ipocrisia pesciarolaia

vado a votare, ma non voto

02 aprile, 2010

Lulu torna alla Scala

La sesta opera del cartellone 2009-2010 è – dopo La casa morta – un altro pilastro del '900, Lulu di Alban Berg, che da martedi prossimo va in scena al Piermarini, dopo Vienna e Lione, compartecipanti alla produzione.

Come al solito è stata preceduta dalla consueta e sempre interessante Conferenza Prima delle Prime, tenutasi il 31 marzo nel Ridotto Toscanini e guidata da Angelo Foletto, Giacomo Manzoni, Carlo Maria Cella e Sonia Grandis (che ha recitato parti del libretto).

Sarà rappresentata in versione completa, tre atti, quindi non propriamente tutta farina del sacco di Berg, datosi che il terzo atto, a parte un paio di intermezzi orchestrali già completati dall'autore, e comunque impiegati oggi con qualche variazione, era rimasto allo stato di abbozzo e fu reso eseguibile – nel 1979, e solo dopo la morte della moglie di Berg, sempre fieramente oppostasi all'operazione – da Friedrich Cerha.

Per quanto Berg non rispetti alla lettera l'ortodossia dodecafonica di Schönberg, è pur vero che l'Opera presenta un insieme di caratteristiche costruttive – partendo dalle macrostrutture, per arrivare ai dettagli tematici – che ne fanno più un prodotto di (fredda) ingegneria, che non di (calda) ispirazione musicale. La palindromica simmetricità della struttura (paradigmatico, ai limiti dell'ossessione, l'interludio fra prima e seconda scena del secondo atto, tutto simmetrico, quasi alla singola nota, rispetto allo Höhepunkt percorso dal pianoforte alla battuta 687) e la derivazione matematico-cabalistica di sotto-serie tematiche, a partire dalla serie fondamentale, rendono la narrativa di assai ardua digestione. (Il che per me rappresenta – detto di passaggio - il limite più grande di tutta la produzione musicale fondata sulla tecnica seriale - o ad essa in qualche modo tributaria - e ne spiega abbondantemente l'insuccesso di pubblico dopo quasi un secolo e a dispetto di grandi e anche lodevoli sforzi di promozione!)

Sulla perfetta simmetria della struttura, rispetto alla parabola esistenziale di Lulu, ci sarebbe da eccepire: in effetti il chiaro momento di spartiacque andrebbe individuato prima della metà del secondo atto, precisamente nell'istante in cui Lulu scarica le 5 revolverate nella schiena di Schön-sr (Atto II, Scena I, battute 553-555, DO#-RE-MIb-MI-FA, un crescendo cromatico di pallottole esplose dal pianoforte!) Perché è in quel preciso momento che cambia proprio di 180° il rapporto fra Lulu e tutto ciò che la circonda: da ricattatrice a ricattata! Da donna che sceglie e/o comanda e usa a sua discrezione mariti ed amanti, fino a costringerli – con ricatto implicito o esplicito: della carne o dell'onore - in quei ruoli, diventa donna che dovrà subire ogni sorta di vessazioni: dal ricatto economico, oltre che sessuale (a Parigi) a quello del sesso come unica fonte di sostentamento per sé e per le tre persone che – a diverso titolo – non può non tenersi a carico (a Londra). Mentre sul piano materiale Lulu conduce un'esistenza agiata, ed oltre, fino a metà del terzo atto (fuga da Parigi) con il solo intervallo della detenzione (Atto II). Insomma e per fortuna, l'Opera non è poi così inchiavardata entro banali schemi geometrici.

Daniele Gatti, che nel 2008 diresse un buon Wozzeck (prima delle non proprio paradisiache esperienze di Parsifal a Bayreuth e DonCarlo a SantAmbrogio) torna sul podio della Scala e vi dirige Lulu per la prima volta. Speriamo bene… anche se il video che campeggia sulla home-page del Teatro non sia propriamente di quelli che fanno accorrere scettici e incerti (ad ora qualche decina di posti è offerta in web per 5 delle 6 recite).

01 aprile, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 25

Siamo nella settimana santa, e quindi non poteva mancare una bachiana Passione all'Auditorium. Non è la monumentale e più famosa e ieratica Matthäus, ma la più breve, sanguigna (e anziana) Johannes.

Sulla data della prima esecuzione c'è una convergenza quasi generale: 7 aprile, Venerdi Santo del 1724, nella Nikolaikirche di Lipsia. Peraltro nell'introduzione dell'autorevole edizione (tascabile) Eulenburg-965, il professor Arnold Schering – che pure a Lipsia era di casa - pone la prima esecuzione un anno indietro, nel 1723. (La cosa non ci toglierà il sonno, peraltro).

