ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

30 aprile, 2020

Fase-2... all’arrembaggio!


Il fatidico 4 maggio si avvicina e l’Italia si prepara a esodi di massa: quello di 4,5 (si calcola) milioni di cittadini che usciranno di casa, impavidi e sprezzanti del pericolo, pur di poter tornare a meritarsi un sacrosanto reddito; e quello di una moltitudine di persone certificate dalla norma congiuntivite dell’ultimo decreto contiano.

Decreto che - come tutti gli altri, ma è fatale - fa un pochino acqua, a partire proprio dalla congiuntivite, che non prevede (per onorare il feticcio privacy) di dichiarare l’identità del congiunto visitato: così, oltre a incentivare le certificazioni fake (vedi sotto) si perde un’informazione importante sul contatto, che potrebbe diventare assai utile (in attesa della fantomatica app).

E poi contiene prescrizioni ridicole: una di queste è il reiterato divieto di visita a seconde case. Che verrà sistematicamente - e meritatamente - aggirato (sia pure a livello infra-regione) precisamente in forza della famigerata congiuntivite anonima: scusate, ma chi non può giurare di avere un parente, un amico intimo, una fidanzata, ma che dico, persino una tomba (! molti cimiteri vengono riaperti!) a cui fare visita... miracolosamente localizzati ad un passo dalla seconda casa? 

Ormai è scoppiata la febbre dell’ora, nel senso che non si vede l’ora di dare al virus ciò che si merita: un bel vaffanculo! E, da perfetti italiani, ci muoviamo in totale unisono. Così il funambolico Daniele Luttazzi (F.Q. del 23 u.s.) dipinge lo schema di ripartenza che sta profilandosi all’orizzonte:

In Sicilia non sono ammesse le grigliate, in Friuli è proibito passeggiare senza cagnolino, in Abruzzo è permesso grigliare il cagnolino.

In Lombardia, la regione di gran lunga più colpita da Fontana, a maggio riprenderanno le attività produttive, ma ci sono polemiche per la decisione di trasferire tutte le acciaierie dentro il Pio Albergo Trivulzio.

In Piemonte restano chiusi i negozi di abbigliamento per l’infanzia, ma restano aperti i neonati.

In Campania i morti sono solo 300, ma nessuno vuole uscire di casa finché De Luca non avrà venduto il suo lanciafiamme.

In Calabria è obbligatorio lavarsi le mani dopo aver strangolato qualcuno.

Nel Lazio faranno a tutti gli anziani la vaccinazione anti-pneumococco, per evitare che l’influenza venga scambiata per coronavirus, e la vaccinazione anti-Camilleri, per evitare che Zingaretti venga scambiato per Montalbano,

L’Istituto Superiore di Sanità ripete che la distanza minima fra le persone dev’essere di un metro e mezzo. Ma come calcolarla con esattezza? Non siamo tutti come Rocco Siffredi, che può usare il pisello. (Rocco: “E non è facile, ripiegarlo in tre parti per ridurlo a un metro e mezzo”).

In Toscana tutti sperano che la Fase 2 non sia “come chiede’ ai fiorentini della topa”.

In Sardegna sassaresi e cagliaritani continuano ad accusarsi reciprocamente di aver diffuso il Coronavirus in Cina.

La Valle d’Aosta ha riaperto le spiagge della Sicilia.

E allora diamo allegramente la carica per questo liberatorio assalto alla diligenza con un’appropriata fanfara:








[Dopodichè non ci resta che incrociare le palle dita in vista di metà maggio, quando si cominceranno a vedere i primi effetti dell’assalto...]

28 aprile, 2020

Feste del lavoro


Con i tempi che corrono c’è poco lavoro da festeggiare. Ma almeno, stando a casa, non si rischia l’intubazione, ed è già qualcosa.

Noi possiamo comunque celebrare la festa in musica, ad esempio ascoltando nientemeno che una Sinfonia intitolata alla ricorrenza. Sinfonia (mah, una fantasia, sembrerebbe...) che l’entusiasta Dmitri Shostakovich compose (ma non si sa se entusiasta per la ricorrenza o per la... ricompensa, leggasi la sostanziosa commissione ricevuta dal regime per comporla...) proprio nel bel mezzo della grande crisi del ’29.

