ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

18 febbraio, 2019

La Chovanščina in arrivo alla Scala (2)


Si è detto: Chovanščina opera incompiuta. Dato che però in teatro, fin dal 1866, essa viene rappresentata in tutto il mondo, sarà opportuno scoprire in quale modo si è arrivati ad averne una versione (anzi, oggi più di una versione) completa e rappresentabile.

Innanzitutto: cosa ci ha lasciato Musorgski? Una montagna di manoscritti, oggi custoditi nelle biblioteche russe o presso privati, tutti corredati dalla data di completamento, che riportano la concezione dell’opera, le fonti storiche consultate e - soprattutto - lo spartito canto-pianoforte delle singole componenti (qualcosa di vagamente assimilabile a numeri nella tradizionale strutturazione del melodramma) la cui sequenza di produzione fu tutt’altro che rettilinea, richiedendo non meno di 8 anni. Preziosa per l’interpretazione delle volontà del compositore è la gran messe di informazioni - relative alla composizione dell’opera - contenuta in numerose lettere scritte da Musorgski allo sponsor Stasov e ad altri amici e conoscenti.

Il materiale originale è incompleto, mancando (rispetto alle dichiarate intenzioni dell’Autore) di due finali (Atto II e Atto V) e dell’orchestrazione, della quale Musorgski ha lasciato solo due brani dell’Atto III: la canzone di Marfa e il Coro degli Strelcy. Quindi stiamo messi ben peggio rispetto ai due Boris, che Musorgski aveva passabilmente completato (soprattutto il secondo). Qui, oltre a completare i due finali d’atto citati, per rendere l’opera rappresentabile era necessario inventarne quasi per intero la strumentazione!

E a questo pensò, ancora una volta, Nikolai Rimski-Korsakov, che si accollò l’immane compito, facendo pubblicare nel 1883 la sua ricostruzione e riuscendo a far rappresentare l’opera già nel febbraio del 1886. É la versione che successivamente ha girato i principali teatri del pianeta, decretando il successo dell’opera, ed è stata oggetto di diverse registrazioni.


Ma inevitabilmente l’intervento di Rimski si portò dietro (proprio come - e più che - per il Boris e per la Notte sul Monte Calvo) le sue impronte inconfondibili, consistenti nel tagliare senza pietà interi passaggi ritenuti carenti e nel rivestire la musica di Musorgski di una (per noi assai accattivante, ammettiamolo) patina di romantica occidentalità; interventi così marcati da quasi stravolgere i tratti somatici - da lui evidentemente ritenuti rozzi e primitivi - dell’originale. Più avanti seguiremo sommariamente una registrazione di questa versione, alla quale va riconosciuto comunque il grande merito di aver fatto conoscere al mondo l’opera fin dalla sua nascita.    

Nel 1913 Diaghilev la mise in scena a Parigi e per l’occasione - ritenendo la versione di Rimski nientemeno che un attentato alle volontà di Musorgski, del quale aveva dato un’occhiata ai manoscritti - chiese a Stravinski (che poi fece coinvolgere nell’impresa anche Ravel) di strumentarla ex-novo. Cosa che non accadde se non in minima parte; in particolare Ravel riorchestrò (Atto I) la scena dei moscoviti che bistrattano lo scrivano; poi (Atto III) la canzone di Kuzka e degli Strelcy. Quanto al compositore russo, riorchestrò (Atto III) l’aria di Šaklovityj (affibbiata per l’occasione a... Dosifej, in modo da farla cantare al grande Šaliapin) e (atto V) riscrisse, ampliandone le dimensioni, il coro finale:


Quest’ultima parte è stata impiegata nella produzione di Claudio Abbado a Vienna nel 1989, di cui parleremo.

Per fortuna ci fu chi (Pavel Lamm, nel 1931) si prese l’incarico di raccogliere, sistemare e pubblicare tutto il materiale originale (disponibile a quel tempo) di Musorgski, mettendo quindi anche altri compositori nelle condizioni di completare ed orchestrare il lavoro.