Ruben Jais ed Erina Gambarini hanno guidato l'Orchestra (in veste barocca, con Gianluca Capuano all'organo) e il Coro de laVerdi ad una prestazione maiuscola, nella quale ben si sono portati i sei solisti, una vera squadra internazionale: Makoto Sakurada, il tenore giapponese che ha legato fra loro tutti i passi dell'Opera, nella veste di Evangelista; il contralto australiano David Hansen; il basso cileno Christian Senn, che impersonava Pilato; il basso-baritono norvegese Håvard Stensvold, Gesù; la soprano bulgara Sonya Yoncheva; il tenore australiano Steve Davislim; più il corista Marco Bellasi, Pietro. Per l'Aria Es ist Vollbracht! si aggiunge agli strumentisti Amélie Chemin, con la preziosa viola da gamba.

Alla fine un vero e proprio trionfo per tutti, con ripetute chiamate, applausi ritmati, e bravi! a ripetizione.









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Prossimamente, vive-la-France!

31 marzo, 2010

Un simpatico Tannhäuser indiano alla Scala

Ieri era la quinta e penultima rappresentazione, alla Scala, per il Tannhäuser di Mehta-Fura, dopo accoglienze, diciamo così… mixed. Teatro pieno, ma non pienissimo, e successo quasi pieno per tutti.

Tanto per entrare direttamente in-medias-res, sappiamo come Wagner avesse i suoi (buoni) motivi per ambientare l'opera in Germania, precisamente in Turingia, con tanto di meticolosi riferimenti logistici a due località nei pressi di Eisenach (città natale di un certo Bach - si noti bene - non di Buddha!): il castello della Wartburg, che si trova a meno di 2Km a sud-ovest della cittadina, e il fantomatico postribolo di Venere (il Venusberg) che nella versione parigina è da Wagner dislocato con temeraria precisione presso l'Hörselberg, 5Km - o giù di lì - ad est della stessa Eisenach.

Ecco cosa scrive Wagner sulla partitura d'orchestra, Atto I, Scena III, al momento per Tannhäuser di tornare all'aria aperta, dopo la sbornia del Venusberg: Tannhäuser, che non ha abbandonato la propria positura, si trova improvvisamente trasportato in una bella valle. Cielo azzurro, limpida luce del sole. A destra, sullo sfondo, la Wartburg; a sinistra, in lontananza, il Hörselberg. (…) Nel frattempo, da dietro la scena e da molto lontano, come se venisse da Eisenach, si ode il rintocco delle campane di una chiesa. Insomma, Wagner quasi-quasi ci dà le coordinate GPS del metro-quadro su cui Tannhäuser si trova: lui è più o meno a metà strada fra Hörselberg e la Wartburg (più vicino a quest'ultima) ed ha alle spalle Eisenach. Da qui in avanti tutta l'Opera è ambientata inequivocabilmente in quei precisi paraggi. Così come l'Aida è ambientata in Egitto e i Meistersinger a Norimberga, e la Tosca a Roma, la Bohème a Parigi (che dire di una Bohème ambientata a Mumbay, con Rodolfo che, affacciato alla finestra, canta: "Nei cieli bigi guardo fumar dai mille comignoli Parigi"?)

Ma qui Wagner non viene preso alla lettera (e neanche sul serio, per la verità) e perciò abbiamo un Tannhäuser indiano, in omaggio al Maestro, ovviamente. Avesse diretto Salonen, si andava in Finlandia, col Venusberg collocato in una gigantesca sauna pubblica. Dirige Chung? In Korea, no problem. Dudamel? La Wartburg di Maracaibo, perbacco, chi non la conosce?

Insomma, Padrissa e i suoi sono in grado di ambientare qualunque opera in uno qualunque dei 190 (o quanti sono) Paesi del pianeta. L'unico problema che hanno è trovare un direttore all'altezza nel Burkina-Faso o all'Isola di Pasqua!

Viceversa, sarei pronto a scommettere che – avesse Wagner ambientato la sua storia in India - Padrissa ce l'avrebbe trasferita in Turingia (smile!)

E sempre facendo cose divertenti, mica pizza&fichi! (Del resto, chi non si è mai divertito leggendo la famosa tragedia Ifigonia in Culide?)

Insomma, Tannhäuser assurto al rango di divertissement, ohibò! E dobbiamo consolarci, perché in giro c'è di molto, ma molto peggio.

