ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

28 novembre, 2011

A tutti i wagneriti: consigli per gli acquisti (gratis…)

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Oltre ai consigli, sono gratis anche gli acquisti!

Agli amanti di edizioni wagneriane vintage segnalo un abilissimo re-masterizzatore di incisioni storiche. Chi fosse interessato, per dire, al Ring di Krauss del 1953 a Bayreuth, oppure al Parsifal di Kna del 1951 o ad una registrazione in studio dei Meistersinger di Kempe del 1956, riversati in MP3 di gran qualità… può inviare una mail a Bill Hong (e-mail: notungschwert@aol.com) chiedendo di ricevere i link da cui scaricare questi veri e propri gioielli.

(Segnalato da A.C.Douglas di Sounds&Fury)
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25 novembre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 10


È Oleg Caetani (Markevitch) a tornare in Auditorium per proporci un programma classico, con due sinfonie particolari.

Contrariamente a quanto previsto in origine, in luogo di due brani di Glinka e Borodin è la Pastorale di Beethoven ad aprire il concerto, che così perde la precisa connotazione che aveva (un percorso esplorativo dell'800 russo) per assumerne una del tutto diversa: l'evoluzione (o… involuzione) del linguaggio e della forma sinfonica influenzati da soggetti o programmi extramusicali. Per la verità Beethoven ci tenne a chiarire che la sua Sesta non aveva in alcun modo finalità descrittive (confinate in poche battute di sapore ornitologico) ma intendeva evocare sensazioni che l'animo umano prova a contatto con la natura (inanimata e animata). E di sicuro si potrebbe apprezzare a pieno la sinfonia anche ignorando del tutto le didascalìe che Beethoven vi appose (non così, direi, dell'Op.58 di Ciajkovski).

Caetani ha il merito di non sovraccaricare la partitura di eccessiva enfasi o romanticherie; rispetta in pieno la strumentazione originale, niente raddoppi di fiati e sezione archi di proporzioni normali. Ne esce un'esecuzione che a qualcuno sarà sembrata eccessivamente leggera e magari soporifera, ma personalmente l'ho abbastanza apprezzata.

Dopo la pausa, ecco Ciajkovski e il suo Manfred. La storia che portò alla composizione di questa Sinfonia-a-programma è piuttosto lunga e complicata – e magari un pochino romanzata. Dunque: un Paolo Isotta (smile!) dell'epoca, tale Vladimir Vasilievich Stasov (uno dalle idee assai chiare, visto che reputava Musorgski un perfetto idiota) non contento di aver promosso la nascita del famoso Gruppo dei cinque (che comprendeva quello stesso idiota, smile!) si dedicò alla ricerca e alla stesura di soggetti per opere musicali (prevalentemente strumentali) da far comporre a chi, secondo lui, fosse degno dell'impresa. Così, dopo aver ascoltato l'Harold di Berlioz, venne fulminato da Byron e propose a Mili Balkirev (capo della sua banda dei 5) - ma proprio quasi ingiungendogliela – la composizione di una sinfonia sul Manfred, con tanto di suddivisione in 4 tempi, già corredati di programma letterario e addirittura di agogica musicale (ah, i critici!) Il quale Balakirev – che stancatosi della musica si era dato per qualche tempo alla… ferrovia, mettendosi il berretto rosso di capostazione – girò subito il programma al vecchio e malato Hector, che declinò l'invito.

Così, anni e anni dopo, il malcapitato prescelto (in terza battuta) fu proprio Ciajkovski, che sulle prime rifiutò piuttosto seccato (e rispettoso di Schumann, per le cui musiche di scena aveva la massima ammirazione) ma dopo un po' di tempo, avendo letto Byron, girovagato per le Alpi svizzere (teatro dell'azione nel testo originale) e ripensatoci su, evidentemente trovò che il soggetto - infarcito di drammi esistenziali e desiderio di autodistruzione – si addiceva alle sue personali attitudini, e così si buttò a corpo morto nell'impresa, conclusa nel 1886, nel periodo intercorrente fra le composizioni della Quarta e della Quinta Sinfonia. Balakirev, che si credeva un padreterno, aveva suggerito a Ciajkovski anche l'intero palinsesto musicale dell'opera, con tanto di definizione di temi, leit-motive e relative tonalità, e persino indicazioni sulla strumentazione! Gli aveva segnalato addirittura una serie di riferimenti ad opere da prendere a modello: dello stesso Ciajkovski (Francesca, Scherzo della 3a Sinfonia); di Berlioz (Finale dell'Harold, Adagio della Fantastica, La Regina Mab dal Roméo); Liszt (Hamlet) e Chopin (Preludi). Domanda: ma perché a questo punto non se lo componeva da sé, il suo Manfred?

Qui va ricordato un particolare importante - poiché ha un preciso riferimento con l'esecuzione di Caetani, su cui tornerò successivamente – che riguarda il finale dell'opera. Dunque: nel testo originale di Byron, Manfred muore senza accogliere l'invito del suo amico abate a recitare, magari solo con il pensiero, una preghiera. Le sue ultime parole, sprezzanti e quasi blasfeme, sono: non è così difficile morire. Invece nell'edizione tedesca, musicata da Schumann, il finale (forse per apparentarlo con quello del Faust) viene radicalmente mutato, con l'intervento dell'organo e del coro che recita il Requiem, e con la musica di Schumann che chiude con un MIb maggiore che sa di redenzione (rispetto al MIb minore della conclusione dell'Ouverture). Orbene, mentre Stasov nel suo programma si era attenuto a Byron, Balakirev – indubbiamente pensando a Schumann – aveva introdotto il finale religioso, con tanto di Requiem, suggerendo a Ciajkovski l'impiego dell'organo e la chiusa in maggiore. Cosa che Ciajkovski fece con il massimo scrupolo.

Per il resto invece il compositore (purtroppo o per fortuna?) se ne fregò dei suggerimenti e fece di testa sua, cominciando con l'inversione dei due movimenti interni (prima lo Scherzo - La Maga delle Alpi - e poi l'Andante – Scene di vita alpestre) e tutto sommato il risultato - non potendosi certo parlare di capolavoro – avrebbe anche potuto essere peggiore. In effetti noi posteri - che forse siamo di bocca buona… - riusciamo anche a mandarlo giù, ma i contemporanei la pensarono assai diversamente. Già in Russia l'opera non fu accolta con entusiasmo, ma alla prima viennese, diretta da Mahler nel gennaio 1901, i commenti andarono da "nebulosa, malsana… fiera del cattivo gusto" (Hanslick) a "mostruosa, di struttura folle" (Hirschfeld) a "un'ora di sofferenza per i nervi… opera mostruosa, incomprensibile, composta da frasi insignificanti, mal costruite e male assemblate" (Neues Wiener Tagblatt). E più tardi Stravinski la liquidò come l'opera più noiosa di Ciajkovski. Il quale peraltro fu il primo ad esserne scontento, al punto tale da progettare di distruggerla per tre quarti, lasciando in vita soltanto il movimento iniziale: raptus che peraltro rientrò in fretta. Da parte sua Arturo Toscanini si professò invece entusiasta del Manfred, amandolo al punto tale da coprirlo di cure particolari (smile!) materializzatesi in allegri tagli e cervellotici ritocchi all'orchestrazione…
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Ciajkovski mantenne in vita le indicazioni programmatiche di Stasov, trasmessegli da Balakirev, e il primo movimento – Lento lugubre / Moderato con moto / Andante, in SI minore - ci presenta Manfred che vaga sulle Alpi in preda a ossessionanti ricordi (Astarte in primo luogo) da cui cerca invano di liberarsi. A proposito di modelli: il Manfred – diciamolo francamente – è un po' una scopiazzatura (mediocre) del Faust, sul cui soggetto aveva già composto una poderosa sinfonia Franz Liszt; in essa, la figura di Faust è evocata con temi in tempo pari, mentre quella di Gretchen in tempo ternario. Forse a Balakirev la cosa era sfuggita, visto che non aveva citato la sinfonia di Liszt fra i suoi suggerimenti a Ciajkovski: il quale invece, nel primo movimento della sua opera, fa proprio la stessa cosa, affibbiando a Manfred temi in tempo pari e riservandone per Astarte uno in 3/4, sul quale tempo convergono poi anche i temi del protagonista.

La tonalità è SI minore, ma fatica ad affermarsi e in chiave non troviamo alcun accidente. Subito Ciajkovski ci presenta Manfred, caratterizzato da due lugubri temi principianti con intervalli discendenti e successive risalite, Il primo in LA minore, il secondo in DO# e poi MI minore:
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Si noterà come l’incipit del primo tema (prime 4 note) richiami scopertamente il motivo conduttore del Lago dei cigni, che a sua volta rimanda a quello del divieto dal Lohengrin!