Sinfonia, come la seconda, con coro finale (neanche fosse Beethoven!) inneggiante alla presa comunista del potere, palesemente richiamata nel testo cantato, opera di uno - tale Semën Isaakovič Kirsanov - che veniva considerato una brutta, e soprattutto innocua, copia di Majakovski, e proprio per questo assai più gradito dello scomodo originale al regime del baffone georgiano.

Ecco qua i versi che Shostakovich musicò come chiusura in gloria di questa sua non propriamente eccelsa partitura:

ПЕРВОМАЙСКАЯ

Nel primissimo Primo Maggio
Una torcia fu gettata nel passato,
una scintilla si fece falò,
e le fiamme avvolsero la foresta.

Con le orecchie delle ondeggianti conifere
la foresta ascoltò
le voci e i rumori
della nuova parata del Primo Maggio.

Il nostro Primo Maggio.
Nel luttuoso sibilare di pallottole
impugnando baionette e fucili,
il palazzo dello zar fu occupato.

Il palazzo del detronizzato zar:
quella fu l’alba di Maggio,
avanzando in marcia,
nella luce di luttuose bandiere.

Il nostro Primo Maggio:
un futuro di vele,
spiegantesi sopra un mare di grano,
e i passi rimbombanti delle squadre.

Squadre nuove, nuove classi di Maggio,
con occhi fiammeggianti rivolti al futuro.
Fabbriche ed operai marciano alla parata del Primo Maggio,  
raccoglieremo i frutti della terra, è arrivato il nostro momento.

Ascoltate, lavoratori, 
la voce delle nostre fabbriche:
nel radere al suolo la vecchia,
voi dovrete accendere la nuova realtà.

Bandiere che sorgono come il sole,
marciate, che i vostri passi rimbombino.
Ogni Primo Maggio
è una tappa verso il socialismo.

Primo Maggio è la marcia
di minatori armati.
Nelle piazze, o rivoluzione,
marcia con milioni di piedi!

Beh, quanto a retorica ed auto-incensazione non c’è male: solo che oggi assomiglia curiosamente a quella del tanti Bonomi&Bonometti (spalleggiati dai tanti Zaia&Salvini) di turno che inneggiano alla ripresa hic-et-nunc (già anzi in ritardo) del lavoro (...degli altri) per non compromettere il futuro (...il loro, soprattutto). 

Dicono: se non si riparte, si muore di fame invece che di Covid (altra ardita formulazione filosofica: la dignità mia la compro con la vita tua, cruda versione dell’adagio Il lavoro nobilita l’uomo). Orbene, a parte che mi risulta che, di fame, si morisse già ben prima dell’arrivo del Covid, un rapido conto-della-serva ci dice che - con questo tipo di lockdown, appena ritoccato con la riapertura delle scuole e depurato da cervellotiche misure sulla mobilità individuale - potremmo andare avanti per un tempo abbondantemente superiore a quello richiesto per dotarci del vaccino, senza morire di fame... Certo, ci sarebbe da soddisfare solo un trascurabile prerequisito: che il 10% dell’umanità che detiene il 90% della ricchezza ne distribuisse una parte nemmeno troppo cospicua al restante 90%, che potrebbe così salvarsi sia dalla fame che dal Covid.

Poi ci si è messa pure la CEI, blaterando di libertà di culto violata (una variante della filosofia laica di Schauble: ma non sono costoro i difensori ad oltranza della vita?) E allora quell’altra religione che chiamiamo Arte (musicale, nel nostro caso) non avrebbe forse gli stessi diritti costituzionali? A Milano, per dire: il tempio aperto e, ad una galleria di distanza, l’altro sbarrato? 
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Però, già che ci siamo, cerchiamo di decifrare questo lavoro piuttosto inafferrabile, che di sinfonia (come normalmente intesa) non ha molto. Per prima cosa, la presenza del coro conclusivo è di per se discutibile: certo, dopo Beethoven, già Mendelssohn e poi Mahler e ancora Scriabin avevano proposto questa contaminazione di generi, che però Shostakovich spingerà oltre ogni ragionevole limite, chiamando sinfonia ogni genere di patchwork gli venisse in mente di comporre... Nella Terza non solo non troviamo una chiara suddivisione in movimenti (soltanto cinque principali indicazioni agogiche, vagamente riconducibili a quelle caratteristiche della forma classica) ma soprattutto non vi trova posto alcuna coerente narrativa, intesa come esposizione e poi sviluppo, riutilizzo, variazione di temi o motivi musicali. 