Leggendo il corposo programma di sala abbiamo la conferma (non che avessimo dubbi) che Padrissa&C sono gente che studia bene i soggetti da mettere in scena. Quindi sanno benissimo che, sul piano esteriore (e superficiale?) del contenuto, Tannhäuser non racconta miti, ma casomai storie medievali (e per buona parte vere) con personaggi e luoghi squisitamente autentici e germanici; sul piano filosofico-religioso, mostra il contrasto insanabile (o sanabile solo una volta passati all'altro mondo) fra carne e spirito, fra l'impulso animalesco – e in quanto tale nemmeno poi peccaminoso – verso eros e sesso, e l'anelito umano verso il trascendente e il divino; infine, sul piano artistico, descrive (autobiograficamente) lo straniamento dell'artista-innovatore dalle consuetudini e dalle (più o meno ipocrite o interessate) convenzioni cui l'establishment è ancorato, e con le quali è però costretto fatalmente a fare i conti o addirittura a venire a patti, o a scontrarsi mortalmente. Addirittura Padrissa&C intendono dedicare questo allestimento a tutti i Tannhäuser di questo mondo, teste matte da Giordano Bruno a Michael Jackson, passando per Richard Wagner e John Lennon! Lodevole intenzione davvero.

Siccome però il pubblico è quello che è (e secondo alcuni non è cambiato troppo dai tempi di Parigi 1861, Jockey Club di buona memoria) è meglio non andare troppo sul difficile, e quindi si parte mostrando immagini, filmati e ologrammi di un bordello in piena regola (peraltro questo combina perfettamente con ciò che scrive Wagner nel libretto, cose del tipo: si formano coppie in cui ciascuno trova l'oggetto dei propri desideri, e poi si confondono e rimescolanoe subito dopo: le Baccanti eccitano gli amanti a una lussuria sempre più sfrenata. Costoro, inebriati, si abbandonano ad ardenti amplessi.) Se si può fare qui una critica, è di tipo economico: quanto sarà costato al regista (cioè dire: a NOI) girare tutte quelle scene con innumerevoli ragazze e ragazzi, tassativamente nudi ed aggrovigliati? Quando invece Padrissa e i suoi qui potevano tranquillamente propinarci immagini di filmetti groupsex o gangbangorgy scaricate gratis da internet, così dispensando Lissner dal prosciugare il FUS, e senza per questo creare scandalo, né essere irriverenti o dissacranti nei confronti dell'Autore.

Nel Venusberg, mentre la Gertseva-Venus è sufficientemente nuda, e mostra così le sue – di gran lunga migliori – qualità, il protagonista Robert Dean Smith è coperto da regolamentare pastrano, il che ci consente di tenere aperti gli occhi mentre canta (passabilmente, benino o così-così, le sue lodi-maledizioni). Ma, dopo essere faticosamente sfuggito al bordello dall'aria divenuta ormai irrespirabile, dove si va a cacciare il povero Tannhäuser? Nella severa Wartburg, direte voi, tempio della virtù e dell'arte. Ecco cosa vediamo all'inizio del secondo atto: mentre Elisabeth saluta la teure Halle, ci sono simpatici ragazzi e ragazze che fanno un balletto tipo Smeraldo anni'70. Ma non basta, quando arrivano gli ospiti, sul solenne canto Con gioia salutiamo la nobile sala dove sempre e soltanto arte e pace possan dimorare, i ballerini si scatenano ancor più, in una cosa bollywoodiana (io veramente me lo ricordavo come il twist): roba da far pensare al povero Tannhäuser di esser caduto dalla padella nella brace (adesso si capisce bene perché, durante la tenzone, gli prenderà la voglia matta di tornare là da dove era venuto!) Sì, anche Wagner si può ballare, incredibile! Perché, come ad esempio Ciajkovski nello Schiaccianoci, ha scritto musica in 4/4 o 3/4 o 2/4 o 6/8 e così via. Chi ci aveva mai pensato? Brava la Fura a scoprirlo!

Ma a proposito di balletto, bisogna sapere che nel 1860, quando a Wagner finalmente furono aperte le porte dell'Opéra di Parigi (grazie all'intercessione della crucca Pauline von Metternich, che era entrata nelle grazie nientemeno che dell'Imperatore Napoleone III) il compositore fu avvertito che, nel secondo atto dell'opera, doveva essere tassativamente programmato un balletto. Chè a quell'ora i simpatici membri del Jockey Club, dopo essersi ben saziati e abbeverati di champagne, arrivavano a teatro per ammirare le nude gambe (allora non si andava oltre) di compiacenti ragazze che, qualche mezz'ora dopo, sarebbero finite direttamente nei loro letti. Orbene, sembra un'enormità, ma Wagner si rifiutò cocciutamente di sottostare a simile imposizione. E sfidando l'Imperatore in persona (che pagava in toto l'allestimento, si noti bene!) Wagner si rifiutò di infilare un balletto a quel punto dell'opera (considerando già fin troppa concessione la nuova, pornografica scena del Venusberg del primo atto).