Una prima transizione ci porta alla riesposizione in SI minore del primo tema e poi - in SOL# e quindi SI minore - del secondo. Ora un lento crescendo conduce all'esplosione dei due temi - leggermente variati - in SI minore, in contrappunto, nelle trombe e nei corni: è la disperazione di Manfred:

Che raggiunge l'apice con un Con tutta forza dell'orchestra, culminante nella reiterazione della seconda sezione del primo tema, in trombe e tromboni. Adesso (Moderato con moto) si apre una parentesi di apparente lucidità, in cui spicca un nuovo tema esposto dal corno solo:

Poi ritorna il secondo tema di Manfred, che ora sembrerebbe meno cupo e disperato, inarcandosi in volute successive, quasi che il protagonista stia intravedendo un poco di azzurro farsi largo fra le dense nubi alpine, e sentiamo in effetti uno squarcio di RE maggiore negli strumentini, che sfocia in un inaspettato accordo di SIb. Dal quale si diparte una variante del secondo tema che va sfumando come se Manfred stia cadendo in un deliquio, in un dormiveglia nel quale deve aver l'impressione di vedersi comparire dinanzi… l'immagine della donna (peccaminosamente) amata. I due diesis in chiave in verità compaiono proprio ora, alla battuta 171 – qui rappresentando un peraltro mesto RE maggiore - sull'Andante che ci presenta la povera Astarte:
 
Il suo primo tema pare proprio di carattere lisztiano, e il secondo inciso (terzina-semiminima-croma) sembra quasi rappresentare la vana implorazione di Manfred: parlami! Dopo un dolce intermezzo del clarinetto basso, appare un secondo tema, esposto dai violini e poi ripreso dai flauti, che subito si anima, passando fugacemente per DO maggiore, su una scala discendente da LA a SOL e quindi cresce di ritmo e intensità, fino a sfociare – sostenuto dalle arpe – nel secondo inciso del primo tema, ripetuto due volte, proprio come una reiterata implorazione. Ma non c'è risposta, e gli archi, dapprima fff e poi sempre diminuendo, paiono far sprofondare Manfred nella più cupa disperazione. Che esplode – in ffff – con la riproposizione del primo tema del protagonista, ora in 3/4, in un feroce SI minore urlato da archi e flauti, con gli ottoni e gli altri strumentini a scandirlo con terzine sincopate; il tema, di cui all'inizio era stato esposto solo il torso, adesso si sviluppa con lunghe ondate di crome, chiaramente mutuate dal secondo tema di Astarte (ah già, la consanguineità) e sfocia in una perorazione dei corni, che porta – Più animato e Con tutta forza – alla pesantissima chiusura.

Come detto, rispetto al poema di Byron e ai suggerimenti di Stasov-Balakirev, Ciajkovski anticipa al secondo movimento (lo Scherzo, in effetti) la scena della cascatella alpina dietro i cui iridescenti vapori compare La Maga delle Alpi. Il tempo è Vivace con spirito, 2/4 in SI minore. La struttura è assai semplice, tipo A-B-A, dove A in realtà non è nemmeno un tema, ma una serie di effetti che ci dovrebbero rappresentare il pulviscolo acqueo che circonda la cascatella, entro il quale compare poi la Maga (Trio, tema B, in RE maggiore):

Il tema viene più volte ripetuto e variato, ma soprattutto si fonde con il primo tema (completo) di Manfred, che nel poema di Byron confessa alla Maga il suo amore maledetto. Maga che scompare poi alla sua vista, coperta dai vapori della cascata, lasciandolo lì con un palmo di… tema.

Il terzo tempo, Andante con moto è sottotitolato Pastorale: vita semplice, libera e spensierata dei montanari. È in 6/8, SOL maggiore, una siciliana che presenta un tema assai accattivante - per quanto difficilmente riconducibile a paesaggi alpestri – inizialmente esposto dall'oboe:

Dopo la lunga esposizione, chiusa da una cadenza in SI maggiore, ecco il corno farsi udire con un motivo che ha assai poco di allegro richiamo di cacciatori (qui Ciajkovski si dev'essere ricordato dell'ammonimento di Balakirev: niente volgarità tipo Jägermusik!):

È lontano parente di quello esposto, sempre dal corno, nel primo movimento e in effetti pare una mesta cantilena, più consona allo scenario di Tristan a Kareol! Ma possiamo sempre immaginare che rappresenti invece le sensazioni e le reazioni emotive del povero Manfred… Torna il tema principale, che adesso si sviluppa con un'impennata alla sopratonica e poi cadenza dolcemente verso la chiusa, sulla quale è il clarinetto ad innestare un gaio intermezzo, che porta ad un nuovo episodio, in SI minore, caratterizzato da martellanti semicrome dei fiati che accompagnano un cupo motivo degli archi: forse è la cattiva coscienza di Manfred che fa capolino… ma presto l'atmosfera si rasserena, torna il SOL maggiore e il flauto si libra in arpeggi di semicrome, prima che gli archi espongano per due volte un nuovo motivo, che sale da sesta a tonica, passando per la sopratonica, prima di RE, poi di DO. Li imitano gli strumentini, poi rapide scale ascendenti dei violini ci portano a dapprima a SI, poi a DO maggiore, dove il motivo si sviluppa assai per poi tornare al SOL di impianto e virare subitaneamente al SI minore, dove le trombe, poi i corni, in fff urlano ancora il primo tema di Manfred, evidentemente ripiombato nella più cupa disperazione. Qui si odono in lontananza (fuori scena) sette rintocchi di campanella, su un pedale di corni e archi, che introducono la ricomparsa del mesto motivo del corno, che si spegne lentamente, lasciando il posto al ritorno del tema principale, in SOL, che si mostra adesso in tutta la sua magniloquenza. Ancora il richiamo del corno, che si perde in lontananza, quindi i clarinetti portano dolcemente il movimento alla conclusione, con l'incipit del tema che scende dal flauto all'oboe, al clarinetto, su un pianissimo quasi impossibile (ppppp) degli archi.

L'ultimo movimento evoca Il palazzo sotterraneo di Ariman, con tempo Allegro con fuoco, in SI minore. Dapprima abbiamo due motivi che caratterizzano questa specie di bolgia (francamente Schumann qui sta parecchi gradini al di sopra…) nella quale poi metterà piede Manfred:

Arriva infatti Manfred, accompagnato dal suo secondo tema, che scatena la reazione dei demoni, con i relativi due temi in contrappunto; che una Fuga fosse il mezzo musicale più adatto a dipingere questa scena infernale sarebbe da discutere, ma Ciajkovski evidentemente non trovò di meglio. O forse pensò (smile!) che quella scolastica forma fosse la più adatta a rappresentare la fuga degli spiriti maligni (che nel poema di Byron vengono neutralizzati da Nemesi). Finalmente Astarte ricompare, con un grande dispiegamento di arpe, in REb, quindi in tonalità degradata rispetto al primo movimento; Manfred implora solo e sempre: parlami! ma la donna svanisce, perennemente muta, lasciandolo ancora nella sua disperazione (primo tema in fagotti e clarinetto basso). Qui Ciajkovski addirittura copia con la carta carbone la corrispondente sezione del primo movimento (metodo assai sbrigativo per realizzare un procedimento ciclico!) che sfocia però… al cimitero. Entra infatti anche l'armonium ad accompagnare, prima in DO e poi in SI maggiore, il nostro pseudo-eroe all'ultima dimora.
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Questa è una di quelle composizioni che definirei a basso rendimento: poiché richiedono un grande dispiegamento di forze e suprema tecnica esecutiva, mentre in cambio ti lasciano poco o nulla. Quindi sono da elogiare – cosa che il pubblico ha fatto puntualmente - i professori dell'orchestra per aver portato a compimento la loro impresa in modo rimarchevole. Ma di certo questo Manfred non deve aver migliorato di molto la sua posizione di classifica (da play-out, direi) nelle preferenze del pubblico.

Ma adesso vengo, come promesso, a Oleg Caetani. Lui ha di sicuro una grande dimestichezza con questa partitura, che conosce e dirige a memoria: l'unico appunto che mi sentirei di fare alla sua direzione è la lentezza esasperante con cui ha condotto l'Andante con moto. Ma l'intervento davvero proditorio e del tutto ingiustificato è stato il suo stravolgimento del finale. Un vago sospetto si era avuto già in partenza, notando l'assenza dell'armonium sul palco (ma si poteva pensare che venisse fatto suonare fuori scena, come la campanella, per accrescere il senso di arcano) e il sospetto è divenuto certezza quando, dopo la riproposizione del tema di Manfred, Caetani ha buttato nel cesso le ultime 70 e più battute della partitura (la cadenza del tema di Manfred e l'ingresso, appunto, dell'armonium) sostituendole pari pari col finale del primo movimento, ad eccezione dell'ultima croma, trasformata in nota tenuta. Quindi, ciò che nessuno, a parte Byron (né Schumann, né Balakirev, né soprattutto Ciajkovski) aveva negato a Manfred (una specie di estrema unzione, in modo maggiore) Caetani l'ha perfidamente negato, seppellendo il malcapitato sotto una pesantissima lapide di SI minore. Nobbuono…

Prossimamente ancora a tutta Russia, con Ciajkovski e Stravinski.
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22 novembre, 2011

Dudamel con la Bolívar alla Scala


Ieri sera la Scala ha ospitato un concerto speciale per la Fondazione Progetto Arca. Sul palco i ragazzi dell'Orchestra Simón Bolívar del Venezuela (prodotto del Sistema Abreu) guidati dal loro giovane-vecchio condottiero Gustavo Dudamel, più che mai integrato con i suoi compagni (a parte le entrate, non è mai risalito sul podio per ricevere personalmente gli applausi, che ha lasciato solo al gruppo, dentro al quale si è mescolato proprio come un primus-inter-pares).

