ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

31 luglio, 2011

Bayreuth: oggi e domani


Il ciclo delle 5 prime si è concluso venerdì 29 ed è già cominciata la prima tornata delle 5 repliche.

Per quanto si può giudicare dall'ascolto tecnologico, dopo il piuttosto deludente Tannhäuser di apertura abbiamo avuto un sufficiente Meistersinger, un discreto Lohengrin (bravo Vogt) un buon Parsifal, grazie a Gatti, che migliora di stagione in stagione, ma soprattutto al grandioso Youn, e un passabile Tristan (dove Robert Dean Smith non ha per nulla demeritato).

La novità 2011 era l'allestimento di Baumgarten, a confronto del quale – per quanto si legge – quello del suo modello Götz Friedrich, che fece scandalo nel 1972, diventa una sacra opera d'arte. L'ambientazione è in un impianto di riciclaggio di materiale organico, che indubitabilmente (per il regista, spero) deve aver a che fare con qualche nascosto e misterioso significato dell'opera. A me fa venire in mente una vecchia barzelletta stupida, dove si descrive una macchina super-tecnologica che trasforma la merda in burro. Il giorno dell'inaugurazione dello stabilimento, al ministro che ha tagliato nastri e fatto discorsi epocali viene offerta una fetta di pane spalmata del portentoso burro. Eccellente! esclama costui… peccato per quel retrogusto di merda!

Il 14 si potrà vedere su ARTE (ore 17:15) una quasi-diretta del Lohengrin di Neuenfels (per quello di Wagner bisognerà aspettare ancora, smile!) Intendiamoci, Neuenfels non è un Baumgarten qualunque e dal suo cervello escono quasi sempre delle cose super-cazzute. Il suo Konzept – la società umana assimilata nei suoi comportamenti a colonie di ratti - è qualcosa di assolutamente coerente e profondo; in più, con pochi ritocchi, potrebbe essere impiegato - guarda caso - anche per Tannhäuser, ovviamente per Parsifal e magari anche per Turandot (quella con il finale di Berio, però…)

A proposito di regìe, le due cugine (così insiste a definirle l'anagrafe di Radio3) che guidano il baraccone hanno quasi l'acqua alla gola riguardo il Ring del bicentenario: mancano meno di 2 anni e ancora non c'è il regista! Così, dopo il recente clamoroso rifiuto di Wim Wenders, le poverette (soprattutto Kathi, che è esperta in materia) pare non abbiano trovato di meglio che ingaggiare Frank Castorf, un ex-DDR ammiratore di Stalin che è famoso per trasformare grandi opere teatrali in pezzi di commedia dell'arte, dove gli attori sulla scena inventano al momento ciò che debbono fare e recitare, fregandosene altamente dell'originale: parrebbe precisamente ciò che serve per la Tetralogia! Oppure chissà se vedremo Wotan nei panni di Hitler e Alberich in quelli di Stalin… O magari un Ring ambientato in medioriente, con Wotan=Nasser, Alberich=BenGurion, Siegfried=Arafat e Gutrune… Golda Meir (smile!)

A proposito di Palestina, c'è una notizia che invece parrebbe confortante: la Israel Chamber Orchestra (guidata da Roberto Paternostro) ha dato un concerto nell'auditorium di Bayreuth, suonando musiche di Wagner e di autori ebrei. Senza aspettare, come reclama l'ambiguo Gottfried, pronipote di Richard, che si aprano completamente gli archivi di Wahnfried per scoprirvi... l'acqua calda.   
--

25 luglio, 2011

Bayreuth al via


In realtà, una falsa partenza.

Direzione approssimativa e fredda, Tannhäuser in evidente affanno (nonostante un paio di abbuoni ricevuti nei primi due atti) e Venere semplicemente ridicola, proprio da Corrida. Appena sufficiente Elisabeth, passabile il Langravio e discreto Wolfram. Ed era la versione di Dresda… Un po' pochino, effettivamente.

E la regìa? Buh.

Le cugine (stando a Radio3) sono servite.
--

18 luglio, 2011

Bayreuth (festival) compie 100 anni


Il prossimo lunedi 25 luglio si apre la centesima edizione del Festival di Bayreuth. Come pure la prossima, sarà priva di Ring, in attesa del grande evento (?!) del bicentenario nel 2013.

Ad inaugurarla sarà l'opera meno eseguita lassù: Tannhäuser, che prima delle 6 di quest'anno ha contato soltanto 196 rappresentazioni. Si avvicinerà quindi all'Holländer, che ne ha 203 e che dovrebbe tornare nel 2012 (con Thielemann, si dice). Probabilmente a chiamare il pubblico a prender posto in sala saranno queste note dei corni:

 
Nonostante sia stato costruito per la Tetralogia, il Festspielhaus l'ha poi ospitata per 212 volte (più qualche giornata isolata) mentre il record di rappresentazioni è largamente detenuto da Parsifal (507, escluso il 2011) che precede Meistersinger (301).


Le date di esordio a Bayreuth dei drammi wagneriani, dopo l'apertura del Ring nel 1876, sono state: 1882 Parsifal, 1886 Tristan, 1888 Meistersinger, 1891 Tannhäuser, 1894 Lohengrin e infine 1901 Holländer. È ora aperto il dibattito sull'opportunità di rappresentare anche le tre opere giovanili di Wagner, in primo luogo Rienzi: la biondissima Kathi, co-reggitrice del Festival con la sorellastra Eva, ha più volte lasciato balenare questa idea e si è anche personalmente preparata, firmando (fuori da Bayreuth) la regìa del grand-opéra del bisnonno.

Quanto alla Direzione del Festival, rimase nelle mani del fondatore fino al 1882; morto Richard, passò alla terribile Cosima, che per i primi due anni (1883-1884) si limitò a ripresentare Parsifal secondo le direttive del (secondo) marito; poi, dal 1886 prese in mano le redini organizzative e diede vita a quella lunga stagione (chiusasi di fatto in piena seconda guerra mondiale) che portò Bayreuth - attraverso le direzioni del figlio Siegfried (1908-1930) e della di lui moglie Winifred (1931-1944) - al massimo splendore e contemporaneamente alla massima onta (la collusione con Hitler e il nazismo). Festival riaperto nel 1951 con alla testa i fratelli Wieland e Wolfgang (figli di Siegfried, e per nulla immuni dal nazi-virus) che lo condussero insieme fino al 1966, anno in cui Wieland tirò le cuoia, lasciando tutto il potere a Wolfgang, che lo ha detenuto (in realtà coadiuvato e ultimamente di fatto sostituito dalla seconda moglie Gudrun) fino al 2008. Poi il testimone è passato alle figlie di Wolfgang: Eva, avuta dalla prima moglie, e Kathi, dalla seconda, che sono quindi alla terza stagione di direzione. Il tutto in barba al (teorico) principio secondo cui – essendo oggi la Fondazione del Festival di diritto pubblico e non privato – chiunque, e non solo discendenti più o meno indegni del maestro, sarebbero intitolati a comandare il baraccone.