Ma a noi che 'cce frega? dice Padrissa, siamo in democrazia, mica in un impero, Wagner è morto, e il balletto lo mettiamo dove ci pare! E infatti il pubblico apprezza molto.

Per la tenzone canora – una scena che si richiama nientemeno che al Symposium di Platone, e sappiamo quanto Wagner ammirasse la Grecia! - ci spostiamo invece al lunapark. Infatti, nell'austera Wartburg (o Bangalore, fate voi, visto che son tutti in turbante) ci sono - ad ospitare i canori contendenti - dei caddy da golf, o macchinine da autoscontro, ciascuna dotata di arpista, una specie di tata (anzi Tata, siamo in India!) o badante del Minnesanger di turno. Invece del motore elettrico, due robusti negroni che spingono e tirano qua e là. Ma tanto ha poco di che vantare austerità, la Wartburg, sappiamo quale indegna gazzarra vi si svolgerà, di cui vien data colpa al povero Tannhäuser, costretto a partire per Roma al seguito di pellegrini inturbantati e circondati da coloratissime, ma un po' fastidiose donnicciole che chiedono la carità (in Turingia proprio così funzionava, sapevate?)

Nel terzo atto tornano i pellegrini da Roma (sempre con donnicciole a latere). Elisabeth attraversa il corteo in cerca del suo Tannhäuser, sperandolo graziato dal Papa. Non ritrovandolo, che fa? Sentiamo Wagner: in atteggiamento doloroso, ma tranquillo (…) con grande solennità canta il suo sacrificio e resta in devota estasi. Insomma, non versa una sola lacrima, ma nobilmente offre la sua vita alla Vergine, per ottenerne l'intercessione in favore del reprobo. Ma una scena così sarebbe poco appariscente, e così il regista fa issare Elisabeth su un trespolo fino a 10 metri di altezza e da qui la pia donna allaga letteralmente di lacrime una piscina che occupa metà del palco. (Insieme alla piscinetta di cristallo del Venusberg, è forse una trovata per pubblicizzare qualche aquafan, visto che si va verso la bella stagione).

Ai bordi della quale piscina arrivano quattro lavandaie a lavare degli enormi panni, che scopriamo servire (una volta stesi, più sporchi di prima!) a proiettarci sopra immagini che supportano la parte cruciale del racconto di Tannhäuser del suo calvario a Roma: l'incontro disgraziato con un Papa talebano che, invece di perdonarlo cristianamente, lo invia direttamente all'inferno. E sulle lenzuola vediamo le immagini di un Papa (in visita in India, 1986?) che Padrissa ha accuratamente scelto fra quelli più retrivi, assolutisti, e diciamo pure repellenti che la storia della cattolica Chiesa ricordi: Woitilaccio! Mancava solo un titolo di giornale: "Giovanni Paolo II copriva i preti pedofili" …ma la regìa è stata pensata quando lo scandalo ancora non aveva occupato le prime pagine di giornali e tv, che peccato!

La scena del funerale di Elisabeth è un pout-pourri di idee genialoidi e di improbabili riferimenti alla biografia di Wagner. Sul laghetto di acqua-pianto, arriva un incrocio di piroga indiana e gondola veneziana, carica di lumini, su cui viene portato il feretro; il che è un incrocio fra Gange e Venezia: il funerale di Wagner a Bollywood? Ma allora qui si scimmiotta per caso lo Herheim del Parsifal attualmente in cartellone al tempio? Sulla trasformazione di Elisabeth in Venere (stella, non tenutaria) bisognerebbe scrivere enciclopedie e libelli, lasciamo perdere, siamo qui per divertirci, mica per pensare.

A proposito, sul programma di sala c'è una dottissima presentazione del professor Quirino Principe, che conclude con una considerazione (a proposito della lingua - originale o italiana - in cui rappresentare l'Opera): Quanti italiani amanti del teatro d'opera, ascoltando Tannhäuser in lingua originale, capiranno la meravigliosa complessità culturale di quest'opera? Vien da ridere, ma ovviamente il professore pensava a Tannhäuser, non al Bruschino o all'Elisir.

In sostanza, oggi ci si accontenta di tener buona ancora – ma per quanto ancora? perché la modernità prima o poi chiederà anche qui il suo pizzo – la musica di Wagner; le parole si lascino pure lì, perché tanto sono solo un ostrogoto grammelot, che serve giusto a far uscire i suoni dalla bocca dei cantanti. Tutto il resto: nel cesso, sostituito da trovate più o meno genialoidi. Che termini usare per operazioni di tal genere? Anticulturale, diseducativa, truffaldina?