Programma robusto e impegnativo, che ci ha portato musiche distanti all'incirca un secolo, dal Beethoven maggiorenne alla coppia Ravel-Stravinski.

La Sinfonia in MIb è – nel suo genere - l'opera che segna la grande svolta di Beethoven, che si allontana decisamente e definitivamente da tradizioni e schemi settecenteschi per aprire nuove vie e nuovi orizzonti. Mai prima di quell'estate del 1804 si era udito qualcosa di simile ai due schianti di tutta l'orchestra (con tre corni!) con cui il genio di Bonn inchioda immediatamente l'ascoltatore alle sue responsabilità… (al confronto impallidisce anche il severo attacco della mozartiana Jupiter). La Sinfónica si presenta con un organico ipertrofico: tutti i fiati letteralmente raddoppiati (6 corni!) per contrastare la massa di ben 70 archi (nemmeno Strauss… e cresceranno ancora dopo l'intervallo!) ma Dudamel sa come dosare il suono e impiega l'intero apparato solo a ragion veduta, restituendoci un Beethoven tutto sommato assai sobrio e senza eccessi tardo-romantici. Fanno sempre impressione la compattezza e il livello tecnico di questa squadra, se si pensa al come viene costruita.

Dopo la pausa il palco si affolla ulteriormente: altri archi (!) e arpe, pianoforte e celesta, sax, tromboni e tuba, batteria di percussioni, per la Seconda Suite da Daphnis et Chloé di Ravel. Dove peraltro sono gli strumentini (flauti e clarinetti in specie) ad essere chiamati a virtuosismi stratosferici. Gran trionfo personale per la prima (bionda e bella!) flautista.

Chiude L'uccello di fuoco di Stravinski, precisamente i 6 numeri della Seconda Suite (del 1919). Mirabile il contrasto fra i numeri languidi e delicati (vedi la Danza delle principesse con il suo sognante tema esposto dall'oboe) e quelli scatenati (come la Danza infernale, col suo bizzarro Allegro rapace); di grandissimo effetto la chiusa, con gli smaglianti accordi dei fiati sul tappeto di SI maggiore, in tremolo, degli archi. Pubblico in delirio e immancabile bis, che è la sinfonia della Forza, di certo un omaggio all'Italia, ma anche un chiaro riferimento alle circostanze e alle volontà che rendono possibile – almeno in campo musicale - il fenomeno-Venezuela.

Poi si fa buio in sala per la vestizione dei ragazzi, che indossano – come Gustavo - la casacca giallo-rosso-blu-stellata (ci vuole davvero un po' di colore in questo ambiente scaligero che scade sempre di più nel grigio) e si scatenano in un paio di forsennati e vorticosi pezzi di bravura: magari in tutte le discoteche si suonasse questa musica e in questo modo! Tifo da stadio - o da discoteca, appunto – a salutare questa splendida gioventù.
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19 novembre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 9


 
Ancora Zhang Xian sul podio per il nono concerto, preceduto da una puntata del ciclo di conferenze sulla musica russa, dove si è parlato del Boris Godunov e presentato il libro En attendant Boris di Vittorio Mascherpa (intervenuto a fianco di Malcovati e Beacco).

Programma assolutamente tradizionale, che principia con il Secondo concerto per pianoforte di Beethoven. Ad interpretarlo non c'è Simone Dinnerstein, come annunciato da sempre sul programma della stagione - e come ancora oggi si legge sul sito della pianista – ma il bravo (ed evidentemente sempre disponibile…) Roberto Cominati.

Sappiamo che questo fu in realtà il primo concerto per piano composto da Beethoven, e prese il n°2 solo per via dei tempi della pubblicazione, avvenuta successivamente a quella del concerto in DO. Qui siamo – a dispetto del secolo tramontante – ancora in pieno settecento (Haydn-Mozart) e in effetti sarà compiutamente il terzo concerto a rompere con gli schemi precedenti, gloriosi ma ormai piuttosto ingessati, ed a portare aria nuova. (Analogamente e curiosamente una cosa simile capiterà, e nel giro di pochissimo tempo, nel campo sinfonico, con l'esplosione dell'eroica.)

Comunque, nel suo primo approccio a questo genere di composizioni Beethoven mostra quanto meno un'apertura mentale e una voglia di innovare – ancora un pochino velleitaria, magari - che diventeranno caratteristiche fondamentali del suo percorso artistico. Un chiaro riferimento è all'ultimo concerto mozartiano, il K595, guarda caso nella stessa tonalità, dove il genio di Salzburg, pur nel rispetto dei sacri canoni formali, si prende notevoli libertà, facendo uso nel tempo iniziale di ardite modulazioni. E così fa Beethoven, che già nell'introduzione puramente orchestrale dell'Allegro con brio ci mostra alcune cosette interessanti: le due cellule del tema (entrambe di 2 battute); più avanti l'inciso dei violini (che diventa poco dopo la base del primo tema esposto dal solista); e poi una serie di modulazioni che portano l'ambiente tonale dal SIb d'impianto alla relativa SOL minore, al FA minore, al REb (seconda cellula del tema) poi al RE minore, quindi sfiorare il MIb, prima di tornare a casa per dar la parola al pianoforte. Il quale espone due temi, il primo in SIb e il secondo – canonicamente, ma con altre escursioni di tonalità (REb maggiore e LA e SOL minore) - nella dominante FA, su cui si innestano altri motivi, e nella quale poi viene riesposto – novità! – anche il primo dei due temi. Poi c'è una sorta di sviluppo, dove torna la seconda cellula del tema introduttivo, ora in MIb maggiore; infine una ricapitolazione con i due temi del pianoforte esposti entrambi (secondo le regole) in SIb; ancora una modulazione a SOLb, prima del ritorno alla tonalità d'impianto e della lunghissima cadenza autografa, che sbocca direttamente nella brevissima (6 battute) coda. Insomma, per essere opera-prima (nel genere) di un venticinquenne del profondo nord tedesco, niente male davvero.

L'Adagio è in MIb, sottodominante della tonalità d'impianto del concerto (anche qui Mozart docet). Da essa si discosta per toccare tonalità vicine (SIb e LAb) ed anche, ma fugacissimamente - alla ripresa del tema da parte del tutti orchestrale - un SOLb. Orchestra – che introduce - e pianoforte sembrano fare a gara a chi sia più languido e sognante, nell'esporre il tema e le sue divagazioni. Delicatissima anche la cadenza conclusiva, dove il solista e l'orchestra sembrano chiudere sommessamente la finestra da cui fluiva quella musica sognante.

Beethoven – che ritoccò il concerto più volte – vi aveva incluso come Finale un Rondo (Allegro) poi espunto e pubblicato come opera a se stante. Musica delicata e accattivante, in tutto e per tutto – incluse prolissità e leziosità - settecentesca. Poi ci ripensò e scrisse il Molto allegro, che ha tutt'altra carica, concisione e spigliatezza. Col tempo di 6/8 Beethoven ha gioco facile nel creare uno scenario di domanda-risposta fra due motivi, l'uno – tema principale - in metro digiambico (croma-semiminima, ripetute):

e l'altro – secondo tema - in metro ditrocheo (semiminima-croma, ripetute):

La forma è proprio classica, con i tre temi simmetricamente disposti: A-B-A-C-A-B-A. La tonalità è SIb, FA (e SIb alla riapparizione) per il secondo tema, mentre il tema C vira alla relativa SOL minore (e poi DO e SIb minore, ma tutto secondo le regole). Quando il tema principale torna per l'ultima volta, lo fa (ma per poco) su un imprevedibile quanto eterodosso SOL maggiore. Ma è solo un attimo, perchè le buone creanze vengono tosto ripristinate, per la soddisfazione di tutti.

Roberto Cominati deve proprio essere arrivato all'ultimo momento per sostituire la Dinnerstein e probabilmente a corto di… preparazione su questo concerto beethoveniano (che comunque fa parte del suo repertorio). Così dentro la cassa del pianoforte ha adagiato lo spartito, aperto alla pagina… della cadenza (?) per poi sfogliarne alcune pagine dopo l'attacco del Rondo. La sua mi è comunque sembrata un'interpretazione più che discreta, forse un pochino troppo nervosa e meccanica, ma penso lo si debba ampiamente lodare, date le circostanze, e il pubblico non gli ha fatto mancare il suo sostegno, ricambiato da un bis.