Fuori dai giochi sono rimasti, fra gli altri, Gottfried, figlio di Wolfgang, che dopo aver operato a fianco del padre per qualche anno (fu anche membro del team che rappresentò il controverso Ring del centenario, con Boulez-Chéreau, nel 1976) ha rotto tutti i ponti con Bayreuth diventando un feroce accusatore dei trascorsi nazi della famiglia, e Nike, figlia di Wieland, che contese nel 2008 alle cugine il posto di direttrice del Festival e che da allora non perde occasione per criticarle aspramente. Quest'anno le motivazioni dei suoi attacchi alla coppia Eva-Kathi riguardano la contrarietà di queste ultime ad ospitare al Festspielhaus il 22 ottobre una commemorazione per i 200 anni dalla nascita di Franz Liszt (gran benefattore di Wagner e pure suo suocero…) e per aver snobbato del tutto un'altra ricorrenza, i 60 anni dalla riapertura del Festival dopo la guerra, pur di non dar risalto ai grandi meriti di suo padre Wieland.

Veniamo ai Kapellmeister. A dispetto di tutta la retorica sull'antisemitismo di Wagner e dei suoi discendenti e bidelli, è un ebreo a detenere il record di podi giù nell'Orchestergraben del Festspielhaus: Daniel Barenboim lo ha infatti calcato per ben 161 volte, dal 1981 al 1999). Lo seguono il compianto Horst Stein (138 podi, da 1969 al 1986) e Peter Schneider, che dal 1981 ha totalizzato 130 podi e che dirigerà anche quest'anno (6 Tristan) portandosi quindi vicinissimo a Stein. Poi vengono James Levine (117) e l'attuale direttore musicale de-facto del Festival, Christian Thielmann (111). Cinque gli italiani che hanno avuto l'onore di dirigere lassù: Toscanini (18), de Sabata (6), Erede (7), Sinopoli (94) e Gatti (presente anche quest'anno con Parsifal, e che salirà a quota 23). Fabio Luisi, scritturato per un Tannhäuser del 2007, dovette invece rinunciare per problemi di salute. Fra i grandi nomi di oggi che non hanno mai messo piede sulla collina verde: Zubin Mehta, Georges Prêtre, Claudio Abbado, Seiji Ozawa, Simon Rattle, Riccardo Muti, Will Humburg, Semyon Bychkov, Valery Gergiev, Kent Nagano, Esa-Pekka Salonen, Mariss Jansons… e mi perdonino altri pur meritevoli. Dopo Andris Nelsons nel 2010, anche quest'anno ci sarà un esordiente: Thomas Hengelbrock, proprio nel Tannhäuser inaugurale.

In mancanza di specifiche comunicazioni in proposito, sarebbe da assumere che la versione di Tannhäuser che verrà messa in scena (con la regìa dell’altro esordiente Sebastian Baumgarten) sia quella mista (Dresda-Parigi) a suo tempo proposta dal grande Wieland. Anche il protagonista è un esordiente (a 53 anni!): il carneade svedese Lars Cleveman (ma, come diceva un gran maestro: non è mai troppo tardi!)

Da lunedì 25 a venerdì 29 luglio, sempre alle ore 16, verrà rappresentato il primo ciclo delle 5 opere in programma. L’ascolto radiofonico sarà garantito da Radio3 (escluso però il Tristan del 29) e da molte altre stazioni e web-radio europee. Il 14 agosto ARTE trasmetterà in video la quarta rappresentazione del Lohengratt. 

---

16 luglio, 2011

Ultima di Attila alla Scala


Ieri sera ultima levata di sipario alla Scala prima della chiusura estiva, con Attila, nell'edizione dell'accoppiata Luisotti-Lavia. Teatro non proprio esaurito, ma perlomeno non così penosamente semivuoto, come lunedi scorso per l'Italiana.
___

Su Attila se ne leggono di tutte. Opera del Verdi giovane e ancora immaturo (dopo Nabucco?) Del Verdi bandistico (ma non rinunciò proprio qui alla banda?) Del Verdi polacco (zumpara-pappa-pappa). Opera dalle vocalità impossibili. E così via ridimensionando. Certo, anche il Wagner del Lohengrin non è quello del Parsifal (toh!) e allora dovremmo bruciare quelle partiture giovanili e conservare solo Otello e Parsifal? No, grazie, dateci pure Attila e Lohengrin a colazione, pranzo e cena. Otello e Parsifal solo a Natale e Pasqua, dopo adeguati Avventi e Quaresime.

Insomma, sarà anche immatura, primitiva e pure barbara (smile!) ma personalmente trovo Attila un'opera musicalmente entusiasmante: a dispetto della struttura ancora tradizionale, a numeri, non lascia cadere la tensione nemmeno per un attimo; essenziale, concisa, mai prolissa. Sì, ci sono per lo più scene eroiche (con relativi fracassi e retorica) con frequenti irruzioni di cori a tutta forza, come nella cabaletta di Foresto in chiusura del prologo:
C'è tanta enfasi, come nell'attacco della cabaletta di Attila Oltre quel limite, con il suo inconfondibile (e tanto bistrattato, dai detrattori) ritmo di polacca, già comparso nella cabaletta iniziale di Odabella e che ritroveremo con Ezio, nell'Atto II:

Non parliamo poi del concertato del Finale II, con solisti, coro e tutti gli strumenti in ff, in un'autentica orgia sonora.

Ma vi troviamo anche scene liriche, dove emergono i sentimenti e gli stati d'animo, le superstizioni e la fede. O dove protagonista è la Natura, come nel sorgere del sole sulla laguna (per il quale Verdi trasse ispirazione da Le Désert di David) evocato con grande parsimonia di mezzi: un solo flauto e i violini primi, cui si aggiungono il secondo flauto e i violini secondi, poi un oboe, quindi le viole (sempre sottovoce) poi i violoncelli e un clarinetto, quindi un corno e infine i fagotti, in un lento ma continuo ispessimento del suono che bene rende il progressivo irrompere della luce sulle calme acque di Rio Alto:
fino all'esplodere del DO maggiore che sostiene il canto – L'alito del mattin – degli eremiti. E come non restare ammirati dalla semplicità disarmante del motivo in LAb - quattro misure, ripetute tre volte - che introduce ed accompagna l'accorato Non involarti, seguimi di Attila, all'inizio del quartetto conclusivo:
Insomma, in Attila ci sarà magari poca cerebralità, ma in compenso c'è vena genuina in grande abbondanza.
___

Sulla plausibilità del libretto e sull'aderenza dello stesso (e della relativa fonte di Zacharias Werner) ai fatti storici sarebbe eccessivo pretendere troppo: al servizio del dramma e ad uso e consumo del pubblico italico di metà '800, le vicende storiche di Attila vennero assai manipolate, attingendo ampiamente (ed anche con libere storpiature) ad antiche saghe e leggende.

