ricongiungimenti

Maurizio & Claudio

31 gennaio, 2016

Il sommo Händel trionfa alla Scala

 

Ieri sera la Scala ha ospitato la seconda recita de Il trionfo del tempo e del disinganno, l’oratorio di Händel rappresentato in forma scenica da Jürgen Flimm. Teatro abbastanza gremito e pochissimi (ad occhio) abbandoni nell’intervallo, segno che lo spettacolo ha tenuto alta l’attenzione fino all’ultimo.

Ovviamente il merito maggiore va alla musica dell’imparruccato sassone e a chi l’ha mirabilmente diretta, suonata e cantata. Ma devo dire che anche l’allestimento ha dato il suo bel contributo al successo dello spettacolo.

Diego Fasolis è uno dei maggiori interpreti (ma anche promotori) del barocco e lo conferma, guidando (e cooperandoci lui stesso ad uno dei tre clavicembali) una compagine di professori scaligeri che hanno accolto con favore l’idea di cimentarsi con questo repertorio, impiegando strumenti d’epoca (quasi...) e con accordatura a 415. Pur nell’immenso spazio del Piermarini, l’ensemble che è di soli 28 esecutori, di cui 20 dell’orchestra di casa (tutti archi meno una tastiera) rinforzati da 8 barocchisti della Radio Svizzera Italiana (fra cui Gianluca Capuano, ben noto ai seguaci de laVERDI BAROCCA, protagonista all’organo) ha saputo farci sentire ed apprezzare ogni minima sfumatura del suono che esce da quel gioiello che è la partitura di Händel. Un suono (corde di budello e poco vibrato) mai stridulo o vetroso, al contrario sempre leggero ed etereo, come si conviene a rendere al meglio simili capolavori.

Lodevoli tutte le quattro voci, a partire dal Disinganno di Sara Mingardo, davvero impeccabile nel sostenere la parte – come dire – più filosofica dell’Oratorio: portamento severo e autorevolezza assoluta. 
 
Martina Janková è una protagonista ideale, per sensibilità, accenti e capacità di rendere la lenta ma progressiva maturazione del personaggio: dall’edonismo fine a se stesso alla contemplazione di un piacere che non è di questa terra...  

Piacere che è impersonato da una solida Lucia Cirillo, sempre brava nelle ammiccanti adulazioni alla Bellezza come nelle fiere contestazioni ai due pipistrelli che la vogliono... convertire. Si può opinare la scelta di affidare la parte ad un mezzo invece che a un soprano, ma i risultati hanno giustificato in pieno tale scelta, che si è accompagnata anche ad un accredito di un’aria (Un pensiero nemico di pace) che spetterebbe alla sua sodale.

Oltre che dal Disinganno-Mingardo, le severe forze della ragione-religione sono rappresentate da Leonardo Cortellazzi che veste efficacemente i panni del Tempo.

In poche parole, un’esecuzione di prim’ordine che fa onore al Teatro e che il pubblico ha mostrato di apprezzare riservando calorosi applausi a tutti i protagonisti. L’avventura della creazione di un ensemble barocco alla Scala mi pare iniziata sotto i migliori auspici.
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Ispirandosi probabilmente al platonico Simposio, dove un gruppo di amiconi, dopo abbondanti mangiate e libagioni, si imbarca in alate discussioni filosofiche (sull’amore) ecco che Jürgen Flimm e lo scenografo Erich Wonder hanno pensato bene di ambientare l’incontro dei quattro personaggi-concetto dell’austero Oratorio del Cardinal Pamphilj in un moderno ristorante (che richiama programmaticamente, ma solo nell’idea, la famosa Cupole parigina anni ’30) con annessa passerella per esibizioni di un particolare tipo di... Bellezza, impegnata in attività di Disinganno del Tempo per il Piacere dei convenuti (!) Certo, il porporato avrebbe forse qualcosina da obiettare, ma se lo facesse si prenderebbe come minimo dell’ipocrita! Quindi: va bene così, ecco.

Mettere in scena un Oratorio che ha come unico sviluppo narrativo la conversione di un... approccio esistenziale dal terreno al contemplativo non dev’essere semplice nè facile, ma Flimm e compagnia hanno trovato un plausibile equilibrio limitando per quanto possibile eccessi che avrebbero avuto l’unico risultato di distrarre l’ascoltatore dalla meravigliosa musica che sgorgava da buca e palco.

Un simpatico riferimento a quanto narrano le cronache della prima (1707) è stata la comparsa sulla scena di... Händel in persona a strimpellare sull’organo (i cui suoni però eseguiva Capuano in buca) la Sonata che precede l’aria Un leggiadro giovinetto, accompagnato però da un violinista, abbigliato alla ‘700, staccatosi all’uopo dall’ensemble.

Alcune trovate (lo smembramento di una bambola come biglietto da visita del Tempo, l’esplosione di un avventore ubriaco, le ragazze che sfilano sulla passerella, alcuni andirivieni di bizzarri avventori, che sicuramente nasconderanno qualche simbologia nota solo al regista...) possono sembrare gratuite, ma per fortuna non guastano più di tanto. La metamorfosi finale della Bellezza, che sveste i panni mondani per indossare il classico abito da monaca e si toglie la vistosa parrucca bionda per restare con i capelli rasati da penitente è forse eccessivamente didascalica e troppo... curiale, ecco: ad evocare assai bene la presa di coscienza della caducità di ciò che è puro edonismo terreno bastava il progressivo impoverimento (e oscuramento) della scena, che ha caratterizzato la parte finale dell’Oratorio.

Ma insomma, uno spettacolo godibilissimo, dove le tre ore filano via quasi senza che uno se ne accorga.

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