Ecco poi la Patetica ciajkovskiana. Dove la Xian ha dato il meglio di sé, perfettamente coadiuvata dai professori. Lugubre e mesto l'Adagio introduttivo, poi pieno di fremiti sinistri l'Allegro non troppo ed efficacissimo il ritardando che porta all'Andante. La non dissimulata omosessualità di Ciajkovski non gli impediva di subire il fascino femminile, e le sue opere sono disseminate di grande musica scritta per donne: Onegin, la Pulzella, la Maliarda, la Dama, Iolanta. E per figure femminili di opere altrui aveva grandissima ammirazione: fra queste Violetta e Carmen (cui si ispirerà anche per la sua Dama di Picche) dalla quale ultima opera citò, più o meno letteralmente, diversi motivi in alcune sue famose composizioni, come il Concerto per violino e, appunto, l'ultima sinfonia.

E proprio nell'Andante, la seconda sezione del tema è una chiara reminiscenza del motivo che sorregge l'esternazione di DonJosé nel secondo atto, al termine dell'aria del fiore: Car tu n'avais eu qu'à paraître, Qu'à jeter un regard sur moi,
Pour t'emparer de tout mon être…
È un'atmosfera che troviamo anche nel finale della di poco antecedente prima di Mahler, una specie di magone (per i crucchi: Sensucht) tradotto mirabilmente in musica. Subito dopo attacca il Moderato mosso e qui c'è un colpo di teatro imprevedibile, procurato da uno degli occhi-di-bue che stanno appesi al soffitto sopra l'orchestra (più o meno sulla testa delle file dei fiati): la cui lampada si fulmina con uno scoppio che pare una fucilata (degna invero di sottolineare il finale dell'Ouverture 1812, smile!) e fa piovere una specie di razzo incandescente che per poco non fa secchi quelli che son destinati ad essere i protagonisti della sinfonia: primo fagotto e primo clarinetto. Ma nessuno batte ciglio e si continua come nulla fosse!

Il walzer sbilenco (5/4, 2+3) che occupa il secondo tempo è trattato con grande raffinatezza e leggerezza, tutto in punta di piedi: anche qui compare un intermezzo patetico (con dolcezza e flebile, prescrive Ciajkovski) e Xian ce lo propina con discrezione e senza troppa melassa.

Splendido l'Allegro molto vivace, dove è facile farsi prendere la mano e sconfinare in sguaiatezze e fracassi gratuiti: invece Xian lo imbriglia bene, sfogandosi soltanto nella serratissima conclusione che – dopo il poderoso ta-ta-ta/tà - scatena qualche isolato applauso. Così Xian deve ritardare di un attimo l'attacco immediato dell'Adagio lamentoso, condotto con grande equilibrio e senza cadute nel cattivo gusto. Alla fine, la cinesina esausta sembra quasi implorare da violoncelli e contrabbassi l'esalazione, pppp, dell'ultimo respiro. Successo a dir poco travolgente, ripetute chiamate per lei e ovazioni per tutta l'orchestra, con Raffaella Ciapponi (clarinetto) e Andrea Magnani (fagotto) in speciale evidenza.

Prossimo appuntamento con gli stessi autori, e due sinfonie piuttosto vicine – pur in modi assai diversi - al poema sinfonico.
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12 novembre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 8


Il Direttore stabile dell'Orchestra torna sul podio per dirigere un variegato programma.

Prima del main course beethoveniano, il concerto affianca opere di due autori distanti precisamente un secolo: Rossini e Britten. Ma significativamente legati – meglio dire: Britten a Rossini – da una stessa base musicale, rossiniana ovviamente.

L'Ouverture del Guillaume Tell è un brano sinfonico di assoluta eccellenza, e da tempo uno dei cavalli di battaglia dell'Orchestra, che ormai lo suona a memoria e a meraviglia. Come sempre emozionanti le prestazioni dei singoli: cello, corno inglese e flauto e grandioso il tutti della travolgente cavalcata finale.

Dall'ultima opera teatrale del grande Gioachino attingono anche le aperture delle due composizioni di Benjamin Britten, completate dall'orchestrazione di alcune arie e duetti (dalle Soirées musicales) e di altra musica del tardo (si fa per dire, a 40-45 anni!) Rossini, che si godeva ormai le meritate rendite nell'agiatezza parigina. La storia delle due composizioni è alquanto intricata, e mostra quanto Britten fosse attaccato alla musica di Rossini. Si incomincia nel 1935, allorquando quello che diventerà il più famoso e rispettato omossessuale britannico appronta una Rossini Suite, per piccola orchestra, così articolata:


1. Allegro brillante (Pas de soldats, da Guillaume Tell, Atto III)
2. Allegretto (La promessa, n°1 da Soirées musicales)
3. Allegretto (Pas de six ,da Guillaume Tell, Atto I)
4. Bolero: Allegro moderato (L'invito, n°5 da Soirées musicales)
5. Allegro con brio (La danza, n°8 da Soirées musicales, già splendidamente orchestrata in precedenza da Ottorino Respighi nella Boutique fantasque)

Parte di essa (1-2-5) venne impiegata come colonna sonora in un cortometraggio pubblicitario del Servizio Postale britannico e altre parti furono incluse nelle colonne sonore dei film Calendar of the Year e di The men of the Alps (per la Società telefonica svizzera).

Nel 1936 Britten recuperò e riorchestrò per grande organico tre brani della Suite (1-2-4), ve ne aggiunse altri due sempre da Rossini, e ne fece un pezzo sinfonico autonomo, intitolato Soirées musicales (impiegato poi nel 1938 in un balletto di Antony Tudor) così articolato:

1. March, Allegro brillante in 2/4 (Pas de soldats, da Guillaume Tell, Atto III): Britten si limita ad esporre, dopo una breve introduzione, il tema principale, trasposto dal SOL dell'opera in SIb. Mantiene il metronomo rossiniano, ma fa del tema una ridicola parodia, affidandolo prima al clarinetto, poi ai flauto, all'ottavino e infine al metallico suono dello xilofono, col trombone basso che poi detta, insieme alle percussioni, il ritmo di una marcia simpaticamente squinternata.

2. Canzonetta, Allegretto grazioso in 6/8 (La promessa, n°1 da Soirées musicales): è in FA maggiore (l'originale in LAb). Britten qui fa sul serio – rallenta di parecchio rispetto al metronomo rossiniano - ed espone la prima parte dell'aria, affidata a clarinetto, oboe e flauto, con dolci terzine dell'arpa ad accompagnare la melodia.
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3. Tirolese, Allegro con brio in 3/4 (La pastorella dell'Alpi, n°6 da Soirées musicales): qui Britten non cambia la tonalità di Rossini (DO maggiore) ma accelera il metronomo rispetto all'Allegretto rossiniano e asseconda così la gaiezza ammiccante dell'aria con un'orchestrazione spiritosa.

4. Bolero, Andante molto moderato in 3/4 (L'invito, n°5 da Soirées musicales): dal LA minore di Rossini passiamo al SOL minore di Britten che rallenta il ritmo rispetto all'Allegro moderato dell'originale e poi, in omaggio al bolero, dissemina il pezzo di interventi delle castagnette, dal tipico suono di nacchera.

5. Tarantella, Presto vivace in 12/8 (La Charité, n°3 da 3 choeurs religieux, qui cantato da splendidi ragazzi di Taiwan): adesso si va proprio dal sacro di Rossini (un Andante molto) al profano di Britten, che trasforma il nobile canto in un impertinente saltarello, trasportando la tonalità da MIb a SIb.

Successivamente - nel 1941, quando si trovava in USA – Britten recuperò il n°3 dalla Suite del 1935 e orchestrò altra musica di Rossini, creando le Matinées musicales:

1. March, Allegretto in 2/4 (Pas de six ,da Guillaume Tell, Atto I): Britten introduce il brano da balletto dell'opera con 5 anzichè 3 poderosi accordi dell'orchestra e ne musica – giustapponendole liberamente - le prime sezioni, mantenendone le tonalità (FA, DO-SOL e SIb maggiore) accelerandone il tempo (da 80 a 112 di metronomo) ed introducendo effetti parodistici - facendo in particolare un uso spregiudicato di percussioni – che trasformano il brano in una marcetta da circo.

2. Nocturne, Andante tranquillo in 3/8 (La pesca, n°10 da Soirées musicales): Britten non solo mantiene la tonalità (LAb-MIb) del duetto di Rossini, ma anche l'atmosfera languida (solo leggermente più spedito il metronomo) che giustifica il titolo del brano. La celesta (o il pianoforte in ottava alta) accompagna la melodia con incisi presi di peso dall'aria rossiniana. Un pizzico di impertinenza è introdotto da qualche fruscìo di piatti e dalla ripresa del tema principale, affidato alle trombette.