Non sarà un caso che Vasily Petrenko, Direttore della Liverpool Philharmonic, con la quale ha inciso l’integrale delle sinfonie di Shostakovich, parli della Terza (e della simile, per certi versi, Seconda) come di un’opera di cui si fatica a comprendere la logica (!) Dopodichè giustifica questa carenza con la (celata) volontà del compositore di prendersi gioco della retorica del regime... Mah, lo Shostakovich della Terza era ancora un ragazzo di 23 anni, pieno di entusiasmo (anche per la rivoluzione) con una movimentata vita sentimentale ed era in piena crescita di apprezzamenti e di... carriera: il disincanto (e la paura di lasciarci le penne) arriverà solo qualche anno dopo, con il colpo basso rifilatogli a tradimento dalla coppia Stalin-Zdanov a proposito della Ledi. 

Seguiamo allora la proposta esecuzione della Sinfonia, diretta dal venerabile Rozhdestvensky
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Intanto, un’osservazione tecnica riguardo l’edizione della partitura che si può scaricare dal sito scorser: sappiamo che Shostakovich indicava sempre meticolosamente il metronomo da seguire, accanto all’indicazione agogica qualitativa (Allegretto, Moderato, e così via); e sappiamo anche che spesso sono nate discussioni e diatribe relative a tali indicazioni, fra chi le considera bizzarre se non addirittura demenziali, e chi incolpa di grossolani errori il copista, l’editore o lo stampatore. Sta di fatto che lo stesso Autore spesso e volentieri eseguì la sua musica contraddicendo clamorosamente le indicazioni metronomiche pubblicate.

La Terza inizia in Allegretto a 100 semiminime (e qui siamo effettivamente nella normalità); ma poi l’indicazione sull’Allegro che segue lascia letteralmente allibiti: 104 minime! Che sarebbe il limite superiore di un Prestissimo. (Del resto 104 semiminime sarebbe altrettanto risibile, visto che Allegro diventerebbe agogica quasi indistinguibile da Allegretto.) Tralascio altri esempi, limitandomi a citare l’indicazione del successivo Andante, tempo ovviamente più lento di un Allegretto: ebbene, qui leggiamo invece 138 semiminime, circa il doppio del normale e tipico di un Allegro... per cui dovremmo concludere che Shostakovich fosse fuori di testa, visto che aveva notato l’Allegretto di apertura a 100 semiminime

Insomma, una gran confusione, che spiega perchè i Direttori (come qui Rozhdestvensky) di solito ignorino quasi del tutto tali indicazioni tecnologiche (quantitative) affidandosi a quelle qualitative, e poi alla propria sensibilità estetica.

[Sul concetto di agogica si potrebbe aprire poi un universo, cominciando col fare distinzione fra la velocità con la quale l’interprete deve suonare un certo brano (la prescrizione dell’Autore) e quella che invece è la velocità della musica percepita dall’orecchio umano. Un banale (estremizzato) esempio: prendiamo una partitura sulla quale il compositore indichi Larghetto (metronomo 50 semiminime): ci aspetteremmo una melodia piuttosto lenta, riposante, tipo Ombra mai fu, avete presente? Ma se il compositore scrivesse in ogni battuta di quel brano 4 semicrome al posto di ciascuna semiminima e l’interprete rispettasse il metronomo, al nostro orecchio il brano farebbe l’effetto di un Prestissimo! Non diversamente, a parità di tempo di percorrenza della distanza, l’agogica di un centometrista longilineo ci apparirà più rilassata di quella di un brevilineo...]
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L’apertura è un poco à-la-Haydn: non proprio con un Adagio, ma quasi: 55 battute introduttive di Allegretto (4/4, come il resto della prima sezione della Sinfonia) dove il primo clarinetto, poi raggiunto dal secondo, espone una delicata melopea, che porta (1’55”, Più mosso) ad un assolo della tromba, poi del corno, su ritmo marziale scandito dagli archi in pizzicato e fra svolazzi dei legni. Qui il tempo accelera progressivamente per raggiungere l’Allegro (2’26”). 