Intanto è storicamente assodato che l'Unno mai e poi mai arrivò nei paraggi di Roma, come vuole il libretto (e come già aveva fantasiosamente dipinto Raffaello in Vaticano, cui Verdi si ispirò): in realtà, nella sua spedizione contro la capitale dell'Impero non attraversò neanche il Po, fermandosi a Governolo, in quel di Mantova. Sì, perché dopo aver raso al suolo Aquileia, Attila aveva continuato invece a spostarsi da est a ovest, porgendo visite di cortesia a Padova, Vicenza, Verona, Brescia, Bergamo e finalmente a Milano. In pratica tracciando con ferro&fuoco il percorso originale dell'autostrada Attila-IV (oggi: A4, smile!) E a Governolo, dopo l'incontro con Papa Leone, avrebbe deciso di rinunciare. E questo è ciò che si riscontra effettivamente anche nel libretto dell'opera fino alla fine dell'Atto I. Poi, miracolosamente, nell'Atto II troviamo Attila alle porte di Roma: potenza delle leggende e delle incongruenze dei libretti d'opera!

Nella realtà storica, convinto dalla minacciosa autorità di Papa Leone - ormai la Chiesa era divenuta più importante e potente dell'Impero (primato che detiene tuttora, smile!) - ma anche dai suoi propri luogotenenti e dallo stato penoso in cui versava la truppa - fatta di gente abituata a mangiar radici selvatiche e pezzi di carne pressata fra le proprie chiappe e il dorso dei cavalli che montava, e a cui la dieta mediterranea (Oh lauta mensa, che a noi sì ricco suol dispensa) giocava brutti scherzetti – il nostro decise di tornarsene a casina, laggiù in Pannonia (non prima però di aver fatto qualche razzìa su dalle parti di Augsburg). E fu a casa propria che, sposatosi per l'ennesima volta – tanto per consolarsi della momentanea rinuncia al Campidoglio – ci lasciò le penne, soffocato dal suo stesso sangue, sgorgatogli dal naso durante il pesante sonno provocato dalle abbondanti libagioni seguite al matrimonio.

I dietrologi – prevedendone saggiamente l'impiego nel melodramma verdiano, smile! - hanno poi inventato la storia dell'assassinio di Attila da parte della neo-moglie, una discendente dei Burgundi che si volle vendicare della strage del suo popolo perpetrata dagli Unni (su comando di Roma, guarda un po'!) E questa leggenda ha trovato posto, nei secoli successivi, in diverse saghe nordiche e germaniche. Una per tutte, la Völsunga Saga (che ispirò, per altri aspetti, anche Wagner): vi si legge che Gudrun, moglie di Attila (Atli, o anche Etzel o Eceln nel Nibelungenlied) decide di vendicare la strage che il marito ha fatto dei suoi parenti, in questo modo: ammazza i due figli avuti dall'Unno, ne cucina i cuori allo spiedo, mescola il loro sangue al vino, e poi serve il tutto in tavola al marito. Quando costui chiede dove siano finiti i ragazzini, lei lo informa, con la massima naturalezza, che lui stesso se li è appena mangiati e bevuti! La notte successiva, la simpatica mogliettina completa l'opera passando Attila da parte a parte, con la di lui spada.

Beh ecco, diciamo che Werner e poi Solera&Piave ci hanno meritoriamente risparmiato buona parte di questi eccessi orripilanti, tuttavia anche il disegno dell'italica Odabella (contendere all'amato Foresto l'onere e l'onore di far secco il flagello, correndo persino il rischio di mandare a meretrici tutto il piano faticosamente messo a punto dal medesimo Foresto con l'appoggio dell'ambiguo generale Flavio Ezio e dell'inaffidabile Uldino) appare sufficientemente contorto e persino più inverosimile di quello della sua parigrado burgunda. Per nostra fortuna a musicare questo polpettone fu tale Verdi, uno capace di cavar sangue (smile!) anche dalle rape.

A proposito di Odabella, la sua figura è solitamente avvicinata a quella di Abigaille. A me piace vederci anche un'anticipazione della Hélene dei Vêpres: analoghe le motivazioni alla vendetta nei confronti di un tiranno e musicalmente vicine anche le rispettive arie di esordio:
(Poi le sorti delle due eroine tenderanno a divergere assai).

In Attila compare – per la verità abbastanza di sfuggita e in modo superficiale, con qualche accenno a Wodan – anche il conflitto fra le ataviche religioni nordico-levantine e il Cristianesimo. Guarda caso, più o meno in quegli stessi anni, Wagner componeva Lohengrin, dove quel conflitto esplode invece in modo drammatico, e musicalmente straordinario, per tramite della straripante personalità di Ortrud.

Quanto ai presunti risvolti patriottico-risorgimentali del contenuto di Attila, varrà solo la pena di constatare come i personaggi di maggior peso politico che si oppongono all'invasore siano: un Papa (!) e un generale doppiogiochista (!!) I poveri Odabella e Foresto tutt'al più potranno incarnare il naturale risentimento popolare verso gli eccessi delle orde barbariche. In compenso, è proprio il condottiero barbaro il personaggio dell'opera che possiede e mostra la statura morale più alta e una indiscutibile nobiltà d'animo…
___

E come ce l'hanno propinato, Lavia-Luisotti, questo capolavoro?

Gabriele Lavia – da velleitario esponente del Regietheater – si inventa un suo Konzept dell'opera: la barbarie permanente, o ricorrente. E lo rappresenta in tre scenari diversi, accomunati dalla presenza di teatri distrutti. Secondo lui, dalla barbarie, appunto, che si accanirebbe contro i luoghi in cui si racconta l'Uomo (così scrive sul programma di sala). Per il regista, l'Attila (quello di Verdi, si badi bene, perché è questa l'opera che lui deve mettere in scena!) incarna il Mito dell'oppressione, il Mito della privazione della Libertà, il Mito della fine della Verità di cui la Libertà è l'Essenza. Attila è la "Barbarie". Ora, come si possa conciliare questa vision con la trama e i contenuti del libretto e soprattutto della musica di Verdi, è un mistero che solo Lavia deve conoscere, beato lui! A noi, poveri pirla, non resta che fare un atto di fede nella sua superiore chiaroveggenza.