3. Waltz, Allegro brillante in 3/8 (L'orgia, n°4 da Soirées musicales): SIb maggiore e SOL minore, sia in Rossini che in Britten (che però vi aggiunge una sezione in RE minore). Ma mentre in Rossini è un'orgia quasi innocente (un Allegretto) Britten la anima accelerando decisamente il tempo e introducendo tutta una serie di sguaiati interventi degli strumentini, delle percussioni e degli ottoni.

4. Pantomime, Allegretto quasi menuetto in 3/8 (Il rimprovero, n°2 da Soirées musicales): Britten porta la tonalità da SOL a DO, riduce la velocità e ci presenta una specie di parodia di un menuetto settecentesco, inquinato, nella sezione centrale, da impacciati interventi di fagotti, tromboni e percussioni.

5. Moto perpetuo, Prestissimo in 4/4 (da Gorgheggi e solfeggi): il pezzo di Rossini (ma l'attribuzione pare incerta) è costituito da un'anteprima di esercizi virtuosistici - scritti su un solo rigo musicale, senza altre indicazioni - che fanno da preparazione per alcuni brani scritti per linea di canto e accompagnamento di pianoforte: Andante in 3/4 in FA, poi Allegretto in 6/8, sempre in FA, quindi Andantino, 6/8 in MI minore e infine Allegretto, 3/4 in MI maggiore. Britten si inventa il suo moto perpetuo – in FA – montando e rimontando a suo piacere alcune parti degli esercizi, come ad esempio questa:
O anche questa:
 

O ancora quest'altra:
E poi ci aggiunge sue proprie manipolazioni, fra cui alcuni interventi virtuosistici delle due trombette, e una chiusa esilarante.

Brani dalle Soirées e dalle Matinées furono infine impiegati – insieme alla sinfonia della Cenerentola – nel balletto Divertimento di George Balanchine, che debuttò a Rio nel 1941.

Come si noterà, queste due composizioni di Britten hanno una identica struttura: una marcia dal Tell, 3 numeri dalle Soirées musicales e la chiusa da altre composizioni rossiniane. In questo concerto – introdotto da una conferenza del prof. Enrico Reggiani per il ciclo "Cultura musicale britannica e irlandese" - Zhang Xian ce ne presenta, tutto d'un fiato, un suo particolare assemblaggio: i tre numeri interni delle Matinées, seguiti dalle Soirées. Una scelta magari opinabile, dato che, rossiniana o britteniana che sia, è musica piacevolissima, orecchiabile e divertente da suonare (almeno a giudicare dall'atteggiamento dei ragazzi) oltre che da ascoltare. Comunque il pubblico ha mostrato di gradire assai e non ha risparmiato il suo applauso.

Dopo l'intervallo ecco la Settima di Beethoven, con cui Zhang Xian fece il suo debutto alla testa de laVerdi, alla Scala, il 6 settembre del 2009. Sono passati più di due anni e direi che sia visibile (oltre che udibile, ovviamente) l'impronta che la cinesina sta lasciando sull'orchestra, sicura, compatta in tutte le sezioni e che soprattutto (e questo è merito anche dei responsabili della Fondazione) suona senza l'assillo di un domani incerto: e di questi tempi – dove di certo sembra esserci soltanto il caos - direi che non è poco.

Successo travolgente, dopo quell'Allegro con brio che ha davvero trascinato all'entusiasmo il foltissimo pubblico dell'Auditorium.

Questo concerto, escluso Britten, verrà replicato – oltre che il 12 e 13 in Auditorium, come da calendario – anche giovedi 17 a Francoforte, nell'ambito dei Cultural Days della Banca Centrale Europea: un evento di prestigio, che oltretutto coincide con l'ascesa di un italiano al vertice della BCE.

Fra una settimana ancora Zhang Xian, con un programma di gran tradizione.
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06 novembre, 2011

La donna del lago alla Scala


Ieri sera quarta rappresentazione (delle sette) de La donna del lago. Opera fin troppo trascurata dai teatri: un tempo perché si pensava che il Rossini romantico-drammatico fosse anche un Rossini minore; oggi con la scusa che l'opera richiederebbe un cast vocale troppo difficile o addirittura quasi impossibile da mettere insieme.

La Scala meritoriamente (una volta tanto) non si tira indietro e – dopo quasi 20 anni (Muti, 1992, con Blake, Anderson, Merritt, Dupuy, Surjan) – ripropone questo autentico gioiello, una delle cose più alte di tutto Rossini, in una nuova edizione, realizzata insieme all'ON di Parigi e alla ROH di Londra. Speriamo che queste co-produzioni servano almeno a spalmare una parte dei costi fissi su diversi clienti… in specie quando questi costi sono a fronte di prestazioni francamente discutibili.

Alludo ovviamente all'allestimento di Lluìs Pasqual (scene di Frigerio, costumi della Squarciapino e luci di Filibeck) che è di quelli che ti fanno venir voglia di chiederti: ma perché non lo fanno fare a me, povero pirla, che gli farei oltretutto risparmiare il 90% della parcella? Faccio un piccolo esempio relativo a scene e costumi. Ecco, siamo in un'opera di ispirazione romantica, con tanto di atmosfere ossianiche, ambientata a metà del 1500 nei dintorni e all'interno di un maniero scozzese, che si può vedere ancor oggi, ben restaurato:


E basta collegarsi col sito del castello di Stirling per avere millanta buone idee su come allestire le scene dei finali d'atto e su come vestire protagonisti e masse.

Ora invece, ditemi voi che valore (o piuttosto dis-valore) aggiunto mi dà una scena come questa:


Ma dico: pare di essere alla Traviata o al Rigoletto di Zeffirelli…

Altro discorso sarebbe una messinscena che indirizzi prevalentemente gli aspetti psico-esistenziali dei vari personaggi (e di materiale il libretto e la musica ne offrirebbero a josa): allora certo sarebbe legittimo e sensato astrarre la vicenda da tempi e spazi, focalizzandola sui moti dell'animo, sulle coscienze, sui sentimenti e sulle problematiche politiche che la caratterizzano. Ma allora basterebbe un ambiente da teatro greco (cioè i soli gradini del set di Frigerio e poco più (altro che lampadari, smoking e palazzi barocchi) mentre qualcosa di più e di meglio andrebbe fatto sul versante della recitazione.

Per fortuna il fronte musicale non ha tradito le aspettative. I personaggi principali sono cinque: i due tenori (acuto Uberto-Giacomo; più baritonale, ma con salite anche al DO, Rodrigo); il soprano (ma con parte quasi mezzo-sopranile, Colbran-oriented: Elena); il contralto (Malcom, en-travesti) e il basso (Duglas).

Uberto, il Re in incognito, è un tipo strano: nel poema di Walter Scott lui - che se ne va in giro col nome di James Fitz-James, Cavaliere di Snowdoun, per mescolarsi al popolo e coglierne gli umori – si perde per davvero durante una battuta di caccia al cervo, e perde pure il cavallo, così solo per puro caso si imbatte nella bella Ellen, che naviga in una barchetta sul Loch Katrine, in uno sfolgorante tramonto estivo. Si innamora di lei, torna a trovarla, ne viene respinto, ma alla fine, dopo aver ferito mortalmente il ribelle Roderick – pretendente della ragazza - perdona tutti i rivoltosi e favorisce l'unione di Ellen e Malcolm. Invece, nel libretto di Tottola - che evidentemente non si accontentava, con Rossini, di una vicenda così terra-terra - Uberto si reca di proposito in riva al lago - di buon mattino - per conoscere quella che gli è stata descritta come una donna straordinaria. Insomma, ci fa un po' la figura del voyeur arrapato (smile!) e la sua finale magnanimità ci appare proprio come un coupe de theatre. Ecco, questa personalità piuttosto bizzarra, di un sovrano che è allo stesso tempo un famelico innamorato, ma anche un invincibile spadaccino, un ebete cascamorto e un nobile magnanimo era affidata alla voce del divo JDF:

Forse a qualcuno non piacerà, e magari la sua voce, già non potentissima, comincia a dare segni di cedimento, ma insomma uno così, in questo repertorio perlomeno, non si trova tutti i giorni; specialmente negli acuti, affilati come… lame di Scozia, appunto.