I motivi di questa sezione sono principalmente di carattere nervoso (una delle caratteristiche distintive del compositore) raramente alternati ad espressioni più composte (come ciò che si ode a 3’55”). La spiccata teatralità (o cinematograficità) di questa musica comincia a manifestarsi in diversi momenti topici, come l’accordo tenuto dall’orchestra a 4’27” seguito da un drammatico colpo di timpano, prima di una ripresa più vivace (Più mosso). A 5’38”, Meno mosso, ecco un nuovo passaggio meno nervoso, che prepara (6’22”) il ritorno dell’Allegro, dove un commentatore del video individua una possibile e plausibile reminiscenza di un passaggio (N°21, Allegro) delle Drottningholmsmusiken del settecentesco svedese Johann Helmich Roman.

Si prosegue in un crescendo di convulsioni sfocianti, a partire da 7’47”, in quattro reiterati interventi della tromba, che si staccano sul fondo ribollente dell’orchestra e culminano in altrettanti tutti (esaltati da piatti e triangolo) finchè (8’32”) ecco un altro esempio di teatralità: un lungo rullo di tamburino, che si protrae per 25 battute, fa da unico sfondo agli stentorei interventi solistici dei corni e poi della tromba. Al tacere del tamburino, sono ottavino, oboe e fagotto, poi raggiunti anche dal clarinetto, a prendere la scena con spiritate figurazioni. Quindi torna a farsi viva (9’47”) la tromba, sempre spalleggiata dal tamburino, e poi da due corni; infine il clarinetto ci fa sentire i suoi impertinenti svolazzi, su un marziale tappeto di archi bassi; anche il fagotto (10’27”) lancia un ultimo richiamo: siamo ormai vicini alla conclusione dell’Allegro, protagonisti, ora in pizzicato, celli e bassi, poi il timpano, che preparano - in una specie di misteriosa suspence - il terreno per la prossima sezione. Come si vede, nulla di lontanamente riferibile agli schemi classici di un primo tempo di Sinfonia.

Il successivo Andante attacca (10’53”) con 11 battute introduttive in 4/4 caratterizzate da tre isolati lamenti dei primi violini (affiancati, sul terzo, dai secondi). Un rullo di timpano, chiuso da quattro secchi colpi, dà inizio - con tre schianti dei fiati - al corpo di questa seconda sezione (11’34”) di 100 battute in tempo 3/4. Anche qui è quasi impossibile trovare il bandolo in un susseguirsi, senza logica apparente, di motivi esposti da diverse sezioni dell’orchestra. Dapprima gli archi, dai bassi agli alti, che poi (12’21) ricordano fugacemente il motivo svedese dell’Allegro. Quindi fanno capolino corni e tromboni, poi ottavino e violini, finchè (13’36”, Meno mosso) tocca al flauto esibirsi nella sua lamentosa esternazione. Ecco ancora i violini (14’44”, Lento) con una triste melopea, che si increspa appena, prima di sfociare (15’15”) nella finale cadenza che porta mestamente alla chiusura della sezione.

La successiva sezione della Sinfonia, un Allegro, sempre in 3/4, occupa il posto del classico Scherzo. Essa principia (16’36”) con i soli archi che entrano a canone (dal basso all’alto) per introdurre (rimpiazzati dai corni) spiritate figurazioni dei legni, su un ritmo ostinato (6 crome a battuta) che è una delle caratteristiche somatiche di molta musica di Shostakovich, che evoca sferraglianti locomotive o il martellare dei magli nelle acciaierie. È forse questo l’unico vago riferimento in musica al lavoro, quindi alla sua festa.        

Il brano si sviluppa poi con interventi di tutte le sezioni dell’orchestra e con la comparsa di qualche sincope ad increspare l’insistente monotonia del ritmo. Il quale cambia bruscamente a 18’36”, in corrispondenza di una mutazione del tempo, a 4/4 alla breve. La velocità aumenta leggermente e si instaura un ritmo in piede dattilo (taaa-ta-ta-taaa) o spondeo (leggendolo ta-ta-taaaa-ta-ta): caratteristico di altri macchinari o di altre lavorazioni (compare qui anche il tintinnio dei campanelli). Il ritmo è sostenuto da corni e tromba, con gli archi a disegnare figurazioni puntate. Ecco (19’12”) un intervento dei tromboni, poi si prosegue con l’insistente dattilo finchè una poderosa irruzione dei timpani (19’53”) porta poco a poco, dopo lo stentoreo intervento dei corni (20’15”) al ritorno al ritmo ostinato e regolare, che permane fino a 20’40” (Poco meno mosso).