Invece: divertimento assicurato, il pubblico ha gradito e – a differenza della prima – non ha contestato nessuno, men che meno il regista (che però non si è fatto vedere al proscenio).

Questo è lo stato-dell'arte, oggi, anno di grazia 2010. E dobbiamo accontentarci, essendoci in giro anche di peggio.

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La musica.

Mehta non mi è per nulla dispiaciuto. Come già nel Ring ascoltato uno-due anni fa al Maggio, tiene un approccio assai pragmatico, facendo ben emergere il lato italiano (meno male, non indiano!) presente – e come! – in Wagner, particolarmente in opere come questa. Nessuna enfasi gratuita, tempi forse più celeri rispetto ai metronomi di cui Wagner ha disseminato la partitura (ma che lui per primo invitava Kapellmeister e cantanti a prendere abbastanza con le molle, privilegiando la loro personale sensibilità). In un paio di occasioni ha forse lasciato troppa briglia al fracasso dell'orchestra, coprendo le voci, ma in complesso – per me – la sua è stata una direzione lodevole.

Dei cantanti, rispetto al recente Tannhäuser torinese, salverei giusto la Harteros-Elisabeth, gli altri da discreto (Dean Smith, voce debolissima, però, e Zeppenfeld-Langravio) a mediocre (Trekel-Wolfram) a insufficiente (Gertseva). Gli altri ancora, senza infamia, né lode. Bene al solito il coro di Casoni e i piccoli di Caiani.

Oggi si passa però a cose serie, da settimana santa: una passione bachiana all'Auditorium.

29 marzo, 2010

Il Parsifal di Bieito, al prezzo di quello di Wagner

Io devo condividere i miei pensieri e le mie sensazioni con il pubblico. Devo comunicarli, per questo sono diventato regista.

Mai definizione più appropriata fu data del fenomeno deteriore del Regietheater.

Il signor Bieito ha dei pensieri? Ha delle sensazioni? Le vuole/deve comunicare. Fantastico, siamo tutti occhi e orecchie!

Ma che ti combina il furbastro? Mica si mette a faticare per comporre testi e musica di un dramma, che ci comunichi i suoi pensieri e sensazioni, no!

Lui prende testi e – soprattutto – musica di un'opera d'arte ormai da secoli (si può dire) entrata nell'Olimpo, e li usa per vestirci i suoi brillanti pensieri e sensazioni!

E il pubblico paga per vedere il suo Parsifal, come per vedere quello di Wagner!

Ecco alcune sentenze del maestro da incorniciare:

Per me Parsifal tratta della crisi della religione. All'inizio del ventesimo secolo i simboli religiosi erano molto importanti. Oggi li abbiamo persi, ne abbiamo altri: Cristiano Ronaldo e David Beckam, in questa direzione si muove la nostra società.

La musica di Wagner sottintende un'architettura di arte. In scena presentiamo un'architettura, che simbolizza la fine del mondo. Ciò è appropriato per Wagner, che si spinse sempre ai confini per guardare nell'abisso. Ciò dà l'impressione dell'Apocalisse: un'architettura della fine del mondo.

Per me Parsifal rappresenta il poveraccio, culturalmente rozzo. Verrà stilizzato come un eroe, un nuovo Gesù Cristo. È il nuovo super-modello della società.

Sì, sono considerazioni davvero siderali; dico, chi sono al confronto Hegel, Goethe, Schopenhauer, Freud, Baricco?

Interessante la nota sulla locandina del Teatro: avvertiamo il nostro pubblico che in questo allestimento sono presenti scene di esplicita violenza, per cui preghiamo di tenerne conto in caso di presenza di minori o bambini.

Qualcuno (non molti) cerca ancora di dissentire.

26 marzo, 2010

Stagione dell’OrchestraVerdi - 24

È Ciajkovski il clou del concerto. Preceduto però da due composizioni dell'eclettico Leonard Bernstein, che non a caso è assai caro al Direttore.

Forse su una locandina, o su un programma di sala, non è politically correct scriverlo, ma il filo conduttore del programma è – pochi dubbi – l'omosessualità. Innanzitutto dei due autori, sia pure da essi vissuta in modo assolutamente diverso: con serenità, naturalezza e in (quasi) piena armonia con la vita coniugale e la famiglia, da parte di Lenny; e invece con patologica tensione, colpevolezza e ossessione, da parte di Piotr Ilijc. Ma è poi anche presente, in modo esplicito, in una delle opere in programma, la Serenade di Bernstein, che si richiama direttamente al platonico Simposio, dove l'amore omosessuale è al centro (o quasi) dell'attenzione.