La Elena di Tottola-Rossini, come e più della Ellen di Scott, è donna solo apparentemente debole e remissiva, forse introversa sì, ma anche decisa, autonoma nel giudizio e perfino ribelle. Nell'opera la sua personalità non ha nemmeno quel risvolto religioso che presenta la Lady di Scott (l'Ave Maria che ispirerà Schubert) e l'unico suo richiamo al Creatore è annegato nella stretta militaresca del Finale primo. Come nel poema da cui fu tratto il libretto, Elena non dissimula affatto la sua attrazione per Uberto e a noi resta sempre il dubbio che lei, quando Giacomo V la unisce, seduta stante, in matrimonio con Malcom, sia felice sì, ma… un filino pentita di aver perso l'occasione unica di prendere il posto, come padrona di casa a Stirling, di tale Marie de Guise! Joyce DiDonato ne è degnissima protagonista, sia nel canto – solo qualche piccolo problema nell'ottava bassa, ma niente di cui scandalizzarsi – che nella recitazione e nel portamento (dove è stata l'unica a distinguersi, in un grigiore registico totale).

Il puro-e-duro (e anche un tantino presuntuoso, come tutti i guevara-da-strapazzo) Rodrigo qui è John Osborn. Parte assai impervia, essendo per lunghi tratti baritonale, ma con ascese vertiginose fin su dalle parti di… JDF e addirittura oltre, come dimostratosi nel terzetto dell'atto secondo! E in effetti il ruolo di Uberto non gli andrebbe affatto male, poiché è proprio nella parte alta del pentagramma che il tenore dà le sue cose migliori. Personalmente non mi sentirei di censurarlo più di tanto: in fondo sarà pure cosa disdicevole, ma per il pubblico medio un bel DO acuto compensa alcuni DO e SIb gravi scarsamente udibili!

L'imponente Daniela Barcellona veste i panni del modesto – come personalità – Malcom. In effetti già certa critica di inizio '800 rimproverava a Scott di aver fatto eccessivi favori a Malcolm Graeme, un personaggio che ha l'unico merito di essere innamorato – e ricambiato – da Ellen. Perché per il resto pare un tipo abbastanza mediocre, se non pavido, uno che cerca di non esporsi troppo – e caso mai più per l'amata che per il suo clan - a differenza del fierissimo Roderick. E non è escluso che questa attitudine da mezza-sega (con tutto il rispetto, smile!) abbia indotto Tottola-Rossini a sceglierlo come personaggio en-travesti (detto senza offesa per i travestiti, sia chiaro). Però, come castigo, i nostri autori gli hanno tolto il privilegio fattogli da Scott di cantare, prima del finale, la canzone del prigioniero dalla torre, arietta regalata invece al tenore Uberto (Aurora! ah sorgerai…) Tuttavia, e per fortuna, noi abbiamo qui una travestita coi fiocchi, la quale – a dispetto di una indisposizione, come annunciato prima dell'inizio – canta più che dignitosamente la sua parte assai impervia. Forse le condizioni fisiche le hanno consigliato di abbassare un poco il volume, peccato che Abbado invece abbia mantenuto imperterrito (parlo della seconda parte dell'aria del primo atto) quello dell'orchestra, strumentini soprattutto. Comunque complimenti per la professionalità di questa artista, persona oltretutto riservata, seria ed equilibrata, come si può evincere da questa intervista fattale da un Amfortas sotto mentite spoglie (smile!)

Tale James Douglas (Duglas per Tottola) in Scott è non solo il padre di Ellen e un esiliato – con Malcolm Graeme - dalla corte di Giacomo V, ma anche una persona di retti principii, che mai e poi mai tradirebbe il suo Re. Addirittura nega a Roderick la mano della figlia! E non per nulla Giacomo V, alla fine, lo risparmia con ampia assoluzione. Invece Tottola, dovendo animare in qualche modo il suo dramma e fornire a Rossini materiale per musica tosta, rivolta come un calzino il personaggio di Scott e ne fa nientemeno che il capo – e non solo spirituale - dei ribelli. E già che c'è, anche un padre piuttosto nazista, che vorrebbe imporre alla figlia il marito che dice lui (Rodrigo, ovviamente). Ne esce una figura da classico basso cattivo, che Simon Orfila cerca di rendere come può: il cattivo c'è di sicuro, tutto sta a vedere se per caso non sia il canto (smile!)

Gli altri: LoMonaco-Albina, Kwon-Serano e Shin-Bertram su un piano di dignitosa sufficienza (con un ++ per il soprano).

Il coro di Casoni – criticato alla prima – sembrerebbe tornato sui suoi standard normali.

E Roberto Abbado? A me è parso voler calcare la mano – poco o tanto – sul versante romantico della partitura, mettendo in risalto tutti i lati verdiani della stessa. Il risultato è stato un certo slentamento di tempi e qualche volta un eccesso di fracassi, con conseguente copertura di voci. Così ci ha però chiarito come in Rossini si annidassero evidenti i prodromi di ciò che nei decenni successivi sarebbe accaduto nel melodramma italico, e non solo. In ogni caso i soli – timidi – buh finali (dopo i bravo al rientro) sono stati proprio per lui. 

A proposito di reazioni del pubblico, la zona sinistra del primo loggione è parsa tanto scatenata nelle approvazioni, per tutti quanti, da destare qualche sospetto di... parzialità. In ogni caso - a parte che meriterebbe una richiesta di rimborso della quota-regìa del biglietto… - spettacolo più che degno sotto il profilo musicale.
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04 novembre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 7


Siamo in periodo di ricorrenze funebri (il 2 novembre, ma per certi versi anche il 4) e laVerdi mette in programma quel Requiem che sta ormai diventando – come la Nona di Beethoven – una consuetudine di ogni stagione dell'Orchestra. Ora tocca ad Aldo Ceccato di riproporci (5 anni dopo la sua precedente presenza) questo capolavoro, insieme ad Erina Gambarini e al suo Coro.

Seguendo una prassi istituita dallo stesso Verdi, Ceccato divide il Requiem in due parti, introducendo un intervallo fra Dies irae e Offertorium: scelta a quanto pare legittima, stanti i precedenti, e supportata anche dall'Amen che chiude il Lacrymosa, oltre che dalla struttura composita dell'opera. Ma francamente in controtendenza rispetto alla ormai consolidata (e personalmente preferita) consuetudine di eseguire il Requiem tutto d'un fiato, senza distrazioni di sorta. Questa scelta di Ceccato parrebbe dar ragione a quella corrente di pensiero che definisce il Requiem un'opera più melodrammatica che religiosa, quindi più adatta ad essere eseguita in Teatro che non in Chiesa… e qui effettivamente siamo a teatro, con tanto di bar (e toilette, smile!) a disposizione di chi mal sopporterebbe circa 90 minuti filati di musica. Di questo passo si potrebbero anche introdurre intervalli di mezz'ora in diverse sinfonie mahleriane (seconda, terza, ottava) o anche dopo il terzo brano del Requiem di Brahms (mah…)

In ogni caso, ascoltare dal vivo quest'opera – monolitica o frazionata – dà sempre un'emozione grandissima e impareggiabile.

Orchestra disposta con qualche variante del layout moderno: corni a destra, sotto tromboni e tuba, per far posto a sinistra ai quattro solisti, dislocati fra grancassa-timpani e i secondi violini. Le 4 trombe del Tuba mirum sono dietro le quinte e non appollaiate su qualche piccionaia come accade spesso di vedere (in lontananza e invisibili, prescrive infatti Verdi).

Le voci femminili sono Francesca Scaini e Giovanna Lanza, quelle maschili vengono dalla ex-Cecoslovacchia: un ceco e uno slovacco, appunto: Tomas Černy e Martin Gurbal.

Ceccato (va verso gli 80, ma con piglio da giovinotto) mostra di padroneggiare da par suo l'immensa partitura: dirige a memoria e dà gli attacchi con perentorie e teatrali puntate di indice della mano sinistra verso le diverse sezioni del coro e dell'orchestra. Anche la sua interpretazione (mi pare almeno) accredita l'idea del Requiem teatrale più che religioso: forti contrasti nei colori dell'orchestra ed eroismi nelle parti vocali. Voci che hanno più che dignitosamente tenuto botta, a cominciare dalla Scaini e da Gurbal, mentre la Lanza e Černy mi son parsi un filino meno efficaci. Il Coro della Gambarini, sempre all'altezza dell'arduo compito, e la gran forma dei professori hanno dato il loro decisivo contributo al pieno successo della serata.

Il prossimo appuntamento vedrà il ritorno di Zhang Xian, con un variegato programma.
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31 ottobre, 2011

Wellber alla Scala per DonGnocchi

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Serata alla Scala per un concerto in favore della Fondazione Don Carlo Gnocchi. Sul podio Omer Meir Wellber e al pianoforte Emanuel Ax, per un programma di gran tradizione, ulteriormente impreziosito in apertura dal pucciniano quartetto denominato Crisantemi (ovviamente qui in versione per orchestra d'archi). Una delicata miniatura, anno 1890, che pochi anni dopo Puccini impiegherà nella sua Lescaut (3° atto, scena di Manon e DesGrieux alla finestra del carcere e 4° atto, morte di Manon).

Emanuel Ax si è cimentato con il beethoveniano Imperatore, accolto con grandi applausi già dopo l'iniziale Allegro e naturalmente alla fine. Prestazione apprezzabile la sua, completata con un bis chopiniano, in onore alla sua Polonia.