Peraltro pare che il nostro predichi male e razzoli… quasi bene: del suo Konzept restano solo le scene di teatri diroccati, mentre i personaggi escono abbastanza coerentemente con libretto e musica. Rivestiti peraltro da costumi bizzarri, tutta roba chiodata, da metallari, coperta dagli immancabili cappottoni DDR. Resta da dire di un dettaglio quasi comico nella scena del tentato avvelenamento di Attila, sventato da Odabella: già è al limite dell'assurdo nel libretto, ma Lavia fa ancor di meglio. Dunque: Odabella regge la coppa di vino destinata ad Attila; Foresto, sotto i suoi occhi, ci versa il contenuto della fiala col veleno; Uldino, lì accanto, prende la coppa e la reca al suo capo; dopodiché Odabella avverte Attila del pericolo. Una cosa semplicemente grottesca.

E veniamo quindi alla musica. Luisotti non fa sconti in fattura su enfasi e bordate di ff (che per Verdi, ligio alle convenzioni, significava il più forte possibile… solo i tardo-romantici inventeranno i fff e ffff); però sa anche dosare con discreta efficacia gli ingredienti più intimistici e lirici della partitura. Da incorniciare l'alba di Rio Alto, ben assecondata anche dalle luci. In un paio di occasioni invece si fa prendere la mano (o vuol proprio strafare): il Cara patria di Foresto inizia in Allegro assai moderato, poi sul verso ma dall'alghe di questi marosi si dovrebbe fare Poco animato, indi stringendo poco a poco; invece Luisotti passa di colpo e direttamente dall'Allegro assai moderato ad un Prestissimo degno del miglior Cipollini… Stessa solfa nel travolgente Finale II, dove si dovrebbe partire da un Allegro e poi passare a un Più animato e infine ad un Più mosso; il maestro invece salta tutti i passi intermedi e si butta a capofitto in un Allegro con fuoco tanto impressionante e strappa-applausi, quanto gratuito. Ma insomma, una direzione nel complesso accettabile, e ben supportata da un'orchestra compatta, che garantisce a Luisotti un gran trionfo finale.

Orlin Anastassov (che viene più o meno dai paraggi di Attila) ha dato forfait (voci maligne attribuiscono la defezione ad un improvviso invito ad una festa in suo onore da parte di una certa Ildegonda, smile!) ed essendo indisponibile anche il vice (Pertusi) lo ha sostituito sui due piedi Enrico Iori, non nuovo per la verità a cantare il flagello. Datosi che probabilmente avrà avuto solo il tempo di scambiare quattro chiacchiere col maestro prima di entrare in scena, la sua prestazione la giudicherei più che sufficiente, e così l'ha pensata anche il pubblico.

Marco Vratogna era lo sbifido Ezio. Che però non dovrebbe cantare in modo sbifido… Comunque è rientrato nel generale livello di passabile mediocrità: per lui qualche applauso dopo il duetto iniziale con Iori, accoglienza fredda all’aria dell’Atto II e però applausi alla fine.

Elena Pankratova come Odabella non mi è dispiaciuta: più efficace nell'esordio eroico (applaudito) che nell'aria dell'Atto I, che forse le è costata (immeritatamente, per me) quegli unici buh che si sono uditi alla fine dalla seconda galleria.

Fabio Sartori è stato un Foresto abbastanza dignitoso, sempre in controllo e mai (apparentemente almeno) in difficoltà. Anche per lui buon gradimento di pubblico.

Gianluca Floris come Uldino aveva pochi versi da cantare solo, più che altro da contribuire a vari cori e concertati, e ciò ha fatto passabilmente bene.

Ernesto Panariello impersonava Leone. Il quale ha da cantare da solo 4 versi, 16 battute in tutto, poi si mescola al coro del Finale I. Però in quelle poche battute dovrebbe mettere (tonante, recita la didascalìa) tanta paura addosso al flagello, da convincerlo a rinunciare all'impresa. Ma dato che per i librettisti Attila non rinuncerà affatto, mi pare del tutto logico (smile!) che l'intervento del Papa-Panariello sia stato quanto di più fiacco e improduttivo si potesse immaginare… Il pubblico però gli è stato grato di non aver fatto finire l'Opera a metà (ari-smile!)

I coristi (adulti e bianchi) della Scala devono proprio stare sui coglioni agli estensori delle locandine web del Teatro: non parvenu. Quindi, un doppio bravi! a loro e al loro condottiero Casoni.

In conclusione: a parte l'isolata contestazione alla cicciottella Pankratova, buon successo, segno che il pubblico ha gradito (quanto e quanti spettatori poi abbiano una minima conoscenza dell'originale è oggigiorno questione non secondaria, ma… quaternaria). Prosit e – per quanto mi riguarda – looking forward to PesaROF!
---

12 luglio, 2011

L’Italiana in Algeri alla Scala



Ieri sera, in un Piermarini desolatamente semideserto, terz'ultima recita dell'Italiana, con il primo cast (minimamente rinforzato) degli artisti dell'Accademia.

Il quasi quarantenne allestimento del grande Jean-Pierre Ponnelle (ripreso da Lorenza Cantini) sta lì a dimostrare come le cose fatte con serietà, misura ed intelligenza non temano il logorìo del tempo e mantengano intatta tutta la loro freschezza e godibilità. Ma l'opera non è solo regìa, è soprattutto musica e interpreti: pretendere che il pubblico spenda - per un posto di platea e palco ad una recita di fine anno di una pur rispettabile scuola - la stessa cifra che spende per la Walküre inaugurale è cosa bizzarra non solo rispetto alle leggi del mercato, ma anche a quelle dell'arte. E così soltanto le gallerie avevano un aspetto vagamente normale: per il resto, occupazione posti sotto il 50%, a occhio e croce.
___

Che Rossini rappresenti uno snodo fondamentale nello sviluppo della musica dell'intero '800 non è certo una novità, ma sempre si resta sorpresi nello scoprire i sotterranei legami che uniscono compositori e relative opere. Ecco, nell'Italiana troviamo tracce del passato e anticipazioni del futuro. Come non riconoscere il magico flauto di Papageno nell'inciso che compare già all'inizio della prima scena?
 

E il coro Viva il grande Kaimakan, non cita quasi alla lettera l'epinicio che chiude il Ratto?

E questi non sono che due dei tanti tributi di Rossini al grande Teofilo. Ma poi come non scorgere, nell'Introduzione al secondo atto, il motivo dell'Allegro marziale che ritroveremo in Norma?