Adesso l’intera orchestra si lancia in una teatrale perorazione, fatta di successive ondate culminanti in altrettante prese di respiro, fino a sfociare (21’44”, Allegro molto) in una lunga, invero melodrammatica coda appoggiata su un sottofondo di triangolo, piatti (con bacchette) timpani, tamburo e grancassa (par di sentire un certo Mahler... volgaruccio). Da 22’14” (Meno mosso) eroiche e stentoree figurazioni si alternano a precipitose cadute nell’abisso, fino a quando, di tutto questo gran bailamme, resta solo il funereo tappeto di timpani, tamburo e cassa, la quale lascia udire otto lugubri rintocchi, quasi ad evocare un’esecuzione capitale comminata a bastonate.

A questo punto (24’01”) inizia la quarta sezione della Sinfonia, un Andante-Largo in 3/4 di 87 battute che prepara il coro finale del 1° Maggio. È monopolizzato da interventi degli ottoni e degli archi bassi. Dapprima la tuba (con un’interiezione del fagotto) si produce in una discesa dal DO sopra il rigo al SOL sotto il rigo (2 ottave e mezza) chiusa da uno spaventevole colpo di tam-tam; poi (24’32”, Largo) sono celli e bassi a rispondere con tre salite in glissando (LA-FA, LA-SIb, SOL-DO) subito seguiti dalle trombe, nel silenzio generale. Ancora due glissando degli archi bassi, seguiti da una progressione ascendente, suggellata da un nuovo intervento di tam-tam. Sono i tromboni adesso a venire da soli in primo piano, presto raggiunti dalle trombe. Ancora due glissando degli archi bassi, poi un nuovo recitativo dei tromboni. Ora (27’23”) tutti gli archi intervengono, dapprima in glissando, poi a contrappuntare i tromboni, finchè si giunge ad una sospensione cui segue (27’53”) un tremendo schianto generale. Ancora tromboni, tuba e poi trombe chiudono la sezione su un fortissimo SIb, accompagnato da un poderoso cymbal clash

Eccoci quindi al finale (28’33”, Moderato in 4/4). Il coro è introdotto da 5 movimentate battute degli archi sulle quali spiccano note tenute dei legni. A 28’46” attaccano quindi le voci, che espongono le 9 strofe dell’inno. La tonalità, dal DO minore si muoverà verso il trionfalistico MIb maggiore conclusivo: in questa ultima strofa troviamo almeno un paio di arditi salti di tonalità, che inevitabilmente ricordano quello del finale del mahleriano Titan. La sinfonia si chiude con sei battute sul pesante ritmo marziale dell’intera orchestra, al di sopra del quale si staccano gli stentorei squilli della tromba sola, che (anche qui emulando gli scrosci dei corni del finale della Prima di Mahler) toccano per otto volte la dominante SIb, prima dell’ultima battuta, un unisono generale di MIb.
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Che dire? Un lavoro da cui traspare tanta (forse troppa) voglia di fare; un turbinare di idee, magari singolarmente apprezzabili, dove emerge chiaramente il DNA del compositore, ma un po’... accatastate, ecco, senza capo nè coda: un Durchkomponieren senza alcun soggetto, dichiarato o sottinteso che sia. Perchè anche il titolo - 1° Maggio - si applica di certo al coro finale, ma nulla ha a che spartire con tutto il resto dell’opera, che potrebbe benissimo essere la colonna sonora di un film su 6 gennaio, 15 agosto e 2 novembre (!)

23 aprile, 2020

Liberazioni


XXV Aprile in casa... 

Nel caso (disperato) in cui Salvini (Cantare meno 'Bella ciao' dai balconi e lavorare di più) cambiasse idea:


Guarda caso pare che anche lo sbifido invasore che ci tiene tuttora asserragliati in casa sia stato portato qui dalla Germania, che tuttavia non dà propriamente l'impressione di farsi in quattro per aiutarci a fronteggiarlo, facendo in tal modo un gran favore al suddetto Salvini.