Si apre però con Divertimento for Orchestra. Commissionato per celebrare il centenario della Boston Symphony (1980) a Bernstein – che era proprio di casa a Tanglewood, dove sorge il Music Center della BSO. Ora, la sigla BC (Boston Centenary) in musica (anglosassone) sta per SI-DO, e queste due note diventano la sigla dell'opera, suddivisa in 8 brani.

I - Sennets & Tuckets sono due termini coniati in Albione ai tempi di Shakespeare, traducendo onomatopeicamente (e maccheronicamente) Sonata e Toccata. Bernstein ci mette ritmi sincopati e grande uso di percussioni e batteria.

II – Waltz dovrebbe essere un walzer, ma è una cosa dall'andamento assai bizzarro, irregolare, anche se delicatissimo. Perché è scritto in 7/8, tempo invero inconsueto (ma anche Ciajkovski non sarà da meno).

III – Mazurka, contrariamente a ciò che si può immaginare, è in tempo lento, affidata soprattutto agli strumentini. Vi sentiamo l'oboe suonare un inciso della quinta beethoveniana.

IV – Samba: qui ci siamo proprio, rispetto al titolo, e si scatenano tromba, trombone e caraibiche percussioni.

V – Turkey Trot, una divertente parodia del fox-trot, richiama abbastanza scopertamente America da West Side Story.

VI – Sphinxes, sfingi è un breve movimento lento, oscuro, impenetrabile.

VII – Blues prolunga l'atmosfera pensosa del brano precedente.

VIII – In Memoriam; March "The BSO forever". Dopo un doveroso omaggio ai padri fondatori della BSO, ecco il panegirico… che sembra quasi portarci – con Nino Rota - al circo felliniano!

Wayne Marshall, da buon caraibico, si trova proprio a suo agio a dirigere queste note, quasi danzandovi sopra, e strappa applausi convinti.

Ecco poi Serenade, un concerto per violino, archi, arpa e percussioni, eseguito in prima assoluta a Venezia, Biennale 1954. Ispirato al Symposium di Platone (che di questi tempi è di attualità anche per via dei tanti Tannhäuser in programmazione in Italia) è suddiviso in 5 movimenti, corrispondenti agli interventi nella tenzone dei diversi personaggi:

I. Phaedrus & Pausanias (lento e allegro): il violino introduce il delicato tema di Fedro, l'amore come il dio più antico (un inciso tornerà in West Side Story… Maria); poi arriva, allegro e marziale, il tema di Pausania, dell'amore celeste, ma anche… omosessuale; i due temi poi si fondono mirabilmente, con le percussioni che imperversano.

II. Aristophanes (allegretto): si noti che Bernstein inverte la sequenza degli interventi (nel Simposio è Erissimaco a parlare prima di Aristofane il quale, con una scusa, salta il suo turno e parla dopo, criticando sia Pausania che Erissimaco). Il movimento – senza interventi delle percussioni - alterna un tema languido, femminino, e uno secco, mascolino: un modo per presentarci poeticamente il mito dell'andrògino, caro ad Aristofane.

III. Eryximachus, the doctor (presto): Erissimaco è un medico, ma possiede anche grandi conoscenze musicali (un Sinopoli ante-litteram!) e il suo è un appassionato intervento in favore dell'armonia, nel corpo come nello spirito. In questo brevissimo movimento (poco più di 100 secondi) il solista propone delle idee e l'orchestra, con poderosi interventi delle percussioni, risponde sempre e perfettamente a tono.

IV. Agathon (adagio): Agatone descrive l'Amore come il più buono e bello e giovane di tutti gli dèi. E Bernstein ci costruisce un mirabile adagio (anzi, se si esclude un centrale climax, con fortissimo delle percussioni, quasi un… adagietto mahleriano!)

V. Socrates & Alcibiades (molto tenuto e allegro molto vivace): Socrate è introdotto, in tempo sostenuto, dall'intera orchestra, che lascia poi spazio al solista, concertante con il violoncello. È la nobile perorazione del filosofeggiare di Diotima di Mantinea. Poi arriva Alcibiade, ubriaco, e l'orchestra infatti dà in escandescenze, con le percussioni a contrappuntare rumorosamente il solista.

Bravissimo Sergej Krylov e grande successo quindi per lui, che ci ripaga con un monumentale regalo: la bachiana Toccata e Fuga in RE minore! Una cosa stratosferica!

Dopo la pausa, eccoci a Ciajkovski e alla Sesta Sinfonia. Wayne Marshall qui fa una cosa davvero temeraria, ma assolutamente grande: da patetica, la trasforma in tragica, una cosa mahleriana, a tratti quasi espressionista!