Per la verità anche l’edizione di Lamm lascia aperti alcuni dubbi, relativi a correzioni e/o tagli apportati sui manoscritti originali da mani che sembrerebbero a volte quelle del compositore, ma a volte del tutto estranee. In questi casi, Lamm ha pubblicato tutto, corredandolo di note a piè pagina.

Il primo a cimentarsi nella strumentazione, e a stretto giro, fu il noto musicista-musicologo Boris Vladimirovich Asafiev, collaboratore di Lamm, il cui lavoro - pesantemente criticato ai suoi tempi da una specie di giuria di musicisti coinvolta dallo stesso Lamm - è fatalmente caduto nel dimenticatoio (leggasi: l’Archivio russo di Stato della Letteratura e delle Arti, RGALI) e da lì nessuno finora si è premurato di riportarlo alla luce e tanto meno alle scene. 

A complicare ulteriormente le cose, molti anni dopo l’edizione di Lamm (precisamente nel 1946) fu rinvenuto fra le carte di un poeta amico di Musorgski (Arseny Arkadyevich Goleníshchev-Kutúzov) un manoscritto del compositore (denominato quaderno blu e pubblicato nel 1972) contenente una specie di bella copia del libretto, preparata dall’autore verosimilmente dopo la composizione. In tale manoscritto mancano alcune parti presenti nello spartito (pubblicato da Lamm). La conclusione che i musicologi (e anche alcuni direttori) traggono è che Musorgski medesimo avesse deciso questi tagli, senza però aver avuto modo o tempo o voglia di retro-applicarli anche allo spartito: di conseguenza andrebbero scrupolosamente rispettati. Conclusione peraltro contestabile, chè se per assurdo si dovesse seguire come vangelo il quaderno blu, allora l’opera si dovrebbe interrompere dopo le prime invocazioni di Dosifej e raskolniki, e prima dell’entrata in scena di Marfa: in pratica, verrebbe a mancare l’intero finale e non solo la sua chiusa!

Chi invece portò a termine l’impresa di strumentazione (e completamento) fino alla pubblicazione della partitura, fu Dimitri Shostakovich. Il quale nel 1940 si era cimentato nella ri-orchestrazione del Boris per adattarlo agli enormi spazi del Bolshoj, ma con esito francamente deludente (un lavoro caduto totalmente nel dimenticatoio) e invece nel 1958 approntò la sua versione dell’opera (con un finale di sua ideazione) che è unanimemente ritenuta quella che più si avvicina alle (o che meno si discosta dalle, se si preferisce) presunte intenzioni di Musorgski, tanto che da allora ha cominciato a circolare nei teatri ed è stata più volte incisa su disco e video.


Shostakovich adottò in-toto il materiale pubblicato da Lamm che, come detto, contiene anche le parti cancellate sui manoscritti originali e quelle non riportate da Musorgski nel quaderno blu. Tutto ciò ha come inevitabile conseguenza quella di ingenerare approcci diversi all’esecuzione: c’è chi segue comunque l’edizione completa di Lamm(-Shostakovich) e chi invece (Abbado fu tra i primi) applica alcuni di quei tagli ritenendo che rispecchino le ultime volontà dell’Autore.

Già nel 1959 fu girato un film basato sulla versione-Shostakovich, film peraltro caratterizzato da generose sforbiciate, con la musica diretta da Evgenij Svetlanov. In teatro, la prima rappresentazione di questa versione ebbe luogo venerdi 25 novembre 1960 al Kirov di Leningrado sotto la bacchetta di Sergey Yeltsin. Essa fu poi impiegata a Sofia nel 1986 (ne parleremo); nel 1989, come detto, Claudio Abbado presentò a Vienna questa versione con il finale di Stravinski. Dal 1990 è stato Valery Gergiev a impiegare regolarmente (anche se con qualche... ritocco) la versione-Shostakovich, che fu oggetto anche delle rappresentazioni da lui dirette nel 1998 alla Scala. Ed altri teatri hanno seguito l’esempio, con produzioni più o meno fedeli a questa versione.