Poi Ciajkovski e la sua Quarta, che rischia spesso di trasformarsi in una stomachevole mappazza, se non maneggiata con cura. Cosa che mi è parso invece fare Wellber, che ha scatenato gli elementi nei momenti giusti, ma ha saputo anche valorizzare le parti meno retoriche e magniloquenti della partitura: ad esempio l'irrompere di clarinetti e fagotti nella sezione in SOL maggiore dell'Andantino (magari un filino troppo spedito…) e anche il contrasto fra l'Allegro in pizzicato e il Meno mosso – protagonisti gli oboi – dello Scherzo. Per il resto, enfasi e fracasso sono prescritti e dovuti e devo dire che – a parte qualche incertezza dei soliti ottoni – i Filarmonici scaligeri se la sono cavata più che discretamente. Wellber, che li ha disposti in configurazione alto-tedesca (bassi a sinistra, violini secondi al proscenio e corni sulla destra) li ha diretti con il suo ormai caratteristico gesto ampio ed efficace (forse le incomprensioni fra il ragazzo e l'orchestra, che caratterizzarono in passato le prove della Tosca, sono state rimosse e archiviate).


Insomma, una serata piacevole sul fronte musicale e degna della miglior Milano su quello della solidarietà verso una delle istituzioni ormai storiche, oltre che benemerite, della metropoli. Don Angelo Bazzari, la cui canutissima capigliatura spiccava al centro della platea, ha di che essere soddisfatto.
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Věc Makropulos al Maggio


Chissà perchè ogniqualvolta arrivo a Firenze in treno mi torna in mente il (non da me) compianto professor Gianfranco Miglio, padre spiritual-cultural-ideologico-teorico della lega di Bossi. Il quale una volta venne in TV e spiegò che lui, scendendo a Santa Maria Novella, già si sentiva a disagio, un po' come si trovasse all'estero. Ecco, il tipo secondo me doveva soffrire di qualche fastidiosa disfunzione cerebrale, per avere in testa idee simili…

Perché se c'è un posto dove chiunque, ma proprio chiunque, si trova a suo agio, questo è Firenze, anche ieri bella e animata come sempre. Così mi son preso anche il tempo per farmi una semelle col lampredotto, per affrontare nel modo migliore il caso Makropulos, arrivato alla sua terza e penultima rappresentazione, in un teatro gremito nelle gallerie, ma con molti – troppi, ahinoi – vuoti in platea.

Sulla decisione di cantare l'opera in lingua originale, e non in traduzione italica, si può discutere all'infinito. Però non si deve dimenticare quanta importanza Janáček attribuisse alla musicalità della parola e quante ricerche condusse proprio sull'intima connessione fra suoni e fonemi della sua lingua: in sostanza, la sua musica è costruita meticolosamente attorno all'idioma ceco. Nella fattispecie poi, il libretto è così complicato, e la vicenda così intricata, che se lo spettatore non li studia per bene a priori, difficilmente ci si raccapezza, anche se proposti in lingua italiana. Faccio solo un esempio. Uno dei pilastri su cui si regge l'intreccio (l'eredità del fondo Loukov contesa fra i Gregor e i Prus) è costituito nientemeno che da un equivoco basato a sua volta su un gioco di parole… per di più fra la lingua tedesca e quella ceca! Mentre i Gregor sostengono che il vecchio Pepi (Josef Ferdinand Prus) avrebbe lasciato - ma senza alcun testamento scritto - l'eredità al figlio naturale Ferdinand Karel Gregor (cognome abbreviato dallo scozzese MacGregor, della madre Ellian) i Prus ribattono, con tanto di dichiarazione verbale in punto di morte del medesimo Pepi (raccolta e trascritta in tedesco da un notaio) che il vecchio aveva deciso di lasciare l'eredità – "Herrn Mach Gregor zukommen soll" - a tale Mach Gregor, che in ceco si può interpretare (invertendo cognome-nome) come Rehor Mach (guarda caso un'identità reale). Quindi tutto l'amba-aradam nascerebbe da quell'acca appeso al Mac, che trasforma lo scozzese MacGregor nel ceco Mach. La cosa sfugge ad un lettore poco attento, e con essa tutto il senso della diatriba Gregor-Prus. Per di più, sullo schermo della traduzione italiana che gli spettatori vedono a Firenze (non sul programma di sala) è tradotta anche la frase in tedesco ed erroneamente è riportato Mac (e non Mach) Gregor… per cui il tutto diventa davvero incomprensibile.

Ma anche la trama (di Čapek e conseguentemente di Janáček) soffre di alcune evidenti forzature (è vero che racconta un fatto irreale - una tizia che vive da 337 anni… - ma ogni storia, anche surreale, deve pur sempre fare i conti con un minimo di logica e di verosimiglianza!) Orbene, noi qui abbiamo un Albert Gregor (che sappiamo essere abbreviazione di MacGregor) che vive nel 1922 con regolare registrazione all'anagrafe ed ha alle spalle alcune generazioni di Gregor, su su fino a un secolo prima e a quel (certo o millantato) Ferdinand Gregor, figlio naturale del vecchio Pepi e di Ellian MacGregor (la protagonista E.M.) che gli avrebbe dato il suo cognome, in assenza di riconoscimento da parte del padre naturale. Ma alla fine – leggendo con Jaroslav Prus un atto di nascita del 20 novembre 1816 ritrovato evidentemente fra le carte di casa Prus – noi scopriamo (cosa confermata dalla stessa E.M.) che a quel bambino (Ferdinand) non era stato dato il cognome di Gregor, bensì quello di Makropulos, figlio di padre ignoto e di Elina Makropulos (sempre lei, la protagonista E.M.) Ora: come si spiega che all'anagrafe del 1922 Albert risulti col cognome Gregor (o MacGregor) se il suo antenato del 1816 era stato registrato come Makropulos? Verrebbe da pensare – come in effetti fa Jaroslav Prus - che i veri antenati di Albert nulla abbiano a che fare con quel Ferdinand (visto che fu registrato come Makropulos e non come Gregor!) Ma a questo punto vien da chiedersi come sia potuto accadere che nel 1827 - 11 anni dopo la nascita, con regolare trascrizione all'anagrafe, di Ferdinand Makropulos – un orfanatrofio potesse ospitare un bambino di nome Ferdinand Karel Gregor – ritenuto pure lui figlio illegittimo del vecchio Pepi – per il quale il barone Szephàzy reclamava l'eredità del fondo Loukov, dando così inizio alla causa secolare fra i Gregor e i Prus! Certo, Pepi poteva anche essere un coniglio che lasciava figli illegittimi ovunque, ma la vicenda ha effettivamente del farraginoso, direi. Inoltre si dovrebbe escludere anche la consanguineità per discendenza diretta fra Albert ed E.M. (aspetto fondamentale nell'economia del dramma, a cominciare dai reiterati rifiuti che E.M. oppone alle profferte amorose di Albert) proprio mentre la stessa E.M. mostra di conoscere particolari assai precisi sulla vita di lui, come il nomignolo Bertičku affibbiatogli dalla madre (la stessa E.M. per caso?) E ancora, e ancor peggio: la spiegazione che E.M. fornisce di quel fatto (il cognome Makropulos e non MacGregor affibbiato al figlio) è che il cognome MacGregor non poteva essere da lei dichiarato, in quanto fasullo, e quindi lei (E.M.) si era vista costretta a dare all'anagrafe il suo vero cognome (Makropulos, per l'appunto). Ma Elina Makropulos, nel 1816 (nascita di Ferdinand) aveva nientedopodomanichè 231 anni! E come poteva avere dei documenti di identità credibili più del falso Ellian MacGregor?

Insomma, meglio non star troppo a ragionarci su e… godersi invece il progressivo accumularsi di piccoli indizi, strane allusioni, comportamenti inquietanti, coincidenze inspiegabili, che fanno crescere la tensione drammatica dell'opera, fino al suo epilogo, dove tutti i nodi vengono finalmente al pettine e tutti i misteri (fatti salvi i buchi di cui sopra… ) si chiariscono.

Ed è naturalmente la musica di Janáček a renderci emozionante e indimenticabile questa avventura. Una musica di volta in volta secca, arida e sbrigativa (per supportare gli eventi burocratici della vicenda e i conseguenti declamati) oppure appassionata e sanguigna, a sottolineare i sentimenti – passione, ammirazione, odio – dei diversi personaggi; o ancora grandiosa e drammatica, nel finale dove la protagonista mette in guardia noi comuni mortali dai pericoli derivanti dall'inseguire tutti gli elisir-di-lunga-vita che, ammesso ci regalino qualche anno di esistenza in più, altrettanta felicità ci tolgono.

