, contrappuntato dagli archi che suonano il tema principale. Ora tutta l’orchestra espone il motivo ostinato finchè gli archi (violini esclusi) chiudono la prima sezione con una parte del tema principale. 

Nella sezione interna (brahmsiana, stando a Bernstein) è protagonista il pianoforte, che espone un nuovo motivo:

 
Il quale viene successivamente variato, prima per terze, poi per ottave, e su un tempo che continuamente accelera e decelera, allargandosi alla fine, per introdurre la sezione conclusiva, aperta dal pianoforte accompagnato dall’intera orchestra con la serie iniziale (una battuta), dopodiché il pianoforte tace, mentre l’orchestra ripropone l’ostinato; indi il clarinetto e i primi violini tornano sul tema principale, seguiti dal pianoforte, che ricompare con un’ultima reminiscenza del tema con cui aveva aperto la sezione centrale, prima che il lamento termini con le dodici note verticalmente sovrapposte:

 

b. The Masque. I Quattro sono nell'appartamento di Rosetta, decisi a fare un party, ma canzonandosi a vicenda. È uno scherzo per pianoforte e percussioni a base di piano-jazz. Il party si chiude con la partenza dei due più anziani, lasciando il pianoforte-protagonista traumatizzato. 

Per 11 battute l’accordone che ha chiuso Dirge permane negli archi, mentre (a misura 3) il pianoforte, supportato da buona parte delle percussioni, presenta un motto che introduce lo spunto e il ritmo poi impiegato nel primo tema:
 
Il quale tema è esposto sempre dal pianoforte:


 Tema che viene ripetuto più volte, variato e interpolato con altre idee, come questa:
E come quest’altra:

 
Poi sempre il pianoforte espone un quarto motivo, in ritmo rag
 
L’intera sezione è costituita dalla reiterazione di questi quattro motivi, sempre nel pianoforte, con un’eccezione costituita dall’intervento congiunto di celesta, arpa, glockenspiel, xilofono, percussioni e contrabbassi (una jazz-band davvero inusuale!) ad esporre la terza idea. Poi il pianoforte riprende l’iniziativa, ma la celesta lo sfida letteralmente, con velocissime semicrome, seguita poi anche da arpa e percussioni, prima che l’iniziale motto porti alla conclusione, cui si collega senza pause il finale

c. The Epilogue. È il pianino in orchestra che continua al posto del pianoforte solista la musica della mascherata, rappresentando la separazione del protagonista medesimo dal colpevole disertore, e consentendogli di ragionare su ciò che resta dietro tutto il vuoto e l'inconsistenza in cui ha vissuto. E, secondo Bernstein, ciò che resta è la fede. La tromba ne interpreta il concetto con un motivo che Bernstein chiama something pure (qualcosa di puro). Dapprima gli archi rispondono con una malinconica reminiscenza del motivo del Prologue. E abbiamo una specie di prova di forza fra i due motivi, finchè, improvvisamente, anche gli archi cedono a quel qualcosa di puro, nel segno della fede ritrovata. 

Nell'Epilogo il protagonista (pianoforte) - nella versione del 1949 - rimaneva silenzioso, semplicemente osservando  i fatti dall'esterno e limitandosi ad un accordo... di accordo (!) nella quart'ultima battuta. Bernstein revisionò il finale nel 1965, introducendovi la parte del pianoforte, che prende il posto del violino e che ha una cadenza tutta per sè.

Il pianoforte tace alla chiusa della Masque, ma per 4 battute tutta l’orchestra continua a martellarne il ritmo. Al posto del pianoforte le risponde per 22 battute il pianino (in orchestra) che la tromba contrappunta con un motivo (dolcissimo e nobile) per quarte discendenti e ascendenti, che rappresenta la prima idea tematica:

Ora segue un Adagio dove i violini primi espongono un tema che è reminiscenza del Prologue:
Poi ricompare il pianoforte – nella versione del 1965, prima era il violino - che reitera quella reminiscenza, arricchendola ulteriormente e facendone scaturire una nuova idea:
Queste tre idee tematiche vengono presentate alternativamente, prima della Quasi cadenza in cui il pianoforte rievoca motivi del Prologue e delle Seven Ages, mentre il pianino si aggiunge alla fine con una reminiscenza del ritmo della Masque.

Ora il pianoforte tace e l’orchestra (con serenità) espone il tema something pure, in 7/4 (4+3):
Sono le quarte, discendenti e ascendenti, a caratterizzarlo. Anche il tema ostinato dell'ottava variazione torna, ma depurato della sua sinistra somiglianza col Dies-irae, e conduce alla conclusiva perorazione, cui il pianoforte si associa – ma distinguendosi, da solo - con una semiminima, prima delle tre luminose battute dell'intera orchestra, sull’accordo di DO#:


Un finale che, con tutte quelle quarte (dominante-tonica) pare richiamarsi, ad esempio, alla Terza di Mahler, che non per nulla racconta l’amore… 
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Eccellente la prestazione al pianoforte di Emanuele Arciuli (che per sicurezza, non si sa mai… ha tenuto lo spartito nella cassa del pianoforte) ben coadiuvato da Marshall e dall’orchestra, dove la band delle percussioni ha fatto faville, insieme alla brava Carlotta Lusa, che si è letteralmente sdoppiata fra celesta e pianino, facendo per due volte la spola fra la prima (posta al proscenio, sulla destra) e il secondo, dislocato dietro la quinta, per meglio rendere l’effetto di distanza (o per mancanza di spazio sul palco, smile!

Diverse le chiamate per Arciuli, che ci regala anche un bis debussyano (Ministrels). 

Poi tocca a Wayne Marshall esibirsi nel doppio ruolo di direttore e solista, per proporci la celebre Rapsody in Blue di George Gershwin. Il quale ne scrisse nel 1924 la parte del pianoforte, accettando di farsela poi orchestrare da Ferde Grofè, in vista della prima esecuzione a Manhattan. Qui, a parte il pianista, è il clarinettista (nella fattispecie il bravissimo Fausto Ghiazza) a mettersi in mostra subito all’inizio, con il famoso glissando ascendente di 18 note, dal FA grave al SIb due ottave sopra. 

Il brano è di quelli dichiaratamente volti a mostrare come fra i diversi generi di musica i confini siano labili: in questo caso è il jazz a compromettersi con il classico (o viceversa!) con risultati francamente apprezzabili. 

Marshall ci mette parecchio di suo, introducendovi non una, ma addirittura tre cadenze, le prime due a cavallo del celebre Andantino moderato in MI maggiore, e si guadagna applausi ed ovazioni. 

Chiude il concerto l'altrettanto celebre An American in Paris, già eseguito qui (con Zhang Xian) meno di un anno fa. 

Ancora un’ottima prova di Marshall e dell’orchestra, eccellenti a far emergere tutta la frizzante verve di questo brano, ma anche i suoi lati patetici e carichi (direbbe un tedesco) di Sehnsucht. In grande evidenza Alessandro Ghidotti, nell’assolo di tromba che nostalgicamente richiama le mille luci di NewYork all’americano vagabondante per la ville-lumière. Alla fine urla e fischi… all’americana da parte di un pubblico finalmente numeroso come si merita laVerdi.   

Prossimamente avremo il ritorno di XianZhang con un corposissimo programma e un Mahler poco conosciuto.