E qualcosa del Finale II dell'Italiana sembrerebbe essere rimasto in testa persino al Brahms dell'ultimo tempo della sua prima Serenade:

Sappiamo poi che tracce di Rossini si trovano anche in Wagner, a testimonianza di un fil rouge che percorre un intero secolo di musica...
___

Bene, come ci hanno propinato questo capolavoro Allemandi&C?

Il Direttore ha tenuto insieme l'Orchestrina con sufficiente autorità, staccando tempi appropriati (anche se nei due concertati finali ha un po' frenato, forse per timore di conseguenze sul palcoscenico). I ragazzi se la sono cavata dignitosamente, inclusi i corni, ripresisi bene dopo un non felicissimo esordio.

Quanto alle voci, i fuori-quota Pertusi e Taormina si son distinti assai più sul fronte macchiettistico che su quello canoro: Pappataci e Kaimakan dovrebbero far ridere sì, ma cantando sempre, non vociando o sghignazzando spesso e volentieri. Meglio han fatto i due negretti (Yende e Brownlee) che se la sono cavata discretamente, esibendo anche i loro DO e SI acuti con sicurezza. Tornatore e Polinelli (quast'ultimo più impegnato sul piano atletico, che su quello canoro) hanno sostenuto le loro parti di contorno con apprezzabile impegno. Chi (mi) ha in parte deluso è la ex-scolara Rachvelishvili: ha un vocione impressionante, che emerge però quasi esclusivamente negli acuti; per il resto… un ritorno in Accademia forse le farebbe bene (che ne dici, Daniel?) Bravi invece i ragazzi del Coro di Caiani (che la locandina online del teatro ignora sciaguratamente).

Comunque lo scarso pubblico ha mostrato di gradire, tributando applausi a scena aperta e all'uscita finale a tutti. Ma – ripeto – a far cilecca (e siamo proprio nel bel mezzo di bufere dei rating) è stato il price/performance.
---

27 giugno, 2011

Oro a 18 carati alla Fenice


Invece di aprirci la Tetralogia, alla Fenice di Venezia (ma non sono né i primi, né gli unici) usano Das Rheingold per chiuderla, e anche questo è un segno dei tempi. O forse qualcuno ha sposato l'idea di chi sostiene che alla fine di Götterdämmerung si torna alla casella zero del gioco dell'oca, e quindi tanto valeva passarci direttamente in chiusura di ciclo…

Per la verità, quando le giornate del Ring sono presentate a distanza di anni – invece che di giorni – l'ordine di apparizione è del tutto indifferente. E certo lo stesso Wagner, che concepì la sua Tetralogia ben prima di avere un teatro tutto suo (dove rappresentarla in 5-6 giorni al massimo) pensò bene di strutturare ciascuno dei quattro drammi in modo da poter essere eseguito singolarmente, come qualunque altra Opera tradizionale.

Comunque, a completare il fosco quadro fenicio ci si sono poi messi i tagli del FUS, che hanno consigliato-imposto l'esecuzione in forma di concerto (ma Carsen qualche penale la vorrà pur riscuotere, oppure farà il signore e si limiterà a diffondere un proclama politico?) Chissà se sia questa la ragione principale che ha tenuto molta gente lontana dal teatro (sentita in galleria: mia moglie non è venuta perché oggi non ci sono le coreografie…) Oppure, dopo Wagner, a Venezia è morta pure la sua arte? Oppure ancora: a far salire a livelli scandalosi il numero di posti deserti ha contribuito anche l'inopinata defezione di Jeffrey Tate – papà musicale di questo Ring veneziano - che per ragioni di salute ha dovuto cedere il posto a Lothar Zagrosek? Il quale è un 69enne non proprio celebre Kapellmeister che magari non passa per un super-specialista di Wagner (anche se ha inciso un Ring con la Stuttgart Staatsoper, ma per un direttore tedesco questo deve essere come l'esame di ammissione alle medie, smile!)

La mancanza di scene, costumi e movimenti – fra mille contro - ha comunque almeno un indubbio pro: consente, per non dire costringe lo spettatore a concentrarsi su testo e musica, senza distrazioni di sorta, che spesso e volentieri (e anche Carsen non è sempre esente da colpe in proposito, diciamolo pure) vengono indotte da regìe pazzoidi o dissacranti.

Orchestra un pochino sottodimensionata rispetto alle velleitarie indicazioni di Wagner: negli archi (non li ho contati, ma mi son parsi meno di 64!) e nelle arpe (solo quattro, invece delle 6-7 prescritte dal megalomane di Lipsia, che immagino non si trovino in tutta Venezia…) Delle 18 incudini (!) poi si sono sentiti soltanto alcuni lontani rumorini, che parevano prodotti da un paio di triangoli, non di più… I cantanti entravano sul palco in prossimità delle rispettive esibizioni, per poi allontanarsi (e magari tornare più avanti…) Qualche vago gesto per mimare le situazioni più topiche (ad esempio: Alberich trasformatosi in rospo ed acchiappato da Wotan, Fafner che ammazza Fasolt con un paio di finti cazzottoni, e cose simili) per ricordarci che non ascoltavamo una sinfonia di Mahler, ma un dramma di Wagner. Più di così, francamente il FUS oggi non consente (cry!)

In ordine di apparizione. Zagrosek ha iniziato con un Preludio – per i miei gusti – un tantino accelerato: come fosse un FFW di alcune ere geologiche. Poi mi è parso rispettare abbastanza onestamente i tempi e dosare sufficientemente bene le sonorità. Non male la chiusa, dove ha trattenuto l'orchestra nella prima esposizione del ponte, per scatenarne tutta la possanza nella seconda e definitiva. Teniamo conto a sua scusante che non deve avere avuto secoli di tempo per affiatarsi al meglio con l'orchestra.

Delle tre Rheintöchter la Woglinde di Eva Oltivànyi mi è parsa la meglio in… onda (smile!) seguita dalla Flosshilde della Annette Jahns e dalla Wellgunde della Stefanie Irànyi (meno penetrante).

Richard Paul Fink nei panni di Alberich è stato l'autentico mattatore del pomeriggio: gran voce e soprattutto perfetto calarsi nei panni del personaggio più tosto dell'intera Tetralogia. Memorabile la sua maledizione!

Wotan era Geeer Grimsley: francamente non mi è molto piaciuto; voce potente ma difficoltà continua a trovare l'intonazione (sulle note alte) e tendenza all'ingolamento. Ha fatto poi un dio abbastanza monocorde, mentre sappiamo che Wotan ha una personalità zeppa di complessi e di manìe.

