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Maurizio & Claudio

29 gennaio, 2018

Torna al Carlo Felice la Norma-fuori-norma


Nel mio personale tour delle Repubbliche marinare, dopo la Venezia del 21 ecco, ieri 28, la Genova del Carlo Felice, che ha ospitato la terza recita di Norma. Beh, mentre la Lanterna (personalmente) mi eccita assai meno di SanMarco, devo dire che il Bellini (e non solo quello di Norma) è davvero altro rispetto allo Spontini (e non solo quello del Pasquale) che pure fu uno dei suoi modelli.

Poco meno di 5 anni fa avevo potuto assistere all’esordio in Norma di Mariella Devia (con il quasi-esordiente Mariotti) a Bologna. E ne avevo scritto come di un evento di prima grandezza, con un epiteto che ho ripreso oggi nel titolo di questo post. A quel tempo la Mariellissima aveva già compiuto i 65, e adesso, 3 mesi dopo questa nuova Norma, lei spegnerà nientemeno che 70 candeline: un cosa da Guinness dei primati! E ovviamente non nella sezione dei Fenomeni da baraccone, ma in quella dei più Grandi artisti lirici di ogni epoca!

Ieri pomeriggio si è fregiata di un ennesimo trionfo, con una prestazione proprio da manuale. Certo, alla sua età le note gravi potranno essere un filino problematiche, ma i centri e gli acuti sono tuttora integri e sbalorditivi. Qualcuno ancora insiste ad avanzare riserve sulla sua voce, che sarebbe di soprano non-abbastanza-drammatico: beh, credo che ieri nessuno abbia potuto tirar fuori sofismi di tal fatta.

La sua allieva (profetessa) Annalisa Stroppa ha discretamente meritato, peccando un po’, secondo me, sugli acuti, spesso piuttosto vetrosi, mentre ha mostrato buona impostazione nei centri: azzeccata comunque la scelta (non è poi una novità, si ricorda la Ludwig con la Callas) di affidare Adalgisa ad un mezzo.

Dei due protagonisti al maschile mi sento di apprezzare Stefan Pop, bella voce squillante, ma un po’ incerto e timoroso (occhi perennemente puntati su Battistoni). Ma di sicuro il tenore rumeno si farà strada, ha solo 30 anni o poco più... Discreto l’Oroveso di Riccardo Fassi, da cui avrei preteso più autorevolezza, sia scenicamente che vocalmente: il suo mezzo è notevole, ma va forse meglio disciplinato.

Elena Traversi e Manuel Pierattelli han dato il loro onesto contributo. Da lodare il Coro di Franco Sebastiani, sempre solido e compattissimo nello strepitoso guerra, guerra!

Andrea Battistoni si agita sempre come un forsennato (forse per cercar di smaltire... ehm, qualche chilo di troppo) e saltella sul podio come da giovane faceva Daniel Oren; quando ci sono brani a piena orchestra scatena i fiati (ottoni in particolare) in accompagnamenti fracassoni che coprono la melodia degli archi. Però nelle scene ad elevato tasso di lirismo (tipo il duetto Norma-Adalgisa dell’atto secondo) si riscatta, trattenendo l’orchestra come si deve, per far risaltare le meraviglie di Bellini.
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L’allestimento, già visto da maceratesi e palermitani, è della premiata coppia di Teatrialchemici (i siculi Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi). I quali avevano da tempo rivelato al mondo la loro vision dell’opera, che comporta il trasloco dell’Irminsul (che già il libretto aveva bizzarramente spostato in Gallia dalla sua natìa Teutonia) in Sardegna, fra fili, tele, reti, stracci e cordami, materiali ispirati alla compianta Maria Lai : la foresta (scena unica, di Federica Parolini) è una jungla di liane, più enormi gabbie che paiono nasse restate a marcire in mare per anni, e dove non si trova una fogliolina nemmeno a pagarla oro. Di stracci o telami simili son fatti anche i costumi (Daniela Cernigliaro) del popolino, mentre i protagonisti (tutti più o meno appartenenti a... caste) si servono da gucci o versaci. Le luci di Luigi Biondi sono abbastanza efficaci, incluse quelle che illuminano il fondale, che cangia da giorno, a notte, a... rogo.

Ma ovviamente non si potrà tacere dell’interpretazione filo-socio-psicologica, che presenta arditi paralleli fra il mondo dei Druidi e quello globalizzato attuale, e digressioni nell’antropologia e persino nella genetica, visto che il bianco Pollione mette al mondo, ingroppandosi una gallica più slavata di lui, un figlio bianco e uno nero... (Evabbè, già il libretto ha dell’inverosimile, visto che ci si vuol far credere che Norma, personaggio quanto mai in vista, abbia potuto avere non dico una, ma due gravidanze senza che alcuno - suo padre compreso, ed esclusi solo Clotilde, Pollione e, per tramite di costui, Flavio - si accorgesse di nulla.)

L’entrata di Norma lascia davvero perplessi: mescolata in mezzo ai Druidi, si stenta a riconoscerla, fin quando non comincia a cantare. Dico, lasciamo pur perdere i capelli cinti di verbena e la falce d’oro per mietere il vischio (come da libretto) ma la musica è quella che introduce una specie di regina, con il coro che la annuncia (Norma viene) con enfasi e retorica degne di una marcia trionfale! La scena mi ha ricordato da vicino l’apparizione del Lohengrin di Guth (visto anni fa in Scala) che la folla scopre a terra in preda a convulsioni epilettiche, mentre (a parte il libretto che lo descrive arrivare raggiante su una barchetta trainata dal cigno) la musica è quanto di più trionfalistico si possa immaginare. Ma si sa, quando un regista creativo si convince di avere un’idea geniale, pur di realizzarla non guarda in faccia nè a libretto, nè a partitura... e se lo spettatore storce il naso, la colpa è esclusivamente sua, ignorante che non è altro!

Devo dire però che sul lato della recitazione i registi non hanno demeritato, così come nel trattamento della masse, fatte muovere con misura ed appropriatezza. Qualche modesto dissenso nei loro confronti (all’uscita finale) è stato annegato da preponderanti applausi.

Applausi e ovazioni che sono andati a tutti indistintamente, con l’eccezione - in superlativo - per la Mariellissima, da parte di un pubblico stipato in teatro come sardine in barile. Oltretutto in una giornata di sole quasi primaverile, mentre al di qua del Turchino imperversa il nebbione... 

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