Scusate, ma non era proprio un crucco quel tale che inventò questa musica, dalla quale abbiamo (affrettatamente?) tratto l’Inno europeo? 


21 aprile, 2020

In memoriam di un’infermiera


Das Mädchen:
Vorüber, ach, vorüber!
Geh, wilder Knochenmann!
Ich bin noch jung, geh, Lieber!
Und rühre mich nicht an.

Der Tod:

Gib deine Hand, du schön und zart Gebild!
Bin Freund und komme nicht zu strafen.
Sei guten Muts! Ich bin nicht wild,
Sollst sanft in meinen Armen schlafen!

(Mathias Claudius)

La fanciulla:
Via, ah, sparisci!
Vattene, barbaro scheletro!
Io sono ancora giovane; va', caro!
E non mi toccare.

La morte:

Dammi la tua mano, bella creatura delicata!
Sono un'amica, non vengo per punirti.
Su, coraggio! Non sono cattiva,
dolcemente dormirai fra le mie braccia!

(Traduzione di Pietro Soresina)


19 aprile, 2020

Ascese e cadute


Tipo: la Sanità lombarda da Formigoni a Fontana?

Ecco, più o meno: come la città di Mahagonny. Le cui vicissitudini, invece che essere messe in scena tra qualche giorno a Parma e poi a Reggio Emilia (altro personale appuntamento sfumato... a proposito: #iorinuncioalrimborso) si possono oggi seguire in diretta ascoltando i gorgheggi del tenore Matteo Salvini, del castrato Giulio Gallera e del soprano Licia Mattioli. Insomma: nulla di nuovo sotto il sole, direbbe Brecht.

E infatti, corsi-e-ricorsi: il Songspiel e poi l’Opera che ne fu l’estensione videro la luce nel bel mezzo della più grave crisi economica del capitalismo, che mise in ginocchio l’intero pianeta! Ma della quale questa riservata a noi, millantati inossidabili del terzo millennio, promette assai bene di battere tutti i record...

LasVegas, Billionaire e paradisi fiscali, ecco le moderne Mahagonny. Ma dice bene Fatty, alla fine:

Potrai ben parlar dei suoi bei giorni
potrai pure scordarli i suoi bei giorni,
potrai vestirlo d’una linda camicia:
non potrai salvarlo, un uomo morto.

15 aprile, 2020

Per i nati nel terzo millennio


Sono loro che (virus permettendo) potranno constatare se la nostra Liebe Erde fra 50 anni sarà salva o... perduta (per loro, mica lei).


Lascio volentieri a loro di stare alla finestra per godersi la suspence, o invece di agire coscientemente per raggiungere uno dei due opposti obiettivi, rispetto ai quali si può star certi che la Liebe Erde sia del tutto indifferente (fin dai tempi dell’Eden lei non fa che ripetere, agli umani pirlotti, imperturbabile: ahò, so’ ccazzi vostri, mica miei...) 

Così ho pensato fosse meglio tornare un filino indietro nel tempo, precisamente a prima di quel giorno che vide l’inizio del più incredibile spettacolo mai messo in scena. E, per combattere uno degli effetti indesiderati del Covid-19, mi sono riavvicinato a quella mirabile opera d’arte che risponde al nome di Die Schöpfung, che mi ero ripromesso di ascoltare a Bologna fra qualche giorno, obiettivo finito in discarica, con mascherine, guanti usati e tutto il resto.  

Tempo fa (son passati più di sette anni!) avevo scritto alcune brevi note sull’intera opera, in occasione di un’esecuzione delle formazioni di Helmuth Rilling al MITO, prendendone poi in particolare esame l’Introduzione, da Haydn battezzata Die Vorstellung des Chaos (La rappresentazione del Caos) che in sole 58 battute evoca con grandissima sapienza lo scenario preesistente alla decisione divina di creare il... creato. 