Bene la Natascha Petrinsky nel porgere la petulanza di quella noiosa megera che risponde al nome di Fricka. Ed altrettanto direi della sorellina Freia, di cui Nicola Beller Carbone ha saputo ben interpretare la parte della donna-oggetto-simbolo (una di quelle che secondo Bracardi c'ha 'n cervelo de galina…)

Che dire dei due Giganti? A me è parso che Gidon Saks (Fasolt) e Attila Jun (Fafner) si siano scambiati i ruoli. Fasolt è il gigante buono, dall'animo mite e dall'approccio accomodante; e poi è proprio innamorato cotto di Freia! Invece Fafner è un bruto che pensa solo alla roba (materiale o umana, poco gli importa) da possedere, mettendola sotto il materasso. Orbene, mentre Jun ha esibito una voce onesta e ben impostata, Saks non ha fatto altro che schiamazzi, con un vocione tanto forte quanto ingolato: piuttosto male, sia come canto che come immedesimazione nel personaggio.

I due dèi minori erano Ladislav Elgr (Froh) e Stephan Genz (Donner). Il primo ha mostrato una bella voce, adatta al ruolo (di un effeminato?) anche se poco penetrante: deve soprattutto cantare la sua arietta (Wie liebliche Luft) e lo fa assai dignitosamente. Non altrettanto posso dire di Genz, abbastanza anonimo e meno efficace nel suo Hedà, Hedò.

Altro personaggio chiave è Loge. Qui Marlin Miller si è ben portato (con Fink, di certo il migliore della compagnia): voce assai appropriata al ruolo del guizzante, scottante e strafottente tipaccio. Peccato che gli scarseggino un tantino i decibel.

Mime era Kurt Azesberger. Prestazione più che dignitosa la sua, nei panni di un nano (non nel fisico, lui alto e allampanato!) frustrato e bistrattato, che ha una parte con più guaìti che canto.

Ceri Williams è comparsa verso la fine (Erda) ad ammonire Wotan: già la sua stazza è consona al personaggio e ieri poi indossava un lungo scarlatto che ne ha ingrossato (smile!) la presenza in scena. Quanto alla sostanza (il canto) direi più che discreta, anche se personalmente preferisco una voce ancora più cupa e… cavernosa.

Resta da dire dell'Orchestra: Rheingold non è certo Tristan e per sua natura ha un contenuto, come dire, primitivo e facile (almeno apparentemente). La prestazione dei fenici mi è parsa tutto sommato encomiabile. Spendo un applauso speciale (in quota rosa) per Eleonora Zanella, che dalla campana della sua tromba ha splendidamente sfoderato la Spada!

 

Il pubblico presente ha compensato i vuoti in sala moltiplicando gli applausi e le grida all’indirizzo di tutti. Fuori, la Venezia di sempre, invasa da ogni esemplare – anche il più raro – di fauna umana.
---

24 giugno, 2011

Alla scala Capuleti e Montecchi secondo Gounod



Ieri sera ultima rappresentazione alla Scala del capolavoro di Charles Gounod, che vi mancava da pochissimo tempo (in fin dei conti, cosa volete che siano 77 anni, in confronto all'eternità?)

Come è capitato in altri casi, anche Roméo et Juliette ha subìto vicissitudini più o meno tormentate, a fronte delle quali esistono diverse versioni dell'opera, oltre ai soliti tagli storicamente praticati con l'approvazione, o la tolleranza, dell'Autore. Cosa che dà modo a registi e direttori di inventarsi ogni volta una nuova presentazione. In questo caso è stata presa come base la versione del 1888 (che Gounod approntò per l'esordio all'Opéra) alla quale sono stati apportati alcuni tagli, sia tradizionali (balletti) che non; in compenso riaprendone altri. Insomma, non siamo proprio in una situazione caotica tipo Boris, ma poco ci manca.