Zubin Mehta, per lo meno alle mie orecchie, ha dato una convincente lettura dell'opera, assecondato da un'orchestra in buona forma (forse dai corni è venuto nel finale qualche problema). Angela Denoke – ormai specialista del ruolo - è stata una E.M. perfetta attorialmente e ottima vocalmente. Bravo Miro Dvorsky come Gregor, una parte tenorile forse non proibitiva, ma comunque difficile (che tocca anche un DO acuto). Rolf Haunstein (Kolenatý), Andrzej Dobber (Prus) e Jan Vacik (Vítek) assai efficaci. Meno convincente per me (voce un po' chioccia e tendente all'urlo) Jolana Fogašová nei panni di Krista. Karl Michael Ebner è stato un simpatico Hauk e Mirko Guadagnini un buon Janek. I personaggi minori (macchinista, inserviente e cameriera) erano adeguatamente rappresentati da Roberto Abbondanza, Stefanie Iranyi e Cristina Sogmaister. Accurato - nei brevissimi interventi finali - il coro maschile di Piero Monti.

Quanto alla regìa di William Friedkin, per me ha il merito di non far danni (ed è già qualcosa!) Impostazione minimalista ma sostanzialmente fedele al libretto, a parte qualche eccesso (vedi l'entrata in scena alla Wanda Osiris di E.M.) La fotografia di Rocky Schenck serve bene all'inizio per introdurci alla onni-presenza di E.M. e, alla fine, per avvolgerla di fiamme, insieme alla formula dell'elisir.

Tirando le somme, uno spettacolo gradevolissimo e di buon livello, che ancora una volta fa onore al Maggio, che ha annunciato la stagione 2012. E al quale non resta che augurare di venire a capo dei problemi che lo affliggono. Firenze (Italia, professor Miglio!) se lo merita davvero.
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28 ottobre, 2011

Orchestraverdi – concerto n 6


Il 6° concerto de laVerdi è – cosa piuttosto inconsueta – dedicato al Jazz. Per la verità non è proprio tutto jazz, anzi… ma va bene lo stesso.

Si inizia con la suite dall'Opera da tre soldi di Weill (Brecht), per orchestra senza archi, ma con saxofoni, banjo, fisarmonica, pianoforte e batteria . Consta di 8 numeri, dei quali soltanto il 4°, la Ballata della bella vita, ha un qualche vago tratto jazzistico:

1. Ouvertüre;
2. Die Morität von Mackie Messer (n°2, Atto I);
3. Der Annstat daß-Song (n°4, Atto I);
4. Die Ballade vom angenehmen Leben (n°14, Atto II);
5. Pollys Lied (n°11a, Atto II);
6. Tango-Ballade (Zuhälterballade, n°13, Atto II);
7. Der Kanonen-Song (n°7, Atto I);
8. Dreigroschen-Finale (n°21, Atto III).

Come si vede, l'ordine non rispetta la sequenza dei brani nell'opera, ma la cosa si spiega e giustifica proprio dal punto di vista sinfonico, a cui Weill evidentemente teneva molto. 

Abbiamo poi Shostakovich, e la sua Suite per orchestra di teatro di varietà. Si tratta di una composizione di metà anni '50, spesso citata – anche nel sottotitolo della locandina del concerto - come Jazz Suite n°2. In realtà esiste una Suite n°2 per orchestra jazz, in tre movimenti, composta nel 1938 su ordinazione dell'appena creata Orchestra Jazz di Stato dell'URSS, e prima di essa, anche una Suite n°1 del 1934, op. 38°, sempre in 3 movimenti. Gli originali di queste due Suite andarono persi durante l'ultimo conflitto mondiale e solo recentemente ne sono stati recuperati gli spartiti. Quindi, fra la Suite n°2 del 1938 e la Suite eseguita in questo concerto non vi è relazione alcuna, ma solo parecchia… confusione! A cominciare dal riferimento al jazz, che in quest'ultima Suite è veramente assai labile, e limitato all'impiego in un'orchestra sinfonica classica di strumenti tipici del jazz, come i saxofoni, chitarra, pianoforte (a 4 mani) e – singolarmente – la fisarmonica. (Le due Suite del '34 e '38 viceversa sono scritte propriamente per complessi jazzistici, dove gli strumentini sono assenti e gli archi… quasi.)

Anche questo brano è composto da 8 numeri, in gran parte imprestiti da opere precedenti di Shostakovich (il pezzo più noto è il secondo walzer, n°7, reso famoso da Kubrik, che ne portò l'esecuzione di Chailly col Concertgebow nel suo Eyes wide shut):

1. Marcia;
8. Finale.

Shostakovich lascia al Direttore piena libertà di scelta nella sequenza dei numeri, e Grazioli sceglie questo ordine: 1-5-2-6-4-7-3-8, in pratica intercalando i tre movimenti di walzer agli altri. Gran successo e bis – praticamente scontato - del secondo walzer.

Dopo l'intervallo, la musica dal balletto Fancy free di Leonard Bernstein (trama e coreografie di Jerome Robbins) andato in scena il 18 aprile del 1944, in piena guerra, e poche settimane dopo che il ventiseienne Direttore era salito alla ribalta sostituendo all'ultimo minuto Bruno Walter in un concerto della NYPO. Vi sono rappresentati tre marinai in permesso, che arrivano nella grande mela e cercano… indovinate? Ne trovano un paio, ma non bastano, così i tre si sfidano fino ad azzuffarsi e le due… tagliano la corda. Passa per strada una terza gran gnocca, e i tre si danno all'inseguimento. Tutto qui, per circa mezz'ora di musica, suddivisa in 7 numeri:

1. I tre marinai;
2. Scena al bar;
3. Le due ragazze;
4. Passo a due;
5. Scena della sfida;
6. Tre variazioni di danza: Galop, Walzer, Danzon;
7. Finale.

Grazioli taglia il n°5 (che richiama tematicamente il n°1) ed è un peccato, poiché si tratta di un travolgente brano, che impegna tutta l'orchestra; invece sopperisce in qualche modo (con una voce baritonale che sembra provenire dall'aldilà…) alla musica introduttiva al balletto, che inizia con una canzone irradiata da un juke-box: si tratta di Big stuff, resa famosa dalla mitica Billie Holiday (ma cantata anche dallo stesso Bernstein, in un'incisione con la NYPO):
Il tema della canzone è ripreso però - in diversa tonalità - nel quarto brano (Pas de deux).

L'orchestra di Bernstein ha poco di jazzistico (mancano sax, banjo, xilofoni): è la classica orchestra sinfonica tardo-romantica, con pianoforte e qualche percussione esotica in più. Lo spirito del jazz si sente invece fin dalle prime battute:

Pochi mesi dopo l'esordio di Fancy Free, la sua trama (non la musica) fu riutilizzata nel musical di Broadway On the town.

Accoglienza un po' freddina, forse per via della chiusa che arriva improvvisa e imprevista. Poi però il pubblico dà il giusto riconoscimento ai ragazzi e al Direttore.

Chiude la kermesse Duke Ellington con la sua Creatura della notte, del 1956, già eseguita e incisa da laVerdi nel 1999. Comprende tre brani, di cui lo stesso Ellington spiegò il contenuto, più o meno in questi termini:


1. Blind Bug: Un insetto cieco esce fuori ogni notte per danzare, usando le sue antenne per schivare ostacoli e pericoli, per continuare il suo ballo sfrenato.

2. Stalking Monster: C'è un mostro immaginario che tutti noi temiamo di dover incontrare a mezzanotte. Quando lo incontrassimo davvero, di sicuro scopriremmo che anche lui fa il boogie-woogie.

3. Dazzling Creature: Le creature notturne, di notte, non appaiono, ma entrano in scena. Prima che la notte finisca, ciascuna di loro pensa che sarà una star. Con la loro carica erotica aspirano al riconoscimento da parte della regina, una donna splendente che regna sopra di loro. Ad un suo schioccar di dita, tutte si scatenano per mostrare la loro unicità.
Insomma, anche il Jazz è stato evidentemente contagiato dal poema sinfonico! Ma del resto Duke Ellington non esitò a cimentarsi nella direzione di importanti orchestre europee, inclusa quella della Scala, con cui il duca incise, alle 5 di un pomeriggio di febbraio del 1963, La Scala, She Too Pretty To Be Blue (lei troppo bella, per essere triste) composto alle 10 del mattino di quello stesso giorno!


In effetti l'orchestra di Night creature è l'insieme di un complesso classico, senza trombe e tromboni, integrato da un complesso jazz di sax, trombe, tromboni, pianoforte e batteria, più un contrabbasso che suona – tipico del jazz – solo in pizzicato. La tromba solista è chiamata, nel finale, ad autentici miracoli, con note in sovracuto da far scoppiar le tempie.

E siccome il successo è travolgente, la terza parte della suite viene ripetuta come bis! Una prova davvero entusiasmante che testimonia ancora una volta delle qualità della nostra orchestra.

Prossimamente si ritorna a programmi austeri, con Aldo Ceccato che si cimenterà nientemeno che col Requiem verdiano!
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