Insomma, anche Dio, proprio come noi quarantenati in casa (ma Lui non era minacciato da un coronavirus) si cominciò ad annoiare di un eterno e immutabile tran-tran (il Caos, appunto) nel quale si era rinchiuso chissà perchè, e decise di... ripartire. Anzi, stando a sedicenti cosmo-esperti, di far prendere finalmente un po’ d’aria a quella sua incommensurabile massa che aveva rinchiuso nel suo microscopico appartamento, un vero buco... nero. Poi, qualche miliardo (?) di anni più tardi, scappatogli l’occhio su quel granello di polvere chiamato Terra, decise che era il caso di spedirci, magari camuffato da virus come questa volta, uno dei suoi tanti - peraltro sempre inascoltati - #macheminchiastateaffa’? Mica per niente il vecchio Josephus, nella sua musicale narrazione, si fermò all’Eden, preferendo non incamminarsi su una strada che avrebbe trasformato il suo Oratorio in una... via-crucis.
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Com’è noto, la prima esecuzione dell’Oratorio (domenica 29 aprile 1798) avvenne a Vienna in forma privata, nel sontuoso palazzo del Principe Schwarzenberg. Un anno dopo (martedi 19 marzo 1799) si ebbe la prima pubblica, sempre a Vienna. Ma una particolare prima fu quella di domenica 27 marzo 1808, nella Sala delle Feste dell’Università della capitale austriaca. Haydn era presente ed acclamato dalla folla, ma ormai malconcio (gli resterà poco più di un anno di vita) tanto da dover abbandonare la sala dopo la prima parte dell’Oratorio. Quell’esecuzione (sul podio Antonio Salieri) fu la prima ad essere fatta in pubblico in lingua italiana (anche qui il Principe Lobkowitz l’aveva già fatta eseguire a casa sua tempo addietro).



La traduzione (dal testo tedesco di Gottfried van Swieten) riportata nella versione ritmica dello spartito (stampato da Artaria a Vienna) fu opera di un italiano, Giuseppe (de) Carpani, poeta di corte e grande ammiratore di Haydn, del quale si vantava di essere amico e sul quale scrisse le Haydine, lettere immaginarie recanti aneddoti, ricordi e... pettegolezzi riguardanti il compositore, e diverse notizie proprio relative all’Oratorio. Ne cito una perchè credo si applicherebbe ancor oggi a tanti cantanti e direttori che - convinti di apportare valore aggiunto all’originale - si prendono ogni sorta di libertà: 

L’Haydn era così severo in fatto di pretta esecuzione di questa sua musica, che assistendo ad una prova (...) diede una sonora lezione alla notissima cantante la signora Campi, che, dotata di grande estensione, forza e volubilità di voce, mal poteva di solito frenarsi nella profusione degli abbellimenti. Giunta era la prova ad un passo rimarchevole del primo finale, quando l’Haydn prorompe in un grido, e, sospesa ogni cosa, volgesi bruscamente alla cantante, e le dice: “Cosa sono queste note? Io non le ho scritte. Chi gliele ha consigliate?” (La saputella aveva sostituito ad una semi-breve tenuta un suo ghiribizzo di volatine, che infrascando d’incongrue note il passo, lo stravisavano.) La sbigottita cantante rispose: “Perdoni, sig. maestro. Quelle note ce le ho poste io, perchè mi parea che facessero bene.” “E se facessero bene, soggiunse l’Haydn, le avrei poste io prima di lei. Fanno male, e perciò non le voglio; canti come sta, e ci guadagneremo ambidue.”

Per omaggiare Haydn quel giorno dell’esecuzione in italiano, Carpani, cui era stato assegnato un posto in sala proprio dietro alla poltrona su cui sedeva il vegliardo, portato lì di peso, compose per l’occasione questo breve sonetto, che verrà persino musicato da Salieri: 

   A un muover sol di sue possenti ciglia
      Trar dal nulla i viventi e l’Universo,
      E spinger Soli per cammin diverso,
      E immensa attorno a lor d’astri famiglia;
   E natura sì ordir, che, di sè figlia,
      Si rinnovi ogni istante, e il dente avverso
      Le avventi invan lo Struggitor perverso,
      Se Dio lo volle e il fe‘, qual meraviglia?
   Ma ch’uom l’opra di Dio stupenda e rara
      Eguagliar tenti con pittrici note,
      E la renda al pensier presente e chiara,
   Non possibil cimento a ognun parea.
      Haydn, tu il festi. In te chi tutto puote
      Tanto versò di sua divina idea.    