Un primo taglio è nel finale I, la proposta di Tybalt di inseguire i rivali, l'altolà di Capulet e il coro che inneggia alla festa: francamente è un taglio quasi usuale e non ci priva né di grande musica, né di pathos drammatico. Poi è accorciato il duetto del finale II (dove Juliette vorrebbe Roméo legato con un filo di seta, come un uccellino che un bambino riporta a sé quando si allontana troppo). Effettivamente questo scorcio si porta dietro anche ripetizioni (eccessive?) di cose già dette e ripetute, ma il taglio pare effettivamente ingiustificato e oltretutto mai accettato di buon grado dall'Autore. Poi ancora nel quartetto dell'atto IV sono tagliate 16 battute (4 versi) cantate da Capulet (L'autel est préparé): taglio davvero cervellotico, non fosse che per la dimensione esigua (di tagli del genere se ne potrebbero fare allora decine e decine). Sempre nell'atto IV è tagliata gran parte della cerimonia nuziale: nulla da dire per quanto riguarda i balletti (sappiamo fossero un immancabile quanto insensato debito alle regole del GrandOpéra) però i tagli del corteo nuziale e dell'Epithalame paiono meno giustificati (anche se non nuovi, ovviamente). Infine nell'atto V sono tagliati l'Entr'acte e la scena fra Laurent e Jean: probabilmente il secondo taglio (più che ammissibile, chè il breve scambio di parole fra i due frati ci dovrebbe solo rendere edotti del fatto che Roméo non conosce lo stratagemma della finta morte di Juliette, cosa che però ci verrà da lui stesso chiarita in seguito) ha imposto anche quello dell'Entr'acte, per evitare la concatenazione con un secondo preludio, qual è in effetti il successivo Sommeil de Juliette, con cui quindi si apre l'atto in questa produzione. Invece è stato – giustamente, perché grande musica – eseguito Amour, ranime mon courage dell'atto IV, che Gounod fece tagliare addirittura alla prima del 1867 e per molti e molti anni non fu eseguito.
-
Dalle circa tre ore (nette) di musica dell'originale siamo quindi passati a poco più di 2 ore e mezza e ciò ha consigliato di proporre i cinque atti in due soli spezzoni, con un unico intervallo. Posto in corrispondenza della cesura fra i due quadri del terzo atto, cioè dopo il matrimonio segreto e prima della rissa fra le due tifoserie. Scelta tutto sommato condivisibile, dato che in pratica crea uno spartiacque fra il versante ascendente del dramma (l'amore che nasce, si consolida e si concretizza in uno scenario di un promettente futuro) e quello discendente (gli omicidi, la condanna di Roméo, il patetico-pazzesco stratagemma di Laurent e il precipitare verso la tragica-nobile fine dei due amanti).
-
La regìa di Bartlett Sher è piuttosto tradizionalista nell'ambientazione (del resto di versioni del dramma portate ai giorni nostri ce n'è anche di autentiche e originali, con tanto di parole e musica appositamente composte, vedi West Side Story… per giustificare allestimenti in chiave contemporanea) ma abbastanza gradevole nel complesso, pur con qualche trovata fra il velleitario e il gratuito: come la scena di stupro durante il prologo, oppure i petardi che scoppiano addosso a Juliette al suo ingresso o alcuni gesti immotivatamente bruschi (Tybalt con Juliette e Gertrude con Tybalt). Poi nel duello Roméo-Tybalt casca dall'alto un enorme lenzuolo bianco, che scopriremo solo più tardi servire da maxi-copriletto per il maxi-letto di Juliette e poi ancora come strascico dell'abito nuziale della protagonista. A proposito del duello, anziché con la spada, Roméo ferisce Tybalt in modo poco sportivo, per così dire: lo aggredisce alle spalle mentre è disarmato e lo accoltella con un pugnale. E questo pugnale sarà poi quello che Juliette impiegherà nel finale, dove peraltro arriverà in modo assai contorto: non già nascosto da Juliette sotto la veste prima di svenire e quindi ritrovato al cessare dell'effetto della droga di Laurent (come ci informa il libretto originale) ma abbandonato sul terreno al momento della finta morte e miracolosamente ricomparso sul catafalco, accanto al corpo di Juliette al suo risveglio. Ma insomma, un regista che segua pedissequamente le didascalie originali oggi ci farebbe la figura del pirla, quindi qualche invenzione bisogna pur proporla al pubblico che esige novità.
-
Gounod con quest'opera realizza una specie di sincretismo fra diversi generi e tendenze musicali. Non pretende di rivoluzionare nulla: siamo sempre ai numeri (più o meno) chiusi, collegati da recitativi accompagnati, ma vi fa capolino anche Wagner, quello giovane, che si sente distintamente e immediatamente all'attacco dell'Ouverture (quasi copiato da quello dell'Holländer, con la base di RE minore - quinte vuote - sostenuta dagli archi) e poi in alcune transizioni che ricordano Lohengrin. Ma anche in uno sfumato tristanismo che emerge qua e là. Nulla di wagneriano invece nella trattazione dei Leit-motive, dove Gounod si limita a pochi – anche se mirabili – richiami tematici in alcuni momenti topici del dramma. In un passo di Frère Laurent pare anche di sentire Sarastro nel finale del Flauto. Singolare – e difficilmente casuale – la citazione quasi alla lettera del tema del Concerto per violoncello di Schumann che udiamo nell'atto IV, all'attacco del N° 17 (scena e aria di Juliette Dieu! Quel frisson court dans mes veines?):
Quanto al contenuto del dramma, sappiamo che Gounod - per quanto colpito da giovane dal finale della Sinfonia Drammatica di Berlioz - allorquando dopo quasi 30 anni si mise a comporre la sua opera pensò bene di divergere da Berlioz-Shakespeare e di avvicinarsi caso mai a Wagner, puntando tutto sui sentimenti e sul privato.
-
Sul fronte dei suoi imitatori (per così dire, o ammiratori) troviamo ad esempio il Ciajkovski dell'Onegin (ma non solo). A proposito del compositore russo, era così innamorato dei lirici francesi che li citò più volte anche nella sua produzione strumentale: oltre al Bizet (Carmen) che compare scopertamente nel Concerto per violino e nel primo movimento della Patetica, anche tratti del Romèo si odono nel finale del Concerto per pianoforte e nella stessa Patetica. Ma lo stesso Mahler non ha scherzato nel ricordarsi di alcuni struggenti passaggi dell'opera (ad esempio nel finale della sua prima sinfonia).
-
Yannick Nézet-Séguin - di fatto un francese, pur se nordamericano - ha mostrato di calarsi assai bene nello spirito e nelle atmosfere gounodiane: fracassi limitati al minimo indispensabile, per le scene di massa – festose o cruente – fra le fazioni guelfo-ghibelline della Verona rinascimentale; e invece delicatezza di suono e lirismo (appunto) hanno caratterizzato la sua direzione - di un'orchestra abbastanza diligente - assai curata anche nel sostegno dei cantanti.
-
I quali han fatto ciò che potevano e sapevano: cioè cose non strepitose, diciamolo francamente. La voce di Pavarotti uno non può inventarsela (vale per Grigolo, che però ha un bel fisico, non c'è che dire, cosa che oggigiorno pare contare più della voce) e però si potrebbe perfezionare ancora, onde superare il livello di semplice sufficienza (questo consiglio è indirizzato anche a quella bella gnocca di nome Nino). È toccato ai comprimari Vinogradov (un Laurent con gran voce e buon portamento) e Braun (apprezzabile la sua Reine Mab) alzare un filino la media, mentre Ferrari (un mediocre Capulet) Burggraaf (poco efficace come Stéphano) e Gatell (un Tybalt piuttosto spento) non hanno propriamente incantato. Gli altri (vedi locandina) hanno fatto il loro dovere. Sempre bene anche il coro di Casoni.
-
Successo caloroso per tutti, e adesso, chiusa questa apparizione al Piermarini, a Roméo et Juliette non resta che dire: arrivederci al 2088!
---

20 giugno, 2011

Week-end coi fiocchi al Ravenna-Festival


Due delle più prestigiose orchestre europee, guidate dai rispettivi direttori musicali, a loro volta stelle del firmamento internazionale, hanno illuminato il fine settimana (già da esodo estivo con tanto di bollino nero, se si parla di code di auto sulle strade…) del RavennaFestival: sabato Salonen-Philharmonia e domenica Nagano-Münchener. Da leccarsi i baffi! Cosa che il pubblico, foltissimo (anche se Abbado aveva battuto tutti i record di presenza) ha puntualmente fatto.

Esa-Pekka ripropone qui la versione originale di Musorgski de La Notte di San Giovanni sul Monte Calvo, che ci aveva eseguito nell'ultima edizione del MITO. Mettendo in risalto tutte le barbare spigolosità di questa geniale partitura. Chi ha più consuetudine con la più orecchiabile versione di Rimsky può rimanere perplesso, ed anche il pubblico del PalaDeAndrè sembra preso un poco in contropiede e trattiene – per il momento – i suoi entusiasmi.

Che aumentano con l'arrivo di David Fray, trentenne dal volto e dalla capigliatura che ricordano nientemeno che Robert Schumann, il quale – accomodato su una normale sedia, in luogo del classico sgabello – ci ha offerto una bellissima interpretazione del K 466 di Mozart. Ben assecondato da Salonen, che ha fatto la sua parte nei lunghi tratti riservati all'orchestra, dentro il dialogo col solista. Fray, applaudito a scena aperta già al termine dell'iniziale Allegro, è stato delizioso soprattutto nelle cadenze e nella centrale Romanza:


mettendo in mostra grande tecnica, accompagnata da altrettanta sensibilità e cura dei dettagli. Per lui quindi un trionfo, suggellato da un prezioso bis bachiano.