Nel primo movimento troviamo una chiara reminiscenza dalla Carmen (Ciajkovski ne disseminò più ancora nel Concerto per Violino): lui si era davvero infatuato dell'Opera di Bizet:





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Il secondo movimento, in quell'asimmetrico tempo di 5/4 (2+3) è preso da Marshall con molto brio, tutto teso, senza sdolcinamenti.

Nel terzo movimento abbiamo davvero un'esplosione di carica vitale, con il finale fracasso che scatena uno spontaneo applauso. Che fosse dovuto a ignoranza, o a genuina manifestazione di giubilo, poco importa: era del tutto meritato! E la cosa ripropone l'antico interrogativo: se siano da contemplare ed accettare applausi a scena aperta, nel bel mezzo di un'esecuzione (come si usava nell'800, peraltro).

Il quarto movimento presenta il famoso tema ottenuto per mirabile fusione di due linee melodiche separate (Violini I + Viole e Violini II + Celli):













. la cui risultante va letta (e appare all'orecchio) alternando le note di Violini II e Violini I.

Marshall lo affronta con decisione, stringendo un po' il tempo. Solo alla fine si ferma, piantato di fronte a violoncelli e contrabbassi, che hanno esalato la triade di SI minore in pppp. E resta lì, quasi in trance, per 4, 5, 6, 7 secondi (come chiudesse la nona di Mahler): qualcuno applaude, lui ancora resta immobile, l'applauso rientra, poi lui cala le braccia e finalmente, poco a poco, arriva l'applauso corale, crescente e interminabile! Una patetica da ricordare!

Si avvicina la Pasqua, e quindi ecco, per la prossima settimana, Bach!

24 marzo, 2010

Direttori rampanti

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La Münchner Philharmoniker ha trovato un nuovo, giovanissimo sostituto del ripudiato Christian Thielemann: si tratta di tale Lorin Maazel.
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Mehta in concerto (fra un Tannhäuser e l’altro)

Zubin Mehta affianca alle rappresentazioni di Tannhäuser un paio di concerti alla Scala, con un programma tutto francese.

Apertura con Olivier Messiaen e il suo Et expecto resurrectionem mortuorum. Siamo nel 1964, e il francese – peraltro commissionato a scrivere quest'opera - torna ai temi religiosi che gli erano stati così cari in giovinezza, e che poi aveva abbandonato per darsi all'ornitologìa! Ma gli uccelli (meglio, i loro imitati suoni) non mancano nemmeno qui. In assenza di testo (le parole restano solo nei sottotitoli dei 5 brani) è davvero difficile associare a questa musica un alcunché di mistico; la composizione poteva benissimo intitolarsi più asetticamente Cinque pezzi per fiati e percussioni, o qualcosa di simile, senza che nulla cambi nella percezione dell'ascoltatore.

Quindi - come per molta musica a programma, beninteso - sono i titoli a guidare la nostra immaginazione per cercare – ma è dura! - di rendere la musica congruente ad essi, non certo il viceversa! Si comincia con Des profondeurs de l'abîme, je crie vers toi, Seigneur : Seigneur, écoute ma voix! dove le profondità sono interpretate da tube e tromboni, con pesantissimi accordi che richiamano piuttosto il lento muoversi di pachidermi o ippopotami; il grido è una serie di dissonanze acute, che nessun Signore potrebbe mai apprezzare! Segue poi Le Christ, ressuscité des morts, ne meurt plus; la mort n'a plus sur lui d'empire. Un movimento lento, suonato in prevalenza dagli strumentini e con interventi di campanacci e poi di trombe stridenti, che con la Resurrezione, come uno se l'immagina, ha veramente poco a che vedere! Nel terzo brano - L'heure vient où les morts entendront la voix du Fils de Dieu... - appare l'uccello amazzonico (Uirapuru) una reminiscenza dell'incipit del movimento finale della mahleriana Resurrezione, dove sentiamo usignoli in lontananza. Poi campane, fremiti di tam-tam, trombette dissonanti e ritorno di tromboni e tube (la voce del Figlio di Dio?) Quindi segue Ils ressusciteront, glorieux, avec un nom nouveau - dans le concert joyeux des étoiles et les acclamations des fils du ciel. Tam-tam (di tre diversi calibri) gong e campanacci da vacche la fanno da padroni, con intermezzi di strumentini e trombette stridenti, con chiusa in fortissimo, che più che la voce dei figli del cielo sembra lo strepito di qualche suino sottoposto a sevizie, altro che concerto di stelle! Qui qualcuno comincia forse ad infastidirsi e applaude… sperando che sia finita. Invece c'è ancora Et j'entendis la voix d'une foule immense... dove udiamo sonorità (scimmiottate) da Gral, con campane e gong a profusione. Insomma, a mio modo di sentire, un pezzo velleitario e francamente insincero, per non dire insulso.