Riassumendo: oggi esistono sul mercato (cioè pubblicate ed utilizzabili da chiunque) due versioni principali dell’opera: quella di Rimski del 1883 e quella di Shostakovich del 1958 (la terza versione orchestrata, quella di Asafiev, come detto è rimasta lettera morta.) In più è disponibile il materiale di Stravinski impiegato da Abbado nel 1989 per il finale dell’opera.
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E del finale dell’opera ci occupiamo tra poco, descrivendone le quattro diverse forme. Prima però diamo una scorsa alle tre versioni dell’altro finale, quello dell’atto secondo, pure rimasto incompiuto. Quell’atto si chiude, nel manoscritto originale, con la notizia data da Šaklovityj dell’indagine che lo zar Pietro ha ordinato sui Chovanskij, a fronte della denuncia anonima (ma in realtà di mano dello stesso Šaklovityj) arrivata contro di loro: addirittura vi manca l’ultima battuta di musica, aggiunta da Lamm. Evidentemente Musorgski, che sappiamo come nell’iter di composizione saltasse di palo in frasca, deve aver lasciato in sospeso quel finale (per il quale era incerto fra una semplice ma sinistra cadenza orchestrale e un... quintetto!) proponendosi di completarlo successivamente, cosa che evidentemente non è avvenuta.

Rimski invece - come Stasov convinto assertore della grandezza storica di Pietro il Grande - ha pensato bene di chiudere l’atto aggiungendo di sua iniziativa il motivo dell’alba sulla Moscova (dal Preludio) probabilmente come riferimento ideale e allegorico all’avvento al potere dello zar innovatore.

Shostakovich è stato ancora più esplicito, aggiungendo da parte sua una fanfara che si ritroverà anche più avanti (atto IV e V) e che caratterizza musicalmente le truppe di Pietro.

Abbado ha scelto invece un’altra soluzione ancora, forse più vicina alle... incertezze di Musorgski, copiando qui (trasposte da MIb a RE minore) 5 battute di musica mesta e lugubre che si ritroveranno verso la fine dell’Atto III, al momento dell’invito di Chovanskij a Strelcy e consorti a tornarsene a casa.
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E ora, il finale dell’opera, che merita un discorso assai articolato, data la sua importanza non soltanto musicale. Di esso esistono (ad oggi) quattro versioni pubblicate: originale di Musorsgki (1880, incompleto e non strumentato, pubblicato da Lamm nel 1931); Rimski (1883); Stravinski (1913) e Shostakovich (1958). 

Cominciamo ovviamente da Musorgski (e da Lamm che si è limitato a metterlo in bella copia). Dopo l’incontro fra Marfa e Andrej, la scena finale si apre con gli squilli di tromba (i soldati di Pietro) e l’appello di Dosifej: sono le trombe dell’Eterno che ci chiamano al sacrificio nel fuoco, proclama il santone.

Qui si inserisce una seconda parte del dialogo fra Marfa e Andrej (lei invita l’amato a seguirla al sacrificio) che Lamm non ha trovato tra i manoscritti di Musorsgki (quindi non è presente nella sua edizione). Tuttavia l’Autore ne parla in una delle sue lettere (come detto, durante gli anni della composizione, 1872-1880, egli intrattenne una fitta corrispondenza con il suo mentore Stasov e con altri amici) e pare certo che l’aria fosse stata cantata da Daria Leonova, un’artista che Musorsgki era solito accompagnare nei suoi recital: Rimski deve averne avuto a disposizione il manoscritto, tanto che ha inserito il brano nella sua edizione. Esso viene di norma ritenuto originale (oltre che mirabile...) e quindi anche Shostakovich lo ha incluso nella sua versione.  

Ora si riodono le trombe di Pietro e i raskolniki cantano lodi al Signore. Dosifej invita ancora i suoi fedeli ad incamminarsi verso il sacrificio: la luce della verità vincerà contro le tenebre infernali.

Fin qui tutte le versioni - nella sostanza - concordano. Mentre divergono anche profondamente in ciò che segue.