In chiusura di programma ufficiale ecco Bartok e il suo celebre Concerto per orchestra. I professori della Philharmonia hanno qui modo di mettere in evidenza anche le loro qualità solistiche, in specie i fiati, che nel secondo movimento (Il gioco delle coppie) sono chiamati ad esibirsi proprio in primo piano. Ma hanno modo di emergere anche la seconda arpa, con il suo bizzarro inciso – nell'iniziale Introduzione – suonato con due ferrettini al posto dei polpastrelli, e soprattutto il timpanista, che nell'Intermezzo interrotto deve percorrere l'intera scala cromatica, impegnando assai anche i piedi, per accordare opportunamente le membrane (ed infatti, conclusa l'impresa, il simpatico Andrew Smith mostrava tutto il suo auto-compiacimento…)

Accoglienza caldissima, con ovazioni e urla, che Salonen e i suoi ripagano – precisamente come nella citata esibizione allo scorso MITO (ma qui mancano di fantasia, smile!) - con la Valse triste, in omaggio alla patria lontana del Maestro e poi con il Preludio III del Lohengrin, che fa tremare le strutture del palazzetto e provoca quasi una sommossa sulle tribune.

Domenica è stata la volta del Filarmonici monacensi condotti dal sempre capellone nippo-yankee Kent Nagano. A Monaco si prepara il cambio della guardia fra tale Christian Thielemann (che per aver voluto troppo, è rimasto con un… biglietto per Dresda) e l'arzillo nonno Lorin, che per i prossimi tre anni farà ritorno in Baviera. Ma l'Orchestra sembra impermeabile a questi cambiamenti, e suona in modo divino (senza togliere meriti a Nagano, ovviamente). Oggetto dell'esibizione la sbifida Settima Sinfonia di Mahler (anniversari).

Che vien fuori come fosse scolpita con un rasoio, senza una sbavatura, fredda ed enigmatica come non mai: le Nachtmusiken più che sogni sembrano evocare folletti e spettri (in fondo sono coeve della Tragica…) e lo Scherzo è proprio pieno di ombre, con rari squarci di luce. Nel tempo iniziale Nagano parte con grande retorica, lasciando dispiegare tutta la cupa sonorità del Tenorhorn (dislocato in alto a destra, quasi isolato, sopra il pacchetto dei corni, nell'orchestra con disposizione alto-tedesca) ma nell'Allegro risoluto cambia subito marcia, imponendo un ritmo assillante. Per poi allargare benissimo nell'Adagio dell'episodio centrale, un vero e proprio Höhepunkt, dove ancora i tromboni e il tenorhorn espongono maestosamente questo motivo:
che conduce alla lancinante perorazione dei violini:
Travolgente il Rondo-Finale, wagnerianamente introdotto da un autentico virtuosismo dei timpani e dei corni:
Dopo il conclusivo schianto il PalaDeAndrè si trasforma in una bolgia e le chiamate si succedono per minuti e minuti, con Nagano che fa alzare i diversi professori, veri solisti di questa grande orchestra e infine mima un sayonara e prende sotto braccio il Konzertmeister per rimandare tutti a casa, mentre sul palco ci si abbraccia e ci si complimenta per questa prestazione davvero outstanding.
.
Fuori – e sono quasi le 23 – la coda dei rientranti dalle spiagge è ancora interminabile (ma cos'è questa crisi?) Meno male per me che viaggio in contro-tendenza!
--

15 giugno, 2011

Luisotti con la Filarmonica, prima di vedersela con Attila


Il prossimo lunedi 20 giugno Nicola Luisotti aprirà le rappresentazioni scaligere di Attila, opera non propriamente facile, così come non troppo eseguita.

Per prepararsi a questo insidioso incontro, il bravo Nicola si sta allenando con la Filarmonica, che eroga (a-gratis, smile!) le tre repliche dell'ultimo concerto della Stagione del Teatro.

Programma che prevede dapprima l'ultra-inflazionato Concerto in SIb Minore di Ciajkovski, interpretato da quella specie di orso yoghi (smile!) che risponde al nome di Lexo Toradze. Il quale sarà pure unorthodox, come lo descrivono i suoi compatrioti-acquisiti yankee, ma accipicchia anche da Ciajkovski - che pure non è la sua specialità – sa cavare cose egregie! Ben supportato da un'orchestra che Luisotti comanda con gesto imperioso, a dispetto della rinuncia alla bacchetta. Orchestra verso la quale il nostro si volta completamente durante le sue pause, sedendosi sul lato stretto del suo sgabello, quasi a sostenerla con ammiccamenti e sorrisi.

Applausi a scena aperta già dopo il primo movimento. Delizioso l'Andantino semplice centrale, caratterizzato dal dialogo con il flauto e il violoncello. Dopo il travolgente finale il trionfo è assicurato e Toradze non ci nega il bis: dopo una specie di esercizietto, il nostro ci introduce al successivo Prokofiev con un pezzo (dalla sonata n°7, credo) di alto virtuosismo.

Più impegnativa - perché un poco meno eseguita, ma soprattutto più ricca di polpa e succo – la Quinta di Prokofiev. Luisotti ha nel frattempo recuperato la bacchetta e attacca assai bene l'Andante introduttivo, dove il pacchetto degli ottoni – croce e delizia dell'orchestra - se la cava abbastanza dignitosamente, tuba in testa, in quella specie di grandioso corale, scandito dai tremendi colpi di grancassa, tamtam, tamburi e timpani, che precede la conclusione:
Nello Scherzo Luisotti si lascia prendere la mano dalla sbarazzina motorietà del brano:

ed eccede in gigionerìe gestuali francamente più consone ad un clown che ad un direttore: peraltro ciò potrebbe indicare che il feeling con l'orchestra sia buono (Attila è avvertito!)

Molto meglio l'Adagio, movimento insidioso in quanto contempla il rischio di una generale russata (smile!) Invece Luisotti sa tenere desta l'attenzione e sveglio l'ascoltatore con una efficace sottolineatura dei chiaroscuri di questa difficile pagina.

L'Allegro giocoso mi è invece sembrato un tantino moscio: una dose di verve in più, già dallo stacco dopo l'introduzione, non avrebbe certo guastato. Forse per questo l'accoglienza finale è stata calorosa sì, ma non proprio trionfale.
--

11 giugno, 2011

Il maeschtro non si romanizza



Riccardo Muti declina l'offerta di cittadinanza onoraria di Roma.

Qualche cittadino SPQR (nell'accezione bossiana, smile!) ha pensato bene di rovinargli la festa.
--