La versione italiana di Carpani (assai aulica nello stile) fu oggetto, nell’800, di parecchie esecuzioni dell’Oratorio in diverse città italiane, come dimostrano numerose edizioni a stampa del libretto, comparse a Bologna, Cremona, Firenze, Milano, Napoli, Roma, Venezia. (Per curiosità, le edizioni fiorentine suddividono l’Oratorio in due parti, 1+2 / 3.) In tempi recenti non risultano esecuzioni, nè quindi registrazioni, in lingua italiana. 

Un’altra traduzione italiana (apocrifa) compare in un’edizione (del 1805?) della partitura d’orchestra apparsa a Parigi, con testi in francese e italiano. Ne scrisse, in termini assai negativi (chissà perchè?) proprio Carpani in una delle sue letterine su Haydn. Lo stesso testo italiano si trova, aggiunto a penna sotto quello tedesco, su uno spartito dell’Editore Mollo (Vienna, 1800) conservato in Spagna. Esiste una traduzione, in linguaggio più moderno (senza riferimenti all’autore) riportata su programmi di sala della Scala e del MITO. E un’altra ancora sul sito l’Orchestra Virtuale del Flaminio (legato a Santa Cecilia) purtroppo incompleta nella terza parte.

Quanto alla musica, il manoscritto originale pare sia andato perduto, e ci restano le edizioni di Mollo e (più tardi) di Breitkopf. Una versione manoscritta apocrifa è custodita da una Fondazione brasiliana, che l’ha caricata in rete (IMSLP): interessante notare come l’Oratorio vi sia diviso in due parti (1 / 2+3) con indicazione dei tempi di esecuzione (1h10’ + 1h05’ = 2h15’) assai più lunghi degli odierni tempi medi, che stanno poco o tanto sotto le 2h. 

E quindi veniamo al sodo, cioè ad ascoltare questo capolavoro. Il primo suggerimento va (noblesse oblige) a quell’Uomo (assai prima che musicista) che fu Lenny Bernstein. Nel giugno del 1986 (poche settimane dopo il disastro nucleare di Chernobyl) diresse l’Oratorio nella grande basilica barocca incorporata nel monastero benedettino di Ottobeuren, in Baviera, con l’Orchestra e il Coro della Radio locale. Impiegò cinque (e non tre) solisti di canto, fra i quali spiccano i nomi di Kurt Moll (Raphael) e Lucia Popp (Eva). A margine della rappresentazione Bernstein registrò, all’aperto, fra le aiuole su un lato del monastero, e con lo stesso abbigliamento del concerto, un breve pistolotto che meriterebbe di esser mandato a memoria da tutti, ma soprattutto da coloro che reggono (senza merito alcuno, va detto) le sorti di questo nostro granello di polvere. 

Più vicino a Haydn e alla sua terrena vicenda è il secondo suggerimento: che ci porta ad Eisenstadt. Haydn trascorse quasi 30 anni della sua esistenza (dal 1761 al 1790) in questa cittadina a sud di Vienna, dividendo il suo tempo (soprattutto in estate) con il vicino paesetto di Fertőd, distante 40Km in linea d’aria, appena a sud dell’attuale confine che separa Austria e Ungheria. Nelle due località sorgono altrettanti palazzi della famiglia dei Principi Esterházy (in particolare quello di Fertőd intendeva rivaleggiare con... Versailles) della quale Haydn fu (sotto Nicola I) Maestro di cappella.


Purtroppo Nicola I fu uno spendaccione morto pieno di debiti, ereditati dal figlio Antonio che non trovò di meglio - per risanare le sue finanze - che disfarsi anche della sua cappella, Haydn incluso. Ascoltiamo quindi l’Oratorio nella grande sala del palazzo di Eisenstadt, dove Haydn aveva tante volte allietato le ore del suo mecenate con le sue Sinfonie e Quartetti. Lo interpretano - in occasione del 200° anniversario dalla sua scomparsa - Orchestra e Coro austro-ungarici (e tre soli solisti di canto) diretti da uno che (insieme al fratello Ivan) perpetua la tradizione musicale sette-ottocentesca dell’era asburgica: Ádám Fischer (o meglio: Fischer Ádám, come si usa a casa sua).

Non c’è due senza tre? Certamente: ma il tre lo lascio alla libera scelta di ciascuno: in rete, ma son certo anche in molti scaffali casalinghi, c’è ampia disponibilità di questi suoni... celestiali.