In ogni caso, Mehta (partitura sul leggio, fatto portare via per i successivi due pezzi) e i professori lo eseguono con la massima concentrazione, e si meritano un giusto applauso.

Dopo il laborioso trambusto per smobilitare l'ipertrofico armamentario percussivo di Messiaen e far posto agli archi (disposizione all'antica, con violini secondi sul davanti, a destra) passiamo a cose francamente più serie, con Debussy e Ravel.

La Mèr è un'opera straordinaria, anch'essa musica a programma, dove le note cercano di calzare con il soggetto, non sempre riuscendovi alla perfezione. Ma insomma, la classe non è acqua (smile!)










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Bravissimo Mehta a cavar fuori le delicate e impressioniste sonorità del grande Claude.

Chiude Ravel con Daphnis et Chloé (precisamente la seconda Suite). Che viene aperta da questo incredibile virtuosismo dei flauti:

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ripreso alla battuta successiva dai clarinetti; e sottolineato poi dalle due arpe (a turno), prima che anche la celesta ci metta lo zampino. La didascalìa ci informa: nessun rumore al di fuori dei rigagnoli formati dalla rugiada che sgocciola dalle rocce. Ecco, anche questo è un capolavoro! Travolgente poi la danza finale, col suo tempo zoppo di 5/4 (3+2) che poi sfocia in 3/4 e ancora in 2/4 per la chiusa in fortissimo.

Trionfo per Mehta e per l'Orchestra, strumentini su tutti. Il Maestro torna più volte, stringe la mano alle prime parti degli archi, alla fine unisce le mani davanti alla fronte, proprio all'indiana, e poi appoggia la destra sul cuore, per ricambiare autentiche ovazioni. Si vede che è proprio una persona serena e felice!

22 marzo, 2010

Bayreuth: si chiude un’era

Ieri è scomparso, a 90 anni, Wolfgang Wagner, nipote di Richard e dal dopoguerra alla testa del Festival di Bayreuth (prima in comproprietà col fratello Wieland, poi da solo).

Figura controversa: considerato mediocre regista (al contrario del geniale Wieland, che introdusse a Bayreuth concetti di regìa teatrale poi magari degenerati nel peggiore Eurotrash) e organizzatore furbastro ed opportunista, ha contribuito a rilanciare il teatro del nonno in un momento in cui, causa il fiancheggiamento al nazismo, la cosa era tutt'altro che scontata.











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Poi ne ha consolidato la fama anche con scelte dove il coraggio si accompagnava spesso al più bieco opportunismo. Ed è stato quindi anche responsabile dell'abbassamento del livello qualitativo medio del festival, che viene oggi snobbato proprio dai migliori interpreti wagneriani.

Oggi le due figlie (di mogli diverse) Eva e Kathi sono al posto di comando (hanno già un'edizione al loro attivo) e fra un paio d'anni dovranno gestire l'evento del secolo, i 200 anni dalla nascita del fondatore dell'impero.

19 marzo, 2010

E bravo Conlon!

La newyorkese milanesizzata blogger di Operachic ha intervistato di recente il maestro James Conlon (che ha diretto – per me assai bene – l'ultimo Rigoletto alla scala).

Un passo topico dell'intervista è questa considerazione di Conlon:

Our job as performers is to surrender our own egos and to completely open ourselves to the work itself and to transmit that work as if we're not there. This is on the one hand a very easy and simple thing to do. On the other hand, we're all crippled by our own egos. To me, I'm not interested in knowing what my interpretation is. When I was studying at The Juilliard School, the big movement was objectivism vs. subjectivism and the popular methodology was, "You have to find your own feelings, your own voice, and you have to find yourself. What's your take on this piece of music?" Well, I had an allergy to that type of conversation. I thought, "I know what my feelings are and I couldn't care less what my own feelings are. I want to know what the object is." Is that objectivism? Well, yes, that's objectivism. I want to know who Haydn is. I want to know who Beethoven is. I want to know how their music works. How does it fit? Why is it this? And why is it that? And to me, the beauty of that method is that you can devote yourself to the other, and a byproduct of that is that you find yourself. However if you go from the other point of view -- the "find yourself" subjectivism -- you don't find the other.

In sostanza, il Maestro sembra dire: io vorrei poter trasmettervi la quinta di Beethoven, non la Quinta di Conlon, da paragonare con quella di Abbado, di Furtwängler, di Kleiber o di HvK.

Personalmente: parole sante!