Musorgski progettò un coro finale dei raskolniki, che invocano il Signore, loro scudo e pastore. Per comporlo trasse lo spunto da un corale preso dalla tradizione russa, e il cui testo/melodia venne segnalato al compositore da un’amica, che lo aveva a sua volta udito da una cantante. Questo riferimento figura nell’autografo di Musorgski (riportato anche da Lamm) con l’indicazione: Cantato da Praskovia Zaritsa e fornito da Liubov Karmalina.


Da questo frammento (due strofe di 10 e 17 battute, recanti la sola melodia) Musorgski ricavò l’abbozzo del coro finale (LAb minore) impiegando le prime 10 battute della seconda strofa (cantate a cappella, come da lui ipotizzato proprio in una lettera alla Karmalina) e ripetendole (tagliando una battuta) con l’accompagnamento orchestrale. Ne modificò parzialmente il testo, nella sua prima parte, in entrambe le esposizioni del tema. Con tutta evidenza non può essere questa la chiusa di un’opera (come minimo ci si aspetterebbe una cadenza conclusiva). Musorgski aveva anche qui lasciato scritte le sue idee (il contrasto fra il coro dei raskolniki e le trombe di Pietro) su come chiudere l’opera, oltre a manifestare forti dubbi sull’opportunità di mostrare il rogo in scena, oppure di lasciarlo solo immaginare allo spettatore.

Ecco quindi che, a partire da Rimski, chiunque si sia cimentato con l’opera ha dovuto necessariamente completare questo torso lasciato da Musorgski(-Lamm) con qualcosa di proprio: non certo nuova musica (a parte piccoli dettagli) ma utilizzo di musiche dell’Autore, riprese da altre parti del lavoro.
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Il primo a cimentarsi con l’impresa fu quindi Rimski (per le rappresentazioni del 1886). Aggiunse in testa al coro 6 battute di un tema del fuoco (musica che richiama curiosamente il wagneriano Loge!) e poi impiegò testo e melodia come riportati da Lamm, sempre in LAb minore, ma con agogica diversa e orchestrazione che ribadisce gli interventi delle trombe di Pietro. Alla chiusa del coro aggiunse di suo le ultimissime esternazioni di Marfa, Andrej e Dosifej (5 battute) e poi riprese il tema trionfale di Pietro per chiudere l’opera in modo enfatico e spettacolare, un autentico panegirico per lo zar innovatore.

Sulla fedeltà della chiusa alle intenzioni di Musorgski si possono ovviamente avanzare dei dubbi, giustificati dall’atteggiamento politico di Rimski, palesemente ideologico e pregiudizialmente favorevole a Pietro. 
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Nel 1913 fu la volta di Stravinski che, su incarico di Diaghilev, approntò un nuovo finale, abolendo tutto ciò che aveva fatto Rimski (incluse quindi le 6 battute del fuoco, le ultimissime esternazioni di Marfa, Andrej e Dosifej e la trionfale fanfara conclusiva) per concentrarsi completamente sul coro, per il quale impiegò il testo del corale recapitato all’Autore dalla Karmalina, mentre la melodia principale è ancora quella della seconda strofa (stessa scelta di Musorgski) ma ne viene impiegata anche parte della prima (cosa ne avrebbe pensato l’Autore?) Al coro dedicò particolare cura (vi interviene anche la voce solista di Dosifej, oltre a quelle di Marfa e Andrej mescolate con il coro) e ad esso applicò anche alcuni suoi, diciamo così, ritrovati musicali già sperimentati in precedenti lavori.

A parte le modulazioni di tonalità e qualche sapiente enarmonia (DO#=REb, RE#=MIb, SOL#=LAb) Stravinski impiega come riempitivo (poi anche Shostakovich lo seguirà su questa strada) le figurazioni che compaiono all’inizio del quinto atto (la foresta). Fa capolino in contrappunto anche una reiterata citazione del coro dei Monaci dell’inizio dell’Atto III. La chiusa si presenta - agli antipodi di quella di Rimski - con una progressione tonale desunta dal Preludio e con un lento dissolversi del suono, accompagnato da lugubri rintocchi di campane.

C’è chi ipotizza (Claudio Abbado per primo, deciso assertore della validità di questa soluzione, da lui adottata a Vienna nel 1989) che essa sia quella che corrisponde più fedelmente alle intenzioni di Musorgski, come espresse in altre parti della sua corrispondenza: in sostanza, niente trionfalismi pro-Pietro, ma una conclusione piuttosto disincantata e quasi pessimistica. Si legga in proposito come il grande Direttore spiegò al compianto Sergio Sablich le motivazioni della scelta di questo finale stravinskiano. 
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Infine Shostakovich, che produsse la sua versione nel 1958. Tenendo buono (salvo interventi minori sull’orchestrazione e aggiungendo alle voci del coro quelle di Marfa - prima parte - e Dosifej - seconda) tutto ciò che aveva proposto Rimski (le 6 battute del fuoco, le esternazioni finali e le strombettate dei soldati di Pietro, escluse le 4 battute conclusive, sostituite da due di transizione) ma aggiungendo poi di sua iniziativa tre spezzoni di musica e coro, precisamente:

- ripresa dall’inizio dell’atto quinto del motivo della foresta (qui a note di lunghezza doppia, negli archi bassi e viole) che poi accompagna il successivo coro (qualcosa di simile a quanto fatto da Stravinski);
- coro dei moscoviti, ripreso dal primo atto;
- ripresa (dal Preludio) del motivo dell’alba sulla Moscova.

Anche qui, taluni critici (vedremo come le scelte dello stesso Valery Gergiev si schierino su questo fronte) tendono a censurare quest’ultimo intervento, che metterebbe troppa carne al fuoco, andando ben al di là delle intenzioni di Musorgski. Poi però le critiche divergono (succede anche per il finale del wagneriano Ring, oggetto di interpretazioni consolanti o pessimistiche): c’è chi - anche in forza della scelta di Shostakovich riguardo la chiusura dell’atto secondo - interpreta il ritorno finale del motivo dell’alba come una presa di posizione pro-Pietro, quindi positiva ed ottimistica; e chi invece interpreta il ritorno del coro dei moscoviti desolati e quello dell’alba come una cinica (e forse autobiografica, per Shostakovich) sfiducia nel progresso dell’umanità (e della Russia in particolare) poichè questi ritorni ciclici sarebbero lì a testimoniare che alla fine tutto torna come prima... E chi può sapere con certezza quale fosse in proposito il pensiero di Musorgski? O è proprio l’incertezza dello stesso Autore sul significato da dare alla conclusione dell’opera che gli impedì di completarla (un po’ come succederà a Puccini per Turandot?)
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Prossimamente proveremo a seguire da vicino, nei dettagli o per differenze, alcune esecuzioni dell’opera nelle diverse versioni/esecuzioni, per meglio comprenderne i rispettivi contenuti. In particolare:

- Versione-Shostakovich:
esecuzione integrale diretta da Emil Tchakarov a Sofia, del 1986;
commenti all’esecuzione di Valery Gergiev al Teatro Marinskii, del 2012;
commenti all’esecuzione di Claudio Abbado all’Opera di Vienna, del 1989;
 
- Versione-Rimski diretta da Boris Khaikin al Bolshoj nel 1946.

Come ausilio all’ascolto, ho predisposto questo testo del libretto, che contiene quanto pubblicato da Pavel Lamm, con l’evidenziazione dei principali interventi (soprattutto tagli) praticati in origine da Rimski ma in parte seguiti anche da Abbado; delle aggiunte di Rimski e (per il finale) di Shostakovich e Stravinski. Lo scopo è di rendere possibile seguire le diverse versioni/interpretazioni dell’opera leggendo lo stesso testo; avendo contemporaneamente la possibilità immediata (attraverso le colorazioni) di apprezzare (o disprezzare...) le scelte di autori e interpreti.
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(2